APOLOGETICAL DISCOURSE ON ITALY (1821): Lorenzo Da Ponte alle soglie del Risorgimento

L’interesse verso la meteora Lorenzo Da Ponte non sembra scemare, a partire dalle celebrazioni per il centocinquantenario della morte (1988) con l’affollato congresso alla Columbia University di New York e gli atti pubblicati[1], nonché successivi congresso e libro voluti dal Comune di Vittorio Veneto[2]. Che la vita del cenedese (Ceneda, oggi Vittorio Veneto, 1749-New York, 1838) sia stata una meteora transnazionale appare evidente. Dall’umile partenza e dai primi studi nella provincia veneta fino alle capitali politiche e culturali della seconda metà del Settecento da un lato e dall’altro dell’Atlantico, in successione: Venezia, Vienna, Londra, Philadelfia e New York. A partire dal 1780 Da Ponte vivrà gli ultimi quarantotto anni della sua vita “fuori d’Italia”. È un italiano fuoruscito dai domini veneti un po’ per volontà, un po’ per caso e un po’ perché costretto dai comportamenti di una natura esuberante e dotato di una indole proteiforme: nato in una umile famiglia della minoranza ebraica presto convertita, seminarista e sacerdote ben presto ridotto allo stato laicale, da sempre colto umanista e poeta arcade con un futuro garantito di poligrafo, come nella migliore tradizione letteraria del Settecento europeo. Ma il Da Ponte studiato e antologizzato fino ad oggi rimane il letterato prestato all’opera lirica, si pensi ai tre libretti mozartiani o per Martin i Soler, Salieri, altri, che ne fanno il librettista più importante del secolo, e l’estensore delle lunghe Memorie pubblicate a proprie spese a New York tra il 1823 e il 1830, un’autentica miniera all’insegna della “bizzarria” e del racconto apologetico, progetto in competizione implicita con gli autori di altre Vite: Rousseau, Alfieri, Goldoni. Ma il forte presenzialismo e attivismo nell’insegnamento umanistico come per le accademie o per le scene teatrali non avvengono nel vuoto. L’opera del letterato e del poeta si ricollega a un più complesso contesto socio-culturale che meglio ne illumina la vicenda storica.

Un passaggio della quinta e ultima parte delle Memorie mostra Da Ponte nella condizione di professore di lingua e letteratura italiana nonché di operatore culturale, il ruolo che più gli si addice, ormai a suo agio tra due paesi e due lingue. Si è appena trasferito a New York dalla Pennsylvania.

 

Passai in questa guisa il primo anno e quasi metà del secondo, senza che cosa accadesse atta a turbare la mia tranquillità, o ad alterare lo stato della famiglia. Passavano sul capo mio, tratto tratto, de’ nuvoli passeggieri, da’ soffi innalzati della malignità, dell’invidia e della ingratitudine de’ miei medesimi compatrioti, che, per quanto strano possa parere, m’odiavano a morte. E per capir bene la cosa, fa d’uopo sapere che nel corso di que’ sette anni ne’ quali io era vissuto in Sunbury, Filadelfia, e in altre parti di Pensilvania, uno sciame di fuorusciti era capitato a New York, che privi di mestieri, di mezzi e, per disgrazia lor, di talenti, cangiarono i fucili e le baionette in dizionari e grammatiche, e si misero a insegnar le lingue[3].

 

Uomo pragmatico e attentissimo alla propria sopravvivenza, Da Ponte è sensibilissimo alla concorrenza che gli fanno improvvisati professori di lingua italiana venuti da chissà dove a rovinargli il già precario mercato delle lingue classiche e moderne, a lui qualificatissimo professore di retorica e di grammatica nei seminari veneti, nonché “poeta imperiale” in quel di Vienna. Lo “sciame di fuorusciti” cui accenna è composto senza ombra di dubbio da reduci del giacobinismo europeo e delle guerre napoleoniche, a seguito della disfatta degli ideali rivoluzionari francesi e della ripresa dell’assolutismo con il Congresso di Vienna (1815). Da sedici anni in America e due a New York, Da Ponte è l’instancabile insegnante e frequentatore di “Seminari di letteratura”, paladino della cultura e dell’opera italiane. Due anni prima, nel 1819, ha pubblicato in inglese l’opuscolo Estratto dalle memorie di Lorenzo Da Ponte, con la storia di alcuni drammi scritti da lui, primo nucleo a stampa delle più lunghe e organiche Memorie che vedranno la luce in quattro volumetti prima nel 1823 e successivamente ristampate. A New York ha costruito una solida rete di amicizie influenti, i Moore, i Verplanck, i Francis, gli Anderson. Insegna l’italiano soprattutto alle gentili donzelle dell’alta società, e un pubblico sofisticato di più di duecento persone lo ascolta in una sala pubblica di Barclay Street, in occasione di una organica difesa degli italiani e della loro cultura, in cui confuta le tesi negative sul carattere degli stessi, propalate dall’avvocato, irlandese di nascita e consigliere comunale, Charles Phillips in una lettera-pamphlet rivolta al re d’Inghilterra Carlo IV. L’antefatto che precede le polemiche sulla stampa inglese è il soggiorno in Italia, a partire del 1814, della regina consorte d’Inghilterra Carolina di Brunswick (1768-1817), conseguenza della fine di un tumultuoso e brevissimo matrimonio col re Giorgio IV. Giunta a Milano, la regina s’era legata a un accompagnatore servente, tale Bartolomeo Pergami, che da quel momento era diventato l’ombra della nobildonna, alimentando ogni genere di speculazioni. Ma le critiche virulente e le ironie satiriche della stampa inglese filo-monarchica si spiegano anche col fatto che Carolina, oltre ad esibire uno stile di vita di donna nobile e romantica all’appuntamento con il Grand Tour di prassi, è popolare in Inghilterra come ispiratrice del riformista Partito Radicale, critico della monarchia ufficiale britannica. Del resto è molto probabile che la lettera di Phillips abbia fatto leva sui sentimenti filobritannici degli ambienti della Old New York, cioè della classe dirigente di origine inglese, aristocratica, presbiteriana e nativist, che controlla le leve del potere politico nella esuberante ma ancora provinciale capitale del nordest americano. Ricostruisce efficacemente questa egemonia politico-culturale inglese a New York, contrapponendola alle aspirazioni degli emigrati irlandesi ultimi venuti, il libro di Herbert Asbury (1928), divenuto poi film di Martin Scorsese, The Gangs of New York. An Informal History of the Underworld.

La retorica di Da Ponte è quella di un umanista veterano e il bagaglio ideale e culturale che sostiene la sua difesa dell’Italia contemporanea è proprio di un apostolo della grandezza letteraria e artistica della penisola, unita non politicamente, ma da una lingua letteraria superiore, erede del latino, di Roma antica e di una genealogia di grandi uomini e scrittori. Figlio dell’Arcadia elegante e del neoclassicismo, Da Ponte si muove inconsapevolmente verso un preromanticismo politico-culturale e la teorizzazione ante litteram di un “primato” degli italiani, ben prima di teorici risorgimentali del calibro di un Vincenzo Gioberti. Le accuse di immoralità e di servilismo insomma non possono de facto e de jure albergare negli animi di una nazione di venticinque milioni di abitanti, mal conosciuta dal Phillips, e calunniata oltre misura strumentalizzando i prezzolati testimoni d’accusa al processo inglese, Sacchi, Restelli, Maiocchi, per cui, nella foga dell’invettiva, il nostro apostolo dell’italianità scomoda l’Orazio delle Satire (I, 2): “una genia di accattoni, mimi, buffoni…”, [in latino nell’originale, traduzione mia]. Ma questi stessi servi manipolati vengono difesi nell’ottica del loro destino di italiani costretti a espatriare, immolati sull’altare della ragion di stato monarchica:

 

[…] i quali pel solo oggetto di piacere ad un re, consentirono volontariamente e senza poter essere da alcuna legge costretti, d’allontanarsi per un illimitato tempo dalla patria, d’abbandonare le consorti, i figliuolo, i parenti, gli amici, i negozi, gli impieghi; d’esporsi a disagi, a rischi di mari, a fischi, minacce, diffamazioni d’un partito furente, d’un popolaccio sfrenato; di sottomettersi a severo insolente esame di persone a null’altro intese che a confondere con quistioni surrettizie, con equivoche interrogazioni il testimonio poco guardingo, e di porsi infine all’umiliante necessità di chiudersi in una specie di carcere volontaria, con guardie armate alle porte, onde assicurare la loro vita, precauzione in sé tanto giusta, quanto biasimata poi da certo avvocato che, con carità forense, trovò strano e indecoroso che questi italiani che vennero in Inghilterra sulla fede d’un re, non si lasciassero lapidare dal popolo (Sull’Italia, discorso apologetico).

 

L’accorta strategia retorica dapontiana da captatio benevolentiae è diretta al nervo sensibile del tema della “libertà” e del “sangue cittadinesco” versato da tanti americani, contrapposti ai “misteriosi gabinetti, anzi pur officine di frodi, di tradimenti, di cabale” rappresentati dai cinquei mostri “Briarei” d’Europa: Austria, Prussia, Russia, Inghilterra, Francia, le cinque monarchie assolute cardine del sistema politico uscito dal Congresso di Vienna. Nel Discorso Da Ponte dimostra di essere in grande sintonia con gli avvenimenti contemporanei italiani. Ed ecco menzionati, primi cronologicamente del biennio 1820-1821, i moti di Napoli guidati dalla rivolta dell’esercito guidato da Guglielmo Pepe, che impone al re “la nuova costituzione di Napoli”, coraggioso tentativo annullato ben presto dal vero nemico dell’”italico valor” di petrarchesca (e machiavelliana) memoria: l’Austria che dal Lombardo-Veneto controlla e reprime ogni tentativo di emancipazione italiana.

Preso dall’illuminismo partenopeo, passando da Beccaria e Alfieri, è il prossimo rappresentante italiano da porgere all’attenzione degli “umanissimi americani”: il giurista Gaetano Filangieri (1752-1788) e un suo giudizio sulla “gloriosa rivoluzione” americana, esempio per gli europei e per gli altri popoli di anticolonialismo e di emancipazione politica e commerciale. Sotto l’apparente cenere italiana, si agitano “scintille” politiche, e “un Bruto novello” è pronto a ispirarsi all’“immortal vostro Washington”. Avendo risposto così alla prima accusa di Phillips, ruotante sulla pochezza politica e militare degli italiani, adesso è la volta di controbattere l’altro ragionamento che fa degli italiani un popolo senza “grazia di religione” e “senso di morale”. Ma la terra degli eccessi contro la religione e la morale è la Francia, non l’Italia, sede della Chiesa di San Pietro e dei suoi successori. Il tono polemico contro atei e deisti vari è lo stesso di illustri opere antifrancesi, come il Misogallo di Vittorio Alfieri e la Basvilliana di Vincenzo Monti, testi che avevano denunciato con successo in Italia gli eccessi della Rivoluzione francese. Dev’essere la “amabilità di costumi” degli italiani ad essere erroneamente scambiata per natura degenere, complice una certa letteratura alla moda di libri di viaggi ad opera di “pigmei della società letteraria”. Ma per un maldicente Henry Sass (A Journey to Rome and Naples, 1818), esiste anche un John Chetwode Eustace (A Classical Tour through Italy, 1813), la cui fortuna editoriale è legata all’essere una guida storico-geografica utile al lettore e non di mero intrattenimento e riso, come in molti altri casi. Siamo verso la fine dell’ApologeticalDiscourse e lo sguardo dell’anziano bardo delle lettere e del teatro italiani offre al suo uditorio newyorkese il punto su quello che il catalogo ragionato dei grandi italiani attraverso i secoli mostra come cosmopolitismo degli scrittori italiani. La forza della cultura italiana contemporanea sta per Da Ponte appunto negli esempi notevoli con cui è rappresentata all’estero, e specificamente nella capitale inglese, dove la grave polemica anti italiana è scoppiata. Tre nomi su tutti: Filippo Pananti, direttore della British Library, Ugo Foscolo nel suo esilio londinese, Tiberio Cavallo (1749-1809), scienziato che intuì il pallone aerostatico. Pronunciato in inglese davanti al pubblico delle migliori serate politiche e culturali della città, il discorso in difesa degli italiani conferma la grande erudizione del conferenziere all’interno di un eloquio vigile e equilibrato, una prova in pubblico destinata a portargli nuovo lustro come professore e pedagogo. Ha scritto il migliore biografo di Da Ponte:

Con questo discorso Da Ponte s’imponeva come il più accreditato ed eloquente sostenitore dell’Italia negli Stati Uniti. Era riuscito a difendere la religione senza sembrare bigotto, la libertà di pensiero senza sembrare rivoluzionario, e a impressionare tutti con la precisione delle sue conoscenze letterarie e con l’innegabile maestria della sua prosa[4].

 

La difesa, più o meno d’ufficio, più o meno convinta, degli italiani e della loro cultura, ha però degli illustri precedenti. Si presenta quasi in forma di sottogenere letterario-morale figlio di una congerie storica tra Illuminismo, Romanticismo e rivoluzioni del 1848, che si interroga insistentemente sull’identità dei popoli e delle nazioni, alla ricerca di quella modernità europea a cui tutti aspirano più o meno contraddittoriamente. è sempre di ambito inglese An Account of the Manners and Customs of Italy; with Observations on the Mistakes of some Travellers, with regard to that Country (1767), scritto dal notevole critico e letterato Giuseppe Baretti come risposta alle fortemente critiche Letters from Italy (1766) del chirurgo inglese Samuel Sharp. Baretti è quasi una vita parallela di Da Ponte. Entrambi passati da Venezia, (il primo lasciandovi la militanza nel celebre giornale quindicinale di critica da lui fondato Frusta letteraria), sono protagonisti attivi all’estero (Baretti diventerà segretario dell’Accademia di Belle Arti per la corrispondenza straniera, per morire nella capitale inglese nel 1789) nel mondo del teatro dell’opera e delle lettere italiane, attività che tradizionalmente vanno a braccetto e che vedono attivi molti espatriati. Il soggiorno londinese di Da Ponte dura dal 1793 al 1805. Filippo Pananti (1776-1837), amico e corrispondente di Da Ponte, è direttore del teatro italiano e si distingue per il suo poema Il poeta di teatro (1808). Parlando del “fuoruscitismo politico”, una nota di Antonio Gramsci avverte che

 

nel secolo XIX, il fuoruscitismo muta di carattere, perché gli esiliati sono nazionalisti e non si lasciano assorbire dai paesi di immigrazione (non tutti però: vedi Antonio Panizzi divenuto direttore del British Museum e baronetto inglese). Di questo elemento occorre tener conto, ma non è certo quello prevalente nel fenomeno generale[5].

 

La difesa dell’identità culturale italiana fatta a più riprese da Da Ponte davanti al pubblico newyorkese riposa su una solida scuola di scrittori storici contemporanei, come risulta dal testo di una prolissa Orazione di Lorenzo Da Ponte recitata a’ suoi allievi e amici la sera del decimo di marzo dell’anno 1828, settantanovesimo anniversario della sua vita, inserito nel corpo delle Memorie[6]. È la triade contemporanea Carlo Denina (1731-1813)[7] – Carlo Botta (1766-1837), storico anche della rivoluzione americana – Giuseppe Micali (1769-1844) a sostenere l’asse portante del racconto della complessa sapienza storico-culturale degli italiani, degna erede dei gloriosi Paolo Sarpi, Muratori etc. L’anziano poeta di teatro e umanista di prim’ordine prende sul serio la propria missione di apostolo dell’identità culturale italiana nella dinamica, “spiritosa città, … più bella Parte dell’Unione”. Denuncia a più riprese e con tono piagnucoloso la precarietà economica della propria missione di libraio e di professore d’italiano, ma si evince chiaramente anche la sua scelta di campo finale dell’appartenere alla nuova patria americana, da espatriato con una nuova missione nella terra della newness americana, finendo anche per proporsi come faro e punto di riferimento per i più recenti fuorusciti, come gli esuli dello Spielberg. Lo conferma l’amicizia con Piero Maroncelli, a New York dal 1833, divenuto direttore del coro dell’Italian Opera House, impresa incoraggiata da Lorenzo Da Ponte anche se effimera. L’ottantatreenne Da Ponte del resto vi aveva già fondato il primo teatro dell’opera degli Stati Uniti e Maroncelli sarà presente al funerale dell’amico librettista-impresario a reggere il cordone del feretro nell’allora cattedrale cattolica di San Patrizio, ancora oggi esistente nel Greenwich Village, tre giorni dopo la morte avvenuta il 17 agosto 1838. È dunque chiara la differenza nel vivere il fuoruscitismo o l’esilio tra la generazione di Da Ponte e quella di un Maroncelli, quest’ultimo associato della Fourier Society di New York della prim’ora (1837); il primo intellettuale del secolo dell’Arcadia, dei Lumi e della leggerezza mozartiana, il secondo patriota ideologicamente aggiornato in Europa (Fourier, Swedenborg …) e militante nelle “retrovie del Risorgimento”[8], che andò a chiudere il suo destino umano, ormai cieco e demente, nella città dell’Hudson (1846).

A parte i coraggiosi, ma effimeri successi, ottenuti come impresario delle prime opere italiane rappresentate a New York con le varie compagnie di giro (Garcia, Montresor, Rivafinoli), Da Ponte raggiungerà una sua consacrazione cittadina ufficiale con la nomina nel 1825 a professore di italiano nel Columbia College (ex King’s College, l’attuale Columbia University), la più antica istituzione universitaria della città, sebbene professore sine exemplo, com’egli ironizza, cioè senza stipendio ufficiale perché titolare di una materia facoltativa. Si rifaceva vendendo grammatiche, dizionari e libri di classici italiani esistenti nel suo negozio sulla Broadway. Il figlio Lorenzo Luigi diventerà anch’esso professore nella nuova istituzione accademica New York University, pubblicando in inglese una Storia della Repubblica fiorentina (1833). I figli del grande cenedese del resto erano ben inseriti nella società locale avendo sposato tutti membri dell’elite yankee.

Ma forse è il caso di far concludere questa indagine sul destino di italiano “fuori d’Italia” di Lorenzo Da Ponte a prestigiosi dapontiani americani. Considerando il primo periodo a Sunbury in Pennsylvania di adattamento e pieno di nemici e il secondo, più lungo e più felice, a New York, così ha commentato lo storico dell’Università di Yale Thomas G. Bergin:

 

in both he seems to take on, tacitly and perhaps subconsciously, the American spirit, in some ways closely congenial with his own: optimistic, activist, inclined to be ebullient and, if crossed, cantankerous. This is at first glance slightly paradoxical; by tradition and education and indeed experience this European sophisticate would seems far removed from the lingering Puritanism and innocent rusticity which still characterized the American psyche; but in fact his deeper nature, eager, adventurous and basically evangelical, was well adapted to the New World. It is interesting to note in his Memoirs the absence of any genuine nostalgia, the lack of any desire – which would surely have been natural – to return to the European capitals in which he had felt himself at home. His notion of bringing his worlds together is quite simple; it is to bring the best of Europe to America[9].

 

Il curatore americano dei Memoirs Arthur Livingstone non ha dubbi nel tracciare un bilancio di Da Ponte, l’americano. Entrando per la prima volta in America attraverso la dogana di Philadelphia la mattina di quel 4 giugno del 1805,

 

a new life began for him – the life of Lorenzo Da Ponte, the American; an American who lived an interesting and useful life in the country of his adoption, left abiding traces upon the trend of American culture, and imparted a high-minded conception of the spiritual life to his children and his children’s children, whereby our country, both North and South, has profited not a little[10].

 

Viene infine da contrapporre, per ragioni di completezza, il felice destino di Da Ponte l’americano al triste esilio londinese del maggiore poeta italiano di quella travagliata stagione storica, Ugo Foscolo, un altro veneto transnazionale al pari di Da Ponte. A questo proposito penso che abbia scritto parole illuminanti il grande italianista, anch’esso con una lunga carriera di professore in Inghilterra, Carlo Dionisotti (1908-1998):

 

[…] gli era mancata la forza di cercare e riconoscere la verità dell’esilio, quale che fosse, e di reprimere la menzogna che trovava facile ma effimero ascolto. […] Mancò al Foscolo nella inizialmente splendida e poi gelida solitudine dell’esilio, la forza di smentire la propria anacronistica identificazione col personaggio del romanzo [Lorenzo Alderani di Ultime lettere di Iacopo Ortis] e di accettare la realtà di un esilio diverso. Il personaggio, favorito e insieme escluso dall’ambiente, finì col raccogliere in sé, nella testamentaria Lettera apologetica, tutti i rancori e corrucci, grandi e piccoli, pubblici e privati, che non avevano trovato sfogo al momento giusto, che non potevano più trovare sfogo, se non come grotteschi fantasmi insistenti alla rinfusa nella solitudine, nell’inerzia della fantasia poetica e purtroppo anche nella menzogna. Si spiega che i giovani italiani, a cui il Foscolo era apparso maestro in Italia, per lo più dissentissero da lui, quando lo raggiunsero nell’esilio, e che però i più tardi esuli, che più erano da lui lontani per il rigore morale e politico, avvertissero la solennità tragica di un esilio, che aveva distrutto un grande scrittore italiano[11].

 

[1]           Omaggio a Lorenzo Da Ponte, a cura di Marina Maymone Siniscalchi e Paolo Spedicato, “Quaderni di Libri e Riviste d’Italia”, 24 (1992). Ringrazio di cuore l’amico Gianpaolo Zagonel per avermi fornito il testo del Discorso apologetico, già pubblicato in Lorenzo Da Ponte, Memorie e altri scritti, a cura di Cesare Pagnini, prefazione di Piero Chiara, Milano, Longanesi, 1971.

 

[2]           Il ritorno di Lorenzo Da Ponte, a cura di Vittorino Pianca e Aldo Toffoli, Vittorio Veneto, Tipse, 1993.

 

[3]           Lorenzo Da Ponte, Memorie. Libretti mozartiani, introduzione di Giuseppe Armani, Milano, Garzanti, 1981, p. 315.

 

[4]           Aleramo Lanapoppi, Lorenzo Da Ponte, Venezia, Marsilio, 1992, p. 341.

 

[5]           Antonio Gramsci, Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura, Torino, Einaudi, 1966, p. 60.

 

[6]           Lorenzo Da Ponte, Memorie, cit., pp. 365-380.

 

[7]           Il piemontese, autore del celebre Delle rivoluzioni d’Italia, esempio di “storiografia filosofica” come storia comparata delle civiltà, in venticinque libri, aveva anche prodotto Considérations d’un italien sur l’Italie: guide littéraire pour differents voyages (1792), altra disamina variegata sul carattere degli italiani. Cfr. a proposito le osservazioni di Giulio Bollati, L’italiano. Il carattere nazionale come storia e come invenzione, Torino, Einaudi, 1983, pp. 52-53.

 

[8]           Francesco Durante, Italoamericana. Storia e letteratura degli italiani negli Stati Uniti 1776-1880, I, Milano, Mondadori, 2001.

 

[9]           Thomas G. Bergin, Preface, in Lorenzo Da Ponte, The Memoirs of Lorenzo Da Ponte, translated by Elisabeth Abbott, New York, The Orion Press, 1959, p. ix.

 

[10]          Arthur Livingston, Introduction, ibid., p. xiii.

 

[11]          Carlo Dionisotti, Appunti sui moderni. Foscolo, Leopardi, Manzoni e altri, Bologna, il Mulino, 1988, pp. 76-77.