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Le missioni cattoliche italiane all’estero: il caso della Consolata nella Somalia di Cesare Maria De Vecchi (1924-1928)

 

Così scriveva Cesare Maria De Vecchi a proposito dei risultati ottenuti nel campo dell’istruzione e dell’educazione durante i cinque anni – dal 1923 al 1928 – in cui fu governatore della Somalia, in Orizzonti d’Impero. Cinque anni in Somalia, un volume di memorie scritto nel 1935 per tentare di dare risalto politico al suo personale contributo alla costruzione dell’impero. De Vecchi, monarchico molto vicino a Casa Savoia, capo del movimento fascista in Piemonte, quadrumviro della marcia su Roma, fu inviato a governare la Somalia da Mussolini, il quale decise di allontanarlo da Roma e dalla politica nazionale dato che stava diventando una figura ingestibile2. Cattolico fervente, strettamente legato agli ambienti del Vaticano – presso il quale nel 1929, dopo la firma dei patti lateranensi, sarà primo ambasciatore d’Italia3 –, il nuovo governatore cercò di avviare in colonia una politica fascista volta a fare della Somalia una terra “italiana” non solo sotto il profilo politico ma anche religioso e culturale. A tal fine, oltre ad affermare militarmente il dominio italiano diretto sulle regioni dell’Obbia e della Migiurtinia – sulle quali i precedenti governi liberali avevano solo stabilito dei protettorati –, oltre al disarmo della colonia e alla creazione di un’amministrazione fortemente centralizzata4, De Vecchi pose tra i suoi obiettivi anche il rafforzamento della presenza cattolica nella colonia che, come ha giustamente affermato Lucia Ceci, era parte integrante del suo nazional-cattolicesimo5. Il governatore credeva infatti fermamente nel legame tra religione cattolica e ordine civile. In occasione della cerimonia per la posa della prima pietra della cattedrale di Mogadiscio, vicenda di cui ci occuperemo in seguito, telegrafava al cardinal Pietro Gasparri, segretario di stato vaticano:

Con grande solennità ho posata la prima pietra chiesa Mogadiscio et assistito benedizione santa croce cristiana sorta centro area nuovo tempio. Pietra posata est base angolare non soltanto Santa Casa ed indistruttibile edificio spirituale che vado edificando sovra codesta terra italiana con incrollabile volontà animata dalla fede in Dio. Così vado umilmente ubbidendo leggi divine et certezza che dove non regna religione non regnano ordine giustizia forza bellezza6.

Alla diffusione del cattolicesimo in Somalia avrebbero dovuto dare il loro decisivo contributo i missionari della Consolata di Torino. Questi erano stati chiamati in Somalia a sostituire i padri trinitari la cui missione all’inizio degli anni venti era ormai in crisi tra scandali e divisioni interne7.

Il compito dei missionari dell’Istituto Missioni Consolata in Somalia consisteva nel supplire ad alcune carenze dell’amministrazione coloniale italiana in ambito sanitario, scolastico e assistenziale affermando al tempo stesso il cattolicesimo nella colonia8. Rispetto al primo punto, ci si poneva in una linea di continuità: anche i trinitari, infatti, erano stati chiamati in Somalia per contribuire al governo socio-sanitario della colonia e al settore dell’istruzione, sostanzialmente fallendo; per quanto riguarda l’aspetto più propriamente religioso, si prospettava, invece, un cambiamento. In età liberale, in Somalia, la politica religiosa si era sostanzialmente ispirata al mantenimento di relazioni distese con l’elemento musulmano volta ad evitare i disordini che una politica di conversione al cattolicesimo avrebbe comportato; ora invece il rafforzamento della presenza cattolica in Somalia diventava, almeno nelle intenzioni del governatore, parte integrante del nuovo corso politico.

In questa sede cercheremo di ricostruire l’atteggiamento dei missionari nei confronti del governatore De Vecchi, nel tentativo di fornire un contributo ad una maggiore conoscenza del più generale e complesso rapporto tra missioni religiose e colonialismo italiano, intersecando i due ambiti di indagine, quello più strettamente politico, con quello più religioso, “cogliendo la valenza più politica dell’azione dei missionari senza però negare un effettivo significato e valore religioso alle loro azioni”9. Pertanto occorre domandarsi: quali erano i rapporti tra missioni cattoliche e colonialismo italiano durante il governatorato di Cesare Maria De Vecchi in Somalia? Fino a che punto i missionari della Consolata erano disposti ad assumere il ruolo di stabilizzatori della presenza italiana nella colonia? Quale era il loro atteggiamento nei confronti della retorica patriottica del governatore? Quanto gli interessi della missione convergevano con quelli del governo coloniale?

2. – “Fu da Roma che ce ne venne l’ordine”

Quello somalo, in quanto musulmano, era un terreno difficile. I missionari della Consolata ne erano consapevoli e pertanto, al di là delle intenzioni di De Vecchi, ritenevano che fosse meglio non rompere con la precedente linea politica rispettosa della sensibilità musulmana, procedendo gradualmente ed evitando di turbare le tradizioni ed i costumi religiosi degli indigeni, al fine di evitare reazioni che avrebbero potuto mettere in discussione l’insediamento e la stessa permanenza della missione. Nelle relazioni annuali alla Congregazione pontificia “de Propaganda Fide” si sottolineò più volte questo aspetto: nel 1925 in Somalia erano presenti circa 1600 cattolici, rappresentati nella quasi totalità da italiani trasferitisi in colonia – impiegati del governo, commercianti, imprenditori e semplici coloni –, oltre a un centinaio di ascari eritrei cattolici adibiti dal governo a servizi secondari10. Tra questi i missionari della Consolata avrebbero potuto svolgere un’opera di assistenza religiosa piena, mentre “presso gli indigeni” avrebbero dovuto agire “con molta cautela”, per non suscitare la loro “diffidenza”, evitando così di “guastare con imprudenze intempestive” il lavoro apostolico che andava svolto “gradatamente”.11 L’anno seguente, la necessità di procedere con prudenza veniva ribadita: “siamo fra musulmani, gente fanatica per la loro religione, quindi procediamo cauti ed evitiamo ogni imprudenza per non pregiudicare il nostro apostolato”12. E ancora nel 1928, quasi 4 anni dopo il loro arrivo e quando il governatorato di De Vecchi si apprestava ormai al termine, si ripeteva che sarebbe stato necessario ancora molto tempo prima di giungere a risultati concreti e significativi: “L’opera nostra tra i somali si insinuerà dolcemente nella loro mentalità […] saprà estinguere il loro cieco odio che sempre hanno nutrito verso il missionario; lo farà loro stimare ed amare per la sua vita di abnegazione e di carità […] ed allora, solo allora, il Vangelo farà certamente breccia e presa nei loro cuori. Quanti anni saranno necessari alla maturazione di questi felici eventi? Dio solo lo sa”13. Delle difficoltà che avrebbero incontrato in Somalia, i missionari della Consolata avevano percezione prima ancora di partire, e se accettarono di recarsi nella colonia italiana fu solo per obbedienza a Propaganda Fide. Di fatto, non poterono rifiutarsi. Il primo marzo del 1924, monsignor Filippo Perlo, superiore generale dell’Istituto, scriveva al fratello Gabriele Perlo, prefetto apostolico della Somalia Italiana:

In tutta fretta colgo l’occasione per dirle che i Trinitari hanno rinunziato o meglio li hanno fatto rinunziare per sostituirli con noi. A [P]ropaganda in massima si vuole che noi accettiamo; il governo ci vuole a tutti i costi disposto a darci ogni sussidio finanziario: il cardinal Laurenti e il cardinal Bonzano personalmente vorrebbero che noi accettassimo […]. Per ora io ho tentato con P[ropaganda] Fide di far soprassedere ogni decisione che fossero per prendere a nostro riguardo coi PP. Trinitari o col Governo. Temo però di riuscirvi. Comunque se vi riuscirò sarà per rimandare di un anno o press’a poco, dacché prevedo che è un campo di cui forse non potremo fare a meno di accettare.14

Anche pubblicamente, sulla rivista “La Consolata”, i missionari non mancarono di sottolineare il fatto che andavano in Somalia su richiesta del Governo italiano. Tra il settembre e l’ottobre del 1924, in alcuni articoli, affermavano che era stata la Santa Sede, accondiscendendo al desiderio “ripetutamente” espresso dal governo italiano, ad affidare loro il “difficile” incarico15; le richieste dell’esecutivo erano state “reiterate”.16 In dicembre, arrivarono ad esplicitare addirittura il fatto che, se fosse dipeso da loro, mai avrebbero pensato ad aprire un fronte missionario in Somalia.

V’accertiamo che di nostra iniziativa: noi missionari nati ieri, pochi, e inesperti; non ci saremmo di sicuro azzardati ad avanzare il nostro piede in questa lizza tremenda. Fu da Roma che ce ne venne l’ordine. E noi ubbidimmo.

Al loro programma speravano di riuscire a far fronte “sorretti dalla benevolenza” dei “benefattori”17. Esplicitare il fatto che l’iniziativa di avviare una missione in Somalia non era sorta all’interno della Consolata, ma al di fuori di essa, serviva a chiarire, proprio di fronte ai benefattori/finanziatori, ai quali la decisione dell’Istituto sarebbe potuta apparire azzardata, che la Consolata era lungi dall’assumere programmi avventati e che se lo faceva era a causa di pressioni esterne alle quali non poteva sottrarsi. In questo modo si intendeva mostrare anche la serietà della Casa Madre che, nonostante il carattere difficile della missione, non a caso insistentemente sottolineato, non si era sottratta ai doveri di apostolato.

Ed è sostanzialmente ai suoi benefattori – appartenenti al notabilato torinese – che l’Istituto e i missionari si rivolgevano più o meno apertamente in quasi tutti gli articoli pubblicati sulla loro rivista. In questi, quasi mai il tono è patriottico, e quando lo è, non in maniera gratuita. Se veniva ripetuto il fatto che il loro apostolato si svolgeva in una “Colonia Italiana”, era più che altro per sottolineare agli occhi di chi sosteneva finanziariamente l’Istituto l’importanza del compito ai quali i missionari non si erano sottratti18. Anche in occasione della visita di Luigi di Savoia, duca degli Abruzzi, fondatore della “Società Agricola Italo-Somala”19, alla Casa Madre, nel gennaio del 1925, i toni di elogio al suo ruolo di colonizzatore (“valoroso pioniero che, con l’ardimento proprio e degno della sua stirpe[…]da alcuni anni profonde i tesori della sua pratica concezione coloniale e della sua energia nella Somalia Italiana”)20, erano finalizzati al tentativo di accattivarsi l’appoggio di una figura di primo piano – sia a Torino che in Somalia – dalla quale poteva dipendere l’ottenimento di appoggi materiali e di protezione alla missione. Stesso scopo aveva l’articolo dalla Somalia di padre Ciravegna, del dicembre 1925, nel quale il missionario, recatosi a celebrare la messa di Natale al Villaggio Duca degli Abruzzi, descriveva la grandiosità dell’azienda21. Anche in occasione della visita di De Vecchi, rientrato temporaneamente in Italia nel marzo del 1925, alla Casa Madre di Torino, il calore con il quale l’Istituto lo accolse era funzionale soprattutto alla necessità di avviare buoni rapporti con il governatore22. Scopo simile aveva il tono, volto ad enfatizzare l’iniziativa coloniale italiana, cui Ciravegna sembra lasciarsi andare quando, nel giugno dello stesso anno, in occasione della benedizione del canale di Genale, loda i lavori agrari di colonizzazione svolti in Somalia da De Vecchi, sottolineando tra l’altro, secondo un tipico argomento della propaganda coloniale, la fertilità della colonia: “Dire che la Somalia è terra feconda; che è bagnata da due fiumi promettenti […]che grande è il suo avvenire agricolo: è dire cosa che fino a pochi anni fa, poteva parere sciocchezza. La verità sulla Somalia è stata sovente sistematicamente traviata e capovolta a fini poco nobili. Pochi italiani han visitata questa lontana terra d’Africa, pochi l’hanno studiata con intelletto d’amore, e lo sforzo di quei pochi non fu mai in passato riconosciuto”23. Anche in questo caso, il patriottismo non è gratuito. I missionari erano, infatti, direttamente interessati ai lavori del canale di Genale, in quanto De Vecchi aveva promesso loro in concessione un tratto di terreno sulle rive del fiume Uebi Scebeli per avviarvi una fattoria agricola. Il lavoro del governatore, quindi, (il canale è il “frutto superbo della tenacia del fervore di azione di De Vecchi”24) viene enfatizzato perché da un punto di vista materiale, all’Istituto e alla missione conviene. Nella sostanza, l’Istituto si mantiene piuttosto tiepido nei confronti dell’iniziativa coloniale italiana e quando si lascia andare, sulla propria rivista, a toni di maggiore enfasi nei confronti di figure di primo piano della Somalia coloniale (e dell’alta società torinese e piemontese), è perché necessità di appoggi finanziari e di protezione politica.

Appoggi fondamentali. La missione in Somalia, infatti, nasceva povera. I problemi finanziari e quelli di carenza di personale furono costantemente presenti. L’11 ottobre 1925, Filippo Perlo esponeva a Gabriele Perlo le difficoltà a trovare il personale aggiuntivo che quest’ultimo aveva richiesto:

Io il personale non lo posso inventare; e sebbene mi dia attorno giorno e notte, le opere che inizio han bisogno del loro tempo per dare i frutti. E se di costì n’abbisognate, n’abbisognano pure le altre missioni, in particolare il Kenya; dal quale finora abbiamo continuato a prelevarne a larga mano; si che il totale è sempre più piccolo. Mentre pure è del Kenya che l’Istituto vive e può ampliarsi. Ad ogni modo del personale ne verrà appena materialmente possibile; ma per il denaro dovrebbe fare come a Tripoli e Eritrea[…]cioè arrabattarsi di cavarlo dal Governo25.

Dal punto di vista delle risorse umane e della loro gestione, l’apertura del fronte somalo complicò non poco la vita all’Istituto, mettendolo in difficoltà anche in altre regioni dove da tempo era presente26. Il fatto che la Somalia fosse una colonia italiana, inoltre, non sembra la rendesse una terra di intervento privilegiata: era all’Istituto e alla sua crescita che bisognava dare la priorità, e da questo punto di vista era la missione in Kenya a costituire uno dei suoi punti forti.

3. – La Cattedrale di Mogadiscio

Un affare molto delicato nel quale furono coinvolti i missionari della Consolata fu l’edificazione della cattedrale di Mogadiscio. L’idea nacque durante la prefettura dei trinitari27. De Vecchi era fortemente intenzionato a realizzare l’opera che avrebbe simboleggiato la presenza dell’Italia fascista e cattolica da egli stesso impersonata in Somalia. Anche se dal punto di vista religioso costituiva un’opera sproporzionata rispetto al reale processo di evangelizzazione, dai risultati piuttosto scarsi, da un punto di vista politico e propagandistico essa avrebbe dato notevole lustro al governatore. Già la cerimonia per la posa della prima pietra era stata fastosa e incentrata molto sulla sua figura. Era avvenuta il giorno della vigilia di Natale del 1923. Più che la futura chiesa o la missione cattolica, la scenografia aveva messo in risalto la figura di De Vecchi, dato che lo sguardo dei partecipanti era diretto non verso la croce, posta dove sarebbe sorto l’altare maggiore, ma verso il suntuoso tavolo sul palco, dove era seduto il governatore giunto sul posto con un corteo di tre automobili. Alla cerimonia religiosa era seguita la muratura della prima pietra da parte di De Vecchi, che aveva voluto compiere l’atto da solo, senza farsi aiutare. Come ha sottolineato Lucia Ceci, il fatto che il governatore avesse scelto di svolgere la cerimonia per la posa della prima pietra della cattedrale tra gli atti inaugurali del proprio governatorato era significativo dell’immagine pubblica che intendeva dare di sé28.

E di fatto la cattedrale sembrava interessare solo De Vecchi. Come era già avvenuto in passato, quando la prefettura era retta dai padri trinitari, l’edificazione della chiesa di Mogadiscio non sembrò suscitare particolari entusiasmi. Il governo italiano era restio a fornire i finanziamenti.

Il capomastro e la maestranza sono impazienti di partire e non si attendeva se non la risposta favorevole del governo che non arriva mai decisa e impegnativa per la richiesta formalmente fattagli di almeno un milioncino[…]. De Vecchi promette a parole; ma noi possiamo gettarci in una tale impresa senza qualcosa in mano?29

Ad agosto il milione promesso dal governo di Roma era ancora lungi dall’arrivare: “De Vecchi si vede che cerca di fare quanto può per la cattedrale e anche a Roma fece pressioni per un adeguato sussidio: non lontano almeno da quello di 1.300.000 dato per la Tripolitania. Ma finora non promisero che 30 mila lire che è quanto hanno di disponibile e il resto verrà si e no”30. Anche il pontefice, interpellato da Filippo Perlo alla ricerca di finanziamenti, scaricò il problema su Propaganda Fide senza impegnarsi personalmente. Ecco come il papa rispose al superiore generale che si era recato in udienza da lui:

Stamane alle 11,45 mi recai in udienza dal S. Padre e con rincrescimento devo dirle che non mi concesse alcun sussidio per la cattedrale di Mogadiscio. L’interessai[…]della Somalia. Ascoltò con interessamento quanto riguardava questa Prefettura: gli mostrai sul periodico le fotografie delle scuole, brefotrofio, ecc. dimostrassi contento di quanto il conte De Vecchi ha fatto e continua a fare e venni così all’argomento voluto: osservò, ammiro il progetto; veramente bello! Grandioso! Diceva: ed i fondi? Dopo aver portato tutti gli argomenti in pro della necessità di una chiesa imponente, dissi, che non dubitavamo riguardo alla Provvidenza tanto più se S. Santità si fosse degnato benedire l’iniziativa dei Missionari e se possibile iniziare Egli stesso la sottoscrizione. Povero Papa, disse subito, tutti a lui, tutti a lui, come può soccorrere a tutto il mondo? Ma tocca a Propaganda soggiunse, voi dipendete da Propaganda, tocca a Propaganda il darvi un sussidio straordinario; tentai ritornare sull’argomento … almeno l’altare maggiore … tocca a Propaganda; noi diamo i soldi a Propaganda, tocca a Propaganda[…]. Null’altro finora potei ottenere31.

Il pontefice non volle quindi farsi coinvolgere direttamente e anche l’Istituto della Consolata si guardò bene dall’accollarsi l’intera responsabilità dell’impresa. La linea era quella di considerare la cattedrale un affare del governo, senza assumersi responsabilità dal punto di vista finanziario, ed evitando un coinvolgimento troppo diretto nella vicenda.

Tenga presenta – scriveva il Superiore Generale della Consolata a Gabriele Perlo nell’agosto del 1925 – che in questa spesa (senza dirlo apertamente con nessuno; ma però tenendolo come regola imprescindibile) il nostro Istituto non ci deve entrare; dev’essere una cosa tutt’affatto separata o in gran parte a carico del Governo come nelle altre colonie. Noi presteremo evidentemente il nostro concorso morale; e per fare comitati che raccolgano fondi; e per assistere e dirigere i lavori; ma di denaro liquido e di lavoro materiale diretto da parte nostra niente, assolutamente niente32.

Quello della cattedrale era un affare delicato. Un fallimento avrebbe minato seriamente la credibilità dell’Istituto. E il rischio di non riuscire a portare a termine l’opera fu presente fino alla fine, dato che la cronica carenza di finanziamenti rischiò più volte di bloccare i lavori. Per questo, fino a quando non si ebbe la certezza del buon esito della vicenda, la rivista dei missionari della Consolata gli dedicò pochissima attenzione. Il primo articolo interamente dedicato alla cattedrale su “La Consolata” comparve solo nel febbraio 1928 alla vigilia della consacrazione33, che si svolse a lavori non ancora del tutto completati (prima di allora era stato pubblicato solo un brevissimo articolo, nel marzo 1925, in cui si annunciava la ripresa dei lavori allo scopo di richiedere finanziamenti)34. A quel punto la realizzazione della chiesa di Mogadiscio fu presentata come un successo, anche dell’Istituto, per il quale la cerimonia di consacrazione divenne un intenso momento propagandistico di fronte all’alta società torinese. Il binomio Consolata-Torino era esplicitato a chiare lettere: oltre al governatore De Vecchi, veniva ricordato che l’ingegner Vandone Conte di Cortemilia, ideatore del progetto, era torinese, e che il podestà di Torino, conte di Sambuy, aveva donato il grande gonfalone della città piemontese, da issarsi su una torre della cattedrale; ovviamente l’articolo verteva soprattutto sulla figura del principe ereditario Umberto di Savoia, alla cui presenza fu consacrata la cattedrale. Momento di intensa propaganda per l’Istituto fu anche la cerimonia di consacrazione nel suo santuario dell’effige della santissima Consolata – celebrata dal cardinal Gamba, arcivescovo della diocesi di Torino – quadro in partenza per la Somalia e destinato alla cattedrale di Mogadiscio35.

Anche l’affare della consacrazione, comunque, qualche problema l’aveva creato. De Vecchi voleva che la gran parte dei lavori per la costruzione della cattedrale fosse terminata per la fine di febbraio del 1928, proprio perché teneva particolarmente a che la chiesa fosse consacrata alla presenza del principe ereditario. La visita di Umberto di Savoia rappresentava, infatti, per il governatore, un’occasione da non perdere per mettersi in bella mostra ed illustrare quanto era riuscito a svolgere in Somalia fino ad allora: dalle opere di utilità sociale, alle aziende, alle infrastrutture, fino a descrivere al principe le operazioni militari di conquista dell’Obbia e della Migiurtinia e di disarmo delle popolazioni indigene36. La cattedrale ovviamente rientrava tra i successi del suo governatorato. La pretesa da parte di De Vecchi che tutto fosse pronto per il primo marzo, quando invece i lavori erano ancora lontani dall’essere terminati, mise in allarme i missionari costringendoli ad accelerare l’opera.37 Un momento di grossa difficoltà per la missione si ebbe quando Filippo Perlo non rispose all’invito di De Vecchi di recarsi a Mogadiscio per consacrare la cattedrale in quanto impegnato a Torino in faccende relative ad un altro fronte missionario che all’epoca vedeva impegnata la Consolata, quello del Kaffa38. Nel gennaio del 1928 Gabriele Perlo raccontava a Filippo Perlo l’incontro avuto con il governatore.

Sua Ecc. il Governatore che l’aveva invitato, e che era certo della sua venuta, e che mai aveva ricevuto un cenno di rifiuto ne fu arrabbiatissimo, facendo una di quelle sue furie, come lui sa solamente fare. Nella sua collera già aveva mandato in aria tutte le feste religiose, voleva sospendere i lavori della cattedrale, non mi è bastata tutta la diplomazia per calmarlo e dirgli che V. Eccell. [Filippo Perlo] non poteva venire per[…]urgenti trattative a Roma per il Caffa. […]. Certo era al sommo dell’indignazione[…]. Diceva: “Ho speso molti milioni per fare la Chiesa, milioni dello Stato che avrei dovuto impiegare in lavori urgenti della Colonia, tanto che se domani mi faranno un processo vado in galera, e tutto questo per voi missionari, per preparare una bella festa e poi Mons. da Torino non si degna di venire”39.

4. – Missione e colonialismo

Alcuni mesi dopo il governatorato di De Vecchi terminò. La Consolata rimase nella colonia fino al 1930, quando la missione cattolica della Somalia italiana, che il 15 dicembre 1927 era stata eretta a vicariato apostolico di Mogadiscio, venne tolta all’Istituto – i missionari si erano infatti resi responsabili di irregolarità di ordine spirituale e religioso – e affidata all’ordine dei francescani minori40.

In definitiva, al di là delle intenzioni di De Vecchi, quella dei missionari della Consolata in Somalia fu sempre una presenza precaria, contraddistinta da carenza di mezzi finanziari e di risorse umane, in un territorio difficile in cui il lavoro di apostolato portò risultati scarsi se non nulli. In un contesto simile, e non potendo comunque sottrarsi ad un compito che era stato loro imposto da pressioni governative – e che mai si sarebbero sognati di assumere autonomamente – i missionari della Consolata cercarono di operare salvando il salvabile, ovvero salvaguardando il nome e la credibilità del loro Istituto. Ciò comportò da parte loro la ricerca di un rapporto forte con il cattolico De Vecchi, fatto imprescindibile dal quale dipendeva il futuro della missione. Questo poneva però i missionari – che tra l’altro anche economicamente dipendevano in gran parte dal governatore – in una situazione politicamente molto delicata, dovendo prestare la massima attenzione a che le relazioni con De Vecchi non si incrinassero. A lui, e al suo desiderio di italianizzare e cattolicizzare la colonia, era appesa ogni possibilità che la missione riuscisse ad insediarsi e a produrre qualche risultato in termini di evangelizzazione. Un fallimento in terra italiana, di fronte a un governatore piemontese, avrebbe avuto delle ripercussioni gravissime sulla Casa Madre di Torino. Il carattere dei rapporti con il governo coloniale è ben sintetizzato da Gabriele Perlo in una lettera inviata a Filippo Perlo l’8 luglio 1927:

Lei Monsignore voglia considerare la nostra posizione. Ci troviamo a Mogadiscio in mezzo a italiani a gente che tutti ci conoscono e ci guardano. […]È l’unica prefettura che lavori in Colonia Italiana, e se noi facciamo bene, lo stesso nostro Istituto né risentirà un vantaggio morale e materiale. Voglia quindi non più togliersi del personale che fa bene, perché qui siamo troppo in vista e tutto è sindacato e anche malignato, specialmente da quelli che ci guardano di malocchio perché siamo missionari, ed anche perché tanto favoriti dal Governatore. […]. Abbiamo troppo bisogno del suo aiuto per impiantarci bene, e metterci un po’ dappertutto. […]. La nostra posizione non è delle più facili, e ci è necessaria infinita prudenza per conservare le buone relazioni. Siamo favoriti dal Governo, ma siamo molto legati al Governo anche perché quasi tutti suoi salariati. Anche vostra Eccellenza [Filippo Perlo] lo sapeva e lo sa che la Missione della Somalia presenta grandissima difficoltà, e questa non solo spirituale per ragione dei mussulmani, ma anche politiche per ragione del continuo e necessario nostro contatto col Governo. Certe cose che erano naturali e che ci potevamo permettere nel Kenya o altrove con un governo straniero, con un governo che poco si occupava di noi, e che non ci dava alcun aiuto materiale, non ce le possiamo certamente permettere in questa colonia italiana41.

La Somalia costituiva un campo politicamente scomodo. Proprio perché colonia italiana, qui la missione era più difficile da gestire. Non fu solo per mancanza di risorse e di mezzi, dunque, che i missionari della Consolata furono sin dall’inizio restii ad accettare di andare in Somalia – il governo di Roma tra l’altro aveva inizialmente promesso ogni sussidio finanziario42 -, ma fu soprattutto il sentore che la missione si sarebbe trovata in una situazione difficile dal punto di vista dei rapporti con l’autorità governativa, a renderli recalcitranti ad aprire il fronte somalo.

In sostanza, nonostante la presenza di un governatore fervente cattolico come De Vecchi – “il piccolo missionario di Cristo” come amava farsi chiamare43 – strettamente legato alle gerarchie vaticane, e sebbene i missionari della Consolata arrivarono nella colonia quando era in corso un avvicinamento tra Chiesa cattolica e governo44, in Somalia non è riscontrabile su un piano ideale un’identificazione tra missione e colonialismo. E ciò, nonostante la Consolata non fosse immune da schemi culturali che vedevano colonizzazione, civilizzazione e cristianizzazione procedere di pari passo contro il “nemico” islamico.

Una convergenza di interessi tra la missione e la colonia nacque solo quando, obbligati ad operare in Somalia, i missionari dovettero pensare alla loro sopravvivenza, evitando fallimenti che potessero minare la credibilità dell’Istituto. I rapporti con De Vecchi erano quindi funzionali solo al loro insediamento nella colonia e non a un più generale disegno politico coloniale, come era invece nelle intenzioni del governatore. Anzi, in più di un’occasione sia il superiore generale che il prefetto apostolico sembrarono preferire il Kenya (o il Kaffa), regioni in cui era possibile operare con maggiore tranquillità.

Note al testo:

1 Cesare Maria De Vecchi, Orizzonti d’Impero. Cinque anni in Somalia, Milano, Mondadori, 1935, pp. 346-351. Citato anche in Lucia Ceci, Il vessillo e la croce. Colonialismo, missioni cattoliche e islam in Somalia (1903-1924), Roma, Carocci, 2006, p. 263.

2 Angelo Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale. II. La conquista dell’impero, Milano, Mondadori, 1992, pp. 51-55.

3 Tra papa, duce e re: il conflitto tra Chiesa cattolica e Stato fascista nel diario 1930-1931 del primo ambasciatore del Regno d’Italia presso la Santa Sede, a cura di Sandro Setta, Roma, Jouvence, 1998.

4 Si veda a proposito la relazione di De Vecchi a Mussolini del 31 ottobre 1927 nella quale il quadrumviro esponeva quanto fatto nei precedenti quattro anni trascorsi in Somalia, Archivio Storico Diplomatico Ministero Affari Esteri (ASDMAE), Archivio Storico Ministero Africa Italiana (ASMAI), Somalia, posizione 89/13, citata con il titolo “il paese dell’ordine” in Luigi Goglia e Fabio Grassi, Il colonialismo italiano da Adua all’impero, Roma-Bari, Laterza, 1993, pp. 236-242.

5 L. Ceci, Il vessillo e la croce, cit., p. 257.

6 Archivio Segreto Vaticano (ASV), Segreteria di Stato, 1925, rubr. 170, fasc. I, telegramma di Cesare Maria De Vecchi al cardinal Pietro Gasparri, Mogadiscio, 28 dicembre 1923, citato in L. Ceci, Il vessillo e la croce, cit., p. 257.

7 Sulla vicenda si rimanda sempre a L. Ceci, Il vessillo e la croce, cit.

8 L’Istituto era fondato il 29 gennaio 1901 da Giuseppe Allamano. Si veda in proposito I missionari della Consolata, Torino, Istituto Missioni Consolata, 1964. La convenzione stipulata l’11 dicembre 1924 tra l’amministrazione coloniale italiana della Somalia, nella persona del medico Pasquale Petiti, direttore di igiene e sanità, e l’Istituto Missioni Consolata, nella figura di monsignor Gabriele Perlo, prefetto apostolico della missione della Consolata nella Somalia italiana, prevedeva che i missionari accettassero di disimpegnare i compiti relativi all’insegnamento elementare pubblico, all’esercizio di una scuola di arti e mestieri in Mogadiscio, di un brefotrofio e di due asili – uno per meticci e uno per bambini indigeni – sempre in Mogadiscio, oltre che i compiti di vigilanza e di gestione dei servizi interni dell’ospedale civile Giacomo De Martino anch’esso a Mogadiscio. L’insegnamento elementare pubblico (art. 3), andava svolto dai missionari in classi distinte per bambini europei, indigeni e assimilati. Nella scuola di arti e mestieri (art. 4), i missionari dovevano insegnare i mestieri di falegname, fabbro e stagnaio agli indigeni e agli assimilati. Per quanto riguarda il brefotrofio e l’asilo per bambini indigeni, alla Consolata ne venivano affidate la direzione e l’amministrazione, fermo restando che l’ammissione dei bambini meticci ed indigeni in queste strutture era a discrezione del governo della colonia (art. 5). Nell’ospedale “Giacomo De Martino” i missionari dovevano provvedere alla cura dei malati, alla somministrazione dei medicinali, alla biancheria, in sostanza a tutti i compiti di infermieristica e di assistenza ai medici. Per lo svolgimento di tutti i servizi previsti dalla convenzione la Consolata riceveva un pagamento dal governo coloniale. Il contratto durava fino al 30 giugno 1933. AIMC (Archivio Istituto Missioni Consolata), Somalia, raccoglitore 1, fasc. 39, Copia contratto convenzione tra l’Istituto Missioni Consolata e il governo della Somalia, 11 dicembre 1924.

9 Claudio M. Betti, Missioni e colonie in Africa orientale, Roma, Edizioni Studium, 1999, p. 7.

10 AIMC, Somalia, raccoglitore 1, fasc. 65, Prima relazione integrale inviata alla S. C. di Propaganda Fide sullo stato della Prefettura Apostolica della Somalia Italiana, anno 1925, p. 34.

11 Ibid., p. 32.

12 AIMC, Somalia, raccoglitore 1, fasc. 65, Relazione al cardinal prefetto di Propaganda Fide sullo stato della Prefettura Apostolica della Somalia Italiana nel 1926, p. 45.

13 AIMC, Somalia, raccoglitore 1, fasc. 65, Relazione al cardinal prefetto di Propaganda Fide sullo stato della Prefettura Apostolica della Somalia Italiana nel 1928, p. 59.

14 AIMC, Somalia, raccoglitore 1, fasc. 37, Lettera di Filippo Perlo a Gabriele Perlo, Torino 1 marzo 1924.

15 La Somalia italiana ed il Giubiland affidati ai missionari della Consolata, “La Consolata”, 26, settembre 1924, p. 129.

16 Solenne funzione di partenza di missionari e suore missionarie della Consolata per la Somalia Italiana, “La Consolata”, 26, ottobre 1924, p. 146.

17 Cosa ci attende in Somalia. La parola del Papa, “La Consolata”, 26, dicembre 1924, pp. 177-178.

18 La Somalia italiana ed il Giubiland affidati ai missionari della Consolata, “La Consolata”, 26, settembre 1924, p. 129.

19 Gian Luca Podestà, Il mito dell’impero. Economia, politica e lavoro nelle colonie italiane dell’Africa orientale, 1898-1941, Torino, Giappichelli Editore, 2004, pp. 210-219.

20 La visita del Duca degli Abruzzi alla casa madre dell’Istituto, “La Consolata”, 27, gennaio 1925, p. 3.

21 Dalla Somalia Italiana. La Notte di Natale al Villaggio “Duca degli Abruzzi”, “La Consolata”, 27, dicembre 1925, pp. 179-182.

22 La visita del governatore della Somalia alla Casa Madre dell’Istituto, “La Consolata”, 27, marzo 1925, p. 42.

23 Dalla Somalia Italiana. I lavori agrari di colonizzazione benedetti dai missionari, “La Consolata”, 27, giugno 1925, p. 87

24 Ibid., p. 88.

25 AIMC, Somalia, raccoglitore 3, fasc. 5, Lettera di Filippo Perlo a Gabriele Perlo, Torino, 11 ottobre 1925. Ancora l’8 novembre Filippo Perlo rispondeva a Gabriele Perlo: “Tutta la questione è sempre quella del personale; e questo (a lei!) non basta chiederlo per averlo! Ad esempio mi domanda un coadiutore vero religioso o vero operaio; un ideale in somma! Oh che! Lì ho da forgiare? Sa anche lei che l’anno scorso mandai in missione tutti i coadiutori disponibili”. Ibid., lettera di Filippo Perlo a Gabriele Perlo, Torino, 8 novembre 1925. I problemi di carenza di personale proseguirono. Il 6 febbraio 1927, Gabriele Perlo scriveva a Filippo Perlo:”Monsignore le ho già scritto tante volte che il personale di Mogadiscio così com’è non può più andare avanti; siamo pochi di numero e questi pochi ancora un elemento così eterogeneo che non dà il rendimento che potrebbe dare. Quando due mesi fa mi ha fatto balenare la speranza di una dozzina di missionari ho dato un sospiro di sollievo, ma proprio non fu che un baleno di speranza perché il suo telegramma, la risposta De Vecchi, hanno subito fatto tramontare queste speranze, ed ora ci troviamo come prima, anche peggio di prima. L’elemento refrattario fa sempre più poco, perché io mi trovi così in necessità d’appoggiare le loro domande di rimpatrio. Gli altri nostri sono pochi e sovraccarichi di lavoro, non sempre in salute, e quindi si va avanti male, non sempre, non soddisfatti, perché anche quel che si fa lo si fa incompletamente”, Lettera di Gabriele Perlo a Filippo Perlo, Mogadiscio, 6 febbraio 1927, in AIMC, Somalia, raccoglitore 1, fasc.106.

26 Alberto Trevisiol, Uscirono per dissodare il campo: pagine di storia dei missionari della Consolata in Kenya (1902-1981), Roma, Edizioni Missioni Consolata, 1989.

27 L. Ceci, Il vessillo e la croce, cit., pp. 229-239.

28 Ibid., pp. 254-255.

29 AIMC, Somalia, raccoglitore 3, fasc. 5, Lettera di Filippo Perlo a Gabriele Perlo, Torino 23 giugno 1925.

30 AIMC, Somalia, raccoglitore 3, fasc. 5, Lettera di Filippo Perlo a Gabriele Perlo, Torino 3 agosto 1925.

31 AIMC, Somalia, raccoglitore 3, fasc. 26, Lettera di Filippo Perlo a Gabriele Perlo, Roma 13 febbraio 1926.

32 AIMC, Somalia, raccoglitore 3, fasc. 5, Lettera di Filippo Perlo a Gabriele Perlo, Torino 3 agosto, 1925.

33 La solenne consacrazione della Cattedrale di Mogadiscio alla presenza di S. A. R. il Principe Ereditario, “La Consolata”, 30, febbraio 1928, pp. 23-26.

34 Dalla Somalia italiana. Il primo colpo all’Islamismo, “La Consolata”, 27, marzo 1925, p. 35.

35 L’Effige della SS. Consolata parte per la Somalia Italiana, “La Consolata”, 30, febbraio 1928, pp. 27-28.

36 Con il suo viaggio in Egitto, Eritrea e Somalia, tra il gennaio e l’aprile del 1928, il principe ereditario Umberto di Savoia aprì la serie di visite che la casa regnante dedicò alle colonie (nell’aprile dello stesso anno Vittorio Emanuele III visitò la Tripolitania, nel 1932 l’Eritrea, nel 1933 la Cirenaica, nel 1934 la Somalia). Il principe giunse a Mogadiscio il 28 febbraio e rimase in Somalia per venti giorni. A. Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale. II. La conquista dell’impero, cit., pp. 91-92.

37 AIMC, Somalia, raccoglitore 1, fasc. 106bis, Lettere di Gabriele Perlo a Filippo Perlo del 9 novembre e del 2 dicembre 1927 da Mogadiscio.

38 Giovanni Crippa, I missionari della Consolata in Etiopia. Dalla prefettura del Kaffa al Vicariato di Gimma (1913-1942), Roma, Edizioni Missioni Consolata, 1998.

39 AIMC, Somalia, raccoglitore 1, fasc. 136, Lettera di Gabriele Perlo a Filippo Perlo, Mogadiscio 30 gennaio 1928.

40 L. Ceci, Il vessillo e la croce, cit., p. 264.

41 AIMC, Somalia, raccoglitore 1, fasc. 106 bis, Lettera di Gabriele Perlo a Filippo Perlo, Mogadiscio, 8 luglio 1927

42 AIMC, Somalia, raccoglitore 1, fasc. 37, Lettera di Filippo Perlo a Gabriele Perlo, Torino, 1° marzo 1924.

43 La solenne consacrazione della Cattedrale di Mogadiscio alla presenza di S. A. R. il Principe Ereditario, cit., p. 24.

44 L. Ceci, Il vessillo e la croce, cit., p. 256. Già nella primavera del 1923, con la riforma scolastica, il governo Mussolini si era mostrato disposto ad accordare alla Chiesa ampie concessioni.