Intervista ad Agostino Bistarelli

Agostino Bistarelli si è laureato in Storia all’Università di Pisa e ha conseguito il dottorato in Storia comparata presso l’Universitat Autonoma de Barcelona. Ha insegnato Storia contemporanea nella Facoltà di Scienze Umanistiche della Sapienza di Roma ed attualmente è referente della ricerca per la Giunta centrale per gli studi storici, dove coordina la Bibliografia storica nazionale. Inoltre è docente di ruolo nella scuola secondaria superiore per la classe di Filosofia e storia. È membro del Comitato Diritti Umani della Commissione Italiana per l’Unesco, nonché dei gruppi di ricerca El exilio italiano en España (Ministerio de Educación y Ciencia) e La fraternitè comme engagement politique en Europe – 1820-1920 (ANR France). Oltre a numerosissimi articoli, ha pubblicato i seguenti volumi: La resistenza dei militari italiani all’estero, Rivista Militare, 1996; La storia del ritorno. I reduci italiani del secondo dopoguerra, Bollati Boringhieri, 2007; Gli esuli del Risorgimento, il Mulino, 2011. Inoltre ha curato l’edizione di Karl Marx e Frederich Engels, Sul Risorgimento, Manifestolibri, 2011, ed è autore del CD-ROM L’Atlante dello sviluppo, programma di informazione ARCS – Ministero Affari Esteri, 1998.

Prendendo spunto dal suo ultimo libro gli chiediamo come è nato il progetto di ricerca sugli esuli.

Dopo aver studiato la Resistenza ed il mondo reducistico ho frequentato il dottorato di ricerca a Barcellona dove era attivo un filone di ricerca sulla violenza in epoca contemporanea che mi interessava per completare l’analisi del suo influsso sul comportamento e sulla mentalità dei combattenti. A causa dell’organizzazione del dottorato ho dovuto seguire dei corsi di storia spagnola, anche ottocentesca, e per ottenere i crediti relativi al corso sulla storia del liberalismo sono stato sollecitato a presentare una tesina sul rapporto tra Italia e Spagna durante il Triennio. Da lì le prime ricerche sugli esuli italiani in Spagna dopo il 1821, argomento sul quale ho poi scritto la tesi dottorale. Mi sono così trovato a studiare un altro secolo anche se poi in fondo la domanda che mi ha mosso è la stessa: cosa spinge all’impegno? Come influisce una esperienza liminare sulla soggettività? Cosa fanno le persone dopo questo protagonismo politico? Quindi ho proseguito la ricerca su tutto il periodo risorgimentale e per quanto possibile su tutti i luoghi dell’esilio.

Pensi di riprendere il tema o lo consideri conchiuso; oppure non te ne vuoi più occupare, ma credi che si potrebbe continuare a lavorarci?

In quest’ultimo periodo c’è stata una ripresa del tema con diversi punti di vista, da quelli culturali a quelli sociali a quelli propriamente politici. Sono nati anche gruppi di lavoro a carattere internazionale in due dei quali continuo lo studio per definire soprattutto come si sono costituite le reti di accoglienza, di iniziativa militante, di comunicazione ideologica tra e con gli esuli.

Quale è la possibile ricaduta a livello di categorie storiografiche della tua lettura dell’esulato?

Posso sintetizzare la risposta in due parti. In primo luogo, la dimensione prosopografica della mia ricerca incrocia la storiografia almeno in tre aspetti. La provenienza territoriale che, pur con ogni cautela del caso, conferma la tesi della supremazia delle “periferie” nel ruolo svolto nei moti del 1820-21 segnalata tra l’altro da Talamo, Candeloro e Venturi. La composizione socioeconomica descrive il movimento liberale italiano dei primi decenni dell’Ottocento come espressione di ceti sociali emergenti e non rappresentativo della società nel suo complesso, tanto nella sua componente moderata che in quella democratica. Questa élite, forzata in gran parte verso l’esilio, soffrirà così un forte ridimensionamento che aprirà la strada, nel processo di costruzione dell’unità nazionale, alla egemonia del fronte più moderato, accorpata attorno l’opzione sabauda. Dal punto di vista generazionale ipotizzo la possibilità di ricostruire l’intersezione tra più generazioni come uno spazio sociale costituito dal ruolo delle istituzioni educative e dai luoghi di trasmissione della cultura politica, il movimento settario in primo luogo. Le biografie degli esuli aiutano nel consolidare queste ipotesi di contaminazione generazionale. In secondo luogo, la mia ricerca parte dalla declinazione plurale che, attraverso il termine esilio, possono assumere le identità collettive e i miti nazionali. Le relazioni concrete tra gli uomini e il modo in cui si sviluppano nei loro rapporti con le varie istituzioni nell’esilio sono particolarmente rilevanti nel processo di nation-building anche se misurate con le nuove tendenze storiografiche. Il ruolo della lingua, il trauma della separazione, l’incidenza delle passioni e degli interessi materiali, l’istituzionalizzazione dell’esilio, il ruolo delle comunità di partenza e di accoglienza dimostrano che l’interazione tra sfera pubblica e privata può modulare diversamente la produzione discorsiva a cui ha lavorato a lungo Alberto Banti. Risultato di uno spostamento, maturata in comunità liminari o di mediazione, questa identità dell’esilio è più aperta e cosmopolita, meno cupa e aggressiva. Sono minoranza ma gli esuli, come portatori di questi valori, non possono essere cancellati: il paese è la libertà costituzionale, il vincolo di appartenenza è ai valori e non alla frontiera Per questo ho parlato di esuli come potenziali antidoti verso la deriva nazionalista che si verifica nella fase finale dell’Ottocento.