Stampa cattolica per emigranti dopo la seconda guerra mondiale

Se si avvalora l’ipotesi di Benedict Anderson secondo la quale “l’editoria, in quanto una delle prime forme d’impresa capitalistica, ha vissuto in prima persona l’incessante ricerca di nuovi mercati” 1 e si è quindi orientata, proiettata ed espansa verso aree dove comunque la richiesta del prodotto che offriva poteva ipotizzarsi più forte, si può valutare la profonda incidenza degli eventi e dei fenomeni ad essa correlati già col misurarne l’entità. Ecco allora che la stessa consistente produzione editoriale interessata all’emigrazione potrebbe interpretarsi come uno dei segni tangibili del fatto che nel secondo dopoguerra essa stava tornando a riproporsi come fenomeno di grandi proporzioni.
Il Veneto, una delle regioni da sempre con il più alto tasso di espatri, si conferma non a caso leader nella produzione di periodici destinati ai “connazionali” all’estero, senza contare che nel lungo dopoguerra la crescita delle testate continua ed anzi sale: stando a un rilievo effettuato nel 1994 – e quindi già in un momento di acuta recessione – ben nove sulle quindici italiane esistenti risultavano stampate nel Triveneto e mensilmente ne venivano inviate all’estero almeno 50.000 copie2.
Se cerchiamo un riscontro a questa affermazione, al di là di quello che potrebbe fornire anche semplicemente sul piano dei contenuti la mole copiosa di produzione giornalistica, di cui troviamo ampia traccia tra le carte degli uffici ministeriali – il Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale conserva un cospicuo numero di rassegne stampa “straniere”3 inerenti notizie di accordi bilaterali per ingenti ingaggi e reclutamenti di emigranti, frodi ai loro danni4 ecc., con i quali testimonia il proprio interesse non solo nel tastare il polso della condizione dei migranti, ma soprattutto nelle indagini sulla consistenza della domanda5– scopriamo che da varie direzioni si era incentivato l’incremento della produzione di quelli che potrebbero piuttosto definirsi i suoi “contenitori”. Bollettini, opuscoletti, notiziari, prontuari molti dei quali a scopo orientativo e didascalico nascono spesso in corrispondenza di una precisa richiesta pervenuta realmente presso gli uffici di enti e di istituzioni operanti nel settore dell’emigrazione assistita.
La rivista mensile “Rassegna del Lavoro”, “Gli italiani nel mondo”, il “Notiziario per l’Emigrazione”, il prontuario del Maselli come quello di Del Mare sono solo alcune delle pubblicazioni ufficiali del Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale o del Ministero degli Esteri che si consigliano agli aspiranti emigranti i quali ne facciano richiesta6; “Buona Fortuna Emigrante”, correva già l’anno 1956, era stato distribuito in 30.000 copie dal Centro Emigrazione di Milano cui pare fosse pervenuta la domanda di altrettanti esemplari.7
Le istituzioni, peraltro, si servono spesso del “loro buon nome” per assecondare o addirittura promuovere il fenomeno emigratorio utilizzando i mass-media come cassa di risonanza delle proprie iniziative. In un documento inviato al Ministero del Lavoro dalla Radio Italiana e datato 19 dicembre 1947 quest’ultima si vanta di essersi sempre resa disponibile ad offrire tutto il suo appoggio alle iniziative del governo volte a incoraggiare l’emigrazione trasmettendo “a tale scopo tutti i giovedì una edizione della rubrica “Fede e Avvenire”8, che aveva peraltro riscosso sul serio un certo successo com’è attestato dalla folta corrispondenza inviata dagli ascoltatori desiderosi di entrare a vario titolo nel circuito emigratorio.
Collegato a queste iniziative di cui si fanno promotrici le istituzioni9, prosegue in ascesa l’aumento della stampa per l’estero non solo in termini di tiratura ma anche di fioritura di testate: a breve distanza dalla fine della guerra nascono ad esempio due omonimi periodici intitolati “La Voce d’Italia”, il primo attivo su territorio inglese e il secondo su quello francese, entrambi a partire dal 1948 e un “Corriere d’Italia” aperto a Francoforte dal 195010. Tutti questi periodici aspirano ad un target piuttosto ampio, suggerito dal coesivo richiamo alla nazione, di cui paradigmatico diventa dunque quel complemento di specificazione “d’Italia” ch’è sempre ostentato e sbandierato nei titoli11.
A questi giornali vanno ad aggiungersi diversi supplementi i quali si affiancano alla stampa di ispirazione confessionale o religiosa del campo cattolico tutti prodotti in Italia e poi inviati ai connazionali emigrati all’estero, come quelli più e meno corposi allegati all’“Operaio Cattolico” di Vicenza ed usciti con discreta regolarità per molti decenni: “La missione per gli italiani in Belgio”, “La squilla per gli italiani in Germania”, “La squilla per gli italiani in Gran Bretagna” (dal 1967 divenuta poi “L’italiano”), “La voce d’Italia per gli italiani in Olanda”, il “Messaggero italiano mensile per gli italiani in Scozia”. Per la frequente povertà dei contenuti o per la stanca retorica di stampo apologetico di cui si facevano portatori essi non hanno però ottenuto, sin qui, eccessiva attenzione da parte degli storici forse anche perché, al di là della loro facile divulgabilità e della loro effettiva circolazione in termini di tiratura, di lettura, di diffusione ecc. , non sembrano aver dato luogo a particolari cure conservative nemmeno nelle biblioteche private più affini, per non parlare di quelle pubbliche dov’è possibile imbattersi quasi soltanto in una serie di raccolte per lo più incomplete e lacunose e conseguentemente difficili da consultare e soprattutto da valutare.
Accusati di una certa prevedibilità e scontatezza, andrebbero valutati invece con più attenzione: un primo sguardo agli argomenti trattati all’interno delle varie pubblicazioni – e che di per sé risultano poco suggestivi – non può esulare da una lettura interpretativa, dalla quale sia lecito ricavare non solo un quadro dell’immaginario della comunità di migranti quale ci viene offerto dalle scelte editoriali – profilo fedele peraltro alle intenzioni della rappresentazione così come voluta dalla regia che l’aveva ispirata – ma anche da tutta una serie di ulteriori informazioni che, se si dovessero qualificare sinteticamente per punti, andrebbero riferiti alla “rete” divulgativa (punto 1), al contenuto (punto 2), al destinatario (punto 3).
L’analisi così impostata contribuirebbe a meglio chiarire quale fosse lo scopo ultimo dei supplementi, al di là degli obiettivi di più immediata intuibilità e/o di natura economica, ovvero se fosse limitato semplicemente a mantenere vivo il senso di appartenenza alla comunità d’origine o se non fosse da escludere un’alfabetizzazione mirata di tipo politico propagandistico.
Questo permetterebbe di identificare con maggiore precisione quali fossero i diretti destinatari della produzione editoriale: gli italiani emigrati, gli italiani migranti12 o i corregionali e i compaesani rimasti in Italia?
Osservato anche solo nell’ottica di un’operazione commerciale ideata da Pio Rumor, non può peraltro passare inosservato il trafficato tragitto di queste pubblicazioni, che hanno una redazione con un proprio responsabile all’estero e una tipografia sul territorio italiano, e che, quindi dopo essere state assemblate oltreconfine, “rimpatriano” per essere stampate e vengono di nuovo spedite indietro per ripartire alla volta dei luoghi di residenza degli emigranti.
Credo che le possibili premesse di questa avventura editoriale del primo dopoguerra dovrebbero essere ricercate nelle esperienze politico-pubblicistiche precedenti dei Rumor e in quelle apologetico-assistenziali dei missionari, per quanto siano poi da esaminare separatamente, come fatti distinti.
La produzione di questi periodici sembra configurarsi infatti come la proiezione dell’esperienza localistica e provinciale dell’ “Operaio Cattolico”, eredità di Giacomo Rumor che nel 1889 aveva dato inizio alla stampa del mensile “di famiglia” nella veste di semplice bollettino di una Federazione di Società operaie13, poi tramutato nel 1891 in organo settimanale del movimento cattolico operaio e ridefinitosi nel 1892 con la specificazione di foglio “agricolo-operaio”14, aprendosi quasi subito ad una dimensione più vasta, anche se non per questo più “generale”.
Il giornale della famiglia Rumor, che aveva saputo intessere forti legami tra attività editoriale e attività politica, era passato nel luglio 1924, subendo una sospensione solo nel corso del 1926, sotto la direzione di Pio, zio del più noto Mariano, deputato e futuro ministro, anch’egli ovviamente ligio alla tradizione di famiglia, se lo vediamo promuovere nel 1951, con “Iniziativa Democratica”, un dibattito politico in seno alla Democrazia Cristiana abbastanza complicato e orchestrato proprio a partire dai fogli locali – mi riferisco alle polemiche con “Il Centro” della corrente di Piccioni, con “La Vespa” del gruppo antesignano di Carmine De Martino, con “Politica sociale” di Gronchi e con “La Via” di Igino Giordani – un dibattito presto trasformatosi in contesa e che la Direzione del Partito farà cessare convogliando le diverse linee in un unico settimanale, “Libertas”15.
Fuori da tali dettagli c’è da dire che Giacomo Rumor già in origine, per il suo giornale, s’era servito come canale di diffusione di una rete territoriale fatta essenzialmente di parrocchie.
Se anche essa si fosse dimostrata corrispondente al giudizio di chi ritiene – forse non tanto incurante delle singole peculiarità regionali, quanto interessato piuttosto a rimarcare la distinzione tra l’attività parrocchiale degli anni ’5016 e quella a cavallo del secolo – che le circoscrizioni ecclesiastiche all’inizio del Novecento fossero abbandonate ad una “vita alquanto sonnolenta”17, proprio e pur sempre la canalizzazione parrocchiale aveva permesso una rapida ed efficace divulgazione del giornale che fra l’altro veniva distribuito sulla soglia delle chiese in occasione delle funzioni religiose.
I missionari, non solo scalabriniani, a loro volta, per aggirare i problemi e vincere le distanze che li ostacolavano nella predicazione, erano usi redigere i bollettini che facevano pervenire a coloro a cui dovevano prestare la propria assistenza nei pressi dei luoghi di culto più frequentati dagli emigranti. Se volessimo fare una minima verifica e prendessimo come paradigmatico, ad esempio, il caso del Belgio, apprenderemmo che nel corso dei primi “stanziamenti” missionari intorno alla metà degli anni ’20 il padre cappuccino Ilario da Milano si era trovato impegnato a promuovere “L’amico degli italiani”, preludio di una timida stampa per emigranti, sfruttando al massimo le risorse offerte dall’apparato chiesastico locale al quale continuò ad appoggiarsi dopo una incerta ripresa postbellica nel 1950 (ad opera di padre Barnaba con la sua “Circolare Mensile” in forma di giornaletto) anche “L’Araldo del Missionario”. A far data dal marzo del 1956, anno peraltro cruciale nella storia dell’emigrazione italiana in Belgio, esso cresceva, sia nel formato, originariamente di due pagine ciclostilate, e sia nella tiratura raggiungendo un numero di copie sufficiente a soddisfare la richiesta dei suoi circa 3000 lettori: solo dal febbraio del 1967 l’“Araldo” passava a 4 fogli stampati in tipografia assecondando l’espansione anche demografica delle comunità cui erano destinati i suoi articoli.
La verifica delle nostre elementari congetture e cioè del fatto che la complessa operazione editoriale nasceva effettivamente dall’intreccio di queste esperienze di sinergia e di collaborazione del campo ecclesiastico/cattolico, si può facilmente effettuare attraverso la collazione delle informazioni ricavate dalla lettura dei supplementi e la documentazione d’archivio.
Dalla consultazione de “La squilla per gli italiani in Germania”, ad esempio, si desume che i supplementi dell’“Operaio Cattolico”, dopo essere stati ricevuti dalla tipografia vicentina, erano inviati dai missionari tramite normale servizio postale agli emigranti e ai loro circoli che decidevano se accettare o respingere la fornitura. A questo proposito, e a sostegno dell’ipotesi sul rilievo assunto anche dall’aspetto economico dell’operazione, ricorderei le battaglie portate innanzi dalla Federazione della stampa italiana all’estero, fondata nel 1956, appunto per ottenere una riduzione delle tariffe di spedizione per la stampa diretta all’estero18.
Credo sia utile approfondire inoltre attraverso quali relazioni o quali specifiche conoscenze fosse nato il rapporto di affari tra l’imprenditore Rumor e i missionari impegnati sul posto ovvero, in altre parole, sulla base di quale network si era sviluppato il progetto commerciale prima che politico dell’editore.
Nel caso de “La missione per gli italiani in Belgio” sappiamo che la sede oltre-confine era situata a Marchienne-au-Pont e che alla sua direzione figurava dopo la guerra padre Giacomo Sartori appartenente alla congregazione scalabriniana. Questi era nato a Possagno nell’aprile del 1922 ed era stato ordinato sacerdote nel 1945 a Bassano del Grappa, in provincia di Vicenza19 (e quindi nella stessa diocesi e provincia dei Rumor); si era distinto come promotore del trapianto delle Acli in Belgio nel giugno del 1946: un “innesto” ufficializzato molto più tardi, nel 1954, e che si era attuato grazie ad un accordo con il CSC firmato dall’on. Storchi, lo stesso parlamentare che nel luglio di quell’anno, di ritorno da un viaggio ai patronati Acli di Belgio e Lussemburgo, forniva al Ministro del Lavoro e della Previdenza Sociale Ezio Vigorelli dati e informazioni in merito alla sciagura mineraria del Manny costata la vita a 27 nostri minatori intervenendo anche sulle conclusioni della Commissione generale di inchiesta per la sicurezza del lavoro nelle miniere20.
La sua notorietà e la penetrazione delle sue idee nel tessuto sociale dell’area di partenza si misurano a vari livelli come inevitabilmente succede quando a farsene tramite sono la stampa vicentina e i rappresentanti politici della Dc locale. Ad esempio in un articolo, che viene poi riportato anche nel supplemento de “La Missione”, il sindaco Borin di Bassano del Grappa, rivolgendosi alla cittadinanza, definisce padre Sartori – insieme a padre Favero, che allora si trovava invece impegnato in territorio svizzero – personalità “notissime presso i bassanesi nell’impegno di custodi nei fratelli lontani della fede in Dio e del più intimo legame con le loro famiglie”21.
Un contributo di rilievo riguardo all’importanza del ruolo ricoperto dal religioso mercè lo strumento della stampa per gli emigrati proviene anche dalle carte del Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale dove ne parla un rendiconto del 6 dicembre 1954 steso in occasione della sesta assemblea generale dell’O.N.A.R.M.O. presso la sede sociale di Rue des Drapiers, che intendeva proporre un rinvigorimento dell’opera degli uffici locali con la costituzione di un patronato consolare d’assistenza, e che elogiava senza riserve l’impegno del Sartori a proposito delle attività da lui svolte nella zona di Marchienne-au-Pont22. Questi “riconoscimenti”, per quanto non si possano stimare testimonianze più “oggettive” di altre, vanno comunque tenuti in conto anche quando risultano viziati da un punto di vista evidentemente di parte e molto influenzato, se non proprio inquinato, dall’orientamento ligio politicamente al governo dei missionari, perché arricchiscono se non altro la loro visione d’insieme o, per meglio dire, l’“immaginario” prevalente dell’emigrazione postbellica proposto ai suoi stessi protagonisti.
Facile supporre che Pio Rumor, il quale dal canto suo aveva interessi fortemente intrecciati alla Curia e all’Azione Cattolica, avesse pensato di sfruttare a proprio vantaggio la competenza in materia del Sartori, consumato opinionista del settimanale nazionale per emigranti il “Sole d’Italia” oltre che del periodico, edito dalla sua congregazione, “Le missioni scalabriniane” – confluito in seguito ne “L’emigrato italiano”23 – e che se ne fosse servito per divulgare il supplemento belga. E facile altresì ipotizzare che questa fosse divenuta la prassi corrente seguita per la divulgazione di tutti gli altri periodici, i quali già nell’impaginazione e nei contenuti si presentavano comunque quasi come copie conformi gli uni degli altri.
Anche “La squilla per gli italiani in Germania” (nata nel 1950) ad esempio, risulta inviata a tre missionari – mons. Aldo Casadei a Francoforte, don Giulio Valentinelli a Monaco di Baviera e don Vincenzo Mecheroni a Colonia – che da quanto si evince sfogliando il numero di giugno del 1953, la distribuivano a loro volta ai connazionali con l’intento di informarli e di “formarli”.
Le Missioni Cattoliche Italiane, che erano state aperte in corrispondenza dei consolati d’Italia in Germania, erano sei, la sede più importante era situata a Francoforte sul Meno ed era sovrintesa dal ricordato Casadei, il quale fungeva da direttore sia dei Missionari Italiani in Germania e sia del loro periodico.
Può essere interessante, a questo punto, passare ad un’analisi sintetica dell’impaginazione e delle scelte di contenuto. La prima pagina è impostata in modo tale che gli si potrebbe accreditare una funzione di “manifesto” (e come tale forse venne a volte anche usata); a cornice di un’immagine tolta dal repertorio sacro e piazzata a bella posta al centro del foglio, si collocano due tipi di articoli o editoriali, quelli che potrebbero fornire spunti di dibattito, anche se vengono trattati con toni che non ammettono repliche – e mi riferisco in particolare alle ampie “requisitorie” su argomenti che coinvolgono la morale cattolica e i valori tradizionali che non mancano pressoché mai – e quelli che hanno per oggetto o meglio per protagonista il pontefice che son resi di norma con un taglio sconfinante nel racconto agiografico.
Dalla seconda pagina in avanti i supplementi vengono ripartiti in rubriche: ampio margine viene lasciato agli avvenimenti di politica internazionale: “In giro per il mondo”, “Varie dall’Italia e dal Mondo” , “Da un mese all’altro”. Esse sono infarcite, a rinforzo, di notiziole su vicende apparentemente di second’ordine. Nel caso dei due periodici “La squilla per gli italiani in Germania” e “La squilla per gli italiani in Gran Bretagna” trovano posto anche due rubriche, “Notizie dall’Italia” e “L’Italia in cammino”, in cui gli emigranti sono tenuti al corrente dei progressi compiuti dal Paese natale, per rinsaldare l’intimo legame con esso e per rassicurarli, forse, sulla temporaneità delle difficoltà economiche e occupazionali incontrate dall’Italia e che nella maggior parte dei casi avevano causato la loro partenza per l’estero. Pertanto vi vengono “narrate” con toni ispirati le battaglie in corso contro l’analfabetismo e contemporaneamente sono esaltate le “conquiste sociali”, la crescita delle nostre esportazioni assieme agli incrementi della rete ferroviaria o alla scoperta sul territorio padano di giacimenti petroliferi e di preziosi idrocarburi.
Varianti di poco conto interessano le diverse versioni del periodico: la tedesca dedica più spazio – in “Vita italiana in Germania” – alla programmazione di eventi e di appuntamenti a carattere culturale; la variante inglese, con il “Notiziario sportivo”, appare più marcatamente a sfondo ludico ricreativo, un espediente usato come mezzo sicuro di aggregazione, per quanto spesso, cosa risaputa, l’attività agonistica venga caricata di valenze improprie e strumentalizzata a fini propagandistici. Un articolo come quello intitolato “Nella cappella di Santa Teresa la maglia tricolore di Gino Bartali” si rivela subito ricco di rimandi al mito in fieri del grande corridore e rinvia ad una sorta d’investitura dell’eroe sportivo a campione della cristianità e, nel contempo, a vero “gonfalone” della patria.
Trattandosi di stampa cattolica immancabile è la rubrica dedicata agli appuntamenti religiosi come accade ad esempio in “Vita delle Missioni” dove si susseguono gli elenchi delle più diverse scadenze (incontri, convegni, celebrazioni liturgiche, cerimonie ecc..)
A completare il prevedibile mosaico seguono articoli in cui con particolare sensibilità vengono trattate quelle questioni che interessano da vicino il popolo degli espatriati: la versione belga rivolge particolare cura, ad esempio, alle malattie contratte sul lavoro come la silicosi; mentre la “Pagina dell’emigrante” aggiorna sugli ultimi accordi bilaterali fra Italia e Belgio, sulle discussioni parlamentari nei due paesi e sulle norme emesse qui o sui progetti di legge che vi fanno riferimento.
Anche un’occhiata al tipo di pubblicità può essere di aiuto per meglio comprendere alcune caratteristiche di questa stampa confermandosi un buon indicatore non solo di ciò che alimenta il volume d’affari attorno all’emigrante, ma anche di ciò che si può pensare lo interessi maggiormente, aspetto, questo, legato in parte all’immaginario che viene a costituirsi attorno a lui. Non v’è dubbio che il capitale umano del migrante fosse al centro di un business senza precedenti, che si metteva in moto già nel momento in cui egli decideva di partire.
Non mancano mai, pertanto, le reclame di alcune banche italiane – a cominciare da quelle cattoliche ed è quasi superfluo rimarcare qui ciò che significavano le rimesse per le famiglie rimaste in patria ma anche per il sistema creditizio nazionale – né mancano gli annunci pubblicitari delle varie agenzie di viaggio in accordo con le maggiori compagnie di trasporto navale e ferroviario. Propongono il proprio talento anche molti fotografi e la propria perizia, dettaglio significativo, non pochi esperti di scrittura epistolare e traduttori di documenti. Gli italiani importatori di prodotti nostrani reclamizzano poi vini, prodotti caseari, capi d’abbigliamento. Nel supplemento tedesco l’articolo commerciale che rimane a lungo più in voga è la macchina per la produzione del gelato, un manufatto di cui si trovano ampi richiami anche in cronaca24.
Qui l’emigrato italiano in Germania, soprattutto quello proveniente da certe località o da certe province (per i gelatai ad esempio il Cadore, lo Zoldano, la montagna bellunese ecc.), viene tratteggiato come incline naturalmente a svolgere in prevalenza alcuni tipi di attività, in un affresco tra il realistico e il folklorico che fa da cornice ai toni formali e sfumati dei documenti ufficiali. In molti di essi, confluiti poi negli archivi storici ministeriali, si rimarca da un altro punto di vista il forte impiego degli italiani in Germania nel settore della ristorazione e in quello alberghiero. Prima che la svolta d’inizio anni sessanta con la crescente richiesta di operai non specializzati per una industria in forte espansione intervenga a squilibrare i rapporti fra i diversi comparti del mercato del lavoro tedesco apertosi all’immigrazione, questa manodopera italiana, non propriamente etichettabile come stagionale – in quanto non così strettamente condizionata dalle scadenze annuali se non per alcune attività di tipo turistico – bensì periodica, appare caratterizzata per lo più da un frequente e reiterato “turn over”, che a mio parere andrebbe approfondito anche al di là di quanto ce ne possano dire le nostre fonti giornalistiche. Il mutare degli annunci pubblicitari, ad ogni modo, funge esso stesso, nel corso degli anni, da barometro dei cambiamenti nella composizione e nel “costume” di tali frammenti di società italiana trasferitisi all’estero.
I periodici della fine degli anni ’60 e ’7025 – quali “Vita italiana. Mensile degli italiani in Lussemburgo e Alta Lorena”26 e “Il Giornale Popolare periodico mensile per gli italiani in Lussemburgo”27 – forniscono uno spaccato molto diverso delle prospettive di emigranti e immigrati a trent’anni di distanza ormai dalla fine della seconda guerra mondiale e dalla ripresa dei flussi di espatrio “europei”. La reiterata reclame, ad esempio, di imprese di traslochi rinvia ai fenomeni ovunque in ascesa di neoinsediamento soprattutto nelle città o anche di una mobilità intraurbana non meno eloquente, così come persino la pubblicità dei servizi di pompe funebri potrebbe rimandare a un nuovo genere di stanzialità indicativa delle forme ormai assunte dai processi d’integrazione in marcia nelle società ospiti.
I supplementi, al di là di una impostazione generale comune, sono poi fortemente influenzati dal taglio redazionale assunto “localmente”. La linea editoriale del supplemento belga, in questo senso, è fortemente connotata da caratteri di cui gli altri supplementi – come “La squilla per gli italiani in Germania” e “La squilla per gli italiani in Gran Bretagna” – sono sprovvisti e che, alla fine del “mandato” del suo direttore, si smarrisce.
“La Missione per gli italiani in Belgio”, ad esempio, riserva ampio spazio all’arrivo di delegazioni ufficiali e “pastorali”, ma anche di personalità e di autorità del luogo che si recano in visita, quasi “ispettiva”, alle varie comunità di emigranti, per lo più lavoratori impiegati nelle miniere carbonifere.
In questi frangenti grande risalto viene dato all’allestimento scenografico delle manifestazioni d’accoglienza in cui i gruppi di emigranti – che pur rimanendo sullo sfondo costituiscono, quasi coro di una tragedia classica, il vero referente della rappresentazione – compaiono in varie vesti: da quelle festanti di una comunità riunita che riceve i propri ospiti a quelle funebri di chi segue commosso le esequie dei propri eroi – come nel caso della tragedia di Martinet – a quelle austere dei devoti pellegrini intenti a rendere omaggio alla statua del proprio santo sino infine a quelle delle schiere coese di attivisti durante i vari congressi dell’Azione Cattolica. Nel corso soprattutto delle cerimonie che contraddistinguono l’importanza anche all’estero di questa organizzazione echeggia con regolarità la consueta benedizione di un tricolore o si celebrano riti dai connotati fissi, presieduti di norma da una “madrina” d’onore pressoché immancabile e proiezione probabile, anche se la citazione riguarda un campo ideologico opposto, della classica iconografia che si esplica “in un transfert simbolico tra donna e bandiera”28. Forte, comunque, è la volontà di presentare una “società” universalmente schierata e unita contro tutti gli elementi disgreganti. Ma scendiamo nel dettaglio. La rubrica “Da un mese all’altro”, che espone una raccolta di trafiletti dedicati, come avevo accennato in precedenza, a fatti di politica interna ed estera , vede incombere su quasi tutti i numeri del 1954 l’ombra dell’“atomica”- “Mosca ha accettato di discutere del piano Eisenhower sulle armi atomiche”29, “Meteorologia e bomba atomica”30, “In Europa squadriglie di bombardieri atomici”31, “Varo nei cantieri della General Dynamics Corporation del sottomarino atomico SSN-571 Nautilus”32, “Idrogeno americano e … idrogeno russo”33, “L’esplosione di Bikini”34 sono solo alcuni dei titoli di articoli editi da “La Missione per gli italiani in Belgio” che non troviamo in egual misura nelle pubblicazioni affini. Questi interventi, ovviamente, rispecchiano la gerarchia delle percezioni che padre Sartori, direttore del supplemento belga, aveva degli avvenimenti politici contemporanei e in particolare della corsa agli armamenti. Essa, ricordiamolo, a breve distanza dalla conclusione del secondo conflitto mondiale evocava gli spettri di una nuova guerra con l’aggravio dei timori indotti dal pericolo nucleare evidenti nel fenomeno dell’Overkill ovvero nella “perdita del rapporto tra obiettivi da distruggere e capacità distruttive” che, in una escalation devastatrice – dal rapporto NSC 68 dell’aprile del 1950, all’operazione Solarium nel 1953 fino alla campagna McCarthy tra il 1954 e il 1955 – culminò in quello che a posteriori sarebbe stato definito “l’anno di maggior pericolo”35.
Questo tipo di tensione tuttavia a un certo punto si attenua e quasi si esaurisce perché già gli anni della presidenza Eisenhower sono caratterizzati “da una perdita di coesione dell’intervento americano nella sicurezza europea”36 mentre invece non accenna a finire o a calare d’intensità l’ostinata campagna anticomunista. Essa, ad ogni modo, nella stampa cattolica per gli emigranti rimane ben viva almeno sino all’estate di un anno chiave come il 1956, quando oltre alle note vicende internazionali si registra, nel piccolo delle nostra storia, la cessazione del rapporto editoriale con i Rumor, che corrisponde all’esaurirsi del grosso dell’emigrazione assistita verso il Belgio dopo l’immane sciagura di Marcinelle. Di lì in avanti il flusso emigratorio già orientato verso i bacini carboniferi del Belgio comincerà a prendere altre direzioni trovando riscontro e rispecchiamento fisico nel supplemento che subito riduce il suo formato, ma non la specie dei suoi interventi prediletti. La guerra al comunismo, ad esempio, è sempre presentata come una battaglia per la civiltà, mentre il discredito dell’avversario viene perseguito sistematicamente col metterne in luce l’asserita incoerenza e contraddittorietà: per fare un esempio, il messaggio augurale ai “compagni” di Togliatti, in procinto di partire per la villeggiatura, può facilmente essere deformato nel dileggio di quelli tra questi che, come gli emigranti, non possono certo permettersela.
Spesso vengono riportati esempi di “redenzione” che si riferiscono alle dimissioni dal Pci o dalla CGIL di questo o quell’attivista, anche se per lo più gli attacchi sono portati soprattutto all’organo del partito, l’“Unità”, presentato normalmente come ricettacolo di ex-fascisti. Con questa accusa, che passa sopra al problema dei “giovani” del tempo di Mussolini, s’infanga agevolmente il nome del direttore dell’edizione milanese Davide Laiolo38, il cui pseudonimo “Ulisse”, si rimarca, rimanda all’immagine consolidata dell’ingannatore o dell’astuto mentitore per eccellenza mentre nel caso speculare e opposto dei “rinnegati”, come vengono presentati l’ex gesuita Alighiero Tondi ed altri “spretati”, l’accanimento della stampa missionaria per gli emigranti s’indirizza contro quello che è giudicato un “covo” di individui senza scrupoli che portano impresse su di sé le stimmate della menzogna e del tradimento.
A rasserenante contraltare, in questa interpretazione manichea del mondo, la rivista ha buon gioco a presentare i suoi militi “ignoti”, spesso ancora ragazzi ovvero piccoli emigranti protagonisti di esemplari parabole moderne.
La propaganda anticomunista di Sartori visibilmente si rifà allo spirito di crociata di Gedda e dei suoi Comitati Civici ai tempi non lontani delle elezioni del 1948, che peraltro vengono riattualizzati intorno alla metà degli anni ‘50 dall’operazione “semaforo giallo” destinata a passar di moda solo alla fine del decennio39.
Non che gli altri supplementi non fossero sensibili alla propaganda anticomunista, modello guerra fredda, impostata secondo canoni e stereotipi ben noti. Anche nel periodico tedesco, ad esempio, tra il 1952 e il 1954, si trovano di frequente articoli del tutto affini connotati da un acceso livore antisovietico e introdotti da titoletti gridati o comunque ostentanti un gusto deteriore per il sensazionalismo – “Comunismo bulgaro, omicidio premeditato”40, “Il vero volto del comunismo”41, “La conversione di un capo comunista fa aprire gli occhi ai compagni”42, “Le buffonate di un corrispondente comunista in Corea contro l’inviato de l’Unità Riccardo Longone”43, “Una seconda bomba atomica di costruzione inglese è stata fatta esplodere in Australia”44, “Il nemico non dorme seicentomila attivisti comunisti entreranno presto in azione”45. Ma l’indicatore che rivela una spiccata peculiarità dell’edizione belga, in questo caso, è fornito dall’indagine statistica sul numero degli interventi e dall’attenzione quasi ossessiva che viene rivolta dalla redazione al tema, come non succede invece nel caso tedesco e ancor meno in quello inglese.
All’inizio di questa breve ed elementare indagine avevo prospettato come plausibile l’ipotesi di uno scoperto intento di alfabetizzazione politica e d’indottrinamento da parte dei fogli cattolici per emigranti.
Ovviamente risulta difficile e quasi impossibile, anzi, misurare le ripercussioni sul comportamento elettorale che questa produzione editoriale di settore potrebbe avere avuto, ma ciò non deve scoraggiare né impedire di porsi alcuni interrogativi sui possibili effetti della propaganda giornalistica sulle scelte politiche degli emigranti: “non si deve dimenticare – osserva al riguardo un esperto come Stefano Passigli – che l’indagine sul campo non può che seguire alla formulazione di ipotesi di ricerca e che non può essere migliore delle ipotesi teoriche che è chiamata a verificare”46.
D’altronde i limiti di rilevamento quantitativo sui ritorni nella società d’origine sono profondi, per la difficile comparazione tra materiali forniti da fonti eterogenee e per l’impossibilità di ricavare valori stabili da dati attinti con rilevazioni effettuate su campi d’indagine alquanto mobili in quanto regolati da organi soggetti a continui cambiamento e in presenza di soggetti e organismi dotati di una volontà propria o inclini a reazioni spontanee e subitanee. Nelle carte del Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale, ad esempio, l’attributo “spontaneo” diventa l’aggettivo più diffuso per definire quel migrante che, non servendosi della assistenza del dicastero, sfugge alle stime ufficiali.
Senza contare che esiste una differenza significativa tra aumento degli elettori verso un determinato indirizzo politico e loro spostamento da una area all’altra: entrambi i dati sono comunque difficili da verificare. L’attenzione prestata dai nostri supplementi agli affari internazionali con impronta marcatamente antisovietica e alla politica governativa sempre secondo una linea anticomunista conferma tutte le principali tendenze del periodo e l’ interpretazione manichea, di casa già in Italia, di una realtà circostante minacciosa e negativa. Una simile dinamica riflessa nell’informazione, nel mentre esalta e acuisce l’infervorato senso di rivalità proprio delle fazioni in lotta, tradisce però il tentativo di mantenere artificialmente viva una pressione sociale capace di salvaguardare l’intimo legame colla comunità d’origine e con i suoi valori tradizionali, che peraltro sono interpretati, di norma, come un portato dell’area geografica d’origine.
L’emigrante proveniente da certe province, come, ad esempio quelle venete e friulane, zone note per essere di orientamento massicciamente democristiano, non sarà facilmente propenso a mutare il proprio indirizzo politico originario, ciò che peraltro è verificabile attraverso i risultati elettorali. Nell’ecologia elettorale “oriunda” occorre tener conto di variabili quali l’area geografica di provenienza tant’è che non esiste, contro ogni credenza in contrario, un nesso necessario e automatico tra emigrazione temporanea in Europa e voto socialista o comunista.
Non è nelle mie intenzioni , e tanto meno nelle mie possibilità, intervenire nel dibattito, tuttora del resto aperto, su questa opinione corrente e sulla tesi che interpreta il voto degli emigranti come comunque orientato in senso radicale – e il cui successo sarebbe da attribuirsi alle capacità organizzative del movimento operaio di sinistra oltre che ad una diminuzione dei controlli nel paese d’arrivo tale da allentare la pressione esercitata su di loro – quanto piuttosto sottolineare come questo marcato gioco di rimandi e le frequenti interazioni anche solo giornalistiche tra società d’appartenenza originarie e comunità dislocate in via provvisoria all’estero abbiano per esito, se non per fine, quello di limitare le “diserzioni” e le “evasioni”.
La propaganda sul voto degli italiani all’estero, d’altronde, non trova molto spazio in questi anni mentre diventa quasi ossessiva e incessante nella stampa per emigrati dalla fine degli anni ’60 quando con l’attivismo del Movimento Sociale Italiano in crescita, forse si sentono anche più allentati i legami tra le comunità italiane all’estero e la madrepatria in un’Europa prima trainata dal Mercato Comune e poi sulla via della propria unificazione politica in un contesto insomma in cui l’idea di un mondo senza confini può essere percepita addirittura come priva di valori e mancante di punti di riferimento.
A chi, infine, erano destinati i supplementi?
Dalla lettura della rubrica “Echi delle missioni”, che offre il carnet degli incontri e degli appuntamenti settimanali dei singoli centri assistenziali, ci si può fare un’idea sommaria della consistenza e della diffusione della comunità italiana e trarre già alcune considerazioni. Sfogliando con occhio critico i periodici si possono infatti ricavare informazioni abbastanza dettagliate sulla provenienza regionale, non tanto degli emigrati in senso generico, bensì di quelli che frequentavano le missioni. Sotto un profilo strettamente numerico e quantitativo, ad ogni modo, i dati forniti dalla stampa missionaria integrano e a volte chiariscono le stesse stime statistiche ufficiali che non sempre riuscivano a cogliere con precisione le dimensioni della presenza italiana nella Germania d’inizio decade 1950 quando in proporzione (e rispetto alla decade successiva) gli emigranti erano sì ancora pochi, ma andavano a sommarsi a quanti ne avevano anticipato le esperienze nel corso di periodi precedenti e che, rimasti su suolo tedesco durante la guerra, non erano più rientrati in patria (fra essi, con ogni probabilità, anche se si tratta pur sempre di piccoli numeri, alcuni di coloro che si erano portati nel Reich nazionalsocialista “a passo romano” in seguito agli accordi bilaterali stilati da Hitler e Mussolini).
Dal periodico tedesco si evince ad esempio che la ricordata sede missionaria di Francoforte sul Meno si estendeva ai Länder dello Hessen e del Rheinand-Pfalz, e che già nel 1951 ospitava secondo le stime dei sacerdoti in cura d’anime 3.790 italiani. Berlino, invece, che figura essere la missione più antica e costituita ben prima della guerra, all’inizio degli anni ’50 aveva traslocato la propria sede alla Pius-Haus e si occupava sia degli emigrati della vecchia capitale – circa 1160 – e sia, in qualche modo, degli italiani presenti nella zona di pertinenza sovietica, intorno ai 1500. La missione di Monaco – retta da padre Giulio Valentinelli – sovrintendeva invece all’intera regione bavarese e curava 4112 emigrati: dalle carte d’archivio si apprende che qui avvenivano la prima sosta degli emigranti in arrivo dalla penisola e il loro successivo smistamento. Colonia si occupava in totale di 8.835 emigrati del Land Nord, del Rhein e del Westfalen. Amburgo, dove figurava quasi un migliaio di connazionali, si estendeva ai Länder Niedersachsen con 1.386 italiani, Schleswig-Holstein con 356 e Brema con 171. Stoccarda, a cui competeva la zona del Baden-Wuertemberg, ne includeva 358048.
Dal confronto tra le informazioni fornite dai supplementi e la documentazione d’archivio si può talora valutare un po’ meglio l’evoluzione di certe comunità italiane emigrate e ricostruirne in buona misura la composizione o la stessa crescita demografica.
Tornando al caso del Belgio, attraverso l’esame della stampa è possibile poi risalire anche alla effettiva strutturazione che i centri missionari si vennero dando nell’arco di un ventennio al di là del fatto che ufficialmente, almeno all’inizio, essa si imperniasse solo su tre punti di forza – Liegi-Seraing, Montignies-sur-Sambre e Bruxelles – quando invece l’ampia sezione in terza pagina con la sua apposita rubrica e un lungo elenco riepilogativo della metà degli anni ‘50 lasciano intendere che in processo di tempo i missionari erano arrivati a “coprire” almeno venti località ( St. Nicolas-lez-Liege, Ougrée, Herstal, Fond-de-Forêt, Verviers, Bruxelles, Waterschel, Winterslag, Eisden Vucht, Heusden, Namur, Marchienne-au-Pont, La Louvière Biuvy, Maurage, Quaregnon, Hensies, ed Enghien ecc.). Dopo la svolta del 1956, naturalmente, le cose man mano presero a cambiare e, quasi a contrappuntare la parabola discendente del fenomeno immigratorio, di queste ben poche riuscivano ancora ad ottenere spazio nel supplemento che infatti si limitava a riferire delle attività svolte nei centri di Flenu, Seraing, St. Nicolas, Quaregnon, Montignies-sur-Sambre e Winterslag. Siccome i supplementi dell’“Operaio Cattolico” si rifanno tutti ad un unico modello standard conservando generalmente la consistenza di due fogli (benché questa possa variare nel tempo a seconda delle necessità contingenti), ritengo sia un rozzo indicatore dell’ indirizzo mutato del flusso immigratorio verso il Belgio anche la riduzione del formato subita da quello belga nel 1957. L’incremento conosciuto dalla foliazione in quell’anno de “La squilla per gli italiani in Germania” e de “La squilla per gli italiani in Gran Bretagna”, l’uno a tre pagine, e l’altro a due varianti – “La squilla periodico della missione italiana cattolica di Bradford” e “La squilla periodico della missione cattolica di Birmingham” – segnala viceversa qualche modifica dell’assetto preso dalla nostra emigrazione per quei paesi, mentre alla fine degli anni ’70, per fare solo un altro esempio, la grande consistenza della nostra “colonia” in loco si rispecchierà negli 8 fogli de “Il Giornale Popolare (periodico mensile per gli italiani in Lussemburgo)”.
Le rubriche minori, per tutti i supplementi, si rivelano prodighe di notizie all’apparenza minute e di modesta portata, ma in realtà utili a dipanare la trama di una storia sociale che qui non ci azzarderemo certo ad abbordare. Là dove sono ricordati quanti hanno ricevuto il battesimo, contratto un matrimonio assieme a quelli che sono “passati a miglior vita” o a coloro che hanno versato un obolo per la rivista (e vengono per ciò pubblicamente ringraziati), figurano spesso lunghe liste di cognomi. Anche quando essi non vengano seguiti da indicazioni sulla rispettiva provenienza, tali liste valgono già da sole a fornire una mappa indiziaria delle province e delle regioni italiane di origine degli emigranti più fedeli o più legati alla stampa missionaria, anche se poi visti alcuni esempi (Fanti, Stefanato, Testoni, Bavero, Mantelli, Schiavoni, Costa, Cavriani, Lodi, De Zorzi, Antoniol, Paganessi, Meneghini, Verzaro, Mantini, Codutti, Cuberli, Tormen, Gazzoli, Puttin, Baù, Pessotto, Pellisser, Zanuzzi, Cipriani, Sandon ecc.) le deduzioni che se ne possono trarre sono in certo senso scontate: forse incrociando cognomi e informazioni toponomastiche ad essi collegate in Italia si potrebbero compiere ulteriori passi in avanti, ma anche qui bisognerebbe farlo ponendosi nel contempo altri interrogativi riguardanti magari le storie familiari, paesane, ecc. pregresse in campo sociale o politico/religioso dei nomi più ricorrenti.
È facile, e di nuovo prevedibile, un certo prevalere delle provenienze dal nord e segnatamente dal Veneto o dal Friuli, ma anche altre regioni e località non mancano d’essere rappresentate in quella misura e per quelle ragioni che le ricerche di storia locale hanno cominciato a mettere in luce in questi ultimi anni. In Belgio, informa la stampa cattolica, o meglio nelle missioni di Seraing e Maurage, gli emigranti giungono da Trento, Belluno, Venezia, Verona, Treviso, Udine o da città della costa adriatica e dalle isole (Chieti, Campobasso, Bari, Lecce, Caltanisetta Agrigento, Cagliari).
Dopo la pausa forzosa procurata dallo scoppio del secondo conflitto mondiale, anche la vita di molte missioni, si intuisce, aveva ripreso con lena il proprio cammino e anche per tale motivo non era stato troppo difficile alla nuova stampa scalabriniana (ma un poco anche “rumoriana”) far breccia fra i pubblici in formazione all’estero nei punti in cui maggiormente era tornata ad addensarsi l’immigrazione: dopo la guerra e sino all’inizio degli anni settanta gli emigranti italiani riaffollano in effetti i percorsi spesso già usati della mobilità territoriale intraeuropea, i centri di appoggio e di assistenza si riattivano (ma non necessariamente secondo i passati criteri di distribuzione): ancora per il caso del Belgio, ad esempio, padre Ilario da Milano aveva scritto nel 1930 che lungo la frontiera della Zelanda, gli Italiani provenivano per lo più dalle regioni del Nord. Erano friulani, milanesi e bergamaschi come usava in passato49, mentre a Bruxelles gli immigrati cominciavano già ad essere in prevalenza di origine meridionale50. Nel secondo dopoguerra vediamo un padre Pire fondare il villaggio di Varviella a Verviers ossia in un luogo che vantava secolari e assai stretti legami con le cittadelle laniere del Veneto e del Piemonte. Esso è strutturato come “città sociale” in funzione del centro industriale tessile del posto e gemellato con Biella: diventerà il punto di approdo di una diversa specie di emigrati visto ch’è destinato ad accogliere sì 250 profughi dimessi dai campi I.R.O. (in maggioranza della Venezia Giulia), ma anche, nel 1956, molti altri “esuli”in fuga dal loro paese dopo la repressione sovietica della rivolta d’Ungheria ai quali in modo analogo sarebbero dovuti seguire ulteriori contingenti di lavoratori provenienti dall’Italia e per i quali si sarebbero dovute approntare delle soluzioni urbanistiche affini in Germania (ad Aquisgrana e ad Augusta), in Austria (a Bregenz)50 ecc. .
La comunità friulana, fra tutte, sembra piuttosto cospicua; lo si deduce bene dalla lettura delle pagine di “Missione” del 1954: ad esempio, nel reportage della benedizione di una nuova cappella italiana e della statua di S. Caterina d’Alessandria a Hennuyères (missione di Enghien), si parla diffusamente della “colonia di connazionali friulani” impiegati non a caso alle fornaci di mattoni e tutti provenienti da Buia, Biauzzo, Gemona, Osoppo, Treppo Grande ecc. mentre in ripetute occasioni si consiglia a quanti, trovandosi ad Ougrée, dovessero espletare pratiche burocratiche o necessitassero comunque di aiuto, di recarsi al “Caffè Friuli”.
Charleroi, sede della missione di Montignies-sur-Sambre, aperta nel 1923 e caratterizzata già allora dalla consistente presenza di 12.000 operai italiani – che nel ’24 avevano patito forme significative di ostracismo per la vicinanza dell’ufficio informazioni missionario alla sede del reggente fascista, tale Cigarini – nel secondo dopoguerra si presenta come un centro ricco di comitati di assistenza non di rado in crisi per il manifestarsi di acuti dissidi interni e di un circolo culturale attivo ma inquieto. Probabilmente ciò era dovuto al perenne rinnovamento dei quadri di azione cattolica in competizione con socialisti e comunisti, che avevano ingaggiato un delegato per ogni bacino minerario, ottenendo un certo aumento degli iscritti, per quanto insufficiente a soddisfare il sindacato unico comunista impegnato in un notevole sforzo di propaganda, in un periodo in cui sembrava “leggermente in aumento l’interessamento di questa collettività ai movimenti politici della madrepatria con un indubbio risveglio del sentimento nazionalistico favorito dalla propaganda di alcuni elementi del M.S.I.”51.
La missione di Bruxelles invece, nata nel 1930 ad opera dal già citato padre Ilario da Milano (1905-1981), da centro minore, nel secondo dopoguerra ospiterà, oltre alla sede del consolato d’Italia, un cospicuo numero di organizzazioni a carattere assistenziale, dai “Reverendi Padre delle Missioni Italiane del Brabante” alle Acli, dalla Croce Rossa Italiana alla associazione “Amicale Liberi e Tranquilli”, dalla Società Operaia Italiana di Mutuo Soccorso alle Unioni Italiani di Bruxelles e all’O.N.A.R.M.O.
Chi fosse il destinatario ideale del supplemento non sembra dunque difficile da intendere, ma pare corretto escludere che il periodico si limitasse a rivolgersi ad interlocutori del solo hinterland di sua prima competenza/provenienza. A suffragarlo c’è l’elenco dei “sostenitori” originari stavolta di province dislocate un po’ in tutta la penisola, così come il “mercato” degli emigrati difficilmente avrebbe potuto essere esso fonte di interesse “mirato” per i soli veneti o italiani del Nord. Le antiche catene migratorie avevano guidato i loro “stormi” nel ripercorrere le medesime rotte del passato. Ma molte di esse, se non si erano del tutto spezzate, avevano conosciuto tuttavia modifiche e cambiamenti di qualche rilievo e coloro che adesso le alimentavano si affiancavano a quanti, nel frattempo, avevano imparato la lingua del posto o già si trovavano in possesso, in qualche caso, della cittadinanza belga essendo magari anche divenuti praticanti della chiesa locale piuttosto che disinteressati e anonimi abitatori del paese in cui avevano trovato di che vivere.
I fogli cattolici pensati per gli emigranti del dopoguerra erano stati concepiti per soggetti i cui legami con il paese d’origine erano ancora vivi e i cui ricordi pulsanti stentavano a cogliere, nel mentre si formava, il senso di questa situazione. A capo delle redazioni locali, poi, vi erano pur sempre dei missionari, che in Belgio si erano insediati non a caso nei cinque bacini minerari verso cui si dirigeva più consistente il flusso degli “ultimi” italiani, quelli che arrivati alla stazione avevano ancora lo sguardo spaesato e smarrito, quelli che, anche se per breve tempo, avevano la necessità di ricostruirsi una piccola patria, di vedere svettare in cielo un proprio campanile – come quello edificato da padre Sartori a Marchenne au Pont – con in cima, preferibilmente, i simboli della fede e della patria.

Note

1 Benedict Anderson, Comunità Immaginate. Origini e fortuna dei nazionalismi, Roma, Manifestolibri, 2000, pp. 59-67.
2 Corrado Mosna, Serve ancora la stampa di emigrazione dall’Italia all’estero?, “Dossier Europa Emigrazione”, XIX,2-6 (1994), pp. 7-9.
3 Per quanto riguarda la rassegna della stampa sull’emigrazione italiana si veda Archivio Centrale dello Stato, Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale (d’ora in poi ACS): per la stampa francese busta 380 F 48, per la stampa belga busta 365 F 4.
4 ACS, busta 366 F 8.
5 Ibidem.
6 ACS, busta 389 F 80.
7 Ibidem.
8 ACS, busta 389 F 79.
9 Ibidem.
10 Bénédicte Deschamps, Echi d’Italia. La stampa dell’emigrazione, in Storia dell’emigrazione italiana, II, Arrivi, a cura di Piero Bevilacqua, Andreina De Clementi, Emilio Franzina, Roma, Donzelli, 2002, pp. 313-334.
11 Gianfausto Rosoli, L’associazionismo degli emigrati e la promozione delle istanze sociali e culturali, “Dossier Europa Emigrazione”, XX, 3-9 (1995), pp. 21-24.
12 Enrico Pugliese, In Germania in Storia dell’emigrazione italiana, II, cit., p. 123.
13 Ermenegildo Reato, Pensiero e azione sociale dei cattolici vicentini e veneti dalla “Rerum Novarum” al Fascismo, Vicenza, Edizioni Nuovo Progetto, 1991, pp. 71-109.
14 Gianni Cisotto, Giornali vicentini prima del 1946, Vicenza, Edizioni del Rezzara, 1984, p.40.
15 Mariano Rumor, Memorie 1943-1970, a cura di Ermenegildo Reato e Francesco Malgeri, Vicenza, Neri Pozza, 1991, pp. 69-112.
16 Paul Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi. Società e politica 1943-1988, Torino, Einaudi, 1989, p. 226.
17 Falconi, nel 1954 considerava la parrocchia “un centro propulsore d’azione che non ha riscontri in nessun altra organizzazione laica” (Paul Ginsborg, Storia d’Italia, cit., p. 227).
18 Legittimare il ruolo della stampa etnica, “Dossier Europa Emigrazione”, XIX, 1-3 (1994), p.11.
19 Abramo Seghetto, La terza generazione ricorda. Brevi scritti di P. Giacomo Sartori, “L’Eco del Belgio”, 14, 5-6 (2001), pp. 2-11.
20 ACS, busta 365 F 3.
21 “La Missione”, gennaio 1954.
22 ACS, Busta 365 F 3.
23 Abramo Seghetto, La lanterna magica di Astarotte. Fatti di emigrazione ed altro visti da un arguto osservatore e giornalista. Testi di Giacomo Sartori, Piacenza, L’Emigrato, 2001, pp. 3-11.
24 Nell’articolo Gelati…signori si legge: “pare impossibile in ogni angolo del mondo in cui vi andiate a ficcare troverete qualche faccia tonda dal caratteristico accento veneto che vi offrirà un bel gelato. Sono gli abitanti del paesello bellunese di Zoldo…” (“La squilla per gli italiani in Germania”, giugno 1953).
25 Non ho ritenuto di accennare in questa sede alla stampa della fine degli anni ’60 e ‘70 in quanto esito di un’esperienza più tarda e a mio parere non paragonabile a quelle precedenti.
26 Pubblicazione del M.C.I. con direzione e redazione a Esch-sur-Alzette nata nel 1969.
27 Dal giugno 1978 in sostituzione del ciclostilato “Vita italiana a Lussemburgo”.
28 Ersilia Alessandrone Perona, La bandiera rossa, in I luoghi della memoria. Simboli e miti dell’Italia Unita, a cura di Mario Isnenghi, Roma-Bari, Laterza, 1987, pp. 291-316.
29 “La Missione”, gennaio 1954.
30 Ibidem.
31 “La Missione”, febbraio 1954.
32 “La Missione”, marzo 1954.
33 “La Missione”, giugno 1954.
34 Ibidem.
35 Giampaolo Valdevit, Politica Estera, in Gli Stati Uniti dal 1945 a oggi, Roma-Bari, Laterza, 1996, pp. 5-37.
36 Federico Romero, Economia e politica, in Gli Stati Uniti, cit., pp. 127-135.
37 “La Missione”, settembre 1954.
38 Federico Romero, Economia e politica, cit., p. 278.
39 Paul Ginsborg, Storia d’Italia, cit., p. 228.
40 “La squilla per gli italiani in Germania”, novembre 1952.
41 Ibidem.
42 Ibidem.
43 “La squilla per gli italiani in Germania”, giugno 1953.
44 “La squilla per gli italiani in Germania”, novembre 1953.
45 “La squilla per gli italiani in Germania”, febbraio 1954.
46 Stefano Passigli, Emigrazione e comportamento politico, Bologna, Il Mulino, 1969, pp. 3-4.
47 “La squilla per gli italiani in Germania”, giugno 1953.
48 Lettera di P. Ilario da Milano al Direttore Mons. C. Babini, del 2.12.1930 in Abramo Seghetto, La Missione Cattolica Italiana di Bruxelles, “Dossier Europa Emigrazione”, XX, 1-3, (1995), pp. 17-23.
49 Relazione dell’Opera Missionaria Cattolica di Bruxelles, Festa di S.Giuseppe 1932 in A. Seghetto, La Missione Cattolica, cit., pp. 17-23.
50 ACS, busta 365 F4.
51 ACS, busta 365 F3.