Intervista a Gillet Pécout

Gilles Pécout (Marsiglia 1961) dirige il Dipartimento di Storia dell’École Normale Supérieure ed è uno dei maggiori ottocentisti europei (http://fr.wikipedia.org/wiki/Gilles_P%C3%A9cout). È molto conosciuto anche in Italia per i suoi lavori sul Risorgimento, tanto più che questi sono stati ricordati da Giorgio Napolitano in occasione di alcuni discorsi ufficiali per le Celebrazioni del Centocinquantenario (http://www.quirinale.it/elementi/Continua.aspx?tipo=Foto&Key=13585).

Il suo libro più famoso è per il momento Naissance de l’Italie contemporaine, 1770-1922, una prima versione del quale è apparsa presso Nathan, Paris 1997, mentre un’edizione aggiornata è stata pubblicata da Armand Colin, Paris 2004. La traduzione italiana, Il lungo Risorgimento, 1770-1922, è invece nel catalogo di Bruno Mondadori, Milano 1999. In attesa di una ponderosa biografia di Cavour, che dovrebbe essere stampata da Fayard in Francia ed Einaudi in Italia, ha inoltre cofirmato il Grand Atlas historique de l’histoire de France, Paris, Autrement, 2011, nonché introdotto e annotato la traduzione francese di Edmondo De Amicis, Le livre Cœur, Paris, Presses Rue d’Ulm, 2001, e l’edizione italiana di Alexandre Dumas, Viva Garibaldi !, Torino, Einaudi, 2004. Infine ha curato numerosissime opere, fra le quali ricordiamo: Dictionnaire de la France du XIXe s., Paris, Hachette, 2002 (con N. Vivier, N. Dauphin e B. Waché); Penser les frontières de l’Europe XIXe-XXIe s., Paris, PUF, 2004; Campagne et sociétés en Europe 1830-1930: France, Allemagne, Espagne et Italie, Paris, Editions de l’Atelier, 2005 (con M. Pigenet); Scuola e nazione in Italia e in Francia nell’Ottocento. Modelli, pratiche, eredità, nuovi percorsi di ricerca comparata, Venezia, Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, 2007 (con P-L. Ballini); International Volunteers and the Risorgimento, “Journal of Modern Italian Studies”, 14, 4 (2009); Le città d’Italia e l’Unità nazionale, Carta d’Italia, “Rivista di cultura italiana contemporanea”, 5 (2011).

La sua attività non si esaurisce nella pubblicazione di studi, ma anche nella direzione di numerosissime tesi di dottorato (http://histoire.ens.fr/Directions-de-theses-et-de-HDR.html) e quindi nella costruzione di una vera e propria scuola, che sta mutando il modo di intendere l’evoluzione politica dell’Ottocento europeo. Inoltre negli ultimi anni ha esteso la sua attività agli Stati Uniti, dove collabora stabilmente con il Remarque Institute della New York University in un programma che coinvolge molti studiosi europei.

Il suo interesse per l’emigrazione italiana è di vecchia data. Basti menzionare un saggio, Dalla Toscana alla Provenza: emigrazione e politicizzazione nelle campagne (1880-1910), “Studi storici”, 31, 3 (1990), pp. 723-738, che ha trovato una forte eco nella nostra storiografia. La riflessione sulla migrazione di natura politica è oggi di nuovo importante nella sua ricerca, soprattutto nel contesto del suo studio del volontariato internazionale (da Einaudi è annunciato per il 2013 un suo volume su La libertà nel Mediterraneo: il filellenismo italiano e francese nel secolo XIX). Proprio su questi temi ha coordinato, assieme a Zvi Ben Dor, il convegno internazionale “Se battre à l’étranger pour des idées”. Volontariat armé international et politique, XVIIIe-XXIe siècles (Parigi, 12-14 aprile 2012).

Vogliamo dunque approfittare della sua gentilezza per chiedergli in primo luogo di sintetizzare quanto presentato nel suddetto congresso.

Questo programma di ricerca è nata da due constatazioni, una storica e l’altra storiografica. In primo luogo, l’onnipresenza del volontariato internazionale in Europa, in particolare nelle penisole mediterranee, tra la fine del Settecento e i nostri giorni, un fenomeno che nei terreni più diversi produce una notevole quantità di fonti spesso ancora ignorate (memorie, autobiografie, descrizioni e racconti di guerra). In secondo luogo, proprio il silenzio degli storici su tale questione, nonostante il rinnovamento dei lavori sulla guerra e l’uso della violenza. Fino a poco tempo fa è quindi rimasta valida l’osservazione di George Mosse del 1990: “The history of volunteers in war has not yet been written. To be sure, some volunteers such as those of the French revolution or the ‘generation of 1914’ have received some attention, but they have not been regarded as part of a historical process. Yet the history of volunteers is continuous from the French Revolution through the Second World War”[1].

Il nostro convegno non voleva soltanto stilare un bilancio esaustivo di tutti i campi nei quali si batterono i volontari; voleva anche interrogarsi in maniera problematica e comparativa sul rapporto fra le diverse esperienza di combattimento e il processi di politicizzazione in un periodo nel quale la pratica bellica rimanda alla sfera pubblica. Dalla comparazione di teatri tanto diversi, come l’America latina delle Rivoluzioni e dei conflitti civili, la Grecia della lotta contro l’Impero Turco, l’Italia del Risorgimento, la Francia della grande guerra, la Spagna e la Cina delle guerre civili, i Balcani e il Medio Oriente dei giorni nostri appare evidente che l’impegno dei volontari in guerre lontane è sempre stato un modo di fare politica, anche se l’impegno internazionale dei volontari, come la partenza degli emigranti, non può essere ricondotto a un solo fattore e sono molteplici gli elementi socio-antropologici che giocano nelle scelte concrete.

Vorremmo quindi domandargli quale sia il quadro dei rapporti nell’Ottocento tra volontariato internazionale ed emigrazione politica.

Possiamo definire in maniera quasi semplicistica il volontariato armato come il movimento spontaneo di uomini, i quali non appartengono, almeno inizialmente, a un’armata regolare partita da un paese per prendere parte alla lotta militare e politica di un altro paese, di un altro Stato-nazione o di una regione distinta dal punto di vista etnico, politico e/o amministrativo. L’espatrio dei volontari ha quindi alcuni punti in comune con l’emigrazione politica, sia nelle immagini relative alla partenza, sia in quelle del ritorno. Il rapporto tra vincolo e libertà nella dinamica della partenza è rovesciato. La scelta di un teatro di guerra straniero può essere conseguenza di un esilio: persino se liberi nella scelta della causa per la quale combattere e della destinazione, questi combattenti armati divengono proscritti come molti emigrati politici e i governi li lasciano volentieri allontanarsi – nonostante il divieto di portare le armi in un paese straniero – per liberarsi dei sovversivi. Abbiamo così nell’Ottocento una notevole coincidenza fra le fasi di repressione antirivoluzionaria degli anni 1829, 1830, 1848-1849 e i picchi delle partenze di volontari. Per quanto riguarda il ritorno di questi ultimi, partecipa anch’esso di una visione dei paesi stranieri, nella quale questi non sono considerati un mero rifugio o un luogo di avventure guerriere esotiche, ma nella maggior parte dei casi un terreno di apprendimento della politica, della nazione in armi e della solidarietà rivoluzionaria: di tali insegnamenti deve approfittare, per sedimentazione, lo stesso paese di partenza[2]. Troviamo questa idea anche nelle rappresentazioni dell’emigrazione politica, che sopravvalutano l’efficacia del ritorno politico. Possiamo dunque considerare il volontariato armato internazionale una delle forme maggiori della peregrinazione politica nell’Ottocento e nell’epoca contemporanea.

 

[1]           Vedi George L. Mosse, Fallen soldiers: reshaping the memory of the World Wars, New York-Oxford, Oxford University Press, 1990.

 

[2]           Questa politicizzazione del volontariato è criticata da una storiografia improvvisata. Basti pensare al seguente giudizio sulle forme del filo-ellenismo europeo: “As political intriguers the French were perhaps the most notorious. The British on the other hand were on the whole much more respectable and desinterested, and, like the Americans, were, with few exceptions, romantics and idealistics […]. The Italians, who established Masonic Lodges, likewise had fantastic projects: their chief intention was to organise a large regular army, which having won freedom for the Greeks, would be employed to overtrhrow the Bourbons of Naples and afterwards to liberate the whole Italian peninsula” (Douglas Dakin, British and American Philhellenes during the war of greek independence 1821-1833, Thessaloniki, Hetairia Makedonikon Spoudon, 1955, p. 3).