L’industria marsigliese e l’immigrazione italiana del Mediterraneo nell’Ottocento: bilancio e prospettive

L’idea di riaprire la questione delle interazioni tra l’industria marsigliese e l’immigrazione italiana nel corso dell’Ottocento potrà sembrare singolare, dopo gli studi di storici e geografi come Pierre Milza, Teodosio Vertone, Louis Pierrein, Marcel Roncayolo ed Émile Temime[1]. Le loro ricerche hanno permesso infatti dei progressi considerevoli nella datazione e la misurazione delle diverse fasi del fenomeno migratorio, nella messa in evidenza dei motivi economici legati all’impiego di manodopera italiana, nell’analisi dei rapporti tra operai francesi e transalpini e nello studio dei processi di integrazione di questi ultimi attraverso la partecipazione alle lotte sociali e al sindacalismo. Questi contributi hanno nutrito la riflessione di tutti coloro che in seguito si sono interessati alla questione migratoria italiana in maniera più globale, sia in Francia sia in Italia. Il motivo per cui oggi, nonostante questo, vogliamo ritornare sulla questione è il seguente: le rappresentazioni dell’industria marsigliese dell’Ottocento, così come era possibile concepirle tra il 1970 e il 1990, sulla base delle conoscenze disponibili all’epoca – e che sono state da supporto alle opere sopra citate – non corrispondono più perfettamente a quelle che oggi vanno per la maggiore[2]. In vista del nostro obiettivo, i contributi del rinnovamento storiografico in atto da una ventina d’anni permettono di fare nuova luce su tre settori principali: la partecipazione degli operai italiani ai conflitti sociali e al movimento sindacale; le ragioni economiche della presenza operaia italiana; i luoghi di insediamento dell’immigrazione italiana legati all’industria marsigliese.

 

  1. “Crumiri” e animatori di scioperi: cronologia e attori

Tutti i lavori storici che si sono interessati alla questione dei rapporti tra operai francesi e italiani a Marsiglia, alla partecipazione di questi ultimi alle lotte sociali e ai sindacati, hanno ripreso suppergiù lo schema esplicativo proposto da Pierre Milza all’inizio degli anni 1980. Nella sua tesi Pierre Milza fa coincidere lo sviluppo della combattività e della partecipazione sindacale degli operai italiani con l’arrivo a Marsiglia dei rifugiati politici del Partito socialista italiano (PSI) nel 1898 – Campolonghi, Montanari, Benuzzi, ecc. – che sono riusciti a sfuggire alla repressione delle rivolte di Milano. Milza sottolinea che sono i rifugiati del PSI a incitare gli operai italiani a entrare in massa nei sindacati e a coalizzarsi con i colleghi francesi per non essere più sistematicamente usati come crumiri e servire da capri espiatori[3]. Insiste anche sull’efficacia della propaganda del PSI perché, a partire dagli anni 1899-1901, diversi conflitti importanti – muratori, scaricatori di porto, operai del settore oleario o di quello del cemento – vedono una solidarietà impeccabile tra francesi e italiani. Questi scioperi verrebbero quindi a creare “un rapporto prima inesistente tra le due comunità”[4] e consentirebbero l’emergere di una élite sindacalista italiana e la riduzione delle violenze xenofobe all’interno del mondo operaio locale.

Le ricerche svolte di recente sui conflitti sociali all’interno dell’industria marsigliese degli anni 1880-1914 rivelano, però, una situazione più complessa[5]. Si nota come, a partire dai primi anni 1880, sebbene gli effetti della recessione iniziata in alcune regioni d’Europa nel 1873 non abbiano ancora realmente investito la città di Marsiglia, gli operai italiani partecipano già ai conflitti sociali e si ritrovano spesso in prima linea contro gli imprenditori e le forze dell’ordine. È quello che accade prima nel maggio 1881, in occasione dello sciopero degli operai conciatori dell’industriale Jullien[6], e poi, ancora più simbolicamente, nel luglio 1881 – solo un mese dopo i “vespri marsigliesi”, tradizionalmente considerati come la nascita della xenofobia a Marsiglia –, con lo sciopero degli operai del settore oleario in cui “l’intesa tra operai francesi e italiani è perfetta”[7]: “Gli italiani e alcuni francesi hanno rifiutato di lavorare nella fabbrica Jullien e Guiol nel quartiere degli Chartreux. Gli operai chiedevano un aumento di 0,50 franchi, che gli è stato rifiutato; sono andati in alcune fabbriche, soprattutto ad Arenc, e hanno incitato gli altri operai a cessare il lavoro, ma non ci sono riusciti. Sono andati a Saint-Just e lì c’è stata una certa agitazione in seguito alla quale un gran numero di operai ha lasciato il lavoro”[8]. La forte risonanza giornalistica e diplomatica dei “vespri marsigliesi” non ha quindi impedito agli operai delle due diverse nazionalità di portare avanti una lotta comune. E, al contrario di quanto si potrebbe pensare, la combattività sociale degli italiani non diminuisce quando, a partire dal 1883, la recessione comincia a farsi sentire nelle aziende marsigliesi. Lo si vede nell’aprile 1883, sui dock, quando gli operai carbonai del porto – prevalentemente italiani – scatenano un conflitto che coinvolge buona parte degli scaricatori e dura fino a metà maggio[9]; nel giugno 1883, alle Fonderies de la Méditerranée, dove una sessantina di operai piemontesi sciopera per tre giorni per tentare di ottenere un aumento di salario[10]; allo stesso modo, sempre nel giugno del 1883, nella fabbrica d’olio Mante frères & Borelli, quando gli operai italiani entrano in sciopero per quattro giorni per cercare di ottenere un aumento di salario di 25 centesimi, prima che quindici di loro siano arrestati per “intralcio alla libertà del lavoro”[11]; nel luglio 1883, nelle fabbriche d’olio Verminck, in cui gli operai italiani danno il via a una rivolta – reclamano un aumento di salario di 5 centesimi al giorno – che finisce col mobilizzare 1.885 operai, cioè più dell’80% dei lavoratori della categoria[12]. Del resto è durante questo conflitto che nasce il primo sindacato dell’industria olearia marsigliese. Allo stato attuale delle ricerche, si tratta anche, dato che i capi erano tutti italiani, del primo sindacato italiano dell’industria marsigliese.

Chi sono i principali protagonisti di questi scioperi? In primo luogo, gli stessi operai italiani. Stranieri all’interno della regione, vivono nella precarietà, con la paura di essere arrestati ed espulsi; sono consapevoli della difficoltà delle condizioni di lavoro e capaci di sviluppare un’analisi sociale, di interrompere il lavoro per cercare di instaurare un rapporto di forza meno sfavorevole. Sono spesso spalleggiati da un gruppo politico che per molto tempo è passato inosservato: i socialisti marsigliesi. Questi, molto indeboliti dal fallimento e dalla repressione della Comune di Marsiglia, sono in piena rinascita dopo il congresso operaio organizzato nella loro città nel 1879[13]. L’unione degli operai italiani con i socialisti di Marsiglia è rilevabile già dal 1880. A volte questa è sollecitata perlopiù dagli operai, come nel luglio 1881: “Stamattina alle 11 abbiamo ricevuto la visita di otto delegati operai che appartengono a diverse fabbriche di olio, come la fabbrica d’olio del sig. Gounelle, c’erano quattro francesi e quattro italiani. C’è un’intesa perfetta tra francesi e italiani. A partire da sabato lo sciopero sarà generale. La missione di questi delegati è quella di organizzare una grande riunione, domenica, in cui i francesi e gli italiani delle fabbriche di olio saranno convocati dalla stampa. Peuple Libre gli ha promesso il suo appoggio. A detta dei delegati, ci sarà Pierre Roux a presiedere la riunione”[14]. Gli scioperanti ottengono così il supporto di uno dei circoli socialisti della città – il Peuple Libre – e del leader Pierre Roux. Altre volte l’incontro tra le parti può avvenire anche per iniziativa dei socialisti marsigliesi: è quello che succede nel 1883, nel corso di un nuovo sciopero delle fabbriche di olio. I socialisti marsigliesi – Antide Boyer in testa[15] – vi giocano un ruolo di primo piano, sia nel sostegno morale dato al movimento, sia nell’aiuto per l’elaborazione di una piattaforma rivendicativa più ampia – “aumento di 50 centesimi al giorno; mezz’ora di pausa al mattino per la colazione; un’ora di pausa per il pranzo; eliminazione delle mense nelle fabbriche o almeno libertà totale per l’operaio di rifornirsi dove preferisce”[16] –, sia nella creazione del già citato primo sindacato operaio del settore. Il 14 luglio 1883, mentre gli scioperanti esitano ancora a creare un loro sindacato, l’intervento di Antide Boyer determina la decisione degli operai: “A quel punto interviene Boyer del circolo Esquiros, che è già coinvolto nello sciopero. Gli dà qualche consiglio. Gli dice di non aver paura. Aggiunge che devono resistere perché lo sciopero è dichiarato e gli assicura che i francesi sono dalla loro parte, perché essi stanno lottando per migliorare la loro situazione e salvaguardare la dignità. Conclude pregandoli di nominare una delegazione di sette membri che presenteranno ai padroni i vari reclami e che saranno al tempo stesso il nucleo della camera sindacale. La proposta è accettata all’unanimità ma si riproduce la stessa esitazione che in precedenza e nessuno vuole accettare. Dietro qualche nuovo consiglio vengono proposti alla fine i seguenti nomi: Santi Pietro; Alto Domenico; Angi Gerolamo; Nicola Giuseppe; Alvini Battista; Coni Antonio; Crose. Viene stabilito che questi sette membri, aiutati da Boyer e da Farrenc, faranno un relazione per le tre dell’indomani pomeriggio; che questo rapporto sarà letto all’assemblea che l’approverà e che lunedì andranno tutti insieme dai padroni. Nell’attesa, decidono di continuare lo sciopero”[17]. Anche se il conflitto fallisce il suo scopo qualche giorno dopo, resta il fatto che quel primo tentativo di creare un sindacato operaio nella fabbrica d’olio è proprio il frutto di un incontro e di una stretta collaborazione tra, da un lato, gli operai italiani che non esitano più a impegnarsi in movimenti di rivendicazione e, dall’altro, i socialisti marsigliesi in cerca di un pubblico più ampio dopo il congresso operaio del 1879.

Prima dell’arrivo a Marsiglia dei membri del PSI, c’è un altro sciopero che gioca un ruolo molto importante nella sindacalizzazione degli italiani, e soprattutto nel loro avvicinamento ai lavoratori francesi. Si tratta di quello degli operai dell’industria delle tegole che scoppia nel 1894 nei paesini industriali di Saint-Henri, Saint-André e l’Estaque. L’esemplarità del conflitto si può rilevare a più livelli. Innanzitutto nella rapidità con cui scoppia, e poi nella portata. Il movimento inizia il 2 marzo con lo sciopero di 150 ragazze e ragazzi dai 13 ai 18 anni impiegati nelle fabbriche di tegole, che protestano contro la diminuzione del tempo di lavoro da 12 a 10 ore, una riduzione che ha comportato un taglio del 17% sui salari giornalieri[18]. Agli adolescenti si uniscono presto tutti gli altri operai del mestiere – giornalieri delle cave, carrettieri, operai dei forni, ecc. –, compresi quelli che si trovano in altri quartieri – La Viste, Saint-Just – e persino gli operai della fabbrica di tegole dei Milles, non lontano da Aix-en-Provence; tutto ciò la dice lunga sul grado di tensione dei rapporti sociali in questo settore. A partire dal 5 marzo, 1500 persone smettono di lavorare per reclamare degli aumenti di stipendio; il 15 marzo sono circa 2000. L’altro aspetto esemplare della faccenda riguarda il funzionamento del sindacato degli operai dell’industria delle tegole, fondato il 3 marzo. È composto da lavoratori francesi e italiani e dispone d’una cassa rifornita dalle quote degli operai, dalle raccolte organizzate presso i commercianti e dai contributi versati dal consiglio generale del dipartimento dei Bouches-du-Rhônes o dalla municipalità socialista di Marsiglia. Il sindacato gestisce il movimento in maniera impeccabile, tenendo riunioni regolari, distribuendo buoni-pasto agli scioperanti, esigendo aumenti in base alla categoria – e non sulla base delle capacità degli individui, come volevano gli imprenditori –, sapendo far leva sulla rivalità tra i vari industriali che miravano tutti a essere riconosciuti come l’unico interlocutore degli operai, riuscendo a imporre che avrebbero ricominciato a lavorare solo negli stabilimenti in cui gli imprenditori avessero accettato per iscritto le loro rivendicazioni sul salario e ottenendo infine, dopo sette settimane di lotta, una vittoria completa, la prima del genere in un conflitto così lungo. Del resto questo successo va ben oltre la semplice soddisfazione per gli aumenti di salario o il riconoscimento del sindacato: “ Gli operai della fabbrica Sacoman Pierre a l’Estaque, che avevano ottenuto dal padrone una soddisfazione completa su tutta la linea, dalla riduzione delle ore di lavoro all’aumento dei salari, avevano ricominciato a lavorare; ma il sindacato operaio, per mantenere il controllo nelle fabbriche, ha nominato un certo numero di operai in ogni fabbrica, che sono specificamente delegati a sorvegliare le assunzioni e i licenziamenti di operai, in modo da impedire al padrone di assumere operai non facenti parte del sindacato o di licenziare coloro che possiedono la tessera sindacale”[19]. La solidarietà dimostrata da operai francesi e italiani costituisce il terzo aspetto di esemplarità dello sciopero. Non dimentichiamo che sono passati solo sette mesi dai drammatici fatti di Aigues-Mortes, che hanno provocato la morte di una decina di giornalieri italiani. Ma l’industria marsigliese non ha esattamente la stessa configurazione economica e sociale delle saline della Camargue e il conflitto delle fabbriche di tegole non ha a che vedere con la concorrenza tra le due comunità[20]. È per questo che la solidarietà non trova ostacoli all’interno della lotta, e gli operai italiani si dimostrano anche più agguerriti dei francesi, con grande sorpresa della polizia, che immaginava violenze fra le comunità: “In questo sciopero quel che sorprende è l’unione tra operai francesi e stranieri, che non si è mai incrinata. Questi ultimi si sono mostrati anche più tenaci dei primi nel proposito di non riprendere a lavorare prima d’aver ottenuto completa soddisfazione”[21]. O ancora, una settimana dopo: “Non abbiamo mai temuto un conflitto tra operai francesi e operai italiani a Saint-Henri. Fra questi ultimi, la maggioranza fa parte del sindacato proprio come gli operai francesi e rivendica le loro stesse cose”[22]. Tuttavia, un incidente suscita l’agitazione della polizia e della stampa nazionale. Il 26 marzo, mentre una sessantina di scioperanti italiani si dirige verso la fabbrica Guichard, Carvin & Cie per fare pressione sugli operai impiegati nell’estrazione d’argilla, che hanno ripreso il lavoro senza che l’azienda abbia accettato le tariffe reclamate dal sindacato, il grido “d’Aigues-Mortes” viene ripetuto diverse volte. Ciò provoca l’arresto di una decina di italiani, fra cui l’operaio Jean Fiori, uno dei feriti di Aigues-Mortes e autore delle grida. “Le Figaro” lancia allora l’ipotesi di una recrudescenza delle tensioni fra le comunità, ma l’inchiesta della polizia rivela che il richiamo alla memoria fatto da Jean Fiori, operaio non scioperante, a proposito del massacro di Aigues-Mortes, era rivolto agli operai italiani venuti a convincerlo ad abbandonare il lavoro. Quindi non si tratta più soltanto di una rivalità tra operai francesi e italiani, ma tra operai italiani del sindacato e coloro che invece non ne fanno ancora parte. Stavolta la solidarietà sociale vince su quella nazionale.

Tutti questi elementi invitano ad apportare diverse modifiche rispetto alle analisi che di solito vengono prese in considerazione per caratterizzare i rapporti tra operai francesi e italiani a Marsiglia negli anni che vanno dal 1880 al 1914. Portano in primo luogo a relativizzare l’aspetto della “nascita spontanea” e unicamente esogena della partecipazione sindacale degli operai italiani a partire dal 1898. Di certo l’azione dei rifugiati del PSI è stata importante – lo si vede dall’impegno dei suoi leader negli scioperi degli anni 1900-1901 –, ma è stata preceduta da una fase di una ventina d’anni in cui i socialisti marsigliesi (più vicini all’internazionalismo di un Jules Guesde – sebbene questi abbia avuto in seguito posizioni ambigue – piuttosto che al “socialismo nazionale” di Maurice Barrès[23]) hanno contribuito a integrare e a formare gli operai italiani alle lotte di rivendicazione unitarie e al sindacalismo. Anche nei momenti di più accesa xenofobia operaia, alcuni socialisti locali non mancano di ricordare che la vera soluzione non sta nell’espulsione degli operai italiani, ma piuttosto in una rivoluzione sociale condotta di comune accordo da operai francesi e italiani. I membri del PSI, più che dargli il via, hanno dunque accelerato il processo di sindacalizzazione degli operai italiani e il loro coinvolgimento nei movimenti di rivendicazione. Del resto, il ruolo dei socialisti marsigliesi – che acquisisce un rilievo sempre maggiore[24] – meriterebbe di essere studiato più approfonditamente, non fosse che per apprezzare meglio le rispettive parti delle diverse tendenze, delle personalità e delle strutture che l’animano (circoli, giornali, ecc.) o per verificare se il socialismo marsigliese sia più influenzato dall’internazionalismo rispetto a quello del nord della Francia, ad esempio, in cui i partigiani del “socialismo nazionale” se la prendono regolarmente, e talvolta con grande violenza, con gli operai belgi. I conflitti sociali di cui trattano le analisi precedenti dimostrano anche che, nonostante le violenze xenofobe che si verificano negli anni 1880-1890 – nel febbraio 1897, durante una riunione di più di 1.000 disoccupati alla Borsa del lavoro, alcuni operai reclamano ancora “l’impiego della forza per ottenere il licenziamento degli operai stranieri” e annunciano l’intenzione “di prendere d’assalto le fabbriche che li assumono in via preferenziale”[25]; lo stesso anno scoppia una rissa molto violenta fra francesi e italiani nella fabbrica Solvay di Salin-de-Giraud[26] –, i conflitti non vedono schierati sempre e solo operai francesi contro operai italiani; ormai ve ne sono anche all’interno della comunità italiana, tra coloro che hanno iniziato a partecipare agli scioperi e ai movimenti sindacali e coloro che non vi partecipano ancora. La solidarietà di fatto tra operai francesi e italiani, percepibile in maniera frequente dai primi anni 1880, invita insomma a riconsiderare l’importanza accordata ai drammatici eventi dei “vespri marsigliesi” e di Aigues-Mortes, per quanto concerne la misura dell’intensità della xenofobia operaia durante quel periodo, e a fare una distinzione tra, da un lato, la portata giornalistica o politica e, dall’altro, il loro reale impatto sulla quotidianità dei lavoratori. Così come la storia della Resistenza francese è stata profondamente rinnovata e arricchita da un approccio “dal basso”, la storia della xenofobia operaia a Marsiglia trarrebbe sicuramente beneficio se si prestasse maggiore attenzione al modo in cui operai francesi e italiani convivevano sul territorio. I momenti condivisi di vita quotidiana, rinforzati dal peso di idee internazionaliste, tenderebbero forse a dimostrare – è un’ipotesi di lavoro – che Marsiglia, in quegli anni, è uno dei luoghi principali della solidarietà operaia.

 

  1. Le ragioni economiche della presenza operaia italiana

Tra gli argomenti che vengono usati di solito per spiegare l’importanza numerica degli operai italiani nell’industria marsigliese, sono spesso posti in rilievo due elementi complementari: la scelta degli imprenditori di cercare di ridurre i costi di produzione e di aumentare la produttività mediante l’impiego di una manodopera sottopagata, poco sindacalizzata e considerata più robusta; la volontà degli stessi industriali di conservare un certo livello di competitività sfruttando prioritariamente la variabile umana, piuttosto che investendo ingenti somme in un continuo rinnovamento delle apparecchiature di produzione. In Les grammaires d’une ville il geografo Marcel Roncayolo pone quindi in rilievo che la facilità d’accesso alla manodopera italiana ha tendenzialmente scoraggiato gli industriali dal fare gli investimenti necessari alla modernizzazione delle loro imprese – in pratica, una specie di maltusianismo dell’innovazione – e che li ha spinti a far utilizzare il più a lungo possibile degli apparecchi ormai desueti in confronto a quelli della concorrenza[27]. Anche in Migrance, lo storico Émile Temime è tornato più volte su questa questione. A volte interrogandosi: “L’economia marsigliese può avvalersi di un’abbondante manodopera di immigrati e, al tempo stesso, finisce per esserne dipendente. Le aziende che dispongono di manodopera a buon mercato non hanno forse tendenza a procrastinare una modernizzazione talvolta necessaria?”[28]. O ancora, in modo più categorico: “Il sistema marsigliese si è costruito in funzione del porto, ma anche in funzione di questa manodopera abbondante che ha un continuo ricambio […]. Un sistema del genere ha i suoi difetti. Non stimola le aziende a modernizzarsi fin tanto che possono disporre di una forza-lavoro così numerosa e disponibile. Il che costringe a ricorrere a una nuova immigrazione appena la “vecchia” migrazione si è evoluta a sufficienza per non prestarsi più alle esigenze delle imprese. Insomma, in questo caso le nuove ondate migratorie non sono necessariamente un fattore di progresso”[29]. Ci sarebbe così un legame tra la debole modernizzazione del sistema produttivo marsigliese e l’importanza della manodopera italiana, cosicché il peso di quest’ultima appare come un possibile segnale del grado di arretratezza delle strutture industriali locali.

Diversi recenti studi permettono di porre in rilievo nuovi elementi e di perfezionare queste analisi. In primo luogo, ormai l’importanza degli operai italiani all’interno dell’industria marsigliese – nel 1912-1913 essi rappresentano il 53% degli operai effettivi e il 75% della popolazione operaia immigrata[30] – non appare più unicamente come il risultato di una scelta dei padroni fra varie possibilità. Essa è anche il frutto di una necessità, e cioè la difficoltà riscontrata nel corso del XIX secolo nel reclutare gli operai, nonostante l’apporto demografico dei dipartimenti vicini. È il caso ad esempio della maggior parte delle fabbriche impiantate a Marsiglia e ancora di più di quelle che si trovano in posti isolati. La cosa è attestata da svariati esempi: quando, nel 1864-1867, la società Lhuilier & Cie costruisce il primo villaggio per minatori delle Bouches-du-Rhône in una zona rurale nei dintorni di Marsiglia, riesce a trovare soltanto operai italiani disponibili a stabilircisi; la stessa identica cosa succede con gli alloggi operai delle fabbriche marsigliesi impiantate intorno alla laguna di Berre, nelle calanche o sulle isole e il litorale del Var. Allo stesso modo, quando negli anni 1860 i fratelli Dussaud impiantano un cantiere di costruzione a Port-Saïd, in Egitto, l’esiguità della manodopera locale li costringe ad adottare ogni tipo di misura per cercare di attirarvi gli operai italiani. Al di là dei metodi abituali – assunzione di personale italiano col compito di reclutare manodopera in giro per il paese; promessa di salari più alti, che potevano arrivare fino a 5 franchi al giorno –, essi progettano di creare un servizio di trasporto gratuito tramite navi a vapore: “Di recente, facendoci notare le difficoltà attuali, il sig. Dussaud si è espresso dicendo che non si riuscirà a risolvere la situazione a meno che non si crei un servizio apposito e continuo di navi a vapore che effettuino servizio tra Marsiglia e Port-Saïd: queste navi percorrerebbero le coste di tutta l’Italia. Così gli operai italiani che vogliono venire a cercare lavoro sull’istmo potrebbero viaggiare gratuitamente in una direzione, partendo da qualsiasi punto, ed essere riaccompagnati in patria nell’altra direzione quando vogliono tornare a casa […]. In questo modo […], inizierà un gran flusso migratorio nell’istmo, che è il solo modo di garantire agli imprenditori la possibilità di mantenere i loro impegni”[31]. In un contesto di penuria di manodopera, l’assunzione di operai italiani consente agli industriali innanzitutto di disporre del personale necessario per assicurarsi il buon funzionamento delle loro attività.

La seconda precisazione da introdurre riguarda la pressione esercitata dagli industriali sulle remunerazioni degli operai italiani. Questa è reale e comporta molti abusi, anche alla fine del XIX secolo. Nel 1902 le vetrerie Verminck (Montredon) e quelle del Queylar (quartiere di Saint-Marcel) si ritrovano così al centro di un affare di traffico di atti di nascita che permettono di assumere illegalmente – e a bassissimo prezzo – i bambini italiani dai 9 ai 12 anni, con la complicità dei genitori che vivono nella povertà[32]. Ma, anche se i salari degli italiani sono sistematicamente più bassi di quelli dei francesi – all’inizio degli anni 1880 il salario di un giornaliero italiano impiegato in fabbrica è inferiore di 50 centesimi/1 franco rispetto a quello di un giornaliero francese[33] –, e anche se questo rappresenta effettivamente, su grossa scala, un guadagno sensibile per gli imprenditori, i salari non possono comunque essere troppo bassi, altrimenti quegli stessi operai italiani lascerebbero lo stabilimento per andare a farsi assumere nel settore agricolo, nei cantieri del BTP (Bâtiment et Travaux Publics) o nelle fabbriche in cui li avrebbero pagati meglio. Nel 1911 i dirigenti della Société nouvelle de charbonnages des Bouches-du-Rhône constatano: “Perché in primavera i giovani italiani che assumiamo come manodopera di ogni tipo se ne vanno? Per vari motivi. Alcuni tornano al loro paese per aiutare i genitori nel lavoro dei campi; altri si fanno assumere come lavoratori agricoli in tutta l’area meridionale della Francia; altri ancora vanno a fare la raccolta del sale; sono attratti da un salario più elevato […]. Anche l’ultimo degli sterratori o degli apprendisti muratori guadagna 4 franchi e 50 al giorno per 10 ore; i raccoglitori di sale: da 6 a 7 franchi; i lavoratori agricoli arrivano facilmente a un minimo di 5 franchi – laddove noi gli offriamo un salario che va solo dai 3,50 ai 3,75 franchi”[34]. Lo stesso anno i dirigenti marsigliesi della Société anonyme des tuileries Romain Boyer, a Six-Fours, nel dipartimento di Var, sono preoccupati dalle frequenti partenze dei loro operai italiani verso “lavori meglio retribuiti in grandi aziende, all’Arsenale di Toulon o sul canale del Rodano”[35]. La crescita economica e la mobilità degli operai impongono così un limite alle strategie che mirano a ridurre i costi di produzione attraverso una forte pressione sulla massa salariale. Il timore di non disporre di manodopera sufficiente per poter far funzionare in maniera normale l’unità produttiva, o per essere in grado di rispondere alla domanda, costituisce un importante freno all’eccessivo abbassamento dei salari.

L’ultimo elemento riguarda stavolta il rapporto tra immigrazione e innovazione. L’importanza della manodopera italiana all’interno di una fabbrica non è necessariamente indice di un apparato produttivo obsoleto. È quel che si rileva ad esempio a proposito dello sfruttamento delle miniere di lignite nei dintorni di Marsiglia. Lo sviluppo della manodopera italiana negli anni 1840-1850 coincide con l’apertura dei primi pozzi verticali, con l’installazione di macchine a vapore per l’estrazione con o senza pompe del minerale e con la meccanizzazione parziale delle operazioni di produzione[36]. Allo stesso modo, quando nel 1894 i dirigenti della Société nouvelle de charbonnages des Bouches-du-Rhône decidono di utilizzare l’elettricità per accelerare lo scavo della galleria sotterranea che collega il piccolo villaggio di minatori di Biver al porto di Marsiglia (circa 15 km), fanno in modo di assumere solo minatori piemontesi celibi perché sanno che quel balzo tecnologico è pericoloso per via dei rischi provocati dall’introdurre l’elettricità in un ambiente umido (il 18% dei minatori rimasti uccisi nel bacino minerario tra il 1856 e il 1913 è morto durante questo cantiere). Ma ci sono anche altri esempi: nel 1906 l’88,5% degli italiani che lavorano per la Société des produits chimiques de Marseille L’Estaque sono giornalieri o lavorano tutto il giorno in mezzo al rumore e ai gas prodotti dall’imponente e moderno “forno revolver” che produce continuamente soda e la scarica ancora incandescente in vagoni di ghisa. È infine il caso delle fabbriche di tegole di Saint-Henri in cui la popolazione italiana – che costituisce tra il 70 e il 75% degli operai effettivi – lavora sin dal 1870 in un ambiente caratterizzato dall’uso del forno continuo Hoffmann, l’energia a vapore, la meccanizzazione di un certo numero di operazioni, la standardizzazione dei prodotti e la produzione di massa. A questo proposito, il funzionamento della fabbrica di tegole meccanica di Étienne Arnaud & Cie è particolarmente significativo. Estratta a mano dalle cave vicine, l’argilla è trasportata su ferrovia fino alla tagliatrice, una macchina “composta da un disco orizzontale fornito di lame d’acciaio che girano a grande velocità, grazie a una macchina a vapore speciale, in una grande vasca in cui viene gettata l’argilla in zolle. La macchina la taglia in pezzi che rovescia in un grande imbuto sotto il quale un vagoncino li riceve a sua volta per svuotarli nelle fosse in cui la terra, cui è stata aggiunta dell’acqua, resta per 24 ore. Questa prima operazione sostituisce la sminuzzatura a mano che era molto onerosa […]. Dopo queste 24 ore la terra viene tirata fuori a mano dalle fosse e viene messa su un vagoncino che la porta alla macchina che la frantuma […]. L’argilla esce dalla macchina a forma di dischi di dimensioni adatte a farne una tegola; i dischi sono poi sistemati all’interno della sala che contiene le macchine”[37]. Dopo 24 ore i dischi sono trasportati al primo piano della fabbrica di tegole da un montacarichi meccanico. Lì vengono presi da ragazzini che li mettono sugli stampi della pressa a vapore. Una volta pronte, le donne prendono le tegole per sistemarle sugli essiccatoi: “Appena sono abbastanza asciutte, prima di metterle in forno, le donne tolgono con cura, con un utensile d’acciaio, le piccole sbavature rimaste: è il processo di finitura”[38]. Le tegole vengono poi portate fino ai due forni Hoffmann della fabbrica, la cui capacità di cottura può raggiungere le 32.000 tegole in 24 ore. La spiegazione del processo di produzione nella fabbrica di Étienne Arnaud & Cie illustra bene che il rapporto tra operaio immigrato e innovazione e più complesso di quanto sembri. La meccanizzazione dell’epoca è in realtà una meccanizzazione parziale delle operazioni di produzione. Essa “si limita a delle oasi, intorno alle quali il ricorso a uno sforzo fisico particolarmente intenso è l’unico modo possibile per garantire il funzionamento dell’insieme del sistema, e nello specifico la gestione dei flussi”[39]. In qualche modo, queste mansioni fisiche, pericolose o semplicemente molto ripetitive e poco qualificanti sono riservate ai lavoratori italiani. Immigrazione e innovazione non costituiscono quindi necessariamente un’antinomia. E, considerata l’importanza degli operai effettivi nelle fabbriche meccanizzate in confronto al  numero di persone impiegate in quelle in cui il lavoro resta artigianale – negli anni 1880 una fabbrica di tegole meccanica funziona con un personale di circa 200 elementi, mentre in una fabbrica artigianale ne basta una trentina –, possiamo anche chiederci se l’importanza numerica degli operai italiani in alcuni settori non sia in realtà il segno di una meccanizzazione avanzata delle operazioni di produzione.

 

  1. Diversificare i punti d’osservazione

Si tratta di certo del cantiere più recente, meno avanzato e forse il più promettente. Fino agli ultimi anni l’industria marsigliese del XIX secolo è stata pensata soltanto attraverso il prisma del porto di Marsiglia e dello spazio urbano limitrofo. In Les grammaires d’une ville Marcel Roncayolo scrive: “L’industria marsigliese è principalmente portuale; l’evoluzione del XIX secolo non attenua ma anzi accentua questo carattere: essa circoscrive il lavoro operaio all’interno della sua città-porto, dei suoi orizzonti e pratiche. Marsiglia delocalizza fuori del suo territorio (o talvolta agli estremi confini del territorio) solo le attività nauseabonde (le fabbriche di soda all’inizio del XIX secolo, la chimica minerale cento anni dopo) o troppo ingombranti per il commercio, come i cantieri di costruzione navale. Al di fuori di questi spostamenti o di queste scelte di localizzazione relativamente precoce, il tempo della exurbanisation comincia soltanto – e con grande prudenza – a partire dal 1920”[40]. Il geografo Louis Pierrein non dice niente di diverso quando parla della “traiettoria ad elica” che, dal 1920 in poi – e grazie alle acquisizioni di terreni compiute dalla Camera di commercio di Marsiglia – guida “lo sviluppo del nucleo economico marsigliese” dalla calanca originaria verso la laguna di Berre, poi in direzione di Fos[41]. Il rinnovamento storiografico degli ultimi venti anni permette di proporre un nuovo modo di concepire l’industria marsigliese: lungi dall’essere abbarbicata sul territorio urbano stricto-sensu, essa appare ormai come il fulcro di una rete di sistemi produttivi creati generalmente da imprenditori locali e situati fuori città, in paesini o piccole città dell’immediata periferia, del litorale provenzale o nelle località più lontane in Spagna, Italia, Grecia, Egitto, Algeria e Tunisia. La costituzione di una rete di sistemi produttivi localizzati – organizzati intorno a una o a più produzioni – è uno degli aspetti più importanti del funzionamento dell’industria marsigliese e uno degli elementi chiave del suo dinamismo[42].

Le ripercussioni di questo nuovo modo di concepire l’industria marsigliese del XIX secolo sono molteplici. In primo luogo, esse permettono di definire una nuova geografia dei punti in cui le migrazioni legate all’attività industriale marsigliese si sono radicate. Queste piccole città e i vari villaggi integrati all’economia portuale marsigliese accolgono infatti numerose famiglie italiane, in proporzioni spesso maggiori rispetto a Marsiglia. L’esempio dell’anno 1906 è a questo proposito particolarmente interessante. Mentre la Marsiglia intra muros conta circa il 18% di italiani, cifra che Émile Temime considerava già – a giusto titolo – “assolutamente enorme” per la storia della città[43], Septèmes, specializzata nell’industria chimica, ne conta il 22%; Port-de-Bouc, dove si sviluppa perlopiù un’industria di costruzione navale e di raffinamento del petrolio, il 29%; Madrague-Montredon, specializzata nella metallurgia del piombo e nell’industria chimica, il 32%; Capelette, capoluogo della costruzione meccanica e della metallurgia, il 36%; Peypin e Belcodène, piccoli paesini di miniere, il 38 e il 45%; Gardanne, dove si estrae lignite e si produce alluminio, il 48%; l’Estaque, interessata dall’industria chimica e dalle fabbriche di tegole, il 50%; Saint-Henri e Saint-André, dove si fabbricano tegole e mattoni, il 54 e il 56%; Roquefort-la-Bédoule, specializzata nella produzione di cemento, il 59%; La Londe les Maures, nel dipartimento di Var, dove si estraggono piombo argentifero e zinco, il 59%; ecc. Come a Marsiglia, anche qui gli operai vengono da tutte le parti d’Italia, compreso il sud, ma alcune provenienze vanno sottolineate. Sui 769 operai italiani censiti a l’Estaque, il 25% è nato in Toscana in località relativamente vicine come Capannoli, Lucca, Matti, Vicopisano e Pisa, il che lascia supporre l’esistenza di giri familiari o d’amicizia tra fratelli, cugini, cognati e vicini. Paolo Mancini, nato a Capannoli nel 1872, vive ad esempio a l’Estaque con la moglie – anche lei di Capannoli –, le due figlie, il figlio, il fratello, la cognata e un amico pensionato dello stesso paese. La rappresentanza superiore alla norma di alcune provenienze – che varia a seconda delle fabbriche – è un fenomeno che a volte si rileva in misura ancora maggiore in altri siti industriali isolati. A Roquefort-la-Bédoule, circa il 30% degli operai italiani viene da paesini dell’Emilia Romagna – Montefiorino, Villa Minozzo, Frassinoro – che distano tra loro solo una ventina di chilometri; nella frazione industriale di Rassuen, vicino Istres, più del 41% degli italiani assunti dalla Compagnie générale des produits chimiques du Midi è nato in villaggi alpini vicino a Barcelonnette – Prazzo, San Michele Prazzo, Stroppo, San Damiano –, di cui il 35% solo nel villaggio di San Michele Prazzo. Forse, negli archivi pubblici o nella memoria collettiva delle famiglie di queste località italiane, esistono degli elementi che potrebbero aiutare a capire meglio la formazione di reti legate a questa o a quell’altra fabbrica. È una pista ancora da esplorare.

La proporzione di italiani in questi paesini o piccole città industriali, spesso al di fuori della norma rispetto alla situazione marsigliese, invita non solo ad analizzare con un nuovo sguardo i luoghi di insediamento della migrazione operaia italiana in Provenza – la sua storia non può più essere studiata unicamente a partire dal porto di Marsiglia –, ma ci spinge anche a interrogarci sulle modalità di accoglienza e di esistenza in queste piccole agglomerazioni – dove e come sono alloggiati gli italiani in assenza di vere città operaie? Quali sono i luoghi in cui consumano, in cui si riuniscono? Somigliano a quelli dei francesi? Sono riservati a loro? – e soprattutto sulla natura delle relazioni intrecciate con le popolazioni autoctone. Ad esempio, com’è la quotidianità delle famiglie francesi alle prese con gli immigrati che, nello spazio di qualche decennio, hanno stravolto la configurazione umana, professionale, culturale e materiale del loro paese? Si ritrovano gli stessi comportamenti xenofobi rilevati a Marsiglia, “capitale della xenofobia”[44]? Questi comportamenti sono sistematicamente accentuati dal soprannumero di italiani? O al contrario sono limitati dalla portata massiccia del fenomeno, la crescita dell’occupazione, l’ambiente in cui si vive, l’influenza delle idee internazionaliste e, in modo più prosaico, dai possibili rischi derivanti da un conflitto con una popolazione immigrata che a volte è numericamente  uguale o superiore a quella delle famiglie francesi? A quanto pare la storia non ha conservato traccia di episodi violenti paragonabili a quelli di Marsiglia o di Aigues-Mortes. Ma si tratta di un campo di ricerca ancora poco esplorato e i silenzi di oggi – forse legati a un problema di fonti – non devono necessariamente continuare. In ogni caso, la conclusione attuale, che potrà essere modificata da lavori futuri, è che la popolazione italiana in questi posti è, in proporzione, più numerosa rispetto a Marsiglia, senza che questo scateni episodi xenofobi gravi. Ponendo la questione su un altro registro, cosa si sa dell’aumento di comportamenti violenti constatati all’interno della comunità italiana a partire dal 1880? In queste piccole città e paesini industriali si sono verificati fenomeni paragonabili a quelli segnalati a Marsiglia?[45] Si sono amplificati? O al contrario sono regolati dal peso della comunità italiana in quella località? Anche in questo caso non ci sono studi specifici, il che lascia molti interrogativi in sospeso. È dunque necessario proseguire i lavori iniziati da qualche anno sulla questione degli operai immigrati nell’ambito dell’industria marsigliese e i risultati stabiliti per Marsiglia devono essere confrontati con la situazione di queste piccole città o paesini industriali, sia che si tratti di luoghi all’interno della regione, sia che si tratti di luoghi dislocati sul bacino del Mediterraneo con, in quest’ultimo caso, una situazione probabilmente ancora più complessa dal punto di vista migratorio.

Se si considerano i sistemi produttivi delocalizzati e legati all’industria marsigliese, quando si tratta di luoghi al di fuori della Provenza – e in modo particolare nell’Africa del nord –, si vede che il posto riservato agli operai italiani è molto diverso. Per ora disponiamo solo di analisi parziali legate ad approcci mirati, ma numerosi esempi dimostrano che in questi casi la posizione sociale degli italiani è meno sfavorevole rispetto al sud della Francia. È il caso, nel 1840-1850, delle miniere metallifere algerine della Mouzaïa e di Kef Oum Theboul, sfruttate rispettivamente dagli industriali marsigliesi Henry e Roux de Fraissinet; o anche del cantiere dei fratelli Dussaud a Port-Saïd, negli anni 1860; è anche il caso della Tunisia, proprio alla fine del XIX secolo, quando i Zafiropulo di Marsiglia sfruttano il giacimento di piombo di Djebel-Hallouf, a nord di Tunisi. I sardi e i siciliani che sono stati assunti lì sono in netta minoranza rispetto alle popolazioni tunisine, algerine, marocchine e tripolitane che stanno in miniera, e lavorano perlopiù in superficie (uffici, officine) o rivestono ruoli un po’ più importanti – sebbene la direzione e gli ingegneri restino francesi –, meno penosi e meglio remunerati di quelli dei minatori. Nel 1913 un italiano è pagato in media – in linea generale, a seconda della mansione – 4,31 franchi al giorno, mentre un operaio africano percepisce solo 1,57 franchi[46]. Gli italiani non sono più l’ultimo gradino della scala sociale, né vivono una situazione così penosa come in Francia. Sono stati sostituiti dalle popolazioni africane recentemente colonizzate. D’altronde è un cambiamento che investe non solo le colonie francesi mediterranee. Ci sono esempi simili, ancora poco studiati, in molte imprese e cantieri in Indocina – si pensi ad esempio alle centinaia di capo-cantieri italiani venuti a partecipare alla costruzione della ferrovia tra Haiphong e lo Yunnan[47] –, nell’Africa nera o in Madagascar. È un’ipotesi ancora da verificare, ma sembra che nel XIX secolo gli impieghi di responsabilità nelle industrie e nei cantieri delle colonie siano aperti agli italiani più rapidamente e più facilmente di quanto succede in Francia.

È chiaro ormai che le ricerche sulle interazioni tra industria marsigliese e immigrazione italiana nel Mediterraneo nel corso del XIX secolo sono tutt’altro che terminate. Al di là degli studi direttamente legati al rinnovamento della storia economica marsigliese degli ultimi vent’anni – sulla partecipazione degli italiani a scioperi e sindacati, sulle motivazioni economiche che determinano la loro assunzione o sui luoghi di maggiore radicamento di questa migrazione legata all’attività industriale –, restano molte piste da esplorare e nuove ipotesi da verificare. Senza tornare in maniera dettagliata su ognuna di esse, riassumiamo quattro semplici direzioni: la revisione dell’interazione fra un certo numero di tematiche studiate finora solo attraverso il prisma dello spazio urbano marsigliese e le nuove rappresentazioni dell’industria marsigliese; lo studio delle pratiche del vivere quotidiano e comunitario di operai francesi e italiani; l’analisi dell’influenza delle idee internazionaliste all’interno del socialismo locale; la posizione degli italiani nelle unità di produzione impiantate da imprenditori marsigliesi al di fuori del sud della Francia, nelle penisole euro-mediterranee, in Africa e nei vari territori coloniali. A nostro avviso, ci sono qui delle ricche fonti di conoscenza che potrebbero arricchire la comprensione delle correnti migratorie italiane nel Mediterraneo e nel mondo.

[1]           Louis Pierrein, Industries traditionnelles du port de Marseille. Le cycle des sucres et des oléagineux (1870-1958), Marseille, Institut historique de Provence, 1975; Pierre Milza, Français et italiens à la fin du XIXe siècle. Aux origines du rapprochement franco-italien de 1900-1902, Rome, Ecole française de Rome, 1981; Renée Lopez ed Émile Temime, Migrance. Histoire des migrations à Marseille, II, L’expansion marseillaise et “l’invasion italienne (1830-1918), Aix-en-Provence, Edisud, 1990; Gli italiani nella Francia del Sud e in Corsica (1860-1980), a cura di Émile Temime e Teodosio Vertone, Milano, Quaderni di affari internazionali/Franco Angeli, 1988; Marcel Roncayolo, Les grammaires d’une ville. Essai sur la genèse des structures urbaines à Marseille, Paris, Éditions de l’EHESS, 1996. Traduzione mia per tutte le citazioni.

 

[2]           Olivier Raveux, Une historiographie renouvelée: dix ans de recherche sur l’industrie marseillaise au XIXe siècle, in La Historia económica en España y Francia (siglos XIX y XX), a cura di Carlos Barciela Lopez, Gérard Chastagnaret e Antonio Escudero Gutierrez, Alicante, Publicaciones de la Universidad de Alicante, 2006, pp. 425-440; Xavier Daumalin, Le patronat marseillais et la seconde industrialisation (1880-1930), Aix-en-Provence, Presses universitaires de Provence, 2014.

 

[3]           P. Milza, Français et Italiens à la fin du XIXe siècle, cit., pp. 833-857.

 

[4]           Ibid., p. 844.

 

[5]           Xavier Daumalin, Usages et résistances des ouvriers immigrés dans l’industrie marseillaise (1880-1914), “Cahiers de la Méditerranée”, 84 (2012), pp. 235-252, e De l’usage mémoriel du massacre d’Aigues-Mortes par les ouvriers Italiens de Marseille, in Les batailles de Marseille. Immigration, violence et conflits XIXe-XXe siècles, a cura di Stéphane Mourlane e Céline Regnard, Aix-en-Provence, Presses universitaires de Provence, 2013, p. 125-136.

 

[6]           Archives départementales des Bouches-du-Rhône, Marseille, (d’ora in poi ADBdR), 1 M 929, rapporto del commissario generale del 13 maggio 1881.

 

[7]           ADBdR, 1 M 879, nota del 28 luglio 1881.

 

[8]           ADBdR, 1 M 879, nota del 28 luglio 1881.

 

[9]           Reclamano che sia stabilita una pausa tra mezzogiorno e le due del pomeriggio e chiedono l’aumento di salario per le notti e la domenica e l’abolizione del lavoro a forfait (ADBdR, 1 M 929, nota del 15 aprile 1883).

 

[10]          ADBdR, 1 M 930, rapporto di polizia del 3 giugno 1883.

 

[11]          ADBdR, 1 M 930, rapporto di polizia del 19 giugno 1883.

 

[12]          ADBdR, 1 M 930, lettera di C.-A. Verminck al prefetto, 2 luglio 1883.

 

[13]          Questo congresso è importante per più d’un motivo: da un lato, perché si traduce nell’adozione di tesi collettiviste e internazionaliste marxiste; dall’altro, perché provoca una ripresa dell’attività militante con un proliferare di conferenze, il lancio di nuovi giornali e la creazione di circoli politici molto dinamici che nascono intorno a personalità come Jean Lombard, Pierre Roux, Antide Boyer e Clovis Hugues.

 

[14]          ADBdR, 1 M 879, nota del 28 luglio 1881.

 

[15]          Antide Boyer, nato a Aubagne nel 1850, inizia la carriera come operaio vasaio – il mestiere del padre – prima di intraprendere gli studi al Petit Séminaire di Marsiglia. Viene eletto deputato socialista a Marsiglia nel 1885, 1889, 1893, 1898, 1902 e 1906. In seguito è senatore dal 1907 al 1912.

 

[16]          ADBdR, 1 M 879, rapporto di polizia del 14 luglio 1883.

 

[17]          ADBdR, 1 M 879, rapporto di polizia del 14 luglio 1883. Ernest Farrenc è redattore capo del giornale socialista “La voix du peuple”.

 

[18]          Perdono 30 centesimi su un salario di 1,75 franchi per 12 ore di lavoro (ADBdR, 1 M 933).

 

[19]          ADBdR, 1 M 933, rapporto di polizia del 20 aprile 1894.

 

[20]          Il differenziale fisico, che permette specificamente agli operai italiani impiegati nelle saline di guadagnare di più rispetto agli operai francesi, nonostante abbiano un salario inferiore, non funziona allo stesso modo nell’industria (Gérard Noiriel, Le massacre des Italiens. Aigues-Mortes, 17 août 1893, Paris, Fayard, 2010, p. 112).

 

[21]          ADBdR, 1 M 933, rapporto di polizia del 24 aprile 1894.

 

[22]          ADBdR, 1 M 933, rapporto di polizia del 31 marzo 1894.

 

[23]          Anche Antide Boyer è membro del Partito operaio di Jules Guesde. La situazione sembra molto diversa nel nord della Francia, dove il “socialismo nazionale” di Maurice Barrès provoca più rivalità. Gérard Noiriel ricorda il caso del minatore, poi deputato, Emile Basly che, nel 1893, milita attivamente a favore di una legge che protegge il lavoro nazionale (Le massacre des Italiens, cit., p. 98).

 

[24]          Nel 1900, il comune di Flaissières gioca un ruolo di primo piano nel sostegno allo sciopero delle fabbriche d’olio. I militanti socialisti sono di nuovo molto presenti durante gli scioperi del 1907, 1908 e 1910, sia in quelli delle fabbriche d’olio sia in quelli delle raffinerie di zucchero (ADBdR, 1 M 955).

 

[25]          ADBdR, 1 M 882, rapporto di polizia del 16 febbraio 1897. Il patronato marsigliese è perlopiù ostile al licenziamento degli operai italiani. Segue una logica liberale in cui la libertà degli scambi è importante tanto quanto quella delle mobilità migratorie legate al lavoro: “Guardiamoci bene dalle violenze che andrebbero contro l’interesse di una grande città aperta in cui il tasso di natalità è insufficiente, delle industrie locali che un grande esodo potrebbe far vacillare, e della stessa popolazione operosa. Ci sono ripercussioni economiche che i nostri operai possono comprensibilmente non notare: se l’immigrazione fosse soppressa, un aumento artificiale del salario qui e là sarebbe compensato da una diminuzione della produzione; al rincaro dei tassi giornalieri corrisponderebbe un rincaro di quei determinati articoli che i piccoli consumatori comprerebbero a un prezzo più elevato” (Eugène Rostand, Questions d’économie sociale dans une grande ville populaire, Paris, Guillaumin, 1889, p. 442).

 

[26]          Xavier Daumalin, Olivier Lambert e Philippe Mioche, Une aventure industrielle en Camargue. Histoire de l’établissement Solvay de Salin-de-Giraud (1895 à nos jours), Aix-en-Provence, REF.2C éditions, 2012, p. 22.

 

[27]          M. Roncayolo, Les grammaires d’une ville, cit., p. 156.

 

[28]          R. Lopez ed É. Temime, Migrance, cit., p. 11.

 

[29]          Ibid., p. 186.

 

[30]          ADBdR, 4 M 2351, Inchiesta industriale del 1912-1913.

 

[31]          Lettera dell’11 marzo 1865, citata in Fabien Bartolotti, De Marseille au canal de Suez. L’ascension d’une entreprise de travaux publics maritimes: Dussaud frères (1845-1869), tesi di laurea specialistica, Università di Aix-Marseille, 2013, p. 107.

 

[32]          La traite des petits italiens à Marseille, “Le Petit Provençal”, 21 febbraio 1902; vedi anche Mariella Colin, L’émigration des enfants italiens en France aux XIXe et XXe siècles entre la littérature et l’histoire, in Gli italiani all’estero, a cura di Jean-Charles Vegliante, Paris, Publications de la Sorbonne nouvelle, 1990, pp. 17-33.

 

[33]          François Bernard, Les conditions de travail et les grèves récentes à Marseille, “Journal des économistes”, gennaio-marzo 1884, t. 25, p. 413.

 

[34]          Archives des Houillères des Bassins du Centre et du Midi (HBCM), verbale del consiglio d’amministrazione della Société nouvelle de charbonnages des Bouches-du-Rhône, 23 agosto 1911.

 

[35]          Archives Zarifi, verbale del consiglio di amministrazione della Société anonyme des tuileries Romain Boyer, 27 settembre 1911.

 

[36]          Xavier Daumalin, Jean Domenichino, Philippe Mioche e Olivier Raveux, Gueules noires de Provence. Histoire du bassin minier des Bouches-du-Rhône (1744-2003), Marseille, Editions Jeanne Laffitte, 2005, pp. 80-172.

 

[37]          Vincent Grand, La céramique de Saint-Henri, les usines Arnaud Pierre, Aix, Makaire, 1878, p. 61.

 

[38]          Ibid., p. 64.

 

[39]          François Caron, Changement technique et culture technique in Histoire de la France industrielle, a cura di Maurice Lévy-Leboyer, Paris, Larousse, 1995, p. 234.

 

[40]          M. Roncayolo, Les grammaires d’une ville, cit., p. 141.

 

[41]          L. Pierrein, Industries traditionnelles du port de Marseille, cit., pp. 36-39; Jean Georgelin, L’économie de Marseille-Provence au travers de l’oeuvre de Louis Pierrein, Marseille, CCIM, 1988.

 

[42]          Xavier Daumalin, Capitalisme familial et seconde industrialisation: Marseille (1880-1930), Aix-en-Provence, Presses universitaires de Provence, 2014.

 

[43]          R. Lopez ed É. Temime, Migrance, cit., p. 72.

 

[44]          Pierre Milza, Voyages en Ritalie, Paris, Payot, 1993, pp. 102-103; Laurent Dornel, La France hostile. Socio-histoire de la xénophobie (1870-1914), Paris, Hachette, 2004.

 

[45]          Céline Regnard-Drouot, Marseille la violente. Criminalité, industrialisation et société (1851-1914), Rennes, PUR, 2009, p. 181 e successive.

 

[46]          Archives Zafiropoulo, Cronologia della miniera di Djebel Hallouf, 1943.

 

[47]          Rang-Ri Park-Barjot, Le patronat français des travaux publics et les réseaux ferroviaires dans l’empire français : l’exemple du chemin de fer du Yunnan (1898-1913), in L’Esprit économique impérial (1830-1970). Groupes de pression & réseaux du patronat colonial en France & dans l’empire, a cura di Hubert Bonin, Catherine Hodeir e Jean-François Klein, Paris, SFHOM, 2008, p. 664.