Il rimpatrio degli italiani all’estero durante il fascismo: elementi e riflessioni a partire da un caso di studio italo-marsigliese

La storia del Trullo e del Tufello, borgate romane del 1940, è strettamente legata a quella del piano per il rimpatrio degli italiani dall’estero lanciato dal governo fascista nel novembre del 1938 e rivolto prioritariamente agli emigrati in Francia. Le due borgate furono infatti costruite nel giro di poco più di un anno dall’Istituto fascista autonomo case popolari come soluzione abitativa per coloro che, nel quadro dei rimpatri volontari organizzati, sceglievano la capitale come destinazione. Le borgate per rimpatriati costituiscono quindi un punto di osservazione privilegiato per studiare in profondità i risvolti della politica fascista di rimpatrio a partire dalle esperienze e dai percorsi di coloro che la hanno vissuta. Sulla base di una ricerca che è ancora nella sua prima fase[1], vorrei proporre con questo articolo un particolare caso di studi che, attraverso una variazione al contempo di scala e di prospettiva, può contribuire alla riflessione attorno ad alcune tematiche chiave nel campo degli studi migratori. Il “gioco di scala” rappresenta in primo luogo una chiave per l’integrazione dialettica di alcuni concetti centrali nel campo degli studi migratori : scelta e necessità, push e pull, stato e individuo[2]. Il piano “macro”, politico e normativo, e il particolare contesto locale marsigliese, fanno da premessa e da sfondo al piano soggettivo, che emerge tramite i ricordi di Emilio Venditti, rimpatriato a Roma dalla città provenzale nel 1939.

 

 

  1. La difficile posizione degli italiani in Francia

 

Né una zolla di terra italiana è rimasta incoltivata, né un italiano è rimasto abbandonato nel mondo. Nella reciproca fedeltà ristabilita degli uomini e della terra, come nessuna fatica andrà più a perdersi in contrade ignote, non resterà vana la speranza dei fratelli lontani di ritornare in grembo alla Patria più grande[3].

 

Così Giuseppe Bastianini concludeva, nel maggio del 1939, un volume dedicato a Gli italiani all’estero[4]. Il riferimento finale è diretto al piano per il rimpatrio degli italiani dall’estero che era stato lanciato pochi mesi prima dal regime e che veniva presentato come l’ultimo e naturale sbocco della sua politica migratoria.

L’interesse per la questione degli italiani all’estero ha rappresentato una costante durante il ventennio fascista. L’atteggiamento e le iniziative rivolti alle comunità emigrate variarono nel tempo in stretta relazione con l’evolvere della politica interna ed estera e con il mutare della situazione internazionale[5]; le iniziative prese dalle rappresentanze italiane rispetto alle diverse collettività all’estero erano inoltre modulate in base agli interessi politici ed economici italiani e al margine d’azione offerto da ciascun paese di arrivo[6].

Il regime si prodigò in difesa dell’italianità e nell’affermazione del prestigio dell’Italia in opposizione agli stereotipi spesso diffusi sui suoi emigrati[7]; attraverso l’azione dei fasci all’estero, dei consolati, di associazioni e organizzazioni assistenziali, si volevano rafforzare i legami fra la madre patria e le comunità all’estero, anche in vista di fare di loro uno strumento di espansione politica e culturale[8]. Dovere dello stato fascista era dunque quello di interessarsi della sorte di tutti i suoi figli, anche di quelli più lontani, rimediando a decenni di disinteresse dei governi italiani e lottando in primo luogo contro le “snazionalizzazioni”[9].

Nella sua retorica, il regime tese a far coincidere italianità e fascismo; così, per Bastianini, gli antifascisti erano da considerare automaticamente antitaliani, tanto che, per loro, la naturalizzazione veniva presentata come la semplice formalizzazione di una “snazionalizzazione” sostanzialmente già avvenuta[10].

Il caso francese occupava in questo contesto una posizione centrale. Nel corso degli anni Venti, e in particolare con la chiusura dello sbocco statunitense nel 1924, infatti, la Francia divenne il principale paese di destinazione degli italiani[11]. Da una parte il paese transalpino rappresentava una buona base per quanti fuggivano dalla repressione fascista e contavano di rilanciare l’azione politica in patria; dall’altra, la Francia in piena ricostruzione offriva ancora negli anni Venti grandi possibilità d’impiego, che spinsero molti a percorrere le strade spesso già ben battute dell’emigrazione attraverso le Alpi occidentali[12].

Negli anni Trenta, nonostante il progressivo rallentare del movimento migratorio, la consistenza della comunità italiana in Francia si aggirava attorno al milione di persone[13].

Quella degli emigrati rappresentò una questione sempre più centrale nei rapporti fra Roma e Parigi, con l’avvicinarsi del rischio di un conflitto in cui i due paesi sarebbero venuti a trovarsi in campi contrapposti[14]. Alla massa degli emigrati in Francia erano rivolti, nel 1924, i “dieci comandamenti degli italiani all’estero”, pubblicati sull’organo dei fasci italiani in Francia e che, ricalcando i comandamenti biblici (dal primo “La patria è una sola. La tua patria è l’Italia” al decimo “Non desiderare la donna straniera. Sposa di preferenza un’Italiana”), raccomandavano di mantenere sempre vivo il legame con la madrepatria e promuovevano allo stesso tempo un comportamento improntato al rispetto delle leggi e alla temperanza che potesse smentire gli stereotipi diffusi sugli emigrati italiani[15].

La befana fascista, le colonie estive in Italia, i concorsi a premi per gli studenti delle scuole italiane o il rimpatrio gratuito delle gestanti furono solo alcune delle iniziative messe in campo con l’obiettivo di arginare le “snazionalizzazioni” in continua crescita.

Dall’altro lato, le conseguenze della crisi economica agli inizi degli anni Trenta, unite agli effetti della legge francese del 1927 sulla nazionalità (che riduceva da dieci a tre anni il tempo di residenza in Francia necessario per richiedere la naturalizzazione), di cui gli italiani furono di gran lunga i principali beneficiari, diedero un forte impulso alle domande di naturalizzazione[16]. In Francia, il peso sempre crescente del tema della sicurezza nazionale che segnò la fine degli anni Trenta produsse degli effetti contraddittori sulla politica migratoria. Per il governo francese, che si preoccupava di mantenere la pace e al tempo stesso di prepararsi alla guerra[17] gli immigrati rappresentavano a un tempo spie potenziali e una riserva di soldati in vista del conflitto ormai imminente.

I decreti Daladier del maggio 1938 istituirono una sorta di gerarchia fra gli immigrati, inasprirono il sistema di controllo e le pene per l’immigrazione illegale o per il mancato rispetto dei provvedimenti di espulsione. Dall’altro lato però le autorità locali venivano invitate a non procedere a espulsioni di massa[18] e le naturalizzazioni concesse aumentarono, proprio in quegli anni, a un ritmo fino ad allora inedito[19]. Sul finire degli anni Trenta si fece sempre più forte per la Francia, con l’avvicinarsi dell’eventualità di un conflitto europeo e a fronte della propria debolezza demografica rispetto alle vicine Italia e Germania, la necessità di aumentare gli effettivi dell’esercito pescando fra la grande massa di immigrati. Mary D. Lewis sottolinea a questo riguardo quanto abbia pesato tale necessità sull’annullamento di alcuni decreti di espulsione e soprattutto nella naturalizzazione di certe categorie di immigrati: uomini giovani, di buona salute, residenti in Francia da almeno cinque anni, soprattutto se di origine belga, svizzera, italiana o spagnola[20].

In molti comuni gli italiani vennero spinti a sottoscrivere dichiarazioni di lealtà verso la Francia o impegni per l’arruolamento volontario in caso di guerra[21].

Nel clima di ostilità crescente fra i due paesi gli italiani, quando non scelsero di assecondare le spinte assimilatrici francesi, preferirono spesso tenersi a distanza dalle istituzioni più apertamente fasciste.

 

  1. Il rimpatrio degli italiani dall’estero e il villaggio Costanzo Ciano

Il lancio nel novembre del 1938 del piano per il rimpatrio degli italiani dall’estero da parte del governo fascista faceva fronte dunque a una situazione in cui si rivelava sempre più difficile mantenere vivo il legame con la comunità italiana, che anzi veniva lentamente avviata a un processo di “militarizzazione” in Francia[22].

Seppure non esclusivamente rivolto agli italiani oltralpe, infatti, essi erano senza dubbio i primi destinatari del piano[23].

Per comprendere il contesto in cui si inserì la decisione di lanciare il rimpatrio organizzato degli italiani, oltre all’atteggiamento della Francia nei confronti degli emigrati, bisogna avere presente la politica sempre più marcatamente antifrancese che portava avanti l’Italia e in cui il discorso di Ciano del 30 novembre 1938 sulle “naturali aspirazioni del popolo italiano” (cui fece eco  in aula il coro “Tunisi, Corsica, Nizza, Savoia!”), segnò uno dei passaggi più critici.

Con il decreto legge del 5 gennaio 1939 venne istituita presso il ministero degli Affari Esteri una Commissione permanente per il rimpatrio degli italiani all’estero (Cori), con il compito di “favorire, coordinare e facilitare, anche ai fini del collocamento, il ritorno in Patria dei connazionali che ne manifestino l’intenzione” [24].

Tale commissione avrebbe preso in carico il viaggio di ritorno e “assicurato il collocamento nella località richiesta e secondo le attitudini dichiarate” dei rimpatriati[25].

Alla voce “Criteri per la selezione dei connazionali da rimpatriare” delle “Norme sul rimpatrio degli italiani all’estero” veniva dato incarico ai consolati di vagliare con attenzione la posizione di ogni richiedente “sotto il punto di vista professionale, politico e famigliare” [26].

L’indicazione era quella di facilitare il rimpatrio degli individui con particolari attitudini professionali o che eccellessero per laboriosità ed onestà di costumi e delle famiglie numerose, in primo luogo quelle “fornite di prole di giovine età”.

Sul piano politico, era ammesso il rimpatrio di tutti coloro che si fossero fino ad allora comportati “da bravi italiani” pur se non iscritti al partito all’estero.

Il ministero dell’Interno fu molto fermo nell’esigere un attento esame di ogni singola situazione, opponendosi a rimpatri di massa e frettolosi (anche quando, dopo l’armistizio, si dovette affrontare la questione del rimpatrio degli internati nei campi francesi) nel timore che elementi politicamente sospetti potessero fare rientro in Italia sfruttando i rimpatri organizzati[27].

L’idea era dunque quella di procedere gradualmente, per non turbare “l’organismo economico della nazione”. Mentre si stabiliva, in linea generale, di procedere ai rimpatri “a occupazione assicurata”, il ministero degli Esteri precisava che “si desidererebbe almeno in un primo momento e per quanto riguarda la Francia di assorbire simultaneamente un numero relativamente elevato di lavoratori”[28]. Lo scambio intercorso, già nell’estate del 1939, fra la Confederazione fascista degli industriali (un rappresentante della quale, significativamente, partecipava alle riunioni della Cori) e la Commissione presso il ministero degli Esteri è a questo proposito particolarmente significativo. Alla Confederazione, che in base ai problemi sorti in diverse province per il collocamento dei rimpatriati chiedeva di tornare, come stabilito in origine, al criterio del collocamento assicurato come condizione per procedere ai rimpatri e per stabilire le provincie di destinazione[29], la Commissione rispondeva:

 

L’adempimento dell’alto impegno politico preso con l’iniziativa dei rimpatri degli italiani dall’estero potrà essere mantenuto da questa Commissione solo se non mancherà la più vasta comprensione di tutte le categorie produttive e se le ditte di maggiore importanza daranno corso alle assunzioni facendo prevalere, per quanto possibile, la considerazione d’ordine politico su quelle di natura economica[30].

 

La necessità politica alla base del piano per il rimpatrio veniva dunque fin da subito a confliggere con la sua sostenibilità economica e prevaleva, almeno nella prima fase.

Le stime preliminari prevedevano un rimpatrio di circa 50 000 italiani per il 1939: si trattava per lo più di operai generici non qualificati, molti edili, che non avrebbero trovato spazio, per la gran parte, nel mercato del lavoro della penisola[31].

Una cifra esatta e complessiva che misuri il successo del piano di rimpatri non è al momento disponibile. Secondo i dati pubblicati dalla Cori, a 58 015 rimpatri da Francia, Monaco, colonie e mandati (su un totale di 67 209) fino a tutto il mese di ottobre del 1939[32]. L’andamento successivo del piano seguì in parte gli sviluppi del conflitto europeo. Nel periodo subito successivo all’armistizio l’attenzione delle autorità italiane si concentrò sulle sorti dei civili italiani internati nei campi francesi[33] e sul problema dell’organizzazione di quanti varcavano la frontiera per sfuggire alla dura situazione economica lasciata dalla guerra; infatti, “dopo l’armistizio gli italiani in Francia non si trovarono assolutamente nella posizione dei «vincitori»; al contrario, la Francia vinta li assimilò alla sua condizione. La loro comunità era troppo ramificata e radicata nella società francese per godere di uno statuto privilegiato e condivise interamente le difficoltà, le angosce, i problemi di un paese uscito vinto e diviso dalla guerra, nel quale le possibilità di lavoro sembravano destinate a diminuire a tempo indeterminato”[34].

La sistemazione abitativa dei rimpatriati una volta giunti nei loro luoghi di destinazione in Italia fu, insieme alla questione del collocamento, l’altro grande problema cui dovevano far fronte le autorità italiane. Nel caso di Roma, dove nel luglio del 1939 erano rimpatriate più di 6000 persone, il 98% proveniente da Francia, Corsica e Tunisia, il ministero degli Esteri provvide inizialmente a sistemare le famiglie in stanze, appartamenti o pensioni affittate appositamente in diverse zone della città[35]. Nel frattempo fu avviata la costruzione, affidata all’Ifacp (Istituto fascista autonomo case popolari), di due borgate per rimpatriati alle estremità opposte della città, il villaggio Costanzo Ciano (oggi il Trullo) e il Tufello.

Il nucleo originario del villaggio Costanzo Ciano venne costruito nel giro di un anno in una zona di campi aperti ad antica tradizione viticola, mal collegata al centro città, situata fra la via Portuense e via della Magliana, non lontano dalla fabbrica di filo spinato Maccaferri e dall’area dell’E-42, sulla sponda opposta del Tevere.

L’inaugurazione delle prime case avvenne il 24 maggio del 1940, anche se le celebrazioni vere e proprie ebbero luogo il 27 ottobre, quando Mussolini fece visita alla borgata con alcuni gerarchi, tutti immortalati fra la folla inquadrata dei rimpatriati[36].

Sul principio generale di procedere a rimpatri graduali e soprattutto a impiego assicurato, come già visto, si impose la priorità di consentire il rientro massiccio degli emigrati dalla Francia (e dalle colonie e mandati francesi), una volta verificata la loro “idoneità” da parte dei consolati, e ciò nonostante le attitudini lavorative della gran parte di loro non trovassero risposta all’interno del mercato del lavoro italiano.

La promessa del collocamento si tradusse nella pratica ben presto in un’opera di assistenzialismo: il sussidio di cui beneficiavano i rimpatriati, previsto inizialmente per i primi tre mesi, venne infatti in un secondo momento esteso senza limiti di tempo[37]. Al villaggio Costanzo Ciano i più fortunati trovarono impiego presso il distaccamento del Genio Militare poco distante o nei lavori per l’E-42.

Il tentativo dell’Ifacp, nel luglio del 1941, di procedere allo sfratto per morosità di un centinaio di famiglie della borgata lascia intuire, però, che il problema della disoccupazione restava all’epoca ben diffuso all’interno di questa comunità di rimpatriati[38].

Fatti i conti con la realtà di un inserimento difficile, al di là delle promesse del regime, non stupisce che a guerra finita molti scelsero di fare ritorno nei paesi di emigrazione, nei quali avevano lasciato beni e contatti al momento della partenza frettolosa. Altre famiglie, invece, partite dalla Francia per non subire le conseguenze di un conflitto che pensavano breve, vi lasciarono tutti i loro averi in vista di un ritorno che immaginavano prossimo e che invece non avvenne mai[39].

 

 

  1. Avvicinando lo sguardo

A partire dall’analisi del piano politico, propagandistico e normativo, al livello nazionale e internazionale si rivela utile, per un’analisi in profondità, avvicinare lo sguardo al piano delle pratiche, individuali e collettive, all’interno di specifici contesti locali. In particolare, la prospettiva nazionale non sembra la più utile per lo studio dell’emigrazione italiana in Francia. Per il periodo fra le due guerre, ancora più che per i decenni precedenti, si rivela impossibile trattare la “colonia” italiana in Francia come un tutto omogeneo. Come sostiene Pierre Milza:

 

L’image que se font d’eux [degli italiani] les autochtones et les rapports que ceux-si entretiennent avec les migrants originaires de la péninsule varient beaucoup, selon qu’ils se developpent au nord et au sud, dans des zones rurales et en milieu urbain, et qu’ils affectent l’“ancienne” ou “la nouvelle” immigration[40].

 

Elementi determinanti per la definizione e l’analisi dei percorsi e delle strategie dei migranti, quali la questione dell’accesso alle informazioni, o la dimensione delle rappresentazioni e autorappresentazioni, variano infatti sensibilmente in base alla concentrazione, molto disomogenea, della comunità italiana, e alla sua caratterizzazione socio-economica nei diversi contesti locali e produttivi. Per analizzare l’efficacia delle politiche migratorie e l’utilizzo che ne viene fatto da parte dei loro “destinatari”, appare indispensabile avvicinarsi al piano dei percorsi individuali così da mettere in luce, citando Caroline Douki e Paul André Rosental, “les tensions permanentes entre le national, l’international et le transnational, dans la constitution des normes, comme dans l’usage qu’en font les migrants eux memes”[41].

Con l’avvicinarsi della guerra, come abbiamo rapidamente visto, la “doppia lealtà”[42] divenne, almeno temporaneamente, difficilmente praticabile per gli italiani in Francia, a cui si imponeva una scelta. La situazione internazionale e la pressione esercitata dai due governi contribuirono fortemente a variare la gamma del possibile all’interno della quale presero forma le strategie dei migranti.

Per studiare il movimento dei rimpatri e provare a comprendere la dimensione della scelta non si può quindi prescindere da un’analisi dei diversi contesti locali, in relazione alle loro caratteristiche socio-economiche, al peso della pressione istituzionale, alle specifiche tradizioni migratorie. In questo senso, il caso marsigliese, nella sua straordinarietà e complessità, appare un punto di osservazione interessante.

La componente italiana aveva un peso eccezionale all’interno della popolazione marsigliese già dagli ultimi decenni del XIX secolo. Alla vigilia della prima guerra mondiale gli italiani a Marsiglia oscillavano intorno alle 100 000 unità, circa un quarto della popolazione totale e ben i 4/5 degli stranieri in città[43]. La guerra intervenne poi a modificare alcuni assetti fondamentali nella demografia cittadina. Se la consistenza della comunità italiana crebbe moderatamente nel primo dopoguerra, la sua proporzione all’interno della popolazione straniera (che crebbe in termini sia relativi che assoluti) calò invece sensibilmente, dall’85% del 1914, al 63% nel 1934[44]. Il paesaggio demografico della popolazione marsigliese variò dunque nel corso della guerra, quando gli imprenditori cittadini furono spinti a fare appello ad una manodopera diversa[45]: fu in questa occasione che per la prima volta si fece largo ricorso ai lavoratori coloniali.

L’emigrazione riprese rapidamente i sentieri tradizionali dopo la fine del conflitto e ancora nel periodo fra le due guerre alcuni settori dell’industria marsigliese erano retti in buona misura da una manodopera non specializzata di origine italiana, già ben integrata sul piano sindacale[46].

I lavoratori italiani a Marsiglia, se erano particolarmente concentrati in alcuni settori dell’industria e fra i portuali, come lavoratori a giornata, erano però presenti in tutti settori dell’economia cittadina. In questo contesto, i nuovi arrivati erano certi di trovare in città una fitta rete di connazionali ad agevolare il loro insediamento[47]. I sentieri già battuti dell’emigrazione verso la città provenzale, la sua vicinanza alla frontiera, e la rete diffusa e radicata di connazionali che vi viveva, facevano inoltre di Marsiglia una  meta o anche solo una tappa importante dell’esilio politico durante il ventennio fascista.

Il primo fascio di Marsiglia nacque precocemente, nel 1923, ma fu dal 1925, con la costituzione di un nuovo fascio posto sotto il controllo del consolato, che la situazione marsigliese  venne adeguata alla linea dettata da Roma. Dal 1927, poi, si assistette alla vera e propria strutturazione del fascio, che venne affidata al nuovo console Barduzzi. La costituzione di una Casa d’Italia, nel 1928, permise in seguito di raccogliere in un solo luogo  tutte quelle associazioni che gravitavano intorno al consolato, il dopolavoro, le scuole di italiano, la società di beneficenza, e che, soprattutto con la crisi degli anni Trenta, furono per il governo di Roma il ponte principale con la comunità italiana di Marsiglia[48].

In quanto primo porto coloniale francese e luogo di accoglienza e di passaggio di migranti dalle origini più varie, Marsiglia era particolarmente esposta alle ripercussioni degli eventi internazionali e la straordinaria consistenza della sua comunità italiana non mancava di destare l’attenzione dei governi dai due versanti delle Alpi.

Le domande di naturalizzazione, a Marsiglia come nelle altre città dell’Hexagone, crebbero sensibilmente durante la crisi economica che nella città porto si fece sentire nei primi anni Trenta. Proprio mentre, a livello nazionale, si stabiliva un limite all’impiego degli stranieri assumibili nelle imprese come misura di protezione della manodopera francese, a Marsiglia aumentava la percentuale degli operai fra i naturalizzati[49].

Mary D. Lewis individua nel sistema clientelare marsigliese, che portava a vedere negli immigrati dei potenziali elettori, la spiegazione dell’incidenza elevata delle raccomandazioni dei notabili cittadini nei dossier di naturalizzazione; mentre il privilegio accordato alle famiglie numerose, anche se prive di mezzi economici, nella concessione delle naturalizzazioni, sarebbe da leggere in chiave populationniste[50].

Nel dipartimento delle Bouches-du-Rhone, fra coloro cui venne concessa la naturalizzazione negli anni Trenta, gli italiani erano il 74%, mentre rappresentavano poco più della metà degli stranieri presenti[51]. Questa sovrarappresentazione è in parte spiegabile con il carattere più precoce dell’immigrazione italiana e sta a confermare che il criterio economico e dell’impiego non era fra le prime preoccupazioni delle autorità marsigliesi.

Due avvenimenti segnarono in maniera particolare gli anni Trenta a livello locale e incisero sulla vita delle comunità immigrate. Il primo, il 9 ottobre del 1934, fu l’assassinio, sulla Canebière, del re Alessandro di Jugoslavia e del ministro degli Esteri francese Louis Barthou, da parte di un cittadino macedone. L’evento contribuì a riattivare la retorica degli agitatori stranieri ospitati nella città provenzale e gettò discredito sulla gestione dell’amministrazione e della sicurezza a Marsiglia. Quattro anni dopo, l’incendio delle Nouvelles Galeries, un grande magazzino anch’esso sulla Canebière, provocò la morte di 73 persone e fornì l’occasione per una sostituzione del prefetto e per il commissariamento della città. Come per liberarsi della reputazione lassista che la circondava già dall’assassinio del 1934, sul finire del decennio, appoggiandosi anche ai decreti Daladier, la polizia marsigliese strinse le maglie della repressione nei confronti dei migranti: retate nei quartieri del centro città, aumento esponenziale dei procedimenti a carico dei migranti e dei provvedimenti di espulsione ne furono le conseguenze più lampanti[52]. Con lo scoppio della guerra, accanto alla stretta repressiva e a partire dalla stessa preoccupazione per la sicurezza, si procedette anche a Marsiglia a una revisione delle pratiche aperte per le naturalizzazioni, accelerandone l’approvazione per quanti avessero firmato il modulo prestampato, creato per l’occasione, per l’arruolamento volontario per la durata del conflitto[53].

Per quanto riguarda la politica italiana di rimpatri, la cifra fornita dalla CORI sulla città di Marsiglia per il 1939 è di 3 339[54] su un totale di italiani che, come abbiamo visto, superava le 100 000 unità.

 

  1. Emilio Venditti: da Marsiglia al villaggio Costanzo Ciano

Di questi 3339 faceva parte la famiglia di Emilio Venditti, che ho potuto intervistare nel suo appartamento della borgata romana del Trullo[55]. Nell’aprile del 1939, quando con un treno speciale da Marsiglia varcò la frontiera e con la sua famiglia giunse a Roma, aveva solo otto anni. Oggi abita ancora nel l’appartamento che venne loro assegnato nel 1940.

 

Se può essere utile posso raccontare un po’ la mia storia personale, che spiega un po’ anche le ragioni per le quali è stata costruita questa borgata, tutto sommato…

 

Inizia così a raccontarmi di suo padre che, giovane sarto, era partito per cercare lavoro a Marsiglia nel 1920:

 

Aveva qualche punto di riferimento a Marsiglia, per cui gli fu facile approdare in questa città dove il lavoro non mancava. […]

Come giovane sarto trovò facilmente lavoro, poi la passione, il fatto che lì si guadagnava benino, ecco che chiamò la mamma che era vedova e lì si sistemò e nel suo campo fece carriera, diciamo.

 

Emilio Venditti, raccontando gli anni marsigliesi della sua famiglia torna a più riprese sul successo, sulla realizzazione e l’abilità del padre in campo lavorativo.

 

Lavorando seriamente, con passione, con entusiasmo, imparò la lingua. Lavorò tra l’altro nei grandi negozi di Marsiglia, dove negli ultimi tempi si serviva Fernandel non so…conosce sicuramente!

[…] Doveva lavorare benissimo, ma guadagnavano anche molto bene. Ecco. Poi tornò in Italia, sposò mia madre e fino al 1938-39 tutto filò a gonfie vele.

 

L’accento posto sugli elementi positivi introduce, per contrasto, il cambiamento che intervenne con la fine degli anni Trenta e che portò in primo piano la questione dell’appartenenza nazionale:

 

Senonché essendo italiano, sempre legato all’Italia, perché ogni anno veniva in Italia in vacanza, sa insomma a quell’epoca venire in vacanza significava essere quasi ricchi. Senonché venne a trovarsi in difficoltà. Mentre i suoi cugini, parenti si erano naturalizzati francesi, lui era rimasto sempre cittadino italiano e frequentava la casa d’Italia a Marsiglia, dove si riunivano gli italiani.

 

Nell’ultimo periodo passato a Marsiglia vivevano in un appartamento in centro, al primo piano. Mi racconta che i genitori lavoravano da casa, e dai tavolini del bar al piano terra sentivano, attraverso la finestra aperta, l’intensificarsi dei discorsi contro l’Italia e gli italiani. Furono la paura generata da un ambiente che sentivano sempre più ostile nei loro confronti e i consigli ricevuti alla casa d’Italia a spingerli a chiedere il rimpatrio.

Quello della scelta e della partenza li racconta come momenti tragici, di cui porta un ricordo vivido in mente:

 

Così si decise… decisero di tornare in Italia. Fu una tragedia perché… abbandonare un bel posto, una bella casa, abitavamo vicino al Vieux-Port e dalla finestra si vedeva il mare insomma…

 

Più avanti, quando gli chiedo cosa ricordi del viaggio di ritorno, rispondendomi si sofferma ancora su questo momento:

 

Trasbordammo… tutta la polizia, i soldati. Sa, c’era l’attrito fra l’Italia e la Francia, ancora non era scoppiata la guerra ma l’aria era quella. Eh, ecco qui. Sì, avvenne in treno…

Basti dire che, ricordo, mio padre era inebetito proprio prima di partire. Dover prendere una decisione di quel genere, con una famigliola sulle spalle : c’era anche mia nonna, c’era una zia, una sorella di mia madre, insomma eravamo 6 persone. Cambiare da un giorno all’altro completamente la vita quando era incanalata su dei buoni binari…

 

Quindi il viaggio, e poi l’arrivo a Roma, dove non avevano mai vissuto:

 

Per non tornare direttamente al paese, dove sarebbe stato ancora peggio sicuramente, mio padre disse “beh voglio andare a Roma”, perché c’era la possibilità di andare anche in altre città, a Milano, Torino, Genova. Dice “beh sto più vicino anche alla provincia di Frosinone. Eventualmente, se a Roma non va bene, ritorno al punto d’origine”

 

Una volta giunti a Roma per il primo anno vennero sistemati dal ministero degli Esteri in alcuni appartamenti affittati nel centro.

Fecero ingresso per la prima volta nell’appartamento del villaggio Costanzo Ciano il 10 giugno 1940:

 

Ricordo come oggi. Appena entrati in quell’appartamento ci dissero “bisogna andare subito alla Magliana!” …e chi conosceva la Magliana! Dissero “bisogna andare, una cosa importante verrà comunicata”. Ci incamminammo, pure io ragazzino, mi ricordo, su via del Trullo, qui… Che cosa c’era d’importante? Che da un altoparlante si sentiva il discorso di Mussolini che dichiarava la guerra alla Francia!

 

Emilio Venditti prosegue poi con il racconto. I primi anni di vita nella borgata, dove “si parlava ancora francese e arabo”, i lotti non ancora ultimati, la cappella improvvisata in uno  scantinato in cui furono celebrati i funerali della nonna e il padre che, in tempo di guerra, pian piano ricominciò a lavorare:

 

passò dal lavoro raffinato della haute couture di Marsiglia a confezionare gli abiti militari : stoffe che c’era da spezzarsi le mani, tessuti durissimi insomma. Un lavoro mal pagato…

 

Emilio Venditti negli anni è tornato poi diverse volte in Francia e a Marsiglia, nel suo racconto impiega alcuni termini in francese, lingua che ha poi studiato e parla correntemente. In alto nel soggiorno, dove ci siamo incontrati, al centro dello specchio oltre il tavolo tiene appesa una cartolina raffigurante Notre Dame de la Garde, la basilica che domina Marsiglia e la cui vista in lontananza, da mare o da terra, sancisce l’entrata in città.

 

  1. Piste aperte e spunti di analisi.

Attraverso l’articolazione del piano politico e normativo a livello nazionale e internazionale (i rapporti fra Francia e Italia alla vigilia della guerra e l’atteggiamento dei due governi rispetto alla comunità italiana oltralpe), con quello dell’esperienza individuale (le memorie dei rimpatriati), attraverso l’individuazione di contesti locali ben definiti (le borgate romane per rimpatriati e i luoghi di provenienza in Francia), sembra aprirsi un varco per affrontare lo scivoloso tema delle appartenenze (locali, nazionali, sociali) [56]: i loro processi di costruzione e la ridefinizione della loro gerarchia interna e della loro funzione.

Lavorare sul tema delle appartenenze, suggeriscono Avanza e Laferté, vuol dire partire “dal basso”, dalle pratiche degli attori, per vedere come questi si approprino, rifiutino, accettino le identificazioni e le immagini che li circondano e li riguardano. Il passaggio dalla Storia alle storie, attraverso l’inversione della prospettiva verso uno sguardo dal basso, schiude diversi spazi d’analisi e di riflessione.

L’intervista in particolare, preziosa per la ricostruzione delle esperienze e degli itinerari, si rivela la principale, e talvolta unica, chiave d’accesso alla sfera narrativa e delle auto-rappresentazioni dei rimpatriati. È infatti con le fonti orali, prendendo in prestito le parole di Alessandro Portelli, che si impone allo storico il “dato insostituibile” della soggettività, in quanto informano

 

non solo su quello che le persone hanno fatto, ma su quello che volevano fare, che credevano di fare, che credono di avere fatto; sulle motivazioni, sui ripensamenti, sui giudizi e le razionalizzazioni[57].

 

Questo valore “insostituibile” si rivela, mi pare, proprio per lo studio di alcuni aspetti dell’esperienza migratoria che sono altrimenti difficilmente afferrabili. Primo fra tutti quello dei processi di definizione delle strategie, che chiama direttamente in causa la questione dell’auto-percezione e della “gamma del possibile”[58] dentro cui gli attori migranti operano le proprie scelte.

In forma schematica, si potrebbe dire che in ogni momento del ciclo di vita ogni attore sociale percepisce la propria posizione e giudica le proprie possibilità sulla base di un insieme di valutazioni formatesi nel corso delle sue esperienze passate (e di quelle della sua famiglia), delle informazioni e delle rappresentazioni filtrate dai tessuti di relazione in cui è inserito. Le sue scelte e i suoi comportamenti sono quindi anche il frutto del patteggiamento avvenuto fra le strategie immaginate sulla base di tali valutazioni, le costrizioni e gli stimoli del suo universo di relazione, le risposte suscitate[59].

All’elaborazione delle scelte e delle strategie concorrono dunque fattori congiunturali e relazionali combinati all’autopercezione rispetto al contesto. È quindi solo attraverso lo studio di questi elementi che ci si può avvicinare alla comprensione di tali processi, nella loro complessità.

La fonte orale, infine, deve essere pensata “non come un documento sul passato ma come un atto del presente”[60]; in questo quadro la dimensione memoriale, e dunque il contesto stesso in cui ha luogo l’intervista, si costruisce la narrazione e quindi nasce la fonte, emerge come  elemento centrale nell’analisi. Qual è oggi la realtà di questi quartieri, teatri di nuove migrazioni? Cosa significa per coloro che più di settanta anni fa, dalla Francia, sono arrivati per primi in una borgata vuota ed isolata, ricordare e raccontare oggi la storia migratoria propria e della propria famiglia? Un ulteriore livello di analisi, e uno degli aspetti che potranno a mio avviso rivelarsi di maggiore interesse nell’avanzamento di questo studio, emerge dunque con il farsi stesso della ricerca, proprio a partire dal carattere vivo e relazionale peculiare della storia orale.

[1]           Quitter la France pour la Rome fasciste : le borgate pour rapatriés Trullo et Tufello. Parcours migratoires, réseaux transnationaux, phénomènes circulatoires, è il titolo della ricerca che ho iniziato un anno fa nel quadro di un dottorato di ricerca presso Aix-Marseille Université, da cui prende le mosse questo articolo.

 

[2]           Nancy Green, Repenser les migrations, Paris, Puf, 2002, p. 102.

 

[3]           Giuseppe Bastianini, Gli italiani all’estero, Milano, Mondadori, 1939, p. 71.

 

[4]           Giuseppe Bastianini, fascista della prima ora, fra gli organizzatori della marcia su Roma, era all’epoca sottosegretario agli Esteri e sarebbe stato di lì a poco nominato ambasciatore a Londra.

 

[5]           Joao Fábio Bertonha, Emigrazione e politica estera: “la diplomazia sovversiva” di Mussolini e la questione degli italiani all’estero, 1922-1945, “Altreitalie”, 23 (2001), pp. 39-61.

 

[6]           Il fascismo e gli emigrati, la parabola dei fasci italiani all’estero (1920-1943), a cura di Emilio Franzina e Matteo Sanfilippo, Bari, Laterza, 2003, p. VI.

 

[7]           Matteo Pretelli, La risposta del fascismo agli stereotipi degli italiani all’estero, “Altreitalie”, 28 (2004), pp. 48-65.

 

[8]           J.F. Bertonha, Emigrazione e politica estera, cit.; Il fascismo e gli emigrati, cit., p. XI.

 

[9]           G. Bastianini, Gli italiani all’estero, cit., p. 46; M. Pretelli, La risposta del fascismo, cit., p. 53.

 

[10]          G. Bastianini, Gli italiani all’estero, p. 57.

 

[11]          Les Italiens en France de 1914 à 1940, a cura di Pierre Milza, Roma, École française de Rome, p. 18.

 

[12]          È noto d’altronde quanto moventi politici ed economici della migrazione vengano spesso a sovrapporsi, tanto da rendere difficilmente praticabile, in modo particolare per quanto riguarda il periodo fascista, una netta distinzione fra i due piani. A questo proposito si veda Franco Ramella, Biografia di un operaio antifascista: ipotesi per una storia sociale dell’emigrazione politica, in Les italiens en France, cit., pp. 343-384.

 

[13]          Les Italiens en France, cit., pp. 18-19.

 

[14]          Ibid., p. 3.

 

[15]          Francesca Cavarocchi, Avanguardie dello spirito. Il fascismo e la propaganda culturale all’estero, Roma, Carocci editore, 2010, p. 33.

 

[16]          Marie-Françoise Attard-Maraninchi ed Émile Temime, Migrance. Histoire des migrations à Marseille, III, Le cosmopolitisme de l’entre-deux-guerres (1919-1945), Aix-en-Provence, Édisud, 1990, p. 101; sulla legge del 1927 Janine Ponty, L’immigration dans les textes. France, 1789-2002, Paris, Belin, 2004, pp.153-160.

 

[17]          Mary D. Lewis, Les frontières de la République. Immigration et limites de l’universalisme en France (1918-1940), Marseille, Agone, 2007, p. 303.

 

[18]          Ibid., p. 306.

 

[19]          Ibid., p. 332; a titolo di esempio, le naturalizzazioni di cittadini italiani nel mese di marzo del 1939 ammontavano a 3464, contro una media di 850 nei 4 anni precedenti, Archivio storico del ministero degli affari esteri (d’ora in poi Asmae), Direzione generale affari politici (Dgap), Francia 1931-1945, busta 41, f. 2.

 

[20]          Dei 50 000 giovani naturalizzati nel 1939-40 circa il 57% erano italiani, un peso piuttosto importante se si pensa che la percentuale dei transalpini fra la popolazione straniera in Francia era del 31%. Mary D. Lewis, Les frontières de la République, cit., p. 333.

 

[21]          Leonardo Rapone, Les Italiens en France comme problème de la politique étrangère italienne entre guerre fasciste et retour à la démocratie, in Exils et migrations. Italiens et espagnols en France, 1938-1946, a cura di Pierre Milza et Denis Peschanski, Paris, Editions l’Harmattan,  pp. 178-179. La questione degli arruolamenti volontari, fu al centro delle preoccupazioni dell’ambasciata e dei consolati italiani in Francia alla vigilia della guerra: Archivio storico del ministero degli affari esteri (d’ora in poi Asmae), Roma, Direzione generale affari politici (Dgap), Francia 1931-1945, busta 41, f. 2.

 

[22]          Al momento dello scoppio del conflitto erano circa 50 000 gli arruolati volontari italiani, a quanto riportato in L. Rapone, Les italiens en France comme problème de la politique étrangère italienne, cit., p. 179.

 

[23]          Nella discussione alla Camera per la conversione in legge del decreto che istituiva la Commissione permanente per il rimpatrio degli italiani dall’estero, viene fatto esplicito riferimento a tale priorità e si afferma che “In un secondo tempo si dedicheranno particolari cure al rimpatrio di connazionali che vivono nei Balcani e anche in Egitto”: Atti della commissione legislativa Affari esteri. Discussioni, seduta del 25 aprile 1939, Camera dei fasci e delle corporazioni, XXX Legislatura, Roma, Tipografia della Camera dei fasci e delle corporazioni, 1941.

 

[24]          Il rimpatrio degli italiani all’estero nell’anno XVII – E. F., a cura del Ministero degli affari esteri, Commissione permanente per il rimpatrio degli italiani dall’estero, Roma, Tipografia riservata del Ministero degli affari esteri, 1940, pp. 11 e sgg.; “Norme sul rimpatrio degli italiani dall’estero”, in Archivio storico della Confindustria, Roma, fondo dossier prof. Balella (D. BA), b. 104, f. 309.

 

[25]          Ibid.

 

[26]          Ibid.

 

[27]          Archivio Centrale dello Stato (d’ora in poi ACS), Roma, fondo ministero dell’Interno (MI), Direzione generale pubblica sicurezza divisione affari generali riservati (Dgps div. Aa. gg. rr.), categoria A5G II guerra mondiale, b. 105, f. 49, sf. 2.

 

[28]          Archivio storico della Confindustria, Roma, D. BA, b. 104, f. 309.

 

[29]          Ibid.

 

[30]          Ibid.

 

[31]          Ibid.

 

[32]          Il rimpatrio degli italiani all’estero, cit., p. 33; Leonardo Rapone propone invece una stima fra i 15 e 20 000 rimpatriati dalla Francia e dalla Tunisia dal febbraio del 1939 allo scoppio della guerra in settembre, Les Italiens en France comme problème de la politique étrangère italienne, cit., p. 181.

 

[33]          ACS, Roma, MI, Dgps, Div. Aa. gg. rr., ctg A5G II guerra mondiale, b. 105, f. 49, sff. 1-6; Gli italiani nei campi di concentramento in Francia. Documenti e testimonianze, a cura del ministero della Cultura Popolare, Roma, Società editrice del libro italiano, 1940.

 

[34]          L. Rapone, Les Italiens en France comme problème de la politique étrangère italienne, cit., p. 184.

 

[35]          Luciano Villani, Le borgate del fascismo: storia urbana, politica e sociale della periferia romana, Milano, Ledizioni, 2012, pp. 190-191.

 

[36]          Ibid., p. 197.

 

[37]          Ibid., p. 190.

 

[38]          ACS, Presidenza del Consiglio dei Ministri (PCM), 1940-1943, b. 3.2-10/3004, f. 22192.

 

[39]          Interviste a Luciana Cerasi, Silvano Cerasi e Emilio Venditti, registrate a Roma il 24 aprile 2014.

 

[40]          Les Italiens en France, cit., p. 22.

 

[41]          Caroline Douki e Paul André Rosental, Dosages et contournements des droits des migrants dans un espace international. France, Italie, Tchécoslovaquie, 1900-1940, in Pratiques du Transnational. Terrains, preuves, limites, a cura di Jean-Paul Zúñiga, Paris, Bibliothèque du Centre de Recherches Historiques, 2011, p. 21.

 

[42]          Roger Waldinger, “Transnationalisme” des immigrants et présence du passé, “Revue Européenne des Migrations Internationales, 22, 2 (2006), pp. 23-41.

 

[43]          Émile Temime, Les Italiens dans la région marseillaise pendant l’entre-deux-guerres, in Les Italiens en France, cit., p. 548.

 

[44]          Ibid., p. 555.

 

[45]          Molti italiani si allontanarono da Marsiglia durante il conflitto, in particolare dopo l’entrata in guerra dell’Italia: ibid., p. 548.

 

[46]          Xavier Daumalin, De l’usage mémoriel du massacre d’Aigues-Mortes par les ouvriers italiens, in Les batailles de Marseille. Violences et conflits XIXe – XXe siècles, a cura di Stéphane Mourlane e Céline Regnard, Aix-en-Provence, Presses Universitaires de Provence, 2012, pp. 125-136.

 

[47]          Émile Temime, Les Italiens dans la région marseillaise, cit., p. 558.

 

[48]          Stéphane Mourlane e Céline Regnard, Empreintes italiennes. Marseille et sa région, Lione, Lieux Dits, 2013, pp. 114-115.

 

[49]          M.D. Lewis, Les frontières de la République, cit., p. 130.

 

[50]          Ibid., pp. 133-34.

 

[51]          Ibid., p. 335.

 

[52]          Ibid., pp. 309, 314, 317.

 

[53]          Ibid., p. 331

 

[54]          Ibid. e Il rimpatrio degli italiani all’estero, cit., p. 33.

 

[55]          Intervista a Emilio Venditti, registrata a Roma il 24 aprile 2014.

 

[56]          Martina Avanza e Gilles Laferté, Depasser la “construction des identités”? Identification, image sociale, appartenance, “Genèses”, 61 (2005), p. 144. Gli autori propongono qui una scomposizione della categoria di identità, della quale propongono il superamento sulla scia di Roger Brubaker e Frédéric Junqa, Au-delà de l’“identité”, “Actes de la recherche en sciences sociales”, 139 (2001), pp. 66-85.

 

[57]          Alessandro Portelli, Sulla diversità della storia orale, in Introduzione alla storia orale. Storia, conservazione delle fonti e problemi di metodo, a cura di Cesare Bermani, Roma, Odradek, 1999, vol. I, p. 54.

 

[58]          Per il ventaglio delle scelte possibili, cfr. F. Ramella, Biografia di un operaio antifascista, cit.

 

[59]             Maurizio Gribaudi, Mondo operaio e mito operaio. Spazi e percorsi sociali a Torino nel primo Novecento, Torino, Einaudi, 1987, p. XXIV.

 

[60]             “Quando parliamo di fonti orali, dunque, dovremmo usare non sostantivi ma verbi – non memoria, ma ricordare; non racconto, ma raccontare. E’ anche in questo modo che possiamo pensare alla fonte orale non come un documento sul passato ma come a un atto del presente” Alessandro Portelli, Un lavoro di relazioni: osservazioni sulla storia orale, in “www.aisoitalia.it”, n.1, gennaio 2010, http://www.aisoitalia.it/2009/01/08/un-lavoro-di-relazione/.