Arrivare in città, conoscersi, associarsi: immigrazione e inurbamento nella Roma del Seicento*

La storiografia sulle migrazioni ha ormai superato alcuni scogli interpretativi che ne hanno dominato il panorama fino agli anni Novanta dello scorso secolo, a partire da un approccio nei confronti del fenomeno della mobilità visto non più come indice di una crisi o di un dislivello economico tra località, quanto piuttosto come elemento strutturale di qualsiasi società umana2. Gli storici e gli scienziati sociali hanno cominciato a guardare alle migrazioni considerandole aspetti della società essenziali al suo funzionamento. Inoltre, ben lontani dal ritenere la migrazione soltanto il frutto di differenze economiche tra due spazi, gli studiosi hanno riconosciuto da un lato la complessità delle motivazioni e delle dinamiche della migrazione, e dall’altro l’estrema diffusione dell’esperienza della mobilità, come è stato ben espresso in un recente lavoro di sintesi dei Lucassen:

Most basic decisions by human beings – the choice of a profession or a partner – often entail leaving their place of birth or residence. While they may not go far, their moves nevertheless lead them to other social and sometimes geographical environments3.

A tale cambiamento nell’approccio al fenomeno della mobilità in generale, è corrisposto un cambiamento anche nella riflessione storiografica e sociologica sulla stessa “categoria” del migrante, considerato sempre meno come un elemento estraneo e esterno alla società di arrivo.
La scuola di Chicago, cui va il merito di aver individuato per la prima volta la migrazione come oggetto di riflessione sociologica, ha influenzato per molti anni lo studio della mobilità, attraverso il modello ecologico dello spazio urbano. L’idea della città come di un ambiente in cui le diverse popolazioni e i diversi gruppi sono in competizione fra di loro per le risorse disponibili (e chi perde viene assimilato o emarginato) ha dominato lo studio delle migrazioni nel senso che la maggiore attenzione è stata prestata alle differenze tra gruppi sociali quali nativi e forestieri, tralasciando così i punti di contatto e le analogie. I metodi stessi di indagine hanno condizionato l’esito delle ricerche, partendo in maniera più o meno voluta dall’idea che l’immigrato nello spazio urbano continui a essere fondamentalmente membro della sua comunità d’origine, dotato di legami personali essenzialmente familistici e “nazionali” – dunque contestualizzandolo profondamente. Al contrario, il nativo è visto, e dunque studiato, come persona dei cui legami a priori non si ha idea:
In altre parole, mentre la maggior parte degli individui (quelli normali) viene studiata con una batteria di tecniche che (per tutti i loro reali vantaggi) tendono a decontestualizzarli, considerandoli come soggetti con determinati attributi individuali (professione, genere, titolo di studio, ecc.) e rappresentandoli come mossi da forze essenzialmente impersonali, gli immigrati vengono invece studiati come si studiano i villaggi. Infatti, come nei villaggi degli antropologi, si prendono in esame “tutti” gli aspetti della vita, intercalando la descrizione dei conflitti fra vicini con quella della routine lavorativa, restituendo in questo modo un quadro dell’azione profondamente contestualizzato. Questa diversità tra gli approcci impiegati nello studio degli immigrati da una parte e nello studio della maggioranza della popolazione dall’altra favorisce l’idea che mentre Noi siamo mossi da una razionalità individualizzante, da “interessi” che dipendono dalla nostra appartenenza alle grandi categorie sociologiche (classe, genere, ecc.), gli immigrati sono invece mossi da logiche familiari e comunitarie4.
Prendendo le distanze da questa immagine del forestiero nella città, negli ultimi quindici anni circa la storiografia sulle migrazioni, e quella sull’età moderna in particolare, conta ormai su acquisizioni che hanno decisamente cambiato lo scenario in cui si svolge la riflessione.
Innanzitutto, è ormai un dato acquisito il carattere piuttosto aperto delle città di antico regime, popolate di forestieri cui non è precluso l’accesso a risorse quali il mercato del lavoro o quello matrimoniale, così come è ormai assodato il fatto che la città non divida i propri membri fra cittadini e non, ma piuttosto tra abitanti stabili e temporanei5. Non vi è dunque nessuna linea di demarcazione che divida i nativi dai forestieri solo per un principio “nazionale”: le differenze non sono fra i gruppi nativi/non nativi in quanto tali.
L’esempio del mercato del lavoro è emblematico per valutare il cambiamento di prospettiva avvenuto. Numerosi studi stanno infatti mettendo in luce come i forestieri delle città moderne non fossero affatto relegati ai margini del mercato lavorativo, impiegati in nicchie della produzione e in mestieri poveri. Al contrario, sta emergendo un altro quadro: quello di immigrati che occupano buone posizioni lavorative, che sposano native/i e che ricoprono addirittura cariche politiche6. In altre parole, si è arrivati a considerare lo straniero molto meno diverso da un nativo di quanto non si sia fatto in passato. Alcuni studi hanno dimostrato come tra abitanti autoctoni di una città e forestieri non vi siano particolari differenze né per quanto riguarda la cultura né soprattutto per quanto concerne le possibilità economiche e sociali all’interno della città7.
È per questo motivo che il concetto di integrazione gode di sempre minore fortuna. Quanto detto finora circa l’apertura delle città moderne verso gli stranieri, la sostanziale assenza di grosse disparità fra forestieri e nativi nell’accesso alle risorse, l’accentuazione dei tratti di somiglianza più che delle differenze tra stranieri e autoctoni, non può che mettere in discussione l’idea che inurbamento significhi integrazione. Infatti, né le località di arrivo sembrano così coese e omogenee da essere definite quali ambienti coerenti che integrano elementi estranei, né tanto meno il forestiero è più visto come elemento estraneo alla società di arrivo8. Da questo punto di vista, la storiografia assorbe e rielabora una riflessione maturata soprattutto in campo antropologico, relativamente alle dinamiche di creazione di identità etniche e dunque di separazione e diversificazione di gruppi sociali. L’idea di un’invenzione della tradizione, nel senso di una creazione di comunità etniche più immaginate che realmente esistenti9, si accompagna alle riflessioni di Jean-Loup Amselle sull’opportunità di pensare le culture e le identità come originariamente meticce, ovvero come un tutto non differenziato, in cui è difficile separare e individuare identità precise10. Le città moderne sono un buon campo di applicazione di queste riflessioni, non a caso assimilate dalla storiografia sulle migrazioni: in antico regime infatti il processo di invenzione di alcune identità non era ancora avvenuto, e dunque le città sono spesso lontane dall’essere comunità coese che accolgono (o respingono) lo straniero. Gli stranieri sono invece parte integrante di un ambiente, quello urbano di età moderna, che non bada certo a definire i propri abitanti in base a etichette di tipo etnico (o “nazionale”)11.
I lavori che hanno applicato l’analisi di network allo studio delle migrazioni12 hanno rivelato come l’esperienza della mobilità possa essere anche molto diversa a seconda di chi si mette in cammino: i percorsi nella città di arrivo possono essere infatti molto vari, e le strategie di mobilità e adattamento all’interno del nuovo ambiente molto diverse13. “Integrarsi” può dunque non essere la priorità per chi viene da fuori; l’utilizzo dell’ambiente urbano può essere infatti anche parziale: basti pensare alle migrazioni temporanee. L’analisi delle reti relazionali degli stranieri nelle città moderne ha evidenziato un nodo fondamentale nel momento stesso in cui ha messo in luce come per chi si sposta sia necessaria una rete che va oltre le sole risorse parentali14, e come non sempre il mantenimento dei contatti con la propria comunità d’origine all’interno della città sia una priorità per il forestiero: come sottolinea Sandra Cavallo, a volte l’obiettivo non è mantenere le radici ma metterle15.
La sopravvalutazione della comunità nazionale come ambito privilegiato dell’esperienza urbana del forestiero è dovuta essenzialmente a un difetto di prospettiva con cui si è guardato al fenomeno dell’immigrazione. Essa, infatti, è stata spiegata essenzialmente in termini di catene migratorie, legate alla parentela, al mestiere, alla comune origine geografica. Se la dinamica della catena migratoria può spiegarci in molti casi le modalità di partenza e di arrivo in una località, cioè le fasi iniziali dell’immigrazione, essa si rivela insufficiente laddove si volga lo sguardo dal movimento all’assestamento16, dalla fase dell’arrivo a quella dell’inurbamento. Il difetto di prospettiva sta proprio qui, nel limitare l’azione di immigrare all’arrivare in un nuovo ambiente, senza considerare che questo non è che l’inizio di un processo che avrà come teatro principale la città di arrivo e le dinamiche di inurbamento, scarsamente considerate dalla storiografia17.
Se invece allarghiamo il campo visivo fino a considerare l’immigrazione nelle città sia movimento che inurbamento, ci accorgiamo facilmente dell’inadeguatezza delle sole catene migratorie a spiegare il processo nella sua interezza. Al loro arrivo nelle città, gli immigrati contano su un set di risorse classico, che il concetto di catena migratoria spiega piuttosto bene, ma poi? Che cosa succede dopo i primi tempi che si è in città? Su chi si conta, a chi e a che cosa ci si rivolge per accedere alle risorse nel nuovo spazio urbano? In altre parole, quali sono gli elementi che caratterizzano le possibili strategie di inurbamento di chi viene da fuori?
Gli studi che hanno preso le distanze dall’idea dell’immigrato come persona dai legami esclusivamente “nazionali” o parentali lasciano in qualche modo l’interrogativo aperto. Lo spazio lasciato dal ridimensionamento dei legami familiari e comunitari va dunque riempito.
Entrando nella città e seguendo i forestieri nei loro percorsi di inurbamento, si viene in contatto con strategie molto diverse18. Questo contributo si concentra su una delle tante possibili, una strategia che ha il suo centro nella costruzione di forme associative e nel far parte delle stesse: la membership è la parola chiave.
Le forme associative sono state studiate soprattutto come oggetti rispondenti a esigenze di culto o generazionali (si pensi alle badie della gioventù)19. In questo studio vorrei allargare il campo dello studio di tali strutture, sottolineando come la costruzione di un luogo sociale risponda a bisogni di carattere più generale: dalla fornitura di assistenza, alla possibilità di visibilità e, soprattutto, all’accesso alle risorse economiche e sociali della città.
Il valore della forma associativa, se valido per ogni abitante della città, rivela il suo potenziale in particolare nello studio dell’inurbamento: ridimensionare il ruolo dei legami comunitari nel percorso di un forestiero in città non deve spingerci a sottovalutare l’importanza delle forme associative in sé. L’immigrato non è necessariamente una persona la cui presenza in città si inscrive tutta nella comunità “nazionale”: tuttavia è importante sottolineare che ciò non significa che egli non sia inserito in altri sistemi “comunitari”, in altre forme associative.
Infatti, né la costruzione di reti sociali né tanto meno l’accesso alle risorse sono processi che possono avvenire senza un qualche tipo di mediazione. Credo che la struttura aggregativa sia uno degli elementi di mediazione più importanti nei percorsi di inurbamento: questo lavoro prende come esempio la compagnia (o confraternita) di Santa Maria dell’Orto di Roma, per illustrare l’importanza della forma associativa in modelli di inserimento nella città anche molto diversi fra di loro. Nonostante la sua connotazione religiosa, Santa Maria dell’Orto è infatti innanzitutto un luogo di aggregazione, uno dei tanti presenti nelle città20.
Roma è da sempre una città fortemente caratterizzata dalla presenza di stranieri: l’afflusso di immigrati nella città in età moderna è così massiccio da diventare fattore perturbatore dell’equilibrio demografico tra i due sessi21: la struttura demografica di Roma infatti è caratterizzata da una forte eccedenza di maschi sulle femmine, dalla fine del Cinquecento fino all’unificazione.
La Descriptio urbis del 1527 registra la presenza di circa 60.000 abitanti, indicando per una parte di loro (in verità una parte piuttosto esigua, 3495 abitanti, meno del 7% del totale) la provenienza. Secondo Jean Delumeau22, di Roma e dintorni erano solo il 16,4% degli abitanti della città, mentre il resto era ripartito tra il 63,6% di immigrati giunti da altre parti d’Italia e il rimanente 20% definito “ultramontano”, ovvero proveniente dall’estero.
Non è soltanto la popolazione ad essere varia nella Roma barocca: la varietà, elemento che gli studiosi di antropologia e sociologia urbana hanno da tempo individuato come caratteristica della città, ne era un tratto distintivo in molti ambiti23. Le parrocchie erano numerose e diverse (più di 80), i mestieri esercitati anche (nel periodo di Urbano VIII le attività censite risultavano essere 71), così come le confraternite, i sistemi di vicinato, le comunità nazionali, le osterie e via dicendo. Se si pensa ad esempio alle comunità “nazionali”, molte delle quali dotate di una propria chiesa, confraternita, area di insediamento privilegiato e a volte addirittura giurisdizione sui propri membri, la città sembra quasi contenerne tante altre. Si profila dunque una città i cui abitanti hanno diversi modi di costruirvi la propria presenza, muovendosi tra diversi tipi di appartenenze e lealtà (vicinati, comunità “nazionali”, rioni, confraternite e via dicendo)24.
Alla varietà Ulf Hannerz associa come altra qualità specifica della città l’accessibilità, ovvero la possibilità di venire in contatto con un gran numero di persone, in gran parte estranei gli uni agli altri25. Questa possibilità è però teorica: vivere e agire in uno stesso spazio non equivale infatti a entrare in contatto con tutta la cittadinanza; le relazioni si formano di solito secondo canali specifici, attorno a elementi quali la provenienza, il vicinato, il mestiere e via dicendo.
Per studiare l’appartenenza a un gruppo, è dunque importante conoscere quali fossero gli ambiti dell’esperienza personale, urbana e non, attorno ai quali si costruivano le solidarietà e le aggregazioni tra gli abitanti di Roma moderna, ovvero quali fossero i canali che più frequentemente davano luogo a relazioni sociali. Per stabilire il peso dei diversi elementi sopra citati nell’instaurarsi di relazioni sociali, ho consultato un volume di atti dell’ufficio dei Notai del Cardinale Vicario (1617-34), in cui sono contenuti gli interrogatori dei processetti matrimoniali26. Di essi ho utilizzato la parte in cui il testimone dichiara perché conosce lo sposo o la sposa, costruendo un campione di 1000 testimonianze. Il motivo più frequentemente dichiarato è il fatto di essere compaesani, motivazione addotta nel 35% dei casi; segue il mestiere (pratica di una stessa attività) con il 23%, il vicinato (di casa o di bottega) con il 13%, il legame di parentela con il 9% e altre motivazioni, estremamente variegate.
Ciò che emerge dalle testimonianze dei processetti è un’estrema varietà di possibilità di conoscenza legate ad altrettante azioni: praticare un mestiere, in tutti i suoi aspetti, abitare, frequentare osterie, fare acquisti in una certa bottega, andare a scuola o in chiesa. L’apparente libertà di contatto tra abitanti che caratterizza l’ambiente urbano è mediata da questi canali: trovare le proprie risorse relazionali nell’ambito del mestiere piuttosto che nel vicinato o tra compaesani è poi una scelta individuale, compiuta a partire dalle possibilità a disposizione27.
Se i fattori più comunemente dichiarati, quali mestiere e provenienza, possono indirizzarci in una certa direzione nella ricerca dell’identità sociale di un individuo, tuttavia essi non possono essere considerati come gli unici elementi alla base della formazione di comunità e gruppi. In altre parole, la socialità non passa solo per comunità “nazionali” o corpi di mestiere: vi sono gruppi “trasversali” (quanto a mestiere, provenienza e luogo di abitazione) di cui l’individuo fa parte meno automaticamente, appartenenze meno dichiarate (si pensi, ad esempio agli atti notarili, che, nel caso di Roma riportano provenienza e mestiere della persona in questione) ma che rappresentano altrettante occasioni di conoscenza e possibilità di vita sociale.
Forme associative come la confraternita di Santa Maria dell’Orto, di cui si è membri ma l’appartenenza alle quali non viene dichiarata, possono tuttavia essere altrettanto se non maggiormente rilevanti ed esplicative della formazione di rapporti sociali e reti di relazioni.
La leggenda vuole che il primo nucleo di fedeli della Compagnia della Madonna Santissima dell’Orto sia sorto attorno a un ortolano, miracolato da un’immagine della Madonna dipinta sul muro del suo orto. Così ci racconta Fanucci, nel suo Catalogo delle Opere Pie dell’Alma città di Roma:
(…) ritrovandosi una devota persona in infermità incurabile e avendo visto un’immagine dell’Immaculatissima Vergine Maria in una muraglia molto vecchia dentro di un orto (…) fece voto, che se della detta infermità guariva, terrebbe una perpetua lampada accesa innanzi alla suddetta figura28.
Alla fine del Quattrocento (1492) Papa Alessandro VI concesse al gruppo l’approvazione canonica, riconoscendone ufficialmente l’esistenza come confraternita. Quasi cent’anni dopo, nel 1588, Sisto V la eresse in arciconfraternita, con il diritto di aggregare altre compagnie.
La Compagnia della Madonna Santissima dell’Orto ha come luogo proprio la chiesa omonima, situata nel rione Trastevere, la cui costruzione cominciò a metà del Cinquecento. Prima che l’ampliamento dell’Ospizio Apostolico di San Michele, costruito sulle rive del Tevere, la nascondesse alla vista dei più, e dunque prima del Settecento, la chiesa di Santa Maria dell’Orto era praticamente affacciata sul fiume. Siamo in piena zona portuale: l’area del porto di Ripa Grande dove giungevano le merci trasportate via fiume e, in particolare, da barche straniere. La Compagnia aveva infatti una certa vocazione marinara: nella chiesa si riuniva il Collegio dei Mercanti e sensali di Ripa e, seppure non per statuto ma per consuetudine, le corporazioni dei barilari, degli scaricatori e di altri lavoratori del porto di Roma.
Il Tevere è dunque un elemento essenziale per il gruppo che si sviluppa attorno alla chiesa di Santa Maria dell’Orto. Ma l’anima della compagnia non è soltanto marinara: è anche, e molto, terrestre, come il nome ci lascia facilmente immaginare. Di orti infatti era piena la zona di Trastevere in cui sorge la chiesa, un’area scarsamente abitata e utilizzata prevalentemente per le coltivazioni. Il fatto che il culto sia intitolato alla Madonna dell’Orto non dipende solo dalle caratteristiche del territorio, ma anche dalla fisionomia sociale del gruppo di cui l’associazione religiosa è espressione. Basti pensare che tra le più importanti università di mestiere che avevano sede nella chiesa vi erano quella dei Fruttaroli e quella degli Ortolani.
La compagnia di Santa Maria dell’Orto riunisce numerose associazioni di mestiere, prevalentemente del settore alimentare, i cui membri sono in larga parte stranieri delle più diverse provenienze. Il Catalogo dei Fratelli dal 1540 al 157529 è un’ottima fonte per farsi un’idea circa il gruppo degli aderenti al sodalizio religioso: il catalogo infatti riporta, seppure con la consueta disomogeneità delle fonti della prima età moderna, nomi, mestiere e provenienza dei membri della compagnia, nonché anno di entrata. La maggior parte dei confratelli proviene dall’Italia settentrionale, in particolare da una zona compresa tra la Lombardia occidentale, il Piemonte orientale e una piccola parte della Svizzera. Piemonte e Lombardia rappresentano la località di provenienza per il 40% dei confratelli, seguite dall’Emilia Romagna e dalla Toscana. Altre zone di provenienza sono le città di mare (soprattutto Genova, Napoli e Sorrento).
Le attività lavorative praticate dai confratelli sono legate alla produzione e commercio di generi alimentari, e sono essenzialmente quelle delle arti aggregate alla Compagnia. La chiesa infatti è sede delle adunanze di numerose corporazioni, a partire dalla fine del Cinquecento – inizio del Seicento, ovvero quando si formarono i corpi di mestiere in questione. Essi sono le Università dei Fruttaroli, degli Ortolani, dei Pizzicaroli, dei Molinari, dei Vermicellari, dei Garzoni dei Vermicellari, dei Padroni e mezzaroli di vigne, dei Pollaroli, degli Scarpinelli e il Collegio dei Mercanti e Sensali di Ripa. Il sodalizio è dunque luogo di mestieri legati al settore alimentare.
I suoi membri condividono innanzitutto un ambiente produttivo e sociale che va dai fornitori, come i pecorai, ai mercanti, ai proprietari di terre quali famiglie nobili ed enti ecclesiastici, e che si sviluppa tra gli orti e le vigne appena fuori le porte della città e il porto di Ripa grande, come vedremo meglio più avanti.
Essere legati dalla condivisione di un ambiente produttivo, tuttavia, non spiega il motivo della formazione di una compagnia, di un’associazione volontaria che, come vediamo attraverso il Catalogo dei fratelli, caratterizza la presenza a Roma di alcuni forestieri fin dalla metà del Cinquecento, prima ancora cioè che nascano le diverse associazioni di mestiere che la confraternita raggrupperà. Quali sono dunque i motivi della membership, del far parte di un’associazione e, soprattutto, del fondarla?
La compagnia organizza e istituzionalizza un gruppo legato dalla condivisione di un ambiente economico: parteciparvi offre alcuni vantaggi, a cominciare proprio dalla chiesa, spazio fisico della compagnia. Essa infatti è un luogo in cui le diverse associazioni di mestiere, e i loro membri, hanno la possibilità di lasciare tracce della propria esistenza, e soprattutto di affermare la propria forza e ricchezza. Le decorazioni della chiesa sono tutte donate dalle arti e dai loro uomini, testimonianze perpetue della fedeltà alla compagnia ed esibizioni dello status raggiunto. Possiamo dunque dire che in primo luogo la compagnia risponda a esigenze di visibilità e di autorappresentazione, attraverso la chiesa sua sede.
Sono innanzitutto le arti a fare a gara per decorare la chiesa con elementi di arredo sacro, quadri e lapidi che ne immortalassero la potenza e il legame con la compagnia: entrando nella chiesa di Santa Maria dell’Orto si può capire l’importanza della compagnia per le arti nel modo più diretto ed efficace. La chiesa è infatti estremamente ricca di tracce delle associazioni di mestiere, le quali segnalavano la propria presenza con iscrizioni e oggetti di loro appartenenza30. Ogni arte ha una propria cappella la cui costruzione doveva rappresentare una spesa ingente, se si pensa che alcune corporazioni destinavano per statuto parte delle entrate provenienti dai trasgressori alla cappella dell’arte. Si può dire che la chiesa rappresenti per le arti un luogo dalle molteplici funzioni: oltre a essere un luogo per riunirsi, fornisce a esse il concreto spazio fisico per dimostrare la propria esistenza ed eventualmente la propria forza e potere.
Ma sono anche singoli confratelli a commissionare realizzazioni artistiche, a far decorare cappelle e a lasciare, dunque, tracce della propria esistenza all’interno dello spazio scenico della chiesa. Le iniziative dei “privati” confratelli sono testimoniate da targhe che recano i loro nomi, e che ci documentano una volontà di riconoscimento del gesto compiuto. I gesti “generosi” nei confronti della Compagnia sono estremamente diffusi, come ci testimoniano le targhe che letteralmente tappezzano i locali dell’oratorio accanto alla chiesa. Una targa del Settecento ce ne offre un esempio: ci ricorda il pizzicagnolo Eutizio Marchionni, da Piedivalle di Norcia, guardiano dell’arciconfraternita della Madonna dell’Orto, il quale “(…) lassò per legato alla medesima scudi 200 con peso di far celebrare quindeci messe basse et una cantata l’anno in perpetuo nel tempo della sua morte che seguì in detto giorno che fu aperto detto testamento.” Il pizzicagnolo di Norcia ha dunque fatto un lascito testamentario alla Compagnia, con l’obbligo di celebrare alcune messe per la sua anima.
Le donazioni testamentarie alla Compagnia sono molto diffuse, e in alcuni casi essa è addirittura nominata erede universale. Il confratello Battista Franciosini, vermicellaro milanese, esprime tra le sue ultime volontà quella di essere seppellito a Santa Maria dell’Orto, e lascia alla Compagnia 10 scudi con l’obbligo di far celebrare dieci messe nell’altare privilegiato31. Battista dichiara sua erede universale Ortensia sua figlia, moglie di Domenico Franzini libraio, e i loro figli; nel caso sfortunato però in cui dovessero morire tutti, erede universale diventerebbe Santa Maria dell’Orto. In questo caso il “peso” delle messe dovute aumenterebbe di molto: la Compagnia infatti avrebbe l’obbligo di far celebrare ogni settimana una messa nell’altare privilegiato in perpetuo. Un’altra parte dell’eredità dovrebbe andare, nelle volontà del vermicellaro, a costituire un sussidio dotale di 30 scudi per le zitelle povere, preferendo le figlie femmine della sua “casata” e poi le figlie di vermicellari povere in Roma (e, naturalmente “di buona vita”).
La volontà di curare la propria anima, tramite la richiesta di messe, convive dunque con una esigenza di visibilità, quasi di sopravvivenza del proprio nome anche dopo la morte.
Non è da trascurare, inoltre, il fatto che annesso alla chiesa vi fosse l’Ospedale della Madonna dell’Orto, che contava 50 letti e che curava i confratelli e quanti “gravitavano” intorno alla Compagnia. Essa ha dunque anche funzioni assistenziali: oltre alle cure ospedaliere, la confraternita svolgeva opera caritativa nel dotare ogni anno alcune “zitelle”, grazie a fondi che, come abbiamo visto, erano eredità di confratelli devoti.
Ma i vantaggi dell’appartenenza alla Compagnia non si limitano a quelli descritti finora. La confraternita è infatti anche un veicolo di relazioni, vero e proprio luogo sociale per i suoi membri. Se consideriamo i tipi di legami che passano per la confraternita, vediamo come essa leghi persone dalle diverse provenienze e dediti a diverse attività professionali. In altre parole, vediamo come essa sia trasversale a mestiere e provenienza, ovvero agli elementi solitamente posti alla base delle catene migratorie.
Per avere un assaggio della centralità della Compagnia nella socialità dell’ambiente che per essa passava, seguiamo brevemente la storia di uno solo dei confratelli, Antonio della Simona, “fruttarolo” di Como. Egli arriva a Roma probabilmente agli inizi del Seicento, e va a stare a piazza della Rotonda (il Pantheon), presso la bottega dello zio Guglielmo. Essa era in affitto ai “fruttaroli” da un mercante di Ripa, anch’egli confratello. Nel 1606 zio e nipote (e, per la precisione, anche un altro nipote), prendono in affitto da Giulio Pocobello, confratello mercante di Ripa, l’immobile che consiste in “una casa e bottega e cantina discoperto e altre stanze sita in regione Colonna in piazza della Rotonda in cui al presente abitano i detti fruttaroli per 100 scudi l’anno (…)”32.
Antonio della Simona ci ha lasciato il suo libro di conti33, che testimonia di come l’attività esercitata dal “fruttarolo” lo mettesse costantemente in contatto con altri confratelli. Non solo l’affitto della bottega, ma anche i rifornimenti di merci lo portano a essere cliente di alcuni confratelli mercanti di Ripa: Giovanni Paolo Chiavarini, Onorato Cacace e Giuseppe Intrevino.
Oltre che rivenditore, Antonio è anche produttore di generi alimentari, come molti di quanti praticavano le attività aggregate a Santa Maria dell’Orto. Molti confratelli hanno infatti in affitto orti e vigne, e affiancano all’attività di rivendita, e dunque di rifornimento delle botteghe, quella di produzione in proprio, anch’essa finalizzata alla rivendita. Antonio della Simona tiene in affitto diversi terreni contemporaneamente: gli anni di maggiore sovrapposizione sono quelli che vanno dal 1613 al 1617, quando Antonio ha in affitto un orto, un orto di carciofi, uno di meloni e due vigne. I proprietari sono le famiglie della nobiltà romana (in questo caso i della Valle o i marchesi Massimi) e i monasteri (ad esempio quello di Santa Caterina da Siena).
Antonio della Simona lascia diverse tracce, oltre che nel suo libro di conti, nel notarile, che registra la sua attività di prestatore di denaro, soprattutto nei primi anni della sua permanenza a Roma. Nel 1605 egli presta 100 scudi a un altro “fruttarolo”, tramite una società d’ufficio34 con Geronimo Leria, sensale di Ripa vercellese. Lo stesso sensale nel 1601 aveva preso in società finalizzata al prestito un altro confratello, Giovanni Gottardo pollarolo. Nel 1607 invece Antonio della Simona presta 200 scudi a un pizzicagnolo di Gattinara, e nel 1610 a un “herbaruolo” o ortolano. L’apertura creditizia del fruttarolo comasco ci mostra come stare nell’ambiente della Compagnia significasse avere la possibilità di aprire il proprio network in varie direzioni, comprendendo in esso persone di diversi mestieri e provenienze.
Si è parlato finora di relazioni di lavoro o di credito, ma i legami fra confratelli non si limitano certo solo ad ambiti lavorativi o finanziari. Sia Antonio che suo cugino (quello che stava nella bottega con lo zio Guglielmo) sposano donne che, anche prima del matrimonio, erano legate alla Compagnia di Santa Maria dell’Orto: una è sorella del confratello Geronimo Pagani “fruttarolo”35, l’altra nipote del confratello della diocesi di Como Francesco Lamberto “pizzicagnolo”36.
Attraverso l’esempio del “fruttarolo” comasco, uno tra i tanti possibili, abbiamo dunque visto come la compagnia fosse un elemento in grado di mettere in comunicazione e contatto persone dalle diverse provenienze e mestieri. La confraternita apre porte, da molti punti di vista: essa si rivela indispensabile nell’accesso al credito da parte di confratelli più abbienti, nella ricerca di un compagno o di un socio di lavoro, nel prendere in affitto una casa o una bottega e via dicendo. In qualche maniera dunque, la compagnia accorcia le distanze, rendendo accessibili molti degli elementi di cui si ha bisogno per vivere e lavorare in una città, senza doverla esplorare tutta. Collegando persone dalle diverse attività e provenienze, la Compagnia funziona da centro attorno al quale si crea un ambiente vario, eterogeneo. L’accesso alla varietà è uno dei modi con cui chi vive nelle città può più facilmente arrivare ad alcune, e spesso le più importanti, risorse di cui ha bisogno, proprio perché i suoi ponti con l’esterno saranno diversificati.
Oltre ad accedere alle risorse indicate sopra, la membership rende possibile una certa mobilità lavorativa, ovvero il passaggio a un altro mestiere, evidentemente dopo essersi parzialmente inseriti nell’ambiente adatto, oppure la pratica di due attività in contemporanea. L’esempio di Antonio della Simona ci torna utile anche in questo caso: egli infatti in alcuni casi è definito “fruttarolo e oste”.
L’ambiente della confraternita media l’ingresso di chi arriva e si va a “distribuire” tra i diversi mestieri ad essa aggregati: fare parte di una Compagnia che riunisce mestieri diversi rende dunque possibile uno sbocco diversificato, o, in altre parole, un più facile accesso alla varietà.
Santa Maria dell’Orto non è una compagnia varia solo quanto a mestiere, ma anche per quanto riguarda lo status dei suoi membri, che vanno dai più poveri “scarpinelli” ai più facoltosi mercanti di Ripa o “pizzicagnoli”. La varietà di risorse cui la confraternita permette di accedere assume così un significato ulteriore. Essa non solo mette in contatto gli uomini di tante arti: si tratta infatti di arti corrispondenti a mestieri diversificati per status economico e, evidentemente, sociale. È proprio questa caratteristica di Santa Maria dell’Orto che permette a cinque “scarpinelli” di accedere al credito di Ambrogio Bellone vermicellaro, scavalcando differenze di provenienza, mestieri e status.
I confini del gruppo di Santa Maria dell’Orto sono definiti dal processo produttivo stesso. In tutte le sue espressioni: dai mestieri coinvolti, all’ambiente fisico della produzione (orti, vigne e casali), ai luoghi del commercio (il porto e i mercanti). Il gruppo che muove e permette lo svolgimento di tale processo è tenuto insieme da una continuo e fitto scambio sociale, che abbiamo visto avere la Compagnia come centro irradiante: uno scambio in grado di rafforzare o creare legami fra quanti lavorano nello stesso ambiente. In questo senso, l’accesso alla varietà è parte del processo produttivo stesso: è proprio la fluidità sociale a facilitare lo scambio economico.
La forma associativa rivela il suo potenziale anche se guardata da un altro punto di vista: non quello dei suoi membri, come si è fatto finora, ma quella degli esponenti degli strati sociali più elevati, nobili ed ecclesiastici. La compagnia, infatti, consente a questi ultimi la formazione di una clientela “garantendo” in qualche modo per i suoi membri: affittare un orto a un forestiero membro della compagnia di Santa Maria dell’Orto doveva essere senz’altro più rassicurante, quanto a fiducia, elemento su cui si basano gran parte delle transazioni economiche di antico regime, dell’affittarlo a un forestiero e basta.
La relazione che legava i confratelli ai nobili e agli ecclesiastici proprietari di terre si componeva essenzialmente di tre elementi: l’acquisto di prodotti della terra dai proprietari, l’affitto di orti e vigne e di case, e le forniture dalle botteghe dei confratelli ai palazzi dei nobili o ai monasteri.
Le vendite dai terreni dei nobili ai confratelli riguardano sopratutto il “cacio”, di vari tipi. Nell’agosto del 1595, ad esempio, il Signor Illustrissimo Papirio Albero vende a Silano e Giovanni Battista de Grandis, pizzicaroli novaresi, il cacio vaccino e il burro (“cacio butirro”) provenienti dal suo procoio (il recinto per il bestiame, specialmente ovino, nella campagna romana) posto fuori Porta Salaria, in località Settebagni. L’accordo impegna il Signor Albero a rifornire i due novaresi fino a tutto l’anno successivo37.
La base territoriale della nobiltà era in parte al di fuori di Roma, seppure in un esterno in continuo contatto con la città, e dai suoi abitanti dominata. Fuori porta c’è la campagna romana, i dintorni di Roma, i casali dove si produce carne e formaggio, ma anche i prati, le vigne e gli orti, anch’essi di proprietà dei nobili, territori da cui essi ricavano prodotti da commercializzare o che affittano a chi ne rivende i prodotti in bottega. Nell’anno 1600 lo stesso Papirio Albero affitta per poco più di un anno a Giovanni Lamberto, tavernaro di Como, un prato nel già citato casale a Settebagni38. Diversi terreni sono dunque impegnati con diverse clientele.
Anche la chiesa e gli ecclesiastici sono presenti sulla scena della produzione e commercio di generi alimentari, naturalmente in quanto proprietari terrieri e dunque fornitori39. I generi provenienti dalle tenute di proprietà ecclesiastica sono gli stessi di cui si è detto sopra: mosto, vino, “porci” e “cacio”. Ad esempio, dal 1613 al 1617 Antonio della Simona acquista per cinque volte quattro barili di mosto dal fattore delle monache di Sant’Anna.
Per quanto riguarda l’affitto di terreni, abbiamo già visto l’esempio di Antonio della Simona, affittuario di diversi “signori” contemporaneamente. Ma i nobiluomini di Roma non sono proprietari soltanto di terreni fuori città: dal Cinquecento, infatti, essi cominciarono a investire nella proprietà immobiliare interna alla città, affiancando alla proprietà terriera fuori porta una base di potere all’interno delle mura di Roma40. I libri di conti di cui disponiamo riportano ampie tracce di questa seconda componente del rapporto commercianti-nobili, attraverso le registrazioni dei pagamenti delle pigioni di case e botteghe41. Restando all’esempio di Antonio della Simona, egli, nel periodo 1611-19, ha in affitto delle stanze in cui vive, a piazza della Rotonda (la Rotonda è il Pantheon), dai signori Vitozzi de Ruffini, un banco o tavolato per il cui uso paga una pigione alla Chiesa di Santa Maria della Rotonda, e un tinello ad uso di magazzino a piazza di Pietra, la cui pigione egli versa alla Compagnia degli Orfani e delle Orfane di Roma, la stessa a cui vanno gli otto barili di mosto che Antonio paga come canone sulla vigna al Colosseo.
I confratelli sono inoltre spesso fornitori dei palazzi dei nobili: possiamo dunque dire che la relazione tra i membri di Santa Maria dell’Orto e le famiglie nobili romane sia una relazione di tipo clientelare, composta dagli aspetti finora descritti. Il rapporto con i nobili si estende oltre lo scambio di merci e denaro, esprimendosi innanzitutto in termini di protezione. Un processo del Tribunale Criminale del Governatore ce ne fornisce un esempio. Nel 1629 Antonio Alisano, pizzicagnolo, accusa Bartolomeo Fregotto, suo “collega” novarese, di aver pagato due uomini di Sora per dargli “una buona mano di bastonate”. Venti giorni dopo la denuncia, Bartolomeo viene portato davanti al Tribunale Criminale del Governatore e racconta:
Tra Antonio e me non c’è mai stata alcuna differenza né per compra di porci né altro, è ben vero che una volta li giorni passati mi venne una citazione dell’ufficio di Monsignor Governatore e così andai in casa del Signor Contestabile che servo la casa di Sua Eccellenza di olio e robe de pizzicaria e trovai il Signor Don Silvio e gli dissi che intendesse un poco che cosa fosse questo e esso andò all’ufficio e mi disse che questo Antonio m’aveva data querela sotto pretesto che gli volessi far dare delle bastonate e perché non era vero il Signor Silvio la settimana seguente lo fece chiamare e ci fece far pace se bene io non avevo che far cosa alcuna con lui42.
Ricevuta la convocazione di presentarsi al Tribunale, il novarese dunque non ha dubbi (o perlomeno così racconta): cerca di risolvere la faccenda mettendo di mezzo altri poteri e andando a bussare alla porta di Don Silvio perchè preventivamente se la veda lui con Monsignor Governatore. Servire di “olio e roba de pizzicaria” sembra un motivo sufficiente per richiedere una mediazione in caso di difficoltà.
La compagnia dunque riduce le distanze da diversi punti di vista: sia tra i suoi membri che tra questi e gli esponenti delle classi sociali più elevate, facilitando l’accesso alle risorse e la comunicazione fra gruppi diversi. Per riduzione delle distanze non intendo affermare la democraticità della compagnia, ma piuttosto la sua caratteristica di mettere in relazione gli individui, senza entrare nel merito del carattere simmetrico o asimmetrico di tali rapporti.

In questo senso, associazioni come la confraternita di Santa Maria dell’Orto spiegano la formazione di una società urbana come Roma, in cui la necessità di “rimedi all’estraneità”, di garanzie della fiducia poteva essere estremamente forte. Roma, infatti, è una città popolata di stranieri, con un tessuto produttivo e commerciale molto articolato, sede della corte papale, di cardinali, di principi, ma anche meta di pellegrini e di una popolazione di bisognosi in cerca di assistenza. Il Seicento, inoltre, è l’epoca dell’economia barocca, ovvero di un’economia fondata su regole strettamente legate alla fiducia (“carità” e “amore” anziché giustizia)43. È proprio una società come quella della Roma barocca ad avere bisogno di forme associative in grado di mediare fra le sue risorse e tutti i suoi diversi abitanti: la Compagnia di Santa Maria dell’Orto è una di queste.

Note

Torna * La ricerca presentata nelle pagine che seguono è contenuta in Eleonora Canepari, Stare in «Compagnia»: strategie di inurbamento e forme associative nella Roma del Seicento, tesi di dottorato in Storia della società europea in età moderna, Università di Torino, a.a. 2004/05, tutor: prof. Luciano Allegra.
Torna 2 Per un bilancio sulla storiografia delle migrazioni articolata per temi cfr. Matteo Sanfilippo, Problemi di storiografia dell’emigrazione italiana, Viterbo, Edizioni Sette Città, 2005. Si veda inoltre Laurence Fontaine, Gli studi sulla mobilità in Europa nell’età moderna: problemi e prospettive di ricerca, “Quaderni storici”, 93, 2 (1996), pp. 739-756; Giovanni Pizzorusso, I movimenti migratori in Italia in antico regime, in Storia dell’emigrazione italiana, I, Partenze, a cura di Piero Bevilacqua, Andreina De Clementi ed Emilio Franzina, Roma, Donzelli, 2001, pp. 3-16.
Torna 3Migration. Migration history, History. Old Paradigms and New Perspectives, a cura di Jan Lucassen e Leo Lucassen, Berne, Peter Lang, 1997, p. 8.
Torna 4 Michael Eve, Una sociologia degli altri e un’altra sociologia: la tradizione di studio sull’emigrazione, “Quaderni storici”, 106, 1 (2001), pp. 233- 259.
Torna 5 Angiolina Arru, Josef Ehmer e Franco Ramella, Premessa, “Quaderni storici”, 106, 1 (2001), pp. 4-23; Simona Cerutti, Robert Descimon e Maarten Prak, Premessa, “Quaderni Storici”, 89, 2 (1995), pp. 281-286; La città italiana e i luoghi degli stranieri XIV-XVIII secolo, a cura di Donatella Calabi e Paola Lanaro, Roma-Bari, Laterza, 1998.
Torna 6 Alcuni esempi sono: Vincenzo D’Alessandro, Immigrazione e società urbana in Sicilia (secoli XII-XVI). Momenti e aspetti, in Comunità forestiere e “nationes” nell’Europa dei secoli XIII-XVI, a cura di Giovanna Petti Balbi, Napoli, Liguori Editore, 2001, pp. 165-200; Eleonora Canepari, Mestiere e spazio urbano nella costruzione dei legami sociali degli immigrati a Roma in età moderna, in L’Italia delle migrazioni interne, a cura di Angiolina Arru e Franco Ramella, Roma, Donzelli, 2003, pp. 33-76; Mario Ascheri, Lo straniero: aspetti della problematica giuridica, in Dentro la città: stranieri e realtà urbane nell’Europa dei secoli XII-XVI, a cura di Gabriella Rossetti, Napoli, GISEM-Liguori, 1989, pp. 33-46.

Torna 7 Vedi ad esempio Christopher R. Friedrichs, Immigration and Urban Society: Seventeenth-Century Nördlingen, in Immigration et société urbaine en Europe occidentale XVIe-XXe siècles, a cura di Etienne Francois, Paris, Éditions Recherche sur les Civilisations, 1985, pp. 65-77; Michael Anderson, Urban Migration in Victorian Britain: Problems of Assimilation?, in Immigration et société urbaine, cit., pp. 79-91; Giulia Scarcia, Comburgenses et cohabitatores: aspetti e problemi della presenza dei “lombardi” tra Savoia e Svizzera, in Comunità forestiere e “nationes” nell’Europa dei secoli XIII-XVI, cit., pp.113-133; Domenico Rizzo, Forestieri nelle pratiche di giustizia: opportunità e rischi (Roma, secoli XVIII-XIX), in L’Italia delle migrazioni interne, cit., pp. 131-159.

Torna 8 Alcuni studi mettono in luce come gli immigrati contribuiscono al cambiamento nelle località d’origine. Ad esempio, dal punto di vista giuridico, vedi: Simona Feci, Cambiare città, cambiare norme, cambiare le norme. Circolazione di uomini e donne e trasformazione delle regole in antico regime, in L’Italia delle migrazioni interne, cit., pp. 3-31.
Torna 9 L’invenzione della tradizione, a cura di Eric Hobsbawm e Terence Ranger, Torino, Einaudi, 1987.
Torna 10 Jean-Loup Amselle, Logiche meticce. Antropologia dell’identità in Africa e altrove, Torino, Bollati Boringhieri, 1999.
Torna 11 Sul rapporto tra comunità e flussi migratori vedi M. Sanfilippo, Problemi di storiografia, cit., pp. 303-327.
Torna 12 Fortunata Piselli, Il network sociale nell’analisi dei movimenti migratori, “Studi Emigrazione”, 125, 1 (1997), pp. 2-16; Reti: l’analisi di network nelle scienze sociali, a cura di Fortunata Piselli, Roma, Donzelli, 1995; Pnina Werbner, The Migration Process, New York-Oxford-Munich, Berg, 1990.
Torna 13 Alain Cotteraeu e Maurizio Gribaudi, Précarités, cheminements et formes de cohérence sociale au XIXe siècle, Paris, EHESS, 1999; Maurizio Gribaudi, Mondo operaio e mito operaio: spazi e percorsi sociali a Torino nel primo Novecento, Torino, Einaudi, 1987.
Torna 14 Douglas Catterall, “Secondo il resoconto di sua madre che ancora abita a Oostenhuysen”: migranti e politiche della migrazione nella società urbana nordeuropea, “Quaderni storici”, 106, 1 (2001), pp. 25-57; Id., Community without Borders: Scots Migrants and the Changing Face of Power in the Dutch Republic, 1600-1690, Leiden, E. J. Brill, 2002.
Torna 15 Sandra Cavallo, La leggerezza delle origini: rotture e stabilità nelle storie dei chirurghi torinesi tra Sei e Settecento, “Quaderni storici”, 106, 1 (2001), pp. 59-114; Paul-André Rosental, Maintien/rupture: un nouveau couple pour l’analyse des migration, “Annales E.S.C.”, 45, 6 (1990), pp. 1403-1431; Patrizia Mainoni, La nazione che non c’è: i tedeschi a Milano fra Tre e Quattrocento, in Comunità forestiere e “nationes” nell’Europa dei secoli XIII-XVI, cit., pp. 201-228.
Torna 16 Migration. Migration history, History, cit., pp. 21-25.
Torna 17 Alcune eccezioni sono: S. Cavallo, La leggerezza delle origini, cit., Angiolina Arru, Il prezzo della cittadinanza. Strategie di integrazione nella Roma pontificia, “Quaderni storici”, 91, 2 (1996), pp. 157-171; Peter Clark, The Reception of Migrants in English Towns in the Early Modern Period, in Immigration et société urbaine, cit., pp. 53-63; M. Anderson, Urban Migration in Victorian Britain, cit.
Torna 18 Beatrice Zucca Micheletto, La scelta migratoria nella Torino di primo Ottocento: strategie e modelli, “Bollettino storico-bibliografico Subalpino”, C, 1 (2002), pp. 61-146; Ead., “In seguito alla deliberazione di trattenersi in città”: scelta individuale e percorsi migratori nella Torino di Ancien Régime, tesi di dottorato in Storia. Storia della società europea in età moderna, Università di Torino, a.a. 2004/05, tutor Prof.ssa Maria Carla Lamberti.
Torna 19 Natalie Zemon Davis, Le culture del popolo: sapere, rituali e resistenze nella Francia del Cinquecento, Torino, Einaudi, 1980; Ead., The Sacred and the Body Social in the 16th century Lyon, “Past and Present”, 90, 1 (1981), pp. 40-70; F.E. Weissman, Ritual brotherhood in Renaissance Florence, New York, Academic Press, 1982; Id., Reconstructing Renaissance sociology: the “Chicago school” and the study of Renaissance society, in Persons in groups social behavior as identity formation in Medieval and Renaissance Europe: papers of the 16th annual Conference of the Center for Medieval and Early Renaissance studies, a cura di Richard C. Trexler, New York, Binghamton, 1985, pp. 39-46; Richard C. Trexler, Public life in Renaissance Florence, Ithaca, Cornell University Press, 1991.
Torna 20 Per un approccio al tema delle confraternite che vada oltre l’aspetto della religiosità e della ritualità, vedi Angelo Torre, Il consumo di devozioni, Marsilio, Venezia, 1995; Danilo Zardin, Corpi, fraternità, mestieri nella storia della società europea, Bulzoni, Roma, 1998; Edoardo Grendi, Le confraternite come fenomeno associativo e religioso, in Società, chiesa e vita religiosa nell’Antico Regime, a cura di Carla Russo, Napoli, Guida, 1976, pp. 115-186; Luigi Fiorani, “Charità et pietate”. Confraternite e gruppi devoti nella città rinascimentale e barocca, in Storia d’Italia. Annali, vol. XVI: Roma, la città del papa, a cura di Luigi Fiorani e Adriano Prosperi, Torino, Einaudi, 2000, pp. 428-476; Roberto Rusconi, Confraternite, compagnie e devozioni, in Storia d’Italia. Annali, vol. IX: La Chiesa e il potere politico dal medioevo all’età contemporanea, a cura di Giorgio Chittolini e Giovanni Miccoli, Torino, Einaudi, 1986, pp. 467-506.
Torna 21 Eugenio Sonnino, Strutture familiari a Roma alla metà del ‘600, in Popolazione a società a Roma dal Medioevo all’età contemporanea, a cura di Id., Roma, Edizioni Il Calamo, 1998.
Torna 22 Jean Delumeau, Vie économique et sociale de Rome dans la seconde moitié du 16e siecle, Paris, De Boccard, 1957.
Torna 23 John J. Macionis e Vincent N. Parrillo, Cities and Urban Life, Upper Saddle River-New Jersey, Prentice Hall, 1998.
Torna 24 Sulle appartenenze e le lealtà nella Roma barocca vedi Renata Ago, Economia barocca. Mercato e istituzioni nella Roma del Seicento, Roma, Donzelli, 1998.
Torna 25 Ulf Hannerz, Esplorare la città. Antropologia della vita urbana, Il Mulino, Bologna, 1992.
Torna 26 Archivio Storico del Vicariato (d’ora in poi ASVR), Roma, Notai del Cardinale Vicario (1617-34), Interrogatori.
Torna 27 A. Cotteraeu e M. Gribaudi, Précarités, cheminements, cit.
Torna 28 Camillo Fanucci, Trattato di tutte le opere pie dell’Alma città di Roma, Roma, Facij-Paolini, 1601.
Torna 29 Archivio di Santa Maria dell’Orto (d’ora in poi: ASMdO), Roma, Catalogo dei Fratelli dal 1540 al 1575, vol. 412.
Torna 30 Sulla chiesa di Santa Maria dell’Orto vedi: Liliana Barroero, S. Maria dell’Orto, Roma, Istituto Nazionale di Studi Romani, 1976; Furio Fasolo, La fabbrica cinquecentesca di Santa Maria dell’Orto, Roma, Scuola Tip. Missionaria Domenica, 1944; Luigi Huetter, S. Maria dell’Orto in Trastevere, Roma, Arciconfraternita, 1955; Antonio Martini e Matizia Maroni Lumbroso, Le Confraternite romane nelle loro chiese, Roma, Fondazione Marco Besso, 1963.
Torna 31 Archivio di Stato di Roma (d’ora in poi; ASR), Trenta notai capitolini, uff. 13, testamenti 1625-1627.
Torna 32 ASR, Trenta notai capitolini, uff. 24, 27/7/1606.
Torna 33 ASMdO, Libro di conti di Antonio della Simona, voll. 703, 715 e 719.
Torna 34 La società o compagnia d’ufficio consisteva in tre diverse parti, fra di loro collegati: una società di persone tra il creditore e il debitore che prevedeva la suddivisione dei profitti e perdite, un contratto di assicurazione con cui il debitore si impegnava a rimborsare integralmente il capitale ricevuto ed un altro contratto dello stesso tipo in cui il debitore si impegnava a versare un tasso di interesse fisso in cambio di una suddivisione dei profitti. In tal modo chi riceveva i soldi si assicurava i capitali che gli servivano, garantendo al prestatore un rendimento minimo, che nella Roma del Seicento era generalmente di 12 scudi l’anno.
Torna 35 Archivio Storico del Vicariato, Roma, Stati d’anime, Parrocchia di Sant’Andrea delle Fratte, 1607-1613, 1617-1622, 1623-1634.
Torna 36 ASR, Trenta notai capitolini, uff. 13, 7/7/1626.
Torna 37 ASR, Trenta notai capitolini, uff. 13, 5/8/1595.
Torna 38 ASR, Trenta notai capitolini, uff. 13, 17/1/1600.
Torna 39 Non faccio una distinzione tra nobili ed ecclesiastici per due motivi. Il primo è che entrambi i gruppi sono proprietari di terre e dunque possono essere considerati analogamente in un discorso sull’accesso alle risorse della città e dei suoi dintorni. L’altro è che, come sottolineato dallo studio di Anna Modigliani (v. nota seguente), dal Cinquecento le famiglie nobili tendono a inserirsi sempre più nell’ambiente di curia, legandosi agli ambienti ecclesiastici. Restando ai libri di conti, Biagio Tittone tra il 1650 e il 1654 acquista vari tipi di «cacio» da un’esponente della famiglia Cecchini, Clemenzia, e dal cardinal Cecchini, sempre attraverso lo stesso maestro di casa Francesco Petrucci. Sarebbe dunque poco utile inserire la prima in un discorso sui nobili e il secondo in un altro sugli ecclesiastici, essendo i due della stessa famiglia e dunque dello stesso ambiente di riferimento.
Torna 40 Anna Modigliani, «Li nobili huomini di Roma». Comportamenti economici, in Roma Capitale (1447-1527), a cura di Sergio Gensini, Centro di studi sulla civiltà del tardo Medioevo, San Miniato, 1994.
Torna 41 Oltre al libro di conti di Antonio della Simona, mi riferisco ai seguenti volumi: ASMdO, Libro di conti di Ambrogio de Paola, vol.854-ASMdO, Libro di conti di Giovanni Baranca, vol. 756-ASMdO, Libro di conti di Giovanni di Capua, vol. 751-ASMdO, Libro di conti di Pietro Berti, vol. 714.
Torna 42 ASR, Tribunale Criminale del Governatore-Processi, 1629, n. 238.
Torna 43 R. Ago, Economia barocca, cit.