Memoria e musei dell’emigrazione italiana in Belgio

Nel Belgio gli impianti minerari sono stati progressivamente dismessi a partire dalla metà degli anni Cinquanta. I loro siti sono stati recentemente tramutati in poli di archeologia industriale e sono diventati luoghi di forte integrazione, sia sociale che storica, delle varie comunità all’interno del rispettivo loro tessuto cittadino. I segni lasciati dall’industrializzazione sono così entrati a far parte dei panorami urbani come “memorie collettive”, come vere e proprie “eredità storiche”.
La miniera di Bois du Cazier, nonostante il tragico incidente del 1956, non cessò immediatamente l’attività1. Le attività di dismissione si concentrarono inizialmente sullo smantellamento delle gallerie e sul recupero d’ogni singolo pezzo lasciato in profondità, ma la nuova galleria a 1100 metri di profondità prometteva un ricavo molto interessante. In seguito a varie corrispondenze tra la direzione della miniera e il governo si iniziò, senza nessuna autorizzazione, ad estrarre di nuovo carbone. Il ministro degli affari economici Antoon Spinoy chiese per l’ennesima volta di chiudere la miniera. Nel dicembre 1963, la paura di rimanere senza lavoro in seguito alla chiusura degli impianti provocò lo sciopero tra i minatori. Si riprese pertanto a scavare forsennatamente per ricavare il massimo dalla miniera ormai in “declino”. Nel 1965, si tentò la cessione della nuova galleria alla vicina proprietà di Monceau, ma non si fece in tempo, perché quest’ultima chiuse anticipatamente per via della crisi energetica. Bois du Cazier rimase dunque in attività, con 50 minatori di fondo e 30 in superfici, fino al mese di dicembre 19672.
Nei successivi 23 anni il sito fu completamente abbandonato. Tuttavia durante le commemorazioni per il 30° anniversario della tragedia di Marcinelle, la popolazione reagì con indignazione alla proposta di distruggere i locali della miniera. In migliaia si mobilitarono per firmare la petizione che avrebbe salvato l’impianto industriale. Finalmente, nel 1990, l’intero territorio della miniera fu protetto dalla regione Vallonia come sito d’interesse storico. Il cantiere di restauro partì nel 2000 e terminò, almeno per la prima fase, nel 2002.
Il 12 marzo 2002 fu quindi inaugurata la prima parte del museo3. La sua unicità risiede nell’intento commemorativo e nella celebrazione dello sforzo compiuto dall’immigrazione italiana. Il museo è l’unico infatti in Belgio ad accordare uno spazio così importante alla comunità immigrata. L’ingresso che accoglie i visitatori è dedicato ai caduti. Un’imponente colonna di marmo bianco di Carrara, selezionata con cura, elenca i nomi dei 262 minatori deceduti e davanti a essa gli operai scomparsi sono commemorati in occasione di ogni evento del museo. La singolarità del museo consiste anche in questa intensa liturgia civile.
Dal punto di vista prettamente architettonico, il sito museale consta di due spazi ben definiti. Un primo edificio, riservato alla memoria dell’8 agosto 1956, include un forum che accoglie le varie manifestazioni ed esposizioni temporanee. Un secondo edificio è riservato alla storia industriale della regione di Charleroi. Il complesso architettonico è dominato dalle due torri poste sopra i pozzi, ormai chiusi ed inaccessibili. La zona protetta, con i suoi 26 ettari di proprietà della regione Vallonia, è circondata da tre terril (le collinette artificiali sulle quali torneremo più avanti). Il museo gestito dalla onlus Archéologie Industrielle de la Sambre – Site du Bois du Cazier è attentamente mantenuto grazie a fondi europei.
Lo spazio riservato alla catastrofe di Marcinelle è contemporaneamente dedicato all’immigrazione italiana. Vengono ripercorse le tappe del viaggio verso le miniere belghe. Diversi dispositivi multimediali permettono la visualizzazione di filmati d’epoca sia in italiano, sia in francese. Questa particolare attenzione alla lingua italiana è unica nel suo genere nonostante il paese sia abituato a lavorare su più lingue, traducendo per esempio dal francese al fiammingo. Fotografie, materiali audiovisivi, testimonianze dirette raccontano anche gli eventi delle tragiche giornate della sciagura, ora per ora, giorno dopo giorno.
Nel secondo edificio, il percorso museale illustra le tappe della rivoluzione industriale ed i suoi sviluppi nei diversi settori. Passando dai siti minerari alla siderurgia e alle vetrerie si arriva fino alle varie fabbriche metalmeccaniche e alla chimica. All’interno delle tredici sale del museo dell’industria sono esposti laminatoi del secolo scorso, macchine a vapore, vecchie dinamo industriali a testimoniare delle attività passate. La tredicesima ed ultima stanza contiene i bagni e le docce originarie dei minatori. Imposti dalla legislazione fin dal 1911 in ogni miniera con almeno 50 dipendenti di “fondo”, aiutarono ad aumentare il benessere e l’igiene tra i minatori che spesso non disponevano dell’acqua corrente in casa. Le cabine doccia sono le insolite, ma “vere” depositarie del sacrificio dei minatori di fondo. Il presidente della regione Vallonia, Jean-Claude Van Cauwenberghe, sintetizza bene il valore attuale del recupero del sito e della creazione del museo:

 

Il demeure aujourd’hui un symbole pour la Wallonie: symbole d’une tradition industrielle profondément ancrée, symbole d’une société plurielle lentement stratifiée par les immigrations successives, symbole d’une solidarité tissée dans les joies et les peines d’un labeur commun. (…) Voilà pourquoi le site du Bois du Cazier se devait de devenir aussi un lieu de vie, de rencontres et d’échanges4.

 

Esistono in Belgio altre realtà museali che prendono in considerazione il recupero dei siti minerari, ma nessuno si sofferma con tanta attenzione sulle vicende migratorie come il Bois du Cazier. Il sito forse più importante dal punto di vista storico è la cittadella mineraria di Bois-du-Luc, costruita tra il 1838 e il 1853. L’intero plesso architettonico si erge a simbolo nazionale dell’epopea mineraria belga5.
Come ricorda una guida all’archeologia industriale è

 

diversa la situazione a Bois-du-Luc, anche per la suprema bellezza di questa cittadella del carbone dove, oltre ai pozzi di estrazione coperti da strutture in stile neogotico (quasi una cattedrale del lavoro), si trova un villaggio operaio che si articola, sulle orme dei falansteri di Charles Fourrier, su due arterie ortogonali dominate dalla residenza del padrone in posizione sopraelevata6.

 

In realtà il suo sfruttamento minerario risale a un periodo molto più lontano. La Société Minière de Houdeng-Bois-du-Luc nacque infatti nel 1685 e fu la prima forma di società “capitalista” mineraria del Belgio. Ne fecero parte alcuni minatori, due banchieri, due notai e un nobile del posto. Progressivamente quest’attività d’estrazione del carbone andò mutando il paesaggio circostante. Per cinque secoli il sito produsse ricchezza e garantì la “sopravvivenza” dei suoi minatori. L’ultimo pozzo chiuse nel 1973 e con lui un pezzo di storia locale rischiava di sparire per sempre. Nel 1983, la comunità locale decise quindi d’aprire il “museo della miniera” per preservare la memoria operaia tramite la conservazione non solo del sito architettonico, ma soprattutto del suo enorme archivio di documenti, fotografie, corrispondenze…7 Da due anni l’archivio del museo partecipa attivamente al progetto A.I.C.I.M.8 che permetterà in futuro l’accesso sempre più facilitato ai documenti dell’archivio. Inoltre la sua biblioteca, con un migliaia di titoli circa, è un importante punto di riferimento per la storia mineraria ed economica del Belgio.
“L’écomusée” di Bois-du-Luc è stato il primo museo minerario del Belgio. L’intento era quello di mettere in relazione i tre elementi necessari per ricostruire il passato della zona: la popolazione, il territorio e la sua storia. Nel 1988 fu creata la Fédération des écomusées et Musées de société, che nel 2000 contava già la partecipazione di 127 istituzioni aderenti tra le quali 4 ecomusei belgi.
Il sito è composto dalla Galerie castelain, da una sala museale sulla vita nel XX secolo e dalla Fosse Saint-Joseph, pozzo “ricreato” da un gruppo di minatori locali. L’ecomuseo propone anche una visita interattiva alla mostra permanente “Entre Homme et Machine”, che ricostruisce l’atmosfera industriale del XIX secolo così come la vita sociale delle miniere. Nelle immediate vicinanze, è visitabile il terril di Sars- Longchamps.
L’intero complesso ripropone il modello di villaggio operaio tipico di metà ottocento, a cui si accede tramite un lungo viale alberato. L’autoritaria “casa del direttore padrone” costruita nel 1844 è parte integrante del panorama. Posta tra il piazzale delle officine e il pozzo Saint-Emmanuel, davanti agli edifici della miniera occupava una posizione privilegiata e da essa si era in grado di controllare tutte le attività della città operaia. Dal 1916, però, i direttori decisero di non abitare più nella grande casa e preferirono ville più lussuose lontane dalla polvere e dal rumore della fabbrica. Negli anni successivi la casa padronale ospitò una scuola d’orticultura e una scuola elementare: prossimamente ospiterà invece la Maison de l’Économie sociale, ente locale che dirama tutte le informazioni circa la creazione e il censimento delle imprese d’Economia Sociale, corrispondente al filone delle imprese etiche italiane.
Nel villaggio operaio vi erano un ospizio, fondato nel 1865, e un ospedale, aperto nel 1912. Anche queste strutture riflettono il gusto architettonico dell’epoca e il desiderio paternalistico di “provvedere” alle necessità degli operai. Dopo la chiusura della miniera nel 1973, l’ospizio fu tramutato in sede dell’archivio e del servizio sociale della città di La Louvière, mentre l’ospedale divenne casa di riposo per portatori di handicap.
La città operaia inglobava anche gli alloggi di Bosquetville sorti intorno alla miniera tra il 1838 e il 1853. Le 162 case di Bosquetville tuttora allineate secondo norme geometriche dell’epoca, seguono un tracciato trapezoidale. Le strade che ritagliano i quadranti portano il nome dei venti. Ogni casa operaia formata da due stanze e una soffitta disponeva anche di due cantine e un giardino. Verso 1880 si alzarono i secondi piani delle case operaie. In asse con la strada principale, si vede tuttora la “casa del direttore”.
Nel caso dell’enorme complesso del Grand-Hornu vicino Mons caso siamo di fronte ad un “modello” di villaggio operaio della metà dell’Ottocento: i suoi grandi locali adibiti a falansterio, le sue officine, i suoi caseggiati, i suoi impianti minerari. È forse il sito più importante di archeologia industriale del Belgio insieme al Bois-du- Luc. La sua attività è segnalata sin dal 1783. Tuttavia la sua forma odierna deriva dal progetto dell’architetto Bruno Renard e dal proprietario Henri De Gorge, che prevedeva la costruzione di una città “totale” in grado di inglobare tutto il plesso industriale minerario. Il sito fu realizzato tra il 1810 e il 1830 e il suo stile prettamente neoclassico ripropone i fondamenti utopici della città operaia ideale.
Il complesso minerario terminò le sue attività estrattive nel 1954. Nel 1969 fu prevista la sua demolizione, ma fortunatamente il villaggio operaio fu “abbandonato” alle insidie del tempo. Venne quindi riconvertito e restaurato solo dopo lunghe traversie politiche ed economiche. Nonostante i molti anni d’abbandono si cercò di mantenere viva l’identità unificatrice degli edifici. Ci si propose di continuare a raccogliere contemporaneamente, in un solo luogo, svariate attività. Nel 1989 l’intero complesso fu riacquistato dalla provincia dello Hainaut e durante gli anni 90 divenne un’importante polo di sviluppo scientifico, culturale e turistico. La gestione del sito è ora a carica della onlus Grand-Hornu Images che organizza manifestazioni, esposizioni d’arte e di design. Sempre all’interno degli edifici del Grand-Hornu si trova Technocité, il polo didattico informatico e il M.A.C.9.
Questo importante sito d’archeologia industriale, molto ben recuperato, non riporta purtroppo nessun ricordo del suo passato minerario, se non nelle sue forme architettoniche. Non ci troviamo più davanti ad un museo storico, con relativo archivio e susseguente “memoria sociale”. L’intero “parco”, ora riconvertito. funge da catalizzatore sociale e le attività che vi si svolgono sono del tutto scollegate dalla vita ormai lontana dei minatori e degli operai.
Altra realtà locale è il piccolo Museo della miniera di Bernissart-Harchies, formato dalla collezione privata dei signori Duquesnoy. Si colloca anch’esso tra i musei storici ad impianto “classico”. Macchinari, oggetti vari e documenti sono stati recuperati dalle miniere di Hansies-Pommeroeul, di Monceau Fontane, del Roton (ultima miniera Belga in attività, vi si lavorò fino alla metà degli anni 80), di Farciennes10. Il piccolo museo non presenta tuttavia nessun riferimento alla nostra emigrazione o alle problematiche legate ad essa.
Il sito museale di Blégny, vicino Liegi è stato ideato come “campo scuola”, sfrutta dunque un’idea particolare ma non unica nel suo genere11. La parte principale della visita si articola all’interno della miniera e negli impianti esterni di lavaggio e smistamento del carbone. Il motto del sito carbonifero di Blégny rimane emblematico: “Il faut descendre pour comprendre!”12. Un filmato piuttosto divulgativo presenta la storia del carbone. Al termine i visitatori sono invitati ad indossare una giubba blu e un casco prima della discesa nel pozzo. Tramite un ampio scalone si scende nelle gallerie del Puits-Marie, originario del 1816. Il livello poco profondo rende comunque bene l’atmosfera del lavoro in galleria, anche se non ha niente a che vedere con le profondissime “vere” gallerie, per esempio, di Marcinelle.
Si scende progressivamente a -30 e -60 metri sotto terra. L’universo del minatore è stato ricreato tramite l’utilizzo di macchinari restaurati che vengono accompagnati da effetti sonori e visivi. Ovviamente sono stati eliminati tutti i veri disaggi della miniera e la visita è per così dire asettica. Alla risalita si prosegue verso gli impianti esterni di lavaggio del carbone. Ogni fase del trattamento del carbone viene spiegato meticolosamente. L’intero sito è stato conservato quasi intatto, perfino le lampade vengono dichiarate “originali”. Le visite sono multilingue come in molti musei delle miniere, nello spirito della mescolanza multiculturale, ma la visita in italiano è solo su richiesta.
Il polo museale di Blégny propone inoltre dei supporti pedagogici per gli insegnanti. Un parco esterno allestito per i bambini, le speciali classi Taupy (“Talpetta”) denotano il taglio prettamente scolastico. Il polo propone anche soggiorni, all’interno della foresteria del museo, dedicati al mondo minerario con la scoperta dei bioparchi instaurati sui terril. Anche nel museo didattico il riferimento al lavoro migrante è del tutto assente.
Esiste inoltre da pochi anni un’interessante iniziativa che ripropone in termini ambientali la visita dei famosi terril, parte integrante ormai del piatto paesaggio belga13. La Chaine des terrils belges si estende per 200 km, da Bernissart all’altopiano di Herve, passando dal Borinage a Charleroi e prolungandosi fino a Liegi. Fanno parte di questa catena geologica artificiale ben 340 terril maggiori (più grandi, spesso nati dopo la rivoluzione industriale) e centinaia di terril minori (più piccoli, generalmente sorti prima della rivoluzione industriale). Queste colline formatesi con l’accumulo dei detriti delle miniere hanno sviluppato con gli anni un particolare microclima che permette di ospitare flora e fauna locale. Questa nuova forma di eco-turismo permette di entrare in modo insolito nel mondo dei minatori. Ogni zona ha la sua mappa che permette la visita ai terril, ma sentieri veri e propri esistono solo su alcuni di loro e le visite guidate sono consigliate. I sentieri sono stati segnalati con i simboli tipici delle cartine alpine, rendendo la scalata simile ad una passeggiata montana. Questo progetto veramente insolito, che valorizza i cumuli di “rifiuti” minerari nasce nel 1997 per via dell’interessamento di varie associazioni ambientaliste. La stessa iniziativa ha già riscosso parecchio successo nella zona mineraria a nord della Francia14. Anche in questo contesto, non viene accennato nessuna informazione circa il lavoro “migrante”.
Altri recuperi meno felici non rientrano nel settore “museale” vero e proprio, ma permettono tuttavia la sopravvivenza dei siti minerari. Quello di Winterslag, nella zona fiamminga della Campine, è stato infatti recuperato in un recente restauro. Ma l’uso che ne è derivato non è corretto dal punto di vista storico-filologico. Le sale macchine dei pozzi di risalita del carbone sono state infatti adibite a grandi saloni per meeting e concerti15. La memoria del sito minerario rimane, ma viene sostanzialmente stravolta. Oggi mangiare in un posto dove solo alcuni decenni fa c’era solo carbone e polvere lascia perplessi. Lo stesso discorso vale per la Cantine des Italiens, ricostruzione storica dei vecchi alloggi occupati dai minatori italiani a Houdeng-Goegnies vicino alla città di La Louvière. Il sito di poche casupole “ricostruite” e non originali offre poco al visitatore, se non un’aerea di pic-nic esterna. La volontà di tramandare la memoria di quegli ambienti di vita quotidiana non trova degna risposta nel risultato finale.
In totale pochi siti realmente storici svolgono la loro attività di “testimoni” del lavoro in miniera. Per di più, solo uno sviluppa realmente il tema dell’immigrazione italiana e per giunta sempre in relazione alla tragedia di Marcinelle del 1956. Il panorama museale è quindi ancora piuttosto acerbo, forse perché il passato minerario è ancora carico dei pregiudizi legati alla storica “bataille du charbon”. Si tratta infatti di un passato solo apparentemente glorioso e invece innervato di aspettative tradite e licenziamenti anticipati. Il ricordo dell’industrializzazione del Belgio dovrebbe quindi necessariamente essere accompagnato da un autentica riflessione sui principali nodi storico-politici dello sviluppo europeo: premessa necessaria per riflettere la complessità e l’unicità del caso belga.

 

Note

  1. Per una storia del sito minerario di Marcinelle “Bois du Cazier” cfr: Willy Bourgeois, Marcinelle 1.035 m., Verviers, De Gerard, 1956; Christian Druitte, Bois du Cazier, Marcinelle 1956, Charleroi, Archives de la Wallonie, 1996.
  2. Jean-Louis Delaet, Alain Forti, Francis Groff, Le Bois du Cazier, Bruxelles, Labor, 2003, pp. 109-114.
  3. http://www.leboisducazier.be/
  4. J.-L. Delaet, A. Forti, F. Groff, Le Bois du Cazier, cit., p 5;. “È oggi un simbolo per la Vallonia, il simbolo d’una tradizione industriale profondamente ancorata, il simbolo d’una società plurale lentamente stratificata dalle varie immigrazioni, simbolo d’una solidarietà intrecciata nelle gioie e dolori del lavoro comune (…) Ecco perché era un dovere fare diventare il sito di Bois du Cazier un luogo anche di vita, d’incontri e di scambi”.
  5. http://users.swing.be/musee-mine-boisduluc/
  6. Antichi spazi del lavoro, a cura di Enrica Torelli Landini, Roma, Palombi, 1999, p. 11.
  7. http://www.ecomuseeboisduluc.be/
  8. Accès informatisé aux collections des institutions muséales.
  9. Musée des Arts Contemporains, http://www.mac-s.be/
  10. http://www.dpzworld.net/museedelamine.htm
  11. http://www.blegnymine.be/
  12. Bisogna scendere per capire!
  13. http://www.terrils.be/
  14. http://chaine.des.terrils.free.fr/
  15. http://www.koolmijn.com/