L’etnicità in guerra. Soldati di origine italiana negli eserciti alleati

La mostra virtuale, pubblicata su Google Cultural Institute, è stata allestita da Matteo Pretelli e Francesco Fusi per un progetto coordinato dall’Istituto Storico della Resistenza di Firenze. Attraverso una serie di documenti d’epoca, articoli della stampa italiana nel mondo e fotografie, vengono messi in luce alcuni interessanti aspetti della storia degli italiani all’estero solo in parte esplorati dalla storiografia.
Durante la Seconda guerra mondiale alcuni degli emigrati che avevano perso la cittadinanza del Regno sabaudo e molti dei loro figli e nipoti nati all’estero furono reclutati dai paesi di immigrazione per combattere l’Asse, diventando così, in un certo senso, nemici dello stato italiano. Anche chi non era coscritto, indipendentemente dalla cittadinanza posseduta, fu comunque coinvolto assieme al resto della popolazione civile in una guerra “totale” che coinvolgeva tutto e tutti, ed in cui alla minaccia dei nemici esterni si affiancava la paura, fondata o irrazionale, per i nemici interni. I materiali presentati, centrati soprattutto sui case studies degli italo-americani e degli italo-brasiliani, sono parte di una più ampia ricerca in corso e permettono di delineare alcuni possibili percorsi di analisi sul modo in cui, in tale contesto difficile e contraddittorio, l’origine italiana (qui indicata con il concetto di “etnicità”) è stata vissuta, rappresentata e ricordata. Parallelamente alla mostra è stato realizzato un database di 5.136 nomi di soldati di origine italiana (verificata o presunta) reclutati negli eserciti Alleati e pubblicato sul sito dello stesso Istituto della Resistenza Toscano. Entrambi i progetti, complementari anche dal momento che utilizzano le stesse fonti, rappresentano una vera e propria sfida, perché, come si vedrà, la storia dell’etnicità italiana durante la Seconda guerra mondiale è più la storia di un rimosso che la storia di una presenza.
Le prime due sezioni della mostra documentano l’ambiguo rapporto tra l’identità etnica degli emigrati ed il fascismo e soprattutto quello tra l’identità etnica degli italiani ed i governi dei paesi di immigrazione. L’iniziale, ingenua adesione ideale di parte della collettività italo-americana al fascismo, dopo Pearl Harbour si trasformò in un vero e proprio boomerang: circa 600.000 emigrati italiani residenti negli Stati Uniti che non avevano ancora acquisito la cittadinanza americana furono sottoposti ad una sorveglianza straordinaria dopo essere stati etichettati assieme a tedeschi e giapponesi come enemy aliens. Una situazione simile vissero gli italiani di Brasile, Australia, Gran Bretagna e Canada; i leader etnici dovettero quindi mettere in atto dei contro-discorsi volti a tutelare la rispettabilità e soprattutto la sicurezza della comunità. Si cercò quindi di manifestare la fedeltà della collettività al paese di immigrazione ed al suo governo, nonché agli obiettivi di guerra. Ecco quindi ad esempio che “Il Giornale Italo-Canadese di Montreal” si proponeva come L’organo dei leali italo-canadesi ed auspicava, nel primo numero, la formazione di una brigata “etnica”, composta cioè solo da italiani, da mandare a combattere in Europa. “Il progresso Italo-Americano” di New York invece, nel dare la notizia dell’arresto e dell’internamento nei campi di concentramento di cittadini italiani ritenuti pericolosi per il loro trascorso fascista, metteva comunque in luce le rassicurazioni di Roosvelt relative al fatto che sarebbero state evitate “molestie a tutti gli stranieri pacifici e ossequienti delle leggi”; si ricordava anche che nessun governatore dei singoli Stati dell’Unione poteva procedere con arresti o altre forme di discriminazione. Tra le pieghe di discorsi apparentemente limpidi emergeva però un atteggiamento ambiguo ed ambivalente. Il governo statunitense, nel tentativo di coinvolgere la popolazione civile negli obiettivi di guerra, da una parte, con un manifesto scritto in inglese e raffigurante le caricature di Hitler e Mussolini, chiedeva di non parlare la lingua dei paesi dell’Asse (“The four freedoms are not in their vocabulary! Speak American”); dall’altra parte, con un manifesto raffigurante la bald eagle (uno dei simboli nazionali degli Stati Uniti), invitava nella lingua di Dante a comperare i francobolli ed i bond di guerra con i quali veniva finanziato lo sforzo bellico (“Defense Savings Committee for American of Italian Origin”, sezione 3). Quasi a voler superare la propaganda governativa, lo stesso “Progresso Italo-Americano” traduceva i “War Bonds” come “Buoni della Vittoria” nel dare la notizia (reale o costruita ad hoc) dell’entusiasmo della comunità italiana verso l’iniziativa. In tali documenti tuttavia, raramente si faceva riferimento alla guerra contro l’Italia, ma piuttosto alle “nazioni dell’Asse”, o ai “paesi che sono stati calpestati ed oppressi dalla tirannia”; allo stesso modo su un giornale di Rio de Janeiro la partecipazione alla guerra veniva edulcorata come “Gl’Italo-Brasiliani contro il Nazismo”.
I soldati di origine italiana nell’esercito americano sarebbero stati circa 850.000 di cui 40.000 nati in Italia (sez. 4). La stampa “etnica”, nel suo sforzo di documentare il grande coinvolgimento degli italiani residenti nel paese a stelle e strisce (probabilmente rielaborando anche informazioni fornite dal governo) metteva continuamente in luce la loro partecipazione diretta nelle operazioni militari, le decorazioni e le menzioni di merito, la presenza di volontari nell’esercito e di donne nei servizi ausiliari. La figura di Giuseppe Zappalà, residente nel Massachusetts e morto a Pearl Harbour all’età di 22 anni, fu celebrato e mitizzato come “la prima vittima italo-americana di questa guerra”. Non mancavano le note e gli articoli “di colore” come quello in cui si dava notizia dei sette figli maschi di Antonio Lorenzo, tutti arruolati e combattenti “per la libertà dei popoli e contro i governi barbari”. Dopo l’8 settembre la loro situazione di combattenti non contro ma per il paese dei padri divenne naturalmente meno ambigua; veniva quindi data la notizia di soldati americani che, sbarcati in Italia in veste di liberatori, durante la licenza avevano avuto la possibilità di andare a trovare per la prima volta i propri parenti italiani o a visitare le città di origine della loro famiglia.
Dalle foto e dai documenti pubblicati non sembra comunque che nell’esercito Alleato ci sia stato molto spazio per “l’esibizione” delle proprie origini o comunque per altre forme di appartenenza o auto-definizione, con l’eccezione del servizio di Intelligence americano, l’Office of Strategic Service (Oss, la futura Cia), che, per alcune delicate operazioni da svolgersi sul suolo italiano reclutò soldati italo-americani proprio per la loro conoscenza della lingua. “L’etnicità in guerra”, o, per usare il linguaggio dell’epoca “il soldato italo-americano”, sembra quindi soprattutto un’astrazione della stampa “etnica” dell’epoca, quindi un discorso più rilevante nella politica (e nella guerra) interna che nelle operazioni militari vere e proprie. Tale situazione è riflessa anche nella memoria pubblica e nella monumentalizzazione operata dalle autorità militari (sezione 6). Sia nel cimitero di guerra americano di Firenze che in quello brasiliano di Pistoia l’origine italiana di ragazzi morti a migliaia di chilometri dalle loro case per liberare la terra dei padri è soltanto desunta da alcuni cognomi stampati sulle lapidi o sulle croci. La memoria istituzionale non ha sottolineato l’origine etnica neanche nel caso dei quindici soldati italo-americani ed italofoni arruolati dall’Oss per la missione “Ginny”, scoperti e fucilati dai tedeschi dopo il loro sbarco vicino a La Spezia. Anche in questo caso, l’origine italiana, per quanto ritenuta fondamentale nell’organizzare la fallimentare operazione di intelligence, può essere desunta esclusivamente dai cognomi incisi sulla placca commemorativa posta il 25 aprile 1990 ad Ameglia (il luogo della fucilazione) per iniziativa di commilitoni, cittadini e partigiani. In tale quadro l’Italian-American Veterans Museum di Stone Park, Illinois, essendo stato promosso dalla Casa d’Italia di Chicago, deve essere considerato in qualche modo legato allo stesso tipo di discorso “etnico” portato avanti nel 1941-1945 dall’elite italo-americana dell’epoca, oppure come un suo “lascito”, e non come parte della vera e propria memoria istituzionale degli Stati Uniti d’America.
I pannelli virtuali allestiti sia in italiano che in inglese da Pretelli e Fusi, che in un prossimo futuro si spera vengano realizzati materialmente ed esposti al pubblico, prediligono l’aspetto documentario piuttosto che quello monumentale o estetico. In altre parole, pur avendo un taglio prevalentemente divulgativo, la mostra è costruita con i metodi e la mentalità dello storico, piuttosto che con quella dell’architetto, del film-maker o del politico, professionalità a cui oggi sempre più spesso viene affidata la trasmissione di informazioni relative al passato (specie se da condursi attraverso l’utilizzo di immagini), ma che, nell’era delle comunicazioni di massa, finiscono per prediligere l’approccio “spettacolare” alla storia piuttosto che quello critico. Per questo, più che certezze o convinzioni definitive, sono emersi soprattutto interrogativi, potenziali sviluppi o possibili analisi comparate. I documenti della mostra, le informazioni raccolte, e le relative ipotesi interpretative potranno cioè affiancarsi o fare da apripista per ulteriori percorsi di ricerca, complementari rispetto a quello qui delineato: la presenza degli italiani nella Resistenza di alcuni paesi europei (Francia, Belgio, Jugoslavia); la difficile “riabilitazione” dell’Italia, degli italiani e dell’italianità nei paesi di immigrazione una volta cessato il tuono del cannone; il riemergere (o il re-inventarsi) delle identità “regionali” ad opera degli italiani emigrati come modo per promuovere un’immagine dell’italianità alternativa o antitetica a quella proposta dal fascismo; l’esercito come luogo di integrazione delle minoranze etniche, ma anche come un ambiente in cui le differenze vengono appiattite; la “storia sociale” dell’esercito alleato in Italia e la complessa memoria della liberazione da parte degli angloamericani. Tuttavia a conclusione di queste note rimane aperta la questione interessante e complessa di quanto abbia inciso la memoria degli italiani all’estero che hanno combattuto dalla “parte giusta” nel favorire, nella patria di origine, il processo di autoassoluzione collettiva per le responsabilità dell’Italia nella Seconda guerra mondiale.

Etnicità in guerra