Appunti per una ricerca sui giornali nautici dei piroscafi italiani fra Otto e Novecento. Il caso del Giulio Cesare.

In questo panorama i giornali nautici, più comunemente chiamati diari di bordo, risultano essere una fonte capace di restituire informazioni per nulla scontate sulle vicende legate a quel fenomeno straordinario di mobilità che ha riguardato nei decenni a cavallo fra Otto e Novecento le due sponde dell’Oceano[iv]. I racconti di viaggio fatti dai comandanti dei piroscafi sono una fonte molto vasta, preziosa e ancora inesplorata – perlomeno nell’ottica della storia dell’emigrazione – che per sua natura si colloca a metà strada fra il documento burocratico pubblico e la testimonianza memorialistica privata. Sebbene infatti fossero concepiti secondo regole formali stabilite da una legge entrata in vigore nel 1885, e la loro compilazione fosse vista dalla maggior parte dei comandanti come un mero adempimento burocratico, come il mezzo per rendere conto agli armatori e alle autorità delle decisioni prese durante la navigazione, diversi diari di bordo restituiscono assieme alle indicazioni tecniche del viaggio altrettante formidabili e suggestive storie di navi, di passeggeri e di viaggi per mare[v]. Non è un caso che gli unici studi di un certo rilievo sui giornali nautici riflettano questa ambivalenza: uno di Salvatore Mazzarella, che utilizza in chiave letteraria alcuni giornali nautici conservati presso la biblioteca di Isola delle Femmine a Palermo[vi]; l’altro di Paolo Frascani che adopera i giornali di bordo delle navi ottocentesche iscritte nel compartimento marittimo di Napoli, per una lettura economica circa le problematiche del lavoro marittimo nel complesso passaggio dalla vela al vapore alla fine dell’Ottocento[vii].

Gli Archivi di Stato di Genova e Napoli hanno ricevuto negli anni i versamenti dalle Direzioni marittime dei rispettivi porti e oggi conservano due fondi piuttosto cospicui di giornali nautici appartenuti a piroscafi immatricolati nei due principali compartimenti marittimi italiani, nel periodo compreso tra il 1850 e il 1950[viii]. I racconti di viaggio coprono quindi un arco temporale che coincide con la storia del trasporto marittimo italiano e con i più importanti movimenti migratori fra le due sponde dell’oceano, e ricostruiscono le vicende del transito a partire dalla storia dei piccoli e poco noti piroscafi delle origini fino a quelle dei grandi transatlantici, che fra le due guerre collegarono i principali porti italiani con le Americhe. Un periodo durante il quale i comandanti ebbero il primato di osservatori speciali di un flusso impressionante di persone che per lavoro, ma non solo, attraversarono l’Oceano nei locali di terza classe. A prima vista le testimonianze dei comandanti ci restituiscono un’immagine piuttosto ristretta e parziale del fenomeno migratorio, per un motivo già accennato. Questi documenti erano prodotti secondo regole formali stabilite dalla legge e la loro compilazione era vissuta dai più come un mero adempimento burocratico. Non tutti i comandanti sapevano o avevano voglia di scrivere più di quanto fosse loro richiesto, e solo raramente e in determinate circostanze, amavano avventurarsi oltre la semplice stringata comunicazione formale. La consuetudine radicata nella gente di mare di preferire la pratica alla teoria finiva in molti casi per riflettersi sulle competenze e quindi sulla qualità della scrittura. Lo stesso percorso scolastico era orientato a dare ai futuri comandanti una formazione per lo più scientifica utile a destreggiarsi durante la navigazione, nonostante la prova di componimento di italiano fosse a tutti gli effetti materia d’esame. Questo sistema di cose spingeva gli apprendisti comandanti ad avere in generale una scarsa considerazione del bagaglio teorico e in particolare di quelle materie che non avessero stretta attinenza con la professione, perché erano consci che con la pratica avrebbero compensato i ritardi e le lacune dello studio[ix]. Tutto ciò non esclude che un certo numero di comandanti, magari in periodi o circostanze particolari, dedicarono molto tempo alla scrittura e al racconto delle vicende che li avevano visti protagonisti o vittime. Il comandante della nave aveva degli obblighi di legge, poteva avere o meno aspirazioni letterarie ma poi in fondo, e non certo per ultimo, doveva rendere conto all’armatore di ogni decisione presa e in ogni attività svolta dalla nave. Perciò non si è lontani dalla verità se si afferma che i capitani avevano in mente come destinatari dei loro racconti più gli armatori che le autorità. A loro era infatti chiesto di portare il piroscafo a destinazione senza arrecare alcun danno alla nave e al carico, a prescindere dalla sua natura. Il racconto scritto di ogni avvenimento accaduto a bordo serviva quindi prima di tutto (e soprattutto) come prova documentaria – certamente di parte – utile a rendere conto del proprio operato nei confronti dei passeggeri, degli armatori e delle autorità. Si tratta di racconti quasi mai in prima persona, infarciti di termini mutuati dalla lingua parlata della gente di mare, non di rado incomunicanti ai non addetti ai lavori. Sono racconti che variano per lunghezza e qualità, che descrivono di regola le circostanze in cui si svolse il viaggio per mare dal porto di partenza a quello di arrivo passando per i porti in cui il piroscafo ha fatto scalo. Le annotazioni tecniche che riguardano la rotta seguita dalla nave, la velocità e i tempi di percorrenza, nonché le condizioni meteomarine rilevate, sono di norma alternate ad informazioni che riguardano direttamente o indirettamente i membri dell’equipaggio e i passeggeri, come le nascite o le morti verificatesi a bordo, le sparizioni di persone durante la navigazione, i suicidi, la presenza di clandestini a bordo, gli incidenti accorsi ai membri dell’equipaggio o ai passeggeri, gli episodi di insubordinazione o di diserzione. Molte di queste circostanze saranno riprese più avanti a proposito dei viaggi compiuti dal piroscafo Giulio Cesare, che tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento collegò i principali porti italiani con Rio de Janeiro, Santos e Buenos Aires, mentre altre possono essere recuperate dall’analisi dei giornali precedenti o successivi a quel periodo. Nella seconda metà dell’Ottocento le informazioni sulle condizioni sanitarie e sul trattamento riservato a quelli che dagli stessi comandanti vengono definiti “emigranti”, sono evidentemente predominanti. In questo senso i comandanti molto spesso non scrivono nulla di più di ciò che i medici di bordo erano soliti annotare nelle proprie relazioni, ma è pur vero che i giornali di bordo, a differenza delle relazioni mediche, permettono di capire le reazioni e le decisioni prese dal piroscafo nelle ricorrenti situazioni di emergenza sanitaria. Sempre nel periodo Ottocentesco molto frequenti sono le informazioni circa il livello e la qualità dei servizi forniti dalle compagnie di navigazione. Diversi passeggeri viaggiano a spese dei governi esteri o dei consolati italiani presenti nei diversi porti americani. Interessanti a questo proposito le notizie di passeggeri espulsi dai paesi americani a seguito di provvedimenti giudiziari o rimpatriati perché affetti da malattie mentali. Non meno frequenti le notizie di passeggeri respinti per esempio nel porto di New York e obbligati a risalire sulla stessa nave per essere rimpatriati a spese della compagnia di navigazione che li aveva sbarcati nel centro di accoglienza di Ellis Island. Queste informazioni sono molto preziose perché ci restituiscono una lista molto lunga di persone che non hanno mai messo piede negli Stati Uniti, ma che risultano a tutti gli effetti presenti all’interno delle numerose banche dati disponibili in rete relative alle persone sbarcate in America.

I giornali di bordo prodotti in tempi più recenti presentano altre problematiche in parte legate alla trasformazione e alla modernizzazione dei mezzi di trasporto. I grandi transatlantici che fra le due guerre collegarono l’Italia con le Americhe offrono naturalmente un servizio differente ai passeggeri. Ciò nonostante dall’analisi dei documenti emergono alcuni elementi molto interessanti come per esempio l’elevato numero di infortuni verificatisi a bordo durante la navigazione, quasi sempre riguardanti membri dell’equipaggio, nonché i numerosissimi episodi di contrabbando e di diserzione denunciati dai comandanti all’arrivo nei porti americani, a tal punto che l’arruolamento a bordo dei transatlantici diventa in quegli anni un vero e proprio escamotage per espatriare gratuitamente evitando i controlli all’arrivo. Un altro aspetto molto interessante riguarda l’atteggiamento dei comandanti nei confronti della cosiddetta emigrazione politica, nel momento in cui diventano a tutti gli effetti spie del regime fascista, con l’obbligo, impartito dal Ministero degli Interni, di compilare relazioni dettagliatissime sugli atteggiamenti e i comportamenti dei passeggeri a bordo, nonché sulle notizie raccolte a riguardo del Governo italiano e più in generale dell’Italia nei paesi esteri raggiunti dalla nave.

A distanza di anni non è naturalmente semplice verificare le incongruenze presenti in queste scritture estremamente soggettive, né tanto meno la loro affidabilità, la veridicità delle circostanze narrate, gli errori, le errate rilevazioni e le false interpretazioni, quelle che Linda Colley chiama «interludi di pura finzione»[x]. Ciò non toglie che questi scritti appaiano decisamente ancorati alla realtà che li ha prodotti. Sebbene uniti da un comune percorso di studi i comandanti dimostrano di avere ciascuno un rapporto con la scrittura particolare, per non dire unico. Accade inoltre che lo stesso autore modifichi nell’arco di una carriera il suo rapporto con la scrittura in ragione di fattori interni ed esterni alla sua persona, al suo sentire, al suo rapporto con la professione, agli eventi che lo investono e spesso che lo travolgono nell’esercizio delle sue funzioni.

L’analisi sistematica di questo immenso patrimonio di scrittura permette di aprire spiragli molto interessanti sul fenomeno migratorio, di risalire alla qualità di un numero molto vasto di viaggi per mare, di esperienze, di incontri e di scontri avvenuti nel corso di un secolo. Lavorare sulle apparenti divagazioni, sulle eccezioni formali permette di ricostruire le storie di centinaia di migliaia di uomini, donne e bambini delle più disparate provenienze sociali ed etniche, con differenze che riguardano non solo l’età ma gli ideali politici, l’occupazione (che avevano alla partenza e che avranno oltreoceano), l’istruzione e più in generale la visione del mondo, che per un secolo affollarono i piroscafi in partenza o in arrivo dalle Americhe.


2. La via delle Americhe alla fine dell’Ottocento

La via delle Americhe è il titolo di una fortunata mostra sull’emigrazione allestita a Genova alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, quando nel capoluogo ligure iniziarono a prendere corpo progetti di trasformazione e riqualificazione urbana dell’angiporto accompagnati da iniziative culturali legate alle celebrazioni per il quinto centenario dalla scoperta dell’America[xi]. La mostra sull’esperienza migratoria ligure riusciva nel tentativo di fare il punto – anche grazie anche ad un’importante opera di raccolta documentaria realizzata sul territorio regionale – su quello che Genova aveva rappresentato per il fenomeno migratorio, non solo ligure, come luogo d’imbarco e di transito per le diverse destinazioni americane, in un arco di tempo che partiva dai primi anni dell’Ottocento, quando il fenomeno sembrava effettivamente aver anticipato su scala regionale, per qualità e quantità, ciò che si sarebbe verificato su scala nazionale nel periodo postunitario, fino ad arrivare allo scoppio del primo conflitto mondiale. La maggior parte dei documenti, dalle fotografie alle testimonianze scritte, utilizzati per quella mostra, si riferiva agli anni a cavallo fra i due secoli, quando il fenomeno, divenuto ormai strutturale e non più circoscritto ad alcune zone del paese, aveva raggiunto cifre impressionanti e il porto di Genova aveva visto transitare in trent’anni più di tre milioni di persone dirette nel Nuovo mondo[xii]. Una fin de siècle nella quale la distanza tra i due mondi sembrava per un verso potersi ridurre di anno in anno grazie a collegamenti sempre più frequenti e veloci e per l’altro dilatarsi e aumentare in conseguenza delle politiche di controllo alle frontiere destinate a “selezionare” e dunque limitare i transiti da una sponda e l’altra dell’Oceano.

Due eventi succedutisi a poca distanza nel 1892 riassumono ed esemplificano questa apparente contraddizione. Nello stesso anno in cui Genova ospitò le celebrazioni per il quarto centenario dalla scoperta di un’America che almeno nell’immaginario collettivo sembrava davvero sempre più vicina, dall’altra parte dell’Oceano gli Stati Uniti, nel tentativo di regolare un fenomeno che stava assumendo le dimensioni di un esodo dal Vecchio mondo, disposero lo spostamento, e il conseguente allontanamento dalla terra ferma, del centro di accoglienza immigrati dal vecchio e ormai inadeguato edificio di Castle Garden ad Ellis Island, l’isolotto di fronte a New York da cui sarebbero transitati tra il 1892 e il 1924 più di sedici milioni di persone[xiii]. In quello stesso anno un centinaio di piroscafi collegarono con cadenza settimanale i porti di Genova e Napoli con le principali capitali del Nord e Sud America, alimentando la costruzione di quelle scene cariche di emotività, che oggi sono entrate a far parte dell’immaginario collettivo, fatte di approdi e ponti di navi ricolmi di uomini donne e bambini in procinto di lasciare il proprio paese. Immagini lette quasi sempre in chiave di fuga dall’Italia e ben rappresentate a questo scopo da scrittori, pittori e fotografi del tempo. Nel 1892 sempre a Genova si erano da poco conclusi gli interventi di ammodernamento del porto, voluti e in buona parte finanziati da Raffaele De Ferrari, duca di Galliera, attraverso una convenzione con il Governo e il Comune di Genova, che dopo quattordici anni di lavori avevano completamente trasformato l’approdo genovese, triplicando i chilometri di banchina utilizzabile rispetto al 1860, dotandolo di una nuova stazione passeggeri e di un organico sistema di attrezzature per lo sbarco e imbarco delle merci, nonché di un sistema soddisfacente di viabilità interna e di comunicazione con la città, ma soprattutto di fondali sufficienti ad una navigazione mercantile a vapore che in quegli anni aveva aumentato notevolmente i propri tonnellaggi[xiv].

Nel mese di novembre di quell’anno il piroscafo Giulio Cesare, con 873 passeggeri assiepati sul ponte di coperta, lasciava l’ormeggio al Ponte Federico Guglielmo con destinazione il porto brasiliano di Santos. Prima di raggiungere l’avamporto, e da lì intraprendere per la prima volta la via delle Americhe, costeggiò i moli Paleocapa, Colombo e Lucedio che poche settimane prima avevano fatto da cornice e dato riparo alle migliori imbarcazioni del mondo giunte a Genova in occasione delle celebrazioni colombiane. Il Giulio Cesare – da non confondere con il più famoso omonimo piroscafo gemello del Duilio, utilizzato esclusivamente per il trasporto passeggeri sulla linea nordamericana nel primo dopoguerra – era stato varato appena diciotto mesi prima nel cantiere navale Gio Ansaldo & C. di Sestri Ponente, considerato allora il più importante stabilimento del Regno[xv]. Costruito con lo scafo interamente in acciaio e dotato di macchine capaci di raggiungere la velocità di navigazione di dieci miglia orarie, il Giulio Cesare era molto simile ad un altro vapore ormeggiato in quei giorni nel porto di Genova: il Nina, ribattezzato Re Umberto perché varato nel medesimo cantiere sestrese due mesi prima alla presenza della famiglia reale, giunta nel capoluogo ligure per l’inaugurazione ufficiale dell’imponente esposizione Italo-Americana, realizzata sulla spianata alla foce del Bisagno e considerata l’avvenimento clou della manifestazione colombiana.

Entrambi i piroscafi, realizzati grazie a rilevanti contributi statali nei cantieri genovesi di proprietà della famiglia Bombrini, rappresentavano quanto di meglio l’industria italiana del mare potesse vantare ed esibire quale prodotto del progresso della tecnica, nell’anno in cui il Governo per un verso e il mondo dell’impresa per l’altro avevano scommesso sul rilancio internazionale di Genova, divenuta per almeno sei mesi vetrina e crocevia di interessi politici, finanziari e commerciali, e sulla definitiva affermazione dell’imprenditoria armatoriale italiana sul mercato internazionale del cosiddetto “commercio dell’emigrazione”[xvi]. Alcuni studi hanno tentato a distanza di anni di ridimensionare la portata dell’avvenimento genovese, dando risalto alla mancata partecipazione di alcune importanti imprese legate al porto di Genova. Ciò nonostante risulta difficile declassare quel evento a semplice manifestazione regionale, per almeno due ragioni: quasi tremila espositori chiesero e ottennero di partecipare all’esposizione Italo-Americana, richiamando nella città ligure centinaia di migliaia di visitatori da fuori regione e le assenze in molti casi furono giustificate più dai rapporti personali con gli organizzatori che dalla scarsa considerazione di quella che si rivelò in definitiva una straordinaria vetrina internazionale[xvii]. Basti pensare alle fortune di uno stabilimento come l’Ansaldo che da quegli anni e per almeno un decennio visse un notevole sviluppo internazionale con importanti commesse nazionali ed estere. L’appuntamento genovese sancì ancora una volta un modello di industria del mare, sperimentato perlomeno dall’Unità d’Italia in avanti, che prevedeva sussidi statali a favore del settore armatoriale e al contempo sovvenzioni – sempre statali – su determinate linee di navigazione. Un sistema industriale privato sostenuto con denaro pubblico, e alimentato non di rado con capitali provenienti da istituti bancari esteri, che portò la marineria a vapore italiana a competere su alcune rotte con i colossi del settore battenti bandiere inglesi e tedesche[xviii].

Genova fu, almeno per tutto il 1892, la capitale della cultura marinara, e non solo per l’ampia sede dell’esposizione colombiana riservata alla marina mercantile italiana, ma anche per le numerose iniziative che il capoluogo ligure ospitò per almeno nove mesi. La compagnia di navigazione La Veloce decise di esporre quasi tutti i piroscafi della sua flotta e fra questi il più noto Nord America, descritto qualche anno prima da Edmondo De Amicis con il nome di Galileo nel suo romanzo Sull’Oceano, considerato il fiore all’occhiello della compagnia genovese sulla linea sudamericana, grazie alla sua elevata velocità di crociera che permetteva – come recitava uno slogan del tempo – di collegare Genova con la capitale argentina in soli 15 giorni di navigazione. Il più importante porto italiano divenne anche il luogo per pensare a nuove politiche per i trasporti, negli anni in cui il trasporto dei passeggeri stava assumendo dimensioni mai raggiunte prima.

La possibilità di avere prezzi ridotti sul trasporto ferroviario e marittimo fece dirottare su Genova diverse iniziative del tutto estranee alle celebrazioni del quadricentenario della scoperta dell’America: il congresso costitutivo del Partito dei Lavoratori Italiani, divenuto in seguito Partito Socialista Italiano, celebrato tra la sala Sivori e la sala dei Carabinieri genovesi alla metà di agosto, e quello meno noto dei Cattolici Italiani, ospitato nella chiesa di N.S. della Consolazione e nei locali del seminario tra il 4 e l’8 ottobre[xix]. A queste si allacciarono alcuni appuntamenti di rilievo internazionale, dove furono trattati temi relativi al diritto del mare, e questioni giuridiche riguardanti le marine mercantili europee, nonché quello della massificazione del trasporto via mare. Il più importante di questi fu il primo congresso internazionale di diritto marittimo, dove furono affrontati temi legati al credito marittimo, alle avarie e alle polizze, e più in generale alle assicurazioni nei casi di collisioni fra navi. Un tema molto dibattuto nelle diverse sedute fu quello della asserita personalità giuridica della nave in relazione all’evidente responsabilità di piroscafi sempre più grandi, con carichi sempre più ingenti di merci ma soprattutto di passeggeri.

Alcuni dati aiutano a capire l’urgenza di alcune di queste questioni: tra il 1880 e il 1892 il numero dei piroscafi battenti bandiera italiana era raddoppiato, passando da 158 unità a 316, mentre il tonnellaggio era quasi triplicato passando da 77.050 a 201.443 tonnellate (alla fine del secolo avrebbe superato le 400.000 tonnellate)[xx]. Erano dati importanti per la marina mercantile italiana anche se certamente non equiparabili a quelli delle marine inglesi e tedesche, abituate ad operare con tonnellaggi superiori e a trasportare già in quegli anni più di duemila passeggeri su ogni tratta, quando i vapori italiani iniziavano ad ospitarne poco più della metà per ogni singolo viaggio[xxi]. Sebbene nelle relazioni finali a quei lavori risultino solo impliciti accenni alle responsabilità legate al trasporto passeggeri, inteso in quegli anni ancora alla stregua di quello merci, fu anche grazie ad appuntamenti come questi che gli addetti ai lavori si convinsero che i piroscafi dovevano iniziare ad essere considerati, in virtù degli ingenti “carichi” trasportati, come vere e proprie aziende a sé stanti e non più come semplici elementi patrimoniali di un singolo armatore[xxii].

A questi appuntamenti ne seguirono altri più mondani che attirarono su Genova, in particolare tra luglio e dicembre, centinaia di migliaia di persone fra semplici curiosi, politici e imprenditori, intellettuali e scienziati, oltre naturalmente ad un buon numero di emigranti. Le agevolazioni economiche sul trasporto spiegano però solo in parte il flusso impressionante di persone che in quei sei mesi si trovarono per avventura a frequentare anche per più giorni l’angiporto genovese. Basti pensare che la sola esposizione Italo-Americana fu visitata da più di ottocentomila persone. Da giugno ad ottobre il porto genovese vide transitare oltre cinquantamila passeggeri, perlopiù provenienti dai porti americani. Nel solo mese di giugno, alla vigilia dell’inaugurazione dell’Esposizione, partirono da Genova 12 piroscafi di cui 7 battenti bandiera italiana per un totale di 2541 passeggeri di cui 2275 di terza classe, la maggior parte diretti in Argentina (841); contro i 18 piroscafi che nello stesso mese sbarcarono a Genova più di settemila passeggeri fra cui almeno seimila di terza classe. Di questi più della metà rientrava dal porto argentino di Buenos Aires e un quarto da quello brasiliano di Santos, a dimostrazione di come Genova fosse in quegli anni il punto di passaggio obbligato per i collegamenti con il Sud America, attirando tra il 1876 e il 1901 il 61% dell’emigrazione transoceanica italiana[xxiii].

Alla luce di questi dati possiamo facilmente immaginare come i passeggeri del Giulio Cesare, così come quelli saliti il giorno prima sul piroscafo francese Espagne diretto a Marsiglia-Buenos Aires o sul tedesco Ems della North German Lloyd diretto a Napoli-New York, si mescolassero alla fiumana di gente presente in una città tirata a lucido per la manifestazione colombiana. L’amministrazione locale si era adoperata, riuscendovi peraltro solo in parte, a presentare il territorio urbano sgombero da tutto quanto potesse apparire indegno di una città che intendeva presentarsi al meglio alla comunità internazionale, sulla scia di ciò che altre città europee avevano fatto in occasione di analoghe manifestazioni internazionali. Un precedente, non certamente l’unico in quegli anni, era stato quello di Parigi, quando durante l’esposizione internazionale del 1867 si erano avuti arresti di massa ed espulsioni di mendicanti e suonatori ambulanti, perlopiù provenienti dall’Italia: segno evidente di come questo genere di appuntamenti fossero occasione di grande richiamo e di guadagno non solo per gli organizzatori. Tra il 1867 e il 1869 furono arrestati e allontanati dalla capitale francese più di millecinquecento minorenni italiani, che la stampa estera del tempo definì “fanciulli trascinati al vituperevole mestiere da certi infami connazionali”, sorpresi ad esercitare il mestiere di suonatore ambulante nelle strade di Parigi: un numero impressionante che dimostra come il fenomeno fosse almeno in quegli anni tutt’altro che marginale a tal punto da costringere il parlamento italiano a varare una legge nel 1873 per cercare di limitare lo sfruttamento dei minori ostacolandone l’espatrio. Ciononostante, anche a causa dei limiti di una legge facilmente aggirabile perché applicabile solo sul territorio nazionale, ancora alla fine dell’Ottocento non era insolito assistere ad esibizioni di giovanissimi italiani nelle strade delle principali capitali europee o americane[xxiv]. Nel caso di Genova, anche a seguito di regole almeno formalmente più restrittive, il cosiddetto mantenimento della quiete e dell’ordine pubblico non presentò gli stessi problemi e soprattutto non causò i medesimi imbarazzi di quello francese. Stando alle statistiche e alle notizie riportate dai quotidiani locali in quei mesi, sulla base di dati riferiti dall’Ufficio di Polizia riguardo alle operazioni di servizio delle guardie municipali – esclusi quindi tutti i provvedimenti adottati dalla questura – rispetto al semestre precedente, gli arresti per questua erano effettivamente diminuiti, segno evidente che il numero di mendicanti presenti in città era effettivamente calato, a fronte di un aumento considerevole degli arresti, anche di minori, per furti, truffe, rapine, borseggi compiuti quasi sempre nelle vicinanze del porto, quotidianamente ripresi e amplificati dalla stampa locale, a dimostrazione di come la gestione dell’ordine pubblico fosse un problema avvertito in quei mesi, quanto meno dai mezzi di comunicazione, e quasi sempre messo in relazione alla partenza o all’arrivo in porto di piroscafi utilizzati per il “trasporto emigranti”.

Va detto che in realtà il Giulio Cesare non era nato come nave per il trasporto degli emigranti; era infatti in gergo un “vettore occasionale” adibito al trasporto merci fra Genova e i porti del mondo, che solo in determinate circostanze, spesso per singoli viaggi, venne impiegato per il trasporto di passeggeri, almeno fino al 1894 quando l’armatore Bartolomeo Mazzino trasformò la sua ditta in società anonima con il nome Ligure Romana (divenuta poi nel 1897 Ligure Brasiliana), impegnandosi a tempo pieno, anche attraverso l’impiego di navi noleggiate, nel servizio migratorio fra Genova e i porti brasiliani[xxv]. Nell’autunno del 1892 l’armatore romano, dopo aver realizzato alcune importanti spedizioni tra Singapore, Colombo e Porto Said, pensò ad un paio di viaggi di «convenienza» – come esplicitamente riportato sul contratto di arruolamento – contagiato forse dall’euforia che ancora si respirava sulle banchine del porto per il naviglio di prim’ordine transitato a Genova in quei mesi o forse più semplicemente allettato dai guadagni di un mercato in forte espansione come era appunto quello del trasporto passeggeri in quegli anni, quando gli scafi battenti bandiera straniera controllavano quasi la totalità del traffico passeggeri nei due principali compartimenti portuali italiani di Genova e Napoli. Il tentativo non era azzardato in ragione del fatto che la qualità del naviglio nazionale utilizzato abitualmente sulla via delle Americhe era modesta, di un livello mediamente più basso rispetto ad un piroscafo di recente fabbricazione come il Giulio Cesare, che aveva costi di gestione molto inferiori ad altre imbarcazioni attive anche da più di vent’anni su quelle rotte, come il già citato Nord America[xxvi]. Si trattava di un mercato dove i costi di gestione rendevano difficile l’ingresso e l’esercizio, favorendo i processi di alleanze e accorpamenti, tanto è vero che in quegli anni l’80-90% del naviglio a vapore immatricolato nel compartimento marittimo di Genova era controllato da tre quattro società[xxvii]. I pochi armatori italiani che erano riusciti ad entrare in quel giro di affari, fra i quali Giovanni Battista Lavarello, Rocco Piaggio e Carlo Raggio, ne avevano tratto notevoli guadagni anche grazie ad operazioni finanziarie internazionali che avevano portato, come già accennato, ad accordi con imprenditori ed istituti bancari tedeschi. Edilio Raggio, noto politico, industriale e armatore piemontese, non a caso presidente del comitato organizzatore dell’esposizione Italo-Americana, era considerato allora un rampante della nuova borghesia industriale per essere riuscito ad ottenere importanti appalti di fornitura di carbone alle ferrovie e alla marina militare, e aveva scommesso (e speso) molto sulla manifestazione genovese traendone indubbi vantaggi e guadagni proprio dal business del trasporto emigranti. Basti pensare che negli ultimi anni del trasporto

a vela con due tre viaggi in America gli armatori riuscivano, con quanto sborsato dai soli passeggeri, ad ammortizzare l’investimento effettuato sull’acquisto del veliero[xxviii].

Il primo dei due viaggi per il Brasile del Giulio Cesare, cominciato come si è detto il 13 novembre, si svolse senza difficoltà o perlomeno senza quegli inconvenienti che avevano caratterizzato la vigilia della partenza. Stando alle annotazioni del comandante fresco di nomina Antonio Ramò, le manovre di imbarco delle merci indirizzate al porto di Santos non subirono contrattempi, così come le operazioni per l’imbarco e la sistemazione a bordo degli oltre ottocento passeggeri diretti in Brasile. In realtà Ramò preferì tacere e non dare spazio sul suo diario ad un incidente verificatosi nelle ore immediatamente precedenti la partenza e che invece, se non altro per le conseguenze, avrebbe dovuto per legge registrare in ogni dettaglio: un silenzio che rivela in che modo le relazioni dei comandanti possano aver lasciato immagini incomplete e frammentarie delle vicende di una nave, restituendo una serie di scatti caratterizzati da sfocature selettive o da zone d’ombra anche evidenti, volute dal comandate per le ragioni più diverse, palesi o celate, relative alla salvaguardia della propria professionalità o dell’immagine della società di navigazione. Nel caso specifico si trattava di un episodio chiaramente imbarazzante per un piroscafo di recente fabbricazione al suo primo viaggio transoceanico, che trovò invece notevole spazio nelle pagine di alcuni quotidiani locali: “Il Secolo XIX” nell’edizione del 13-14 novembre, dedicata quasi esclusivamente ai ballottaggi per eleggere i rappresentanti genovesi al parlamento italiano, riportava un trafiletto a centro pagina dal titolo “La partenza del Giulio Cesare”:

Ieri – si legge nell’articolo in terza pagina – doveva partire per il suo primo viaggio al Brasile, il piroscafo Giulio Cesare, con circa 900 passeggeri, ma un fortuito incidente ne rimandò la partenza a stamane. Gli emigranti erano già quasi tutti imbarcati, allorché dopo il primo pasto a bordo, una quarantina di essi vennero soprappresi da dolori acutissimi di ventre, da vomito ecc.

Indagata la causa di tale malore, si venne alla conclusione che si doveva trattare di avvelenamento prodotto dalla recente stagnatura delle gamelle. Le gamelle vennero subito sostituite con altre nuove, ed inviate alla Commissione sanitaria per le opportune verifiche.

Iersera alle 11, appena la Commissione ebbe dato il suo responso, il piroscafo fece i preparativi per la partenza[xxix].

La cattiva stagnatura o saldatura degli oggetti e dei recipienti metallici utilizzati a bordo dei piroscafi per la somministrazione dei pasti poteva provocare forme anche gravi di intossicazione. Nonostante un regolamento approvato il 3 agosto 1890, avesse tentato di disciplinare la materia e vigilare sugli aspetti riguardanti l’igiene degli alimenti, delle bevande e degli oggetti di uso domestico utilizzati sulle navi, episodi come quello verificatosi a bordo del Giulio Cesare continuarono ad interessare per diversi anni le cronache dei giornali, ma prima ancora i passeggeri, gli equipaggi, le autorità marittime e sanitarie dei porti italiani. A cinque anni di distanza da questo episodio la stessa compagnia di navigazione, divenuta nel frattempo la Ligure Brasiliana, rimase coinvolta in un altro incidente analogo[xxx]. Un caso di avvelenamento verificatosi a bordo del piroscafo Agordat, in partenza per il Brasile, costrinse dieci persone a ricorrere alle cure ospedaliere mentre 130 passeggeri per protesta chiesero di scendere dalla nave prima della partenza. In questa circostanza le presunte anomalie sulla stagnatura dei piatti e delle gamelle utilizzate a bordo costrinsero il comandante del porto di Genova, «non potendo durare più a lungo questo stato di cose» – per usare le parole dello stesso riportate nella relazione formulata all’indomani dell’accaduto – a comunicare alla Direzione generale della Marina Mercantile di Roma, e per questa al Ministero degli Interni, l’apertura di una commissione d’inchiesta. Un atto probabilmente dovuto, accompagnato da una serie di proposte utili a suo dire a porre fine a «disturbi e imbarazzi tanto alla Autorità marittima che alla navigazione»[xxxi].

Il tono e le argomentazioni utilizzati dal comandante del porto nella sua relazione lasciano chiaramente intendere l’imbarazzo e l’insofferenza delle autorità locali ma anche l’incapacità di porre rimedio al problema, in virtù del fatto che le compagnie di navigazione chiamate a rispondere, dovendo mantenere prezzi competitivi all’interno di un mercato dove apparentemente faticavano ad operare, avevano più volte manifestato di non essere in alcun modo disposte a sostenere i costi per migliorare la qualità del servizio a bordo, e di essere per lo stesso motivo impossibilitate a far ricadere questo costo direttamente sui passeggeri alzando il prezzo dei biglietti, come invece proposto dall’Ispettore di Pubblica Sicurezza del porto e dallo stesso comandante nella sua relazione[xxxii]. Fra le proposte indirizzate a Roma, una avrebbe permesso in un solo colpo di risparmiare le spese di costose perizie che non portavano quasi mai a definire le responsabilità degli incidenti, evitare alle compagnie di navigazione costi aggiuntivi per migliorare la qualità del servizio ma soprattutto sollevare gli armatori da ogni responsabilità. La proposta fu avanzata dal comandante Domenico Ascoli, che nel suo rapporto suggeriva l’obbligo per le compagnie di navigazione di comunicare all’autorità marittima le generalità dell’artigiano stagnaio di riferimento, il quale avrebbe dovuto iscriversi per legge ad una sorta di albo nazionale, depositare presso il competente ufficio igiene un campione dello stagno utilizzato per le saldature, nonché sottoscrivere un contratto con la compagnia di navigazione che lo avrebbe reso unico responsabile di qualsiasi incidente derivato da cattiva stagnatura e saldatura o comunque da anomalie agli strumenti utilizzati per la somministrazione di alimenti a bordo. A rendere ancor più convincente la proposta suggerita al dicastero romano, il prospetto, allegato alla pratica, con le ingenti spese sostenute dal Municipio di Genova per le perizie sui materiali sequestrati su altri piroscafi ormeggiati nel porto, a bordo dei quali si erano verificati nei mesi precedenti incidenti analoghi. Come indicato dallo stesso comandante, questo sarebbe stato senza dubbio il modo migliore per evitare «disturbi e imbarazzi tanto alla Autorità marittima che alla navigazione». In realtà ciò avrebbe fatto ricadere le responsabilità su un soggetto terzo – gli artigiani o le ditte fornitrici – certamente meno potente e influente di quanto non fossero le compagnie di navigazione, le quali potevano, nei casi di contenzioso con i fornitori, fare leva in sede legale su perizie ed analisi di laboratorio poco attendibili che, almeno fino ad allora, quasi mai erano riuscite a distinguere con assoluta certezza le intossicazioni da alimenti da quelle dovute invece all’uso di stoviglie non conformi. Nel caso dell’Agordat non fu sufficiente l’istituzione di una commissione di inchiesta per stabilire le responsabilità oggettive dell’incidente; al Giulio Cesare cinque anni prima era bastato sostituire piatti e gamelle per chiudere la vicenda e ottenere le necessarie autorizzazioni a partire.

Tornando al viaggio di quest’ultimo, lasciato il porto di Genova dopo tre giorni di navigazione il primo scalo fu Gibilterra, dove vennero imbarcati 177 passeggeri per un totale di 139 posti interi, come previsto dalla normativa che non attribuiva posti (e dunque costi di viaggio) ai bambini fino a tre anni, mentre assegnava un quarto di posto a quelli fino a cinque anni, mezzo posto, dunque metà biglietto, a quelli fino a dodici anni e un posto intero a quelli che avevano più di dodici anni[xxxiii]. Ad una settimana di navigazione dal porto di Genova, lasciati alle spalle lo scalo e il delicato passaggio di Gibilterra, ormai in pieno oceano, Antonio Ramò decise di fare la conta per verificare che tutti i passeggeri segnalati nelle liste d’imbarco, compilate a Genova e Gibilterra, fossero effettivamente presenti a bordo. Con questa procedura, che permetteva solitamente di individuare eventuali clandestini a bordo, il capitano prese atto che

Preziosa Casilli figlia di Maria Pirone non prese imbarco a Genova come risulta dalle note d’imbarco, e come risulta da dichiarazione fatta dalla Pirone Maria. Si trova anche mancante certo Medved Massimigliano sudito austriaco, del quale si viene a conoscenza che lo stesso manco la partenza da Genova, come risulta da dichiarazione fatta da suoi compagni e sotto scritti nella dichiarazione[xxxiv].

L’annotazione del comandante, inserita in coda alle routinarie informazioni tecniche sul punto nave e sulle condizioni meteo-marine, era necessaria a rendere noto alle autorità e agli armatori che in Brasile sarebbero giunte meno persone di quelle effettivamente registrate e che in entrambi i casi non si era trattato di una sparizione da bordo, fatto peraltro frequente, né tanto meno di passeggeri saliti a bordo sotto falsa identità, circostanza altrettanto frequente, visto che alla vigilia della partenza da Genova le autorità di pubblica sicurezza avevano arrestato un uomo di Venezia sorpreso nel tentativo di lasciare la città a bordo di un piroscafo diretto in Sudamerica con il passaporto sottratto o forse più semplicemente ottenuto da un compaesano appena rientrato in Italia. Per il resto, almeno stando al racconto del comandante, il viaggio proseguì senza impedimenti, favorito soprattutto dalle condizioni meteorologiche favorevoli fino a Santos, dove al Giulio Cesare fu concesso di ormeggiare il 3 dicembre 1892[xxxv]. I piroscafi ottenevano libera pratica, ovvero il permesso di entrare in porto per sbarcare merci e passeggeri, solo dopo aver ricevuto a bordo la visita dell’autorità locale di pubblica sicurezza nonché quella sanitaria per l’accertamento delle condizioni igieniche e di salute dei passeggeri a bordo.

Il viaggio di ritorno fu senza dubbio meno agevole: il Giulio Cesare ripartì da Santos dopo una sosta di cinque giorni con destinazione Rio de Janeiro. Che il viaggio non sarebbe stato quello dell’andata, i membri dell’equipaggio, se non i 127 passeggeri imbarcati nel porto paulista, lo capirono poco dopo la partenza quando per le avverse condizioni del mare il piroscafo iniziò a rallentare l’andatura fino a perdere in un solo giorno di navigazione cinque ore sulla tabella di marcia abituale, come annotato con scrupolo dal capitano nelle vicinanze di Rio de Janeiro. Ripresa la navigazione, dopo aver imbarcato le merci dirette in Europa e qualche contadino stagionale di ritorno a Genova, all’altezza dalla Fortaleza de Santa Cruz, quindi ancora in vista del porto brasiliano, il primo ufficiale di bordo comunicò al comandante che Begnamino Diodati, imbarcato a Santos come passeggero, era rimasto a terra «di sua spontanea volontà»[xxxvi]. Questo inciso, seguito da una nota in cui il comandante ricordava che l’ora della partenza da Rio era stata comunicata più volte e con largo anticipo, tanto ai passeggeri quanto ai membri dell’equipaggio, tentava di allontanare ogni sospetto sulla mancata presenza a bordo del passeggero ma soprattutto sull’operato dell’equipaggio, mettendo la nave al riparo da eventuali azioni risarcitorie che Diodati avrebbe potuto intentare nei confronti della compagnia di navigazione. La nota chiaramente non risolve i dubbi sull’accaduto o sui motivi del gesto, che rimangono, come in molti casi analoghi, del tutto ignoti. Certo si può immaginare un ripensamento a causa delle avverse condizioni patite dal piroscafo nel breve tragitto tra Santos e Rio, come spingersi a pensare ad una esitazione maturata colla decisione di tentare una nuova scommessa americana, immaginando forse le condizioni materiali, che avrebbero atteso Diodati una volta rientrato in Italia; come ad una decisione condizionata da un incontro o da una proposta di lavoro ricevuta nel porto di Rio, visto che ai passeggeri, anche a quelli non diretti in quello scalo, era stato concesso di scendere dalla nave durante le operazioni in porto. Si potrebbe anche pensare che il nostro fosse stato spinto a questa decisione da un sinistro presentimento o forse più semplicemente da qualche indizio riscontrato a bordo durante il breve viaggio, considerate le disavventure, non solo meteorologiche, che la nave avrebbe patito nel tragitto da Rio a Genova. Lasciato lo scalo brasiliano infatti la situazione sanitaria a bordo iniziò a precipitare: il 13 dicembre cessò di vivere Agostino Simonetti, un marinaio di Camogli imbarcato come passeggero a Santos[xxxvii]. La causa del decesso, anche alla luce della relazione del comandante compilata su precise indicazioni del medico di bordo, sembrava essere stata la febbre gialla, una malattia virale molto diffusa nell’America meridionale cha al pari di altre malattie contagiose costringeva le autorità di bordo ad adottare le precauzioni previste nei casi di emergenza sanitaria:

Per precauzioni sanitarie – si legge nel diario di Ramò – si è presa deliberazione assieme al dottore di Bordo Signor Bottini Tommaso di gettare a mare il cadavere ancora nelle ore 8 dello stesso giorno, prese le debite precauzioni mettendo suficiente peso di ferro allo stesso alle 8 p.m. si efettuo lo getto a mare: si sono fatti disinfettanti per tutte le parti del piroscafo[xxxviii].


Epidemie di colera e febbre gialla riscontrate a bordo di navi provenienti dai porti argentini e brasiliani, in modo particolare da quello di Santos, interessarono comandanti, medici di bordo e compagnie di navigazione operanti su quelle rotte per diversi anni. Anche se in molti casi i passeggeri imbarcati erano già infettati dalla malattia, le condizioni in cui avveniva il viaggio, in special modo per i passeggeri di terza classe, finivano per favorire il manifestarsi di malattie contagiose più o meno gravi come appunto colera e febbre gialla ma anche morbillo, scarlattina, difterite ed altre patologie gastroenteriche e broncopolmonari[xxxix]. La febbre gialla era fra le meno facili da gestire dal momento che i sintomi del morbo, cefalea, nausea accompagnata a conati di vomito e spossatezza, erano difficili da individuare visto che la maggior parte dei passeggeri di terza classe, certo non abituata al rollio della nave o comunque a lunghi periodi in mare, mostrava questi sintomi spesso ininterrottamente dalla partenza all’arrivo, a prescindere dall’aver contratto o meno la malattia. Nel caso di morte sospetta la prassi era quella di gettare prima possibile il corpo del defunto a mare, solitamente di notte o alle prime luci dell’alba per evitare la presenza di occhi indiscreti in coperta, e provvedere alla disinfezione dei locali allo scopo di prevenire il propagarsi della malattia. Non di rado le relazioni dei comandanti lasciano intendere l’urgenza e la conseguente fretta di sbarazzarsi del corpo nei casi di malattia contagiosa, indipendentemente dal fatto che si trattasse di un passeggero o di un membro dell’equipaggio. Un caso eclatante a questo proposito, che travalica l’applicazione delle norme di prevenzione, ma che dimostra il timore comune a molti comandanti di perdere il controllo della situazione, soprattutto quando il contagio colpiva membri dell’equipaggio o comunque persone che avevano avuto contatti diretti con gli ufficiali di bordo, è riportato nel diario di bordo del brigantino a palo Filippo,

sul quale nel 1901 fu presa la decisione di gettare a mare un marinaio malato da tempo solo perché questi, chiamato per tre volte, non aveva dato alcun cenno di risposta[xl].

Morire durante la traversata non era affatto un evento straordinario, almeno in quegli anni, così come non erano eccezionali i casi di epidemie a bordo tra i passeggeri e i membri dell’equipaggio. Nel luglio del 1892 il Nord America era rientrato a Genova dopo aver toccato i porti di Buenos Aires, Montevideo e Rio de Janeiro con a bordo un’epidemia di morbillo, che aveva contagiato tutti i bambini dei passeggeri di terza classe, causando cinque vittime di cui una poco prima dell’arrivo in porto, dove furono sbarcati e accompagnati nel vicino ospedale genovese trentadue bambini con evidenti segni di contagio[xli]. Nello stesso periodo a bordo del quasi omonimo piroscafo America della ditta Repetto, nel tragitto tra Rio de Janeiro e Buenos Aires erano morti a seguito di un epidemia il cuoco, un marinaio e alcuni passeggeri diretti nella capitale argentina[xlii]. Nel mese di agosto, a dimostrazione di come i problemi di epidemie non riguardassero solo i piroscafi o gli approdi Sudamericani, importanti casi di colera erano stati segnalati in diversi porti e capitali europee, costringendo le autorità sanitarie ad alzare il livello di attenzione sulle navi con a bordo passeggeri provenienti da zone sospette e comunque da tutti i principali scali europei. Questa notizia era stata ripresa dal Secolo XIX in un articolo a tutta pagina uscito alla fine del mese con un titolo (La marcia del colera) tutt’altro che rassicurante per una città che stava ospitando una manifestazione internazionale con la presenza in porto di navi provenienti dai principali approdi del mondo. I dispacci della nota agenzia di stampa torinese Stefani, citati all’interno dell’articolo, segnalavano casi di colera in diverse città europee e fra queste Parigi, Madrid e Amburgo facendo intendere che la marcia del colera non fosse, almeno in questo caso, partita da città sul mare con climi più favorevoli al batterio, come erano quelle dell’America tropicale e subtropicale o del bacino del Mediterraneo. Non è difficile scorgere l’intento da parte dei mezzi d’informazione di mettere in relazione i focolai di epidemia, lo spostamento di persone via mare e la manifestazione genovese; senza dubbio più impegnativo capire se vi fossero e quali fossero realmente le relazioni tra questi casi, e in particolare quale ruolo avessero i piroscafi nella trasmissione e circolazione delle patologie, essendo a tutti gli effetti luoghi di contatto e collegamento fra realtà anche molto distanti, ma anche quale responsabilità avessero nello sviluppo di malattie contagiose, nel momento in cui a bordo dei piroscafi venivano a mancare i più elementari sistemi di prevenzione sanitaria. Problemi di non facile lettura che già allora suscitarono anche aspri dibattiti e palleggi di responsabilità fra le autorità chiamate a rispondere e ad agire nei casi di emergenze sanitarie verificatesi a bordo delle imbarcazioni o nelle aree prospicienti agli approdi. Le relazioni e i carteggi intercorsi tra i responsabili dei piroscafi e le autorità marittime aiutano ad orientarsi in questa materia e a capire il livello e la qualità di un dibattito quasi sempre poco proficuo, finalizzato il più delle volte ad attribuirsi scambievolmente colpe e responsabilità. In alcuni casi questi materiali fanno emergere aspetti sottovalutati in passato, come la carenza per non dire la mancanza di norme igieniche non tanto nei locali destinati ai passeggeri di terza classe come si potrebbe facilmente immaginare, quanto piuttosto in quelli riservati ai membri dell’equipaggio:

In pochi giorni – si legge in una relazione scritta dal medico del porto di Napoli nell’agosto 1893 – si sono avuti a bordo delle navi ancorate in questo porto quattro casi di malattia sospetta seguiti da morte. Questo numero di casi per se stesso piccolo è molto grande se si mette in relazione dei pochi casi avvenuti in città e perciò è nato il sospetto che essi più che alla forza dell’epidemia che ora tormenta Napoli, debbasi attribuire allo stato anti igienico delle navi stesse e specialmente alla poca o minima nettezza dei locali addetti ad alloggio degli equipaggi[xliii].

Quattro morti sospette nel giro di pochi giorni potevano quindi essere considerate come un dato, a seconda delle circostanze, più o meno allarmante, nel momento in cui veniva messo in relazione con le condizioni sanitarie e i dati riscontrati a terra, che almeno dalla relazione del medico napoletano, sembrano essere il principale termine di paragone. Durante la navigazione invece anche un solo caso di morte sospetta a bordo era considerato un dato sufficiente a creare allarme, se non altro perché avrebbe potuto rallentare se non impedire l’entrata in un porto del piroscafo. La morte del marinaio di Camogli, per esempio, impedì al Giulio Cesare l’attracco nel porto di Bahja, ultimo scalo brasiliano prima della traversata atlantica. In questo caso l’ordine di rimanere ancorato ad una distanza di sicurezza fuori dal porto fu dato con alcuni colpi di cannone, si presume caricato a salve, partiti dal bastimento da guerra Dacole, ancorato in quei giorni davanti al porto. In quei giorni infatti non si era ancora spenta l’eco della vicenda che qualche settimana prima aveva provocato un vero e proprio incidente diplomatico fra Italia e Brasile a seguito degli scontri verificatisi nel porto di Santos fra alcuni marinai italiani e la polizia locale che avevano causato la morte del nostromo del trabaccolo Mentana, un piccolo bastimento da carico utilizzato per il trasporto di merci nello scalo brasiliano[xliv]. L’uccisione del nostromo italiano, già segnalato alle autorità brasiliane per reati contro la persona, con tutta probabilità non avrebbe agitato che le acque del porto di Rio se non fosse che in un primo momento la sua morte era stata scambiata, a causa dell’omonimia, con quella del comandante del piroscafo Mentana, di proprietà dei fratelli Lavarello, in navigazione in quei giorni nelle medesime acque brasiliane; un equivoco risoltosi in pochi giorni ma che aveva spinto le autorità italiane a mettere in preallarme addirittura alcune navi da guerra fra cui l’incrociatore Dogali.

Al Giulio Cesare fu comunque concesso di sbarcare la posta destinata in quel porto, grazie ad una piccola lancia che riuscì nelle operazioni non senza fatica vista la distanza del piroscafo dal porto, e le condizioni meteo marine di quei giorni con mare mosso e forte vento di Libeccio. Il 20 dicembre, ormai in pieno Oceano, cessò di vivere un altro passeggero di terza classe, un certo Giobatta Marighetti, trentottenne nativo di Borgo Valsugana, pare in seguito a dissenteria. Anche in questo caso i sospetti spinsero il comandante, sentito il parere del medico di bordo dottor Bottini, ad effettuare con le precauzioni dovute – che significava in ore notturne e con sufficiente peso di ferro per evitare che il corpo rimanesse a galla – “il getto a mare” del contadino trentino. Da questa data e fino all’arrivo a Genova il comandante non mancò di inserire quotidianamente in calce ad ogni resoconto lo stato di salute definito “ottimo” dei passeggeri: una prassi questa, indispensabile al piroscafo per ottenere il permesso di fare scalo a Santa Croce di Tenerife per il rifornimento di carbone ma soprattutto per evitare il dirottamento all’isola dell’Asinara per la quarantena, una volta giunto nel porto di Genova. Il 2 gennaio 1893, senza alcun accertamento sanitario supplementare, il Giulio Cesare ottenne via libera per ormeggiare nel porto e sbarcare passeggeri e merci provenienti dal Brasile. Nessun nuovo riferimento da parte del comandante alle perdite o a casi sospetti di epidemia a bordo, solo un fugace cenno ad una perdita di ben diversa natura: quella dell’ancora di destra, ma solo perché lo smarrimento aveva causato una lieve collisione con il vapore inglese Victoria, durante le manovre di ancoraggio, costringendo il piroscafo a cambiare approdo e ad ormeggiare al molo Andrea Doria.

Se i passeggeri imbarcati all’andata avevano potuto ammirare una città moderna e vitale, agghindata a festa per le celebrazioni colombiane, quelli sbarcati al ritorno poterono assistere al devastante incendio scoppiato la sera del 6 gennaio che distrusse interamente i padiglioni utilizzati per l’Esposizione Italo-Americana, privando la città del simbolo più rappresentativo di quell’evento e ponendo fine sul nascere al dibattito, seguito alla chiusura dei festeggiamenti, sul futuro utilizzo di quella struttura. Il Giulio Cesare rimase col suo equipaggio ormeggiato in porto il tempo necessario per ripristinare l’ancora e per effettuare alcuni lavori di manutenzione a cui venivano sottoposte le imbarcazioni tra un viaggio e l’altro. Terminati gli interventi e le operazioni di imbarco ed espletate le pratiche per l’arruolamento di un nuovo nostromo, un dispensiere, un capostiva, un marinaio più due giovani mozzi genovesi ingaggiati a titolo gratuito, il piroscafo poté nuovamente riprendere il largo con destinazione i porti brasiliani di Rio e Santos. Nel secondo viaggio il piroscafo cambiò itinerario rispetto al viaggio precedente e, con a bordo trecentoventuno passeggeri di terza classe, fece rotta su Napoli, seguendo quella che proprio in quegli anni cominciava a diventare una consuetudine, ovvero fare scalo nei principali porti dell’Italia meridionale, prima di dirigersi verso Gibilterra e da lì intraprendere la traversata oceanica. Come dimostrato dai rapporti dei comandanti, a partire da quegli anni il numero dei passeggeri imbarcati a Napoli iniziò ad eguagliare o superare quello registrato alla partenza da Genova. Giunto nel porto campano alle prime luce dell’alba del 14 gennaio 1893 il Giulio Cesare riuscì in un solo giorno di operazioni ad imbarcare trecento tonnellate di merci varie, trecentoventotto passeggeri diretti a Santos e un paio di mozzi napoletani di rinforzo all’equipaggio. Anche quella di modificare con maggiore disinvoltura il numero e la qualità dei componenti dell’equipaggio, divenne sempre più una prassi che andava certo incontro a precise norme di legge ma che a differenza del passato, quando gli equipaggi venivano decisi e reclutati nel porto di partenza e salvo clamorosi imprevisti confermati fino al ritorno in quel porto, sembrava rispondere a logiche di mercato e alla volontà delle società di navigazione di ridurre al minimo i costi di gestione, rendendo sempre più flessibile un mercato del lavoro destinato ad attirare manodopera sempre meno qualificata. Il 16 gennaio, superata la Sardegna ormai di diverse miglia, una forte burrasca indusse il comandante ad invertire la rotta e far rientro verso le coste sarde, spinto, si presume, dalla speranza che quell’insolita manovra avrebbe preservato il carico.

Forti nembi di grandine misto a neve il vento cresce con violenza – si legge nel concitato resoconto del comandate – e l’impetuoso mare incrociato da ONO [ovest nord ovest] e da NO [nord ovest] frangesi spaventosamente in coperta imprimendo al piroscafo forti movimenti di rollio e beccheggio per attenuarli ad evitare avarie si presentò prora al NO [nord ovest] Macchina adagio senza ottenere risultato. Anzi il rollio cresce crescendo la furia del tempo; su movimenti di rollio più accentuati è mosso il carico in tale frangente si decide poggiarci; guadagnando la Sardegna il mare da NO [nord ovest] si rabbonisce alquanto. Appena ci è permesso si aprono

i boccaporti è materialmente impossibile lo scendere nelle stive, per il vertiginoso camminare delle botti e casse dai corridoi con materassi cavi ed altro si tenta di arrestare la danza macabra della merce
[xlv].

In prossimità della Sardegna il mare concesse una tregua, utile a verificare i danni e a mettere in sicurezza quello che era rimasto del carico. Antoniò Ramo decise addirittura di fermare il piroscafo all’ancora nel golfo di Palmas, per permettere all’equipaggio di scendere senza pericoli nelle stive a riordinare e mettere in sicurezza le botti e le casse rimaste illese a galleggiare in una pozzanghera di vino salato all’interno dei vani destinati alle merci. Il 18 gennaio, dopo due giorni di sosta fu registrata la nascita del piccolo Antonio Domenico Cipriano, figlio di Vittoria Galli, a cui furono assegnati come nomi di battesimo, quello del comandante (Antonio) e quello del giorno di nascita (domenica 18 gennaio), secondo una prassi piuttosto diffusa a bordo durante la navigazione, specie quando – come in questo caso – il comandante si fosse distinto in particolari situazioni di pericolo. Sebbene la legge vietasse l’imbarco alle donne in avanzato stato di gravidanza, le nascite a bordo erano, almeno in quegli anni, fra gli eventi più frequenti. Così come le morti di bambini, specialmente neonati, causate il più delle volte dalle durissime condizioni climatiche cui erano sottoposti i passeggeri di terza classe. Con tutta probabilità è proprio a questo che si dovette la morte di un bambino di cinque mesi affetto da bronchite, registrata due giorni dopo dal comandante Antonio Ramò. In casi come questi i comandanti riuscivano con un numero contenuto di parole ad uscire dall’impaccio della redazione del verbale, limitandosi a segnalare l’ora del decesso, le generalità del bambino e dei genitori e le cause, quasi sempre vaghe e approssimative, cha avevano portato al trapasso. La realtà è che molti neonati morivano per assideramento perché costretti a trascorre il lungo viaggio in locali dove le temperature, specie nei periodi invernali, potevano tranquillamente scendere al di sotto dello zero. Se il giornale di bordo poteva dedicare alle notizie ferali anche solo uno scarno e gelido comunicato, quello sanitario compilato dal medico di bordo doveva contenere il maggior numero di informazioni possibili per evitare, specialmente nei casi di decessi di minori, il richiamo formale delle autorità una volta rientrati col piroscafo in Italia. Stando alla documentazione prodotta in quegli anni, i controlli da parte delle autorità preposte erano molto serrati, perlomeno fino a quando la legge permise alle società di navigazione di ingaggiare liberamente il medico di bordo. Le relazioni dei medici finivano così per passare il vaglio di diversi organi di controllo periferici e centrali. Il Regolamento sulla sanità marittima stabiliva che i giornali sanitari compilati dai medici di bordo dovessero essere consegnati alla Capitaneria e all’Ufficio di Porto competenti, affinché questi, fatte le prime opportune osservazioni, potessero trasmettere le carte in prima istanza alle Prefetture competenti, quindi ai Ministeri della Marina e dell’Interno. Questi ultimi avevano la facoltà di chiedere ai medici di bordo eventuali approfondimenti nel caso di presunte inadempienze, ma anche il potere di sanzionare i medici fino alla revoca dell’autorizzazione ad esercitare la professione a bordo delle navi mercantili, nel caso di gravi inadempienze nella redazione dei giornali, come evidenziato in una lettera pervenuta in quegli anni al comandante del porto di Genova:

Il sottoscritto – si legge nella missiva, spedita dalla Direzione generale del Ministero della Marina in data 26 maggio 1895 – restituisce alla S.V. il giornale sanitario del piroscafo “Alacrità”, relativo al viaggio da Genova a Santos e ritorno, dal 28 dicembre 1894 all’8 marzo 1895, tenuto dal medico D. Lamborghini Ulisse. Dall’esame passato al predetto giornale dal Ministero dell’Interno è risultato che esso è incompleto in ogni sua parte.

La S.V. richiamerà perciò severamente il dottore Lamborghini all’esatta osservanza delle vigenti prescrizioni riguardo al modo di redigere il giornale sanitario di bordo. Informerà il dottore stesso che il Ministero dello Interno lo ammonisce che, qualora si avessero a fare ulteriori ed analoghi rimarchi a di lui carico, si troverebbe nella necessità di revocare la concessagli autorizzazione di esercitare la sua professione sui piroscafi mercantili[xlvi].

Il richiamo congiunto dei due dicasteri al medico di bordo del piroscafo Alacrità non chiuse affatto una vicenda, partita con una nota fatta dal medico del porto di Genova all’inizio del mese di marzo, nella quale senza troppi giri di parole venivano riferite pesanti accuse al dottor Lamborghini, per avere di fatto taciuto la morte di cinque bambini e per essersi astenuto dal comunicare le misure igieniche adottate per arrestare un’epidemia di vaioloide, nonché per isolare alcuni casi sospetti di febbre gialla riscontrati a bordo. Il medico di porto, come noto, non aveva alcun rapporto con le Società di navigazione ed era a tutti gli effetti un ufficiale sanitario governativo con il compito di vigilare sulle condizioni igieniche del porto e delle navi ormeggiate e di conseguenza anche quello di proporre attraverso periodiche relazioni i provvedimenti da assumere nei casi di trasgressioni alle leggi o a regolamenti sanitari. Le autorità portuali genovesi, incoraggiate dai funzionari del Ministero della Marina, riuscirono a rintracciare il medico, che nel frattempo era stato sollevato dall’incarico e sbarcato dal piroscafo Alacrità, ricevendo da questi alcuni interessanti chiarimenti sui suoi presunti silenzi.

In una sorta di memoriale difensivo, scritto nel porto di Napoli a bordo del Fortunata R., un piroscafo di proprietà di Edilio Raggio impiegato sulla rotta Genova Napoli Santos, il dottor Lamborghini ricostruì con dovizia di cronaca la vicenda ribattendo punto su punto alle accuse mosse nei suoi confronti. Dalla lettura del manoscritto si viene a sapere che i cinque bambini deceduti nell’arco di venti giorni durante il viaggio di andata avevano tutti meno di tre mesi: il primo era morto per assideramento a causa della temperatura di quattro gradi sotto zero registrata nella notte tra il 5 e il 6 gennaio 1895 nei locali di terza classe. Il secondo era morto nove giorni dopo in seguito a soffocamento per complicazioni all’apparato respiratorio riconducibili alle condizioni ambientali. Gli altri tre erano morti nella settimana successiva di stenti per mal nutrizione. In uno solo di questi casi i genitori erano ricorsi alle cure del medico; negli altri quattro il medico non aveva potuto che constatare il decesso. Quanto all’epidemia di vaioloide, sempre secondo il medico di bordo, la mancanza di decessi era la prova che le misure di isolamento e di disinfezione prese nei giorni successivi alla comparsa dell’infezione, avevano rispettato il protocollo sanitario.

Il memoriale del medico di bordo solleva almeno tre questioni interessanti: la prima, forse più evidente, riguarda le possibilità e le opportunità che i passeggeri di terza classe avevano di interagire con il medico di bordo durante la navigazione, se è vero che in molti casi il medico non poteva far altro che constatare e registrare decessi ormai avvenuti. La seconda questione, sebbene sollevata da persona chiamata a difendere il proprio operato, riguarda gli aspetti formali e più in generale la possibilità di svolgere la professione di medico su piroscafi sempre più affollati: «Si dovrebbe tener conto – scrive Lamborghini al termine del memoriale – che un medico a bordo con mille e cinquecento passeggeri ha di che fare tanto per l’igiene come per la cura, e che non sempre può trovare l’agio di adempire a tutte le formole (sic!) compromettendo la sostanza»[xlvii]. L’ultima questione riguarda invece le attribuzioni di competenze e responsabilità fra i membri dell’equipaggio e gli armatori, dal momento che sia il comandante sia il medico di bordo erano a tutti gli effetti dipendenti della compagnia di navigazione, che indubitabilmente finiva per condizionare se non addirittura limitare l’autonomia professionale dei propri subalterni, quindi il loro operato, anche attraverso intimidazioni e minacce, se si accetta per vera la dichiarazione finale del medico di bordo:

Debbo però fare cenno di un fatto che mi preme di mettere a conoscenza a scanso d’equivoci. A Vittoria infieriva la febbre gialla: si propone di imbarcare dei passeggeri in n. di 11 che venivano appunto da luogo molto infetto. Io feci le più energiche opposizioni per l’imbarco; non ostante la più viva resistenza per parte mia, il Sig. Comandante, ed il Console locale mi costrinsero a prenderli a bordo, sotto la minaccia di pene disciplinari. Dovetti cedere malgrado il mio dovere, ed appena due giorni dalla partenza da Vittoria accadono i due casi di febbre gialla e precisamente in mezzo agli undici imbarcati[xlviii].

L’accusa esplicita del medico Lamborghini sembrerebbe rivolta più che ad alcune persone ad un sistema che va oltre lo spazio, e dunque gli interessi, delle nave e arriva a coinvolgere persino le autorità consolari del porto brasiliano di Vittoria. Ciò spiega non soltanto i motivi del licenziamento del medico, una volta rientrato il piroscafo a Genova, ma anche i nodi di una questione – relativa alle competenze e all’autonomia dei medici di bordo – che solo la legge di riordino del 1901 tenterà di risolvere introducendo a bordo dei piroscafi figure governative, come il Commissario di bordo, formalmente indipendenti dalla società armatrice, e affiancando ufficiali sanitari, sempre governativi, al medico o ai medici di bordo arruolati direttamente dalle compagnie di navigazione.

Tornando al viaggio del Giulio Cesare, terminato il tormentato passaggio tra Napoli e Malaga, il piroscafo giunse a Gibilterra con oltre tre giorni di ritardo sulla normale tabella di marcia. Nell’ultimo scalo prima della traversata atlantica furono caricati nuovi viveri e merci destinate al consumo durante la navigazione, perse o andate distrutte durante il tragitto nelle acque del Mediterraneo, e imbarcati ben 729 passeggeri di terza classe, perlopiù spagnoli. Superato lo stretto con più di milleduecento passeggeri a bordo, la narrazione del comandante inizia ad alternare vicende di carattere sanitario (la notte tra i 2 e il 3 febbraio cessa di vivere un altro bambino) a problemi di ordine pubblico. Nella nota del 4 febbraio, dopo aver denunciato la sparizione da bordo di un giovane imbarcato a Gibilterra, si legge:

Fra i passeggeri spagnoli ci sono dei malfattori che cercano di molestare l’Italiani per evitare questioni si separano li uni dalli altri, col mettere donne e uomini spagnoli a poppa e l’italiani a prora; cosa però che costa non poca fatica. Nel mentre che i passeggeri (sic!) stavano cenando succedette fra i spagnoli un forte alterco, si fecero 6 arresti mettendoli in camera di sicurezza.

In vista alcuni Spagnoli (una buona parte) regnava un male umore; si raduna il comando di bordo prendendo la determinazione di armare una quantità di passiggeri Italiani onde nella notte non succedessero delle risse e in pari tempo non permettere comunicazioni e formare casi in stato d’assedio.

Alle ore 2 p.m. cessava di vivere il Ragazzo Morceria Rosario di Francesco affetto da Meningite[xlix].

Chissà cosa avrebbero pensato i membri della delegazione spagnola giunti qualche mese prima a Genova per i festeggiamenti all’esposizione Italo-Americana, per ricambiare la visita delle autorità italiane all’inaugurazione del monumento a Colombo eretto nella città catalana di Barcellona. E quanto sarebbero sembrate a loro stessi lontane e persino stonate le parole di cortesia pronunciate nel salone genovese della Concordia, i convenevoli di rito, i brindisi e gli applausi per gli accordi commerciali stipulati fra Spagna e Italia, entrambe concordi nel riconoscere al più famoso uomo di mare mai conosciuto «l’opera civilizzatrice» di due «grandi nazioni latine» nonché le «glorie marinaresche»[l] degli italiani e degli spagnoli in America, alla notizia che il comandante di uno fra i piroscafi di punta della marineria italiana era stato costretto alla decisione quanto mai irrituale di separare per problemi di ordine pubblico, non le donne e i bambini dagli uomini come voleva la prassi, bensì gli italiani dagli spagnoli, allo scopo di ridurre al minimo i contatti e gli scontri fra catalani e castigliani da una parte e piemontesi e siciliani dall’altra. Per i passeggeri di terza classe erano infatti previsti, come accennato dal comandante del Giulio Cesare, due dormitori distinti, uno destinato agli uomini, l’altro alle donne e ai bambini con meno di sette anni. Il dormitorio maschile era solitamente sistemato a prua, quello femminile, meno capiente, dalla parte opposta della nave, ovvero a poppa, per evitare disordini e scandali durante la navigazione. La decisione d’urgenza a quanto pare non contribuì a migliorare una situazione, che con il passare dei giorni sembrò anzi peggiorare. Per tutto il viaggio i provvedimenti disciplinari, gli arresti compiuti fra una cinquantina di passeggeri spagnoli, individuati, isolati e definiti dal comandante, senza mezzi termini, dei “veri farabutti”, si alternarono a comunicazioni ferali: l’8 febbraio cessò di vivere il passeggero spagnolo Mariuo Antonio fu Cristofaro, affetto da vaiolo. Neanche il tempo di disfarsi del cadavere che il dottore di bordo comunicò al comandante la morte della passeggera Ruiz Teresa d’Antonio, il cui corpo fu gettato a mare al traverso dell’isola di San Sebastiano, fra Capo Frio e Rio de Janeiro. Il piroscafo oltre agli evidenti problemi di ordine pubblico deve aver avuto problemi sanitari legati probabilmente al notevole numero persone presenti a bordo. In questo senso i giornali di bordo non dicono nulla di più di quanto non possano dire, per esempio, le relazioni dei medici di bordo, da cui i capitani spesso prendevano spunto, già utilizzate in diversi lavori sul tema, che come detto dovevano per legge essere molto più dettagliate e convincenti. La novità semmai consiste nel poter verificare, di volta in volta, le reazioni del comandante (e indirettamente quelle dell’equipaggio e dei passeggeri) in casi come quello appena citato, quando ci si trovava a vivere, e nel caso del comandante a dover gestire, casi di epidemie e morti sospette con cadenza quotidiana, intrecciati a disagi causati dal mal tempo e a problemi di ordine pubblico. Questioni di diversa natura ma che non è azzardato immaginare potessero avere delle relazioni fra loro, se non altro per come il comandante decide di proporle e argomentarle nella sua narrazione. Rispetto a quanto si diceva prima, un viaggio per il Brasile poteva, come in questi casi, non essere affatto breve: dopo quasi un mese dalla partenza da Genova, il Giulio Cesare non era ancora arrivato a destinazione.

L’11 febbraio al largo di Santos cessò di vivere Francesco Capano di appena 16 mesi (di cui uno passato a bordo) affetto anch’egli da bronchite. Ottenute le necessarie autorizzazioni sanitarie al piroscafo fu consesso senza particolari precauzioni di sbarcare tutte le merci e i passeggeri, compreso il manipolo di spagnoli che tanto avevano dato da patire e da scrivere al comandante durante la navigazione. Sull’ormeggio le routinarie operazioni che precedevano il viaggio di ritorno e che solitamente non duravano più di tre giorni, si protrassero quasi fino alla fine del mese poiché alcuni membri dell’equipaggio iniziarono ad accusare problemi di salute. Il 19 febbraio il comandante decise di sbarcare il marinaio Giuseppe Barbeto, perché fosse trasferito al vicino ospedale paulista. Stessa sorte toccò il giorno seguente all’infermiere di bordo, certo Giuseppe Carassini. A questi due casi sospetti fecero seguito nelle successive quarantotto ore quelli del macellaio di bordo Stefano Rolla, del cuoco Giobatta Muzio e del fuochista Natale Freschi. Al quinto caso sospetto le autorità portuali brasiliane disposero il trasferimento del piroscafo da Santos al vicino lazzaretto all’Isola Grande (Ilha Grande). Qui l’equipaggio del Giulio Cesare fu sottoposto ai controlli delle autorità sanitarie locali, al temine dei quali fu disposto l’allontanamento dalla nave e il conseguente ricovero di altre quattro persone sospettate di essere affette da febbre gialla.

I presupposti per un viaggio di ritorno sulla falsa riga di quello dell’andata c’erano tutti: il comandante Ramò, con dieci membri dell’equipaggio in meno (ai nove già citati si aggiunse poche ore prima di partire lo sguattero Luigi Tarabotto), fu costretto a far rotta verso l’Europa con la consapevolezza che anche a Rio de Janeiro le autorità locali avrebbe creato problemi al piroscafo per il rilascio delle autorizzazioni necessarie ad entrare in porto.Nel breve tragitto tra il lazzaretto e il porto morì una persona al giorno a causa della febbre gialla. Al largo di Rio il comandate riuscì ad ottenere i permessi necessari a svolgere operazioni di imbarco, sebbene all’ancora in un’isola fuori dal porto. Le tensioni a bordo, l’urgenza di riprendere il largo nel più breve tempo possibile, il timore giustificato di non riuscire a gestire una situazione sanitaria sempre più compromessa, non permisero probabilmente al Giulio Cesare di portare a termine tutte le operazioni di imbarco. Scaricate le merci dirette a Rio furono imbarcati 516 sacchi di caffè, 200 tonnellate di ferro vecchio più un numero volutamente imprecisato di passeggeri diretti a Genova[li]. Tanto è vero che durante la traversata, in pieno oceano, il comandante si accorse e annotò sul suo diario, di non aver caricato carbone a sufficienza per arrivare a Teneriffe, dove solitamente i piroscafi italiani diretti a Genova facevano scalo tecnico per il rifornimento. Questa grave mancanza, dovuta come si accennava con tutta probabilità alle disavventure in serie patite dal piroscafo dalla partenza da Genova, lo costrinse a cambiare nuovamente rotta e ad allungare notevolmente i tempi, ripiegando verso sud per raggiungere San Vincenzo di Capo Verde. Dopo una breve sosta, indispensabile per proseguire il viaggio, e che non risparmiò fra l’altro lo scalo di Teneriffe, dove comunque il Giulio Cesare imbarcò altre duecento tonnellate di carbone, il comandante non riferisce più casi di febbre gialla a bordo e in nessun modo accenna a problemi sanitari. L’ultimo caso aveva riguardato un giovane vicentino, colpito da atrofia giallo acuta del fegato, più comunemente detta epatite fulminante, gettato a mare al largo delle isole di Capo Verde all’alba dell’11 marzo 1893. La mancanza di notizie ferali e il rispetto e l’osservanza del protocollo sanitario di bordo che prevedeva lavaggi, disinfezioni e suffumigi (detti anche suffumicazioni) dei locali di terza classe non solo avrebbe permesso di prevenire e limitare la diffusione delle malattie più comuni ma avrebbe concesso al piroscafo di entrare liberamente nei porti senza il rischio di essere dirottato su isolotti-lazzaretto in isolamento forzato. Non è questo il caso, ma in diversi racconti di viaggio fatti in quegli stessi anni, si possono trovare senza apparenti indugi notizie di decessi dovuti a malattie assai contagiose accanto a formule rassicuranti come: «salute ottima, solite pulizie, null’altro di notevole», quasi a voler stemperare e dare sfogo ad una tensione e ad un disagio che inevitabilmente la morte di un passeggero poteva creare.

Forse mai come quella volta l’ultima notte di navigazione trascorsa tra il faro di Capo Mele e la lanterna di Genova, con mare calmo e cielo sereno, sarà parsa così lunga al comandante Ramò, dopo la serie di disavventure patite dal suo piroscafo nel viaggio Genova Santos Genova. E magra la consolazione di risparmiare al Giulio Cesare e ai suoi passeggeri almeno la quarantena all’isola dell’Asinara, una volta rientrati in porto la mattina del 24 marzo 1893, dopo una vera odissea durata settantuno giorni. A questo proposito va detto che i dati contenuti nei giornali di bordo non permettono di valutare il livello di attenzione e lo scrupolo delle autorità portuali nei confronti dei piroscafi in arrivo dall’America. Due considerazioni si possono tuttavia fare. La prima riguarda l’impressione che con il passare degli anni il livello di attenzione tendesse naturalmente ad aumentare, anche a seguito di nuove normative più restrittive come quelle contenute nel Regolamento di Sanità marittima del 1895[lii]. La seconda riguarda invece la sensazione che la documentazione prodotta dai comandanti lasci intendere una applicazione piuttosto puntuale delle norme sulla quarantena. Anche perché è bene ricordare che sovente la volontà e il desiderio legittimo da parte delle autorità preposte di evitare problemi di ordine sanitario finiva per scatenare problemi di ordine pubblico ben maggiori.

 


[i] Cfr. Ercole Sori, L’emigrazione italiana dall’Unità alla seconda guerra mondiale, Il Mulino, Bologna 1979, pp. 324-325. Sul tema mi limito a segnalare i lavori di Giorgio Doria, Debiti e navi. La compagnia Rubattino (1839-1881), Marietti, Genova 1990; Maria Elisabetta Tonizzi, Merci, strutture e lavoro nel porto di Genova tra ‘800 e ‘900, Angeli, Milano 2000; Augusta Molinari, Porti, trasporti e compagnie, in Piero Bevilacqua, Andreina De Clementi, Emilio Franzina (a cura di), Storia dell’emigrazione italiana, I. Partenze, Donzelli, Roma 2000, p. 239.

[ii] Su questo versante il riferimento è ai lavori di Emilio Franzina e in particolare Dall’Arcadia in America. Attività letteraria ed emigrazione transoceanica in Italia (1850-1940), Fondazione Giovanni Agnelli, Torino 1996; e il più recente Traversate. Le grandi migrazioni transatlantiche e i racconti italiani del viaggio per mare, Quaderni del Museo dell’Emigrazione di Gualdo Tadino, Editoriale Umbria, Foligno 2003.

[iii] Sul versante delle scritture di emigrazione mi limito a citare i lavori di Antonio Gibelli, “Fatemi un po’ sapere…”. Scrittura e fotografia nella corrispondenza degli emigranti, in Camillo Brezzi e Anna Iuso (a cura di), Esuli pensieri. Scritture migranti, «Storia e problemi contemporanei», n. 38/2005; e Emilio Franzina, Le traversate e il sogno: viaggi per mare degli emigranti attraverso le fonti memorialistiche, in Sebastiano Martelli (a cura di), Il sogno italo-americano. Realtà e immaginario dell’emigrazione negli Stati Uniti, Napoli 1998. Per ogni altra indicazione bibliografica al riguardo rinvio al lavoro di Matteo Sanfilippo, Problemi di storiografia dell’emigrazione italiana, Sette Città, Viterbo 2002.

[iv] Il giornale nautico presente a bordo di ogni nave era composto da più giornali distinti. Quello di navigazione compilato dal comandante o dall’ufficiale incaricato, doveva contenere le annotazioni e i dati sulla rotta, sulle condizioni meteorologiche e su tutti gli aspetti tecnici della navigazione. Il giornale di boccaporto doveva riportare la registrazione dettagliata circa la natura, la consistenza e il movimento delle merci di bordo. Nel giornale di macchina l’ufficiale incaricato riportava le osservazioni sullo stato di conservazione, mantenimento e conduzione delle motrici e delle caldaie di bordo. Sul giornale generale e di contabilità il capitano, in conformità al R.D. n. 3612 del 17 dicembre 1885, era tenuto ad annotare gli avvenimenti importanti della navigazione, e in particolare le decisioni prese durante il viaggio, le condizioni meteorologiche, le nascite e le morti avvenute a bordo in conformità agli atti prescritti dal codice civile, i testamenti ricevuti sul mare e gli effetti e valori lasciati dalle persone decedute, i reati marittimi e comuni e i mancamenti commessi dalle persone dell’equipaggio e dai passeggeri, le punizioni inflitte dal capitano in virtù del potere disciplinare, le azioni meritorie compiute dall’equipaggio e dai passeggeri, infine le malattie accertate e gli incidenti avvenuti a bordo, sia alle persone dell’equipaggio sia ai passeggeri.

[v] Il Regolamento per l’uniforme tenuta del giornale nautico, approvato con Regio decreto n. 3612 del 7 dicembre 1885, era il frutto di un lungo dibattito politico e parlamentare sulla regolazione istituzionale del governo marittimo e conteneva le indicazioni a cui ogni nave mercantile nazionale si sarebbe dovuta attenere nella compilazione del giornale nautico.

[vi] Cfr. Salvatore Mazzarella, Velieri, Sellerio editore, Palermo 1993, e per la stessa collana, Vapori (1995).

[vii] Il saggio di Paolo Frascani, Una comunità in viaggio: dal racconto dei giornali di bordo delle navi napoletane (1861-1900) è pubblicato in Paolo Frascani (a cura di), A vela e a vapore. Economie, culture e istituzioni del mare nell’Italia dell’Ottocento, Donzelli editore, Roma 2001.

[viii] Presso l’Archivio di Stato di Genova è depositato un fondo molto consistente di giornali. Si tratta di 12038 registri appartenuti a navi immatricolate nel porto di Genova nel periodo 1883-1956 di cui 1303 sono giornali generali e di contabilità. Questo fondo è stato segnalato una prima volta da Antonio Gibelli nella sua Prefazione a Edmondo De Amicis, Sull’Oceano, a cura di Giorgio Bertone, Reggio Emilia 2005. Il fondo Giornali di bordo della Sezione Militare dell’Archivio di Stato di Napoli, costituitosi a seguito dei versamenti del Dipartimento marittimo di Napoli, è suddiviso in due serie: Giornali delle navi militari (299 registri dal 1855 al 1901) e Giornali delle navi mercantili (662 registri dal 1867-1904). Su questo deposito documentario si veda, oltre alla Guida generale dell’Archivio di Stato di Napoli (p. 91), l’inventario curato da Giuseppe Martucci, Un esempio di ordinamento alfabetico integrato da indice cronologico. I giornali delle navi della R. Marina italiana (1855-1904), Napoli 1969.

[ix] Sull’organizzazione delle scuole nautiche e sulla loro frequenza in quegli anni rimando al saggio di Maria Stella Rollandi, Imparare a navigare, in Paolo Frascani (a cura di), A vela e a vapore, cit., pp. 139-176.

[x] Cfr. Linda Colley, Prigionieri. L’Inghilterra, l’Impero e il mondo (1600-1850), Einaudi, Torino 2004.

[xi] Cfr. Antonio Gibelli (cura di), La via delle Americhe. L’emigrazione ligure tra evento e racconto, Sagep editrice, Genova 1989.

[xii] Su Genova come punto di osservazione privilegiato del fenomeno migratorio fra Otto e Novecento si veda l’introduzione di Antonio Gibelli, Dal porto al mondo, con De Amicis, in Edmondo De Amicis (edizione a cura di Giorgio Bertone), Sull’Oceano, Diabasis, Reggio Emilia 2005.

[xiii] Sull’approdo americano si veda fra gli altri il saggio di Rudolph J. Vecoli, Negli Stati Uniti, in Piero Bevilacqua, Andreina De Clementi, Emilio Franzina, Storia dell’emigrazione italiana. Arrivi, Donzelli editore, Roma 2002, pp. 55-88; e il recente saggio di Ferdinando Fasce, Oltre Ellis Island. Migranti italiani, lavoro e società USA nel primo Novecento, in Pierangelo Campodonico (a cura di), Lamerica! Da Genova a Ellis Island il viaggio per mare negli anni dell’emigrazione italiana, Sagep editori, Genova 2008, pp. 122-133.

[xiv] Per una rassegna dettagliata dei lavori eseguiti nel porto di Genova dal 1877 al 1891 si rimanda a Ugo Marchese, Il porto di Genova dal 1815 al 1891, Archivio economico dell’Unificazione d’Italia, serie I – volume IX, fascicolo 2, Roma 1959, pp. 23-35.

[xv] Su questi aspetti si veda Maurizio Eliseo, Paolo Piccione, Transatlantici. Storia delle grandi navi passeggeri italiane, Tormena, Genova 2001, pp. 28-29. Sulla storia dell’impresa genovese la monumentale opera a cura di Valerio Castronovo, Storia dell’Ansaldo, Laterza, Roma-Bari 1994-2003, e in particolare il secondo volume (1995) La costruzione di una grande impresa (1882-1902).

[xvi] Notizie sul varo del Re Umberto sono in Mario Bottaro, Genova 1892. Le celebrazioni colombiane, Pirella editore, Genova 1984, pp. 66-67. Sul tema del commercio dell’emigrazione fra Italia e Sudamerica, si rimanda al saggio di Amoreno Martellini, Il commercio dell’emigrazione: intermediari e agenti, in Piero Bevilacqua, Andreina De Clementi, Emilio Franzina, Storia dell’emigrazione italiana. Partenze, Donzelli editore, Roma 2001, pp. 293-308; per una bibliografia di riferimento, al recente lavoro di Emilio Franziana, L’America gringa. Storie italiane d’immigrazione tra Argentina e Brasile, Diabasis, Reggio Emilia 2008, pp. 61-107.

[xvii] Sulla presenza/assenza dell’imprenditoria italiana all’esposizione genovese si rimanda al saggio di Paride Rugafiori, L’industria genovese alla fine dell’Ottocento, in Mario Bottaro (a cura di), Festa di fine secolo. 1892 Genova & Colombo, Pirella editore, Genova 1989, pp. 41-46.

[xviii] Su questi aspetti si vedano i lavori di Marco Doria e fra questi il più recente L’economia del mare: le navi e i porti, in Giovanni Assereto, Marco Doria (a cura di), Storia della Liguria, Laterza, Roma-Bari 2007, pp. 302-325; sulle compagnie di navigazione italiane sostenute con capitali esteri il saggio di Augusta Molinari, Porti, trasporti, compagnie, in Piero Bevilacqua, Andreina De Clementi, Emilio Franzina, Storia dell’emigrazione italiana. Partenze, cit., pp. 237-255.

[xix] Sui preparativi e lo svolgimento dei lavori di questi ed altri appuntamenti politici genovesi di quell’anno si veda Luca Borzani, Alla scoperta della nuova Italia, in Mario Bottaro (a cura di), Festa di fine secolo. 1892 Genova & Colombo, Pirella editore, Genova 1989, pp. 54-59; Sul Congresso del Partito dei Lavoratori a Genova anche Luca Borzani, Mario Bottaro, Per Colombo ma con Turati. Genova 1892 la nascita del Partito Socialista, Pirella, Genova 1992.

[xx] Dati desunti dalle tabelle ministeriali presenti in appendice allo studio di Luigi Barberis, Appunti storici sullo sviluppo degli istituti d’istruzione per la marina mercantile in Italia, Officina poligrafica italiana, Roma 1906.

[xxi] Per un’analisi dettagliata del passaggio dalla vela al vapore in Italia in relazione al contesto europeo si veda Ugo Marchese, Lo sviluppo delle flotte mercantili e le economie dei paesi marittimi, Tip. Siletto, Genova 1956.

[xxii] Sui temi affrontati in quel primo congresso si vedano le Cronache della commemorazione del IV centenario Colombiano edite a cura del Comune di Genova, Stabilimento Fratelli Armanino, Genova 1892, pp. 396-404; e Tommaso Gropallo, Navi a vapore ed armamenti italiani dal 1918 ai giorni nostri, Istituto Grafico Bertello, Cuneo 1958, p. 216.

[xxiii] I dati del 1892 sono desunti da un articolo dedicato alle statistiche sulle partenze e gli arrivi nel porto di Genova alla vigilia dell’esposizione Italo-Americana, pubblicato sul quotidiano Il Secolo XIX del 2-3 luglio 1892. Quelli relativi al periodo dal 1876 al 1901 da Elisabetta Tonizzi, Merci, strutture e lavoro nel porto di Genova tra ‘800 e ‘900, F. Angeli, Milano 2000.

[xxiv] Su questi aspetti si veda John E. Zucchi, The Little Slaves of the Harp. Italian Child Street Musicians in Nineteenth-Century Paris, London and New York, McGill-Queen’s University Press, Montreal 1992, pubblicato in Italia con il titolo I piccoli schiavi dell’arpa, Storie di bambini italiani a Parigi, Londra e New York nell’Ottocento, Marietti, Genova 1999; Sempre su questo tema, ma con particolare attenzione al caso ligure, i saggi di Mario Enrico Ferrari, I mercanti dei fanciulli e la tratta dei minori, una realtà sociale dell’Italia fra ‘800 e ‘900, in «Movimento Operaio e Socialista», n. 1/1983, pp. 87-108; e Marcella Rossi, Discoli e vagabondi in Liguria nella prima metà del secolo XIX, in «Movimento Operaio e Socialista», n. 1/1983, pp. 33-51.

[xxv] Queste informazioni sono desunte da Tommaso Gropallo, Navi a vapore ed armamenti italiani dal 1918 ai giorni nostri, Istituto Grafico Bertello, Cuneo 1958, pp. 224-225; e da Maurizio Eliseo, Paolo Piccione, cit., pp. 28-29.

[xxvi] Se ci si limita alla stazza (2228 tonnellate) il Giulio Cesare non era inferiore ad altri piroscafi italiani impiegati negli stessi anni per il trasporto emigranti. Il Caffaro, per esempio, aveva una stazza di 1927 tonnellate, il Colombo di 1577, il Centro America di 2195 e il Nord America di 2391 (dati desunti dai giornali nautici).

[xxvii] Sugli armatori e il porto genovese il lavoro di riferimento è quello di Giorgio Doria, Investimenti e sviluppo economico a Genova alla vigilia della prima guerra mondiale, pubblicato in prima edizione nel 1969-1973 e ristampato per Pantarei editore a Milano nel 2008. Sull’organizzazione delle compagnie di navigazione genovesi si veda anche Giorgio Doria, Debiti e navi. La compagnia Ribattino 1839-1881, Marietti, Genova 1990; e Marco Doria, L’economia del mare: le navi e i porti, cit.

[xxviii] Il dato è ripreso da Marco Doria, L’economia del mare: le navi e i porti, cit., p. 305.

[xxix] Cfr. Il Secolo XIX 13-14 novembre 1892, p. 3.

[xxx] La Ligure Brasiliana, che aveva ereditato le attività della Società Ligure Romana, poteva contare su diversi vettori per il trasporto passeggeri, fra questi il Giulio Cesare, ribattezzato Parà (e in seguito Minas), la nave gemella Re Umberto, il Maranhao (ex Remo ed ex Michele Lazzaroni), l’Agordat e il San Gottardo. Tutti piroscafi impegnati sulle due linee brasiliane da Genova: la prima verso le città del Nord; l’altra verso quelle del Sud del Brasile. Cfr. Tommaso Gropallo, Navi a vapore ed armamenti italiani dal 1918 ai giorni nostri, cit., p. 235.

[xxxi] Cfr. Relazione al Ministero della Marina Direzione Generale della Marina Mercantile, Sezione 2° – n. 22365, 8 novembre 1897, in ACS, Ministero Marina Mercantile, Direzione Generale, Gente di mare, busta n. 30.

[xxxii] Questi aspetti sono ripresi anche nella relazione redatta dalla Commissione d’inchiesta nominata dal Prefetto di Genova i cui risultati sono contenuti in ACS, Ministero Marina Mercantile, Direzione Generale, Gente di mare, busta n. 30.

[xxxiii] La normativa è ripresa dai registri di sbarco depositati presso il Memorial do Imigrante di San Paolo (Brasile). Il centro museale e di ricerca raccoglie una serie molto vasta di registri di sbarco compilati a bordo dei piroscafi giunti a Santos e provenienti da Genova e dai principali porti dell’Europa tra Otto e Novecento.

[xxxiv] ASGe, Fondo Giornali nautici, Giornali generali e di contabilità, Giulio Cesare, 20 novembre 1892.

[xxxv] Sul porto di Santos come luogo di approdo di emigranti italiani si rimanda ai lavori di Angelo Trento ed Emilio Franzia e in particolare al saggio di Chiara Vangelista, Le braccia per la fazenda. Immigrati e caipiras nella formazione del mercato del lavoro paulista (1850-1930), Milano, Franco Angeli, 1982 [Os braços da lavoura, São Paulo, HUCITEC, 1991]. Per una bibliografia aggiornata all’articolo di Federico Croci, L’Hospedaria de imigrantes: la porta dell’America, in «ASEI», 4/1 (2008).

[xxxvi] ASGe, Fondo Giornali nautici, Giornali generali e di contabilità, Giulio Cesare, 9 dicembre 1892.

[xxxvii] Agostino Simonetti, si legge nella nota del comandante, era nato a Camogli (Genova) il 10 ottobre 1838. Figlio di Prospero e di Casta Dellacasa era inscritto nel compartimento marittimo di Genova dal 1849 con la matricola n. 97776.

[xxxviii] ASGe, Fondo Giornali nautici, Giornali generali e di contabilità, Giulio Cesare, 12-13 dicembre 1892.

[xxxix] Su questi aspetti si rimanda ai lavori di Augusta Molinari e in particolare a Le navi di Lazzaro. Aspetti socio-sanitari dell’emigrazione transoceanica italiana: il viaggio per mare, F. Angeli, Milano 1988.

[xl] Il giornale nautico a cui fa riferimento e conservato in ASGe, Fondo Giornali nautici, Giornali generali e di contabilità, Filippo, 10 marzo 1901. Questa notizia è ripresa dalla tesi di laurea di Nicola Ganci, I giornali nautici conservati presso l’Archivio di Stato di Genova (relatore prof. Antonio Gibelli), discussa presso l’Ateneo genovese nell’anno accademico 2006/2007.

[xli] Cfr. L’arrivo del Nord America. Il morbillo e le sue vittime, in Il Secolo XIX, 8-9 luglio 1892.

[xlii] Cfr. Il Secolo XIX 17-18 luglio 1892.

[xliii] Lettera inviata al Ministero della Marina Mercantile in data 15 agosto 1893. Cfr. ACS, Ministero Marina Mercantile, Divisione affari generali, Gente di mare, busta n. 326-327, fasc. XXI-3.

[xliv] Gli elementi di questa vicenda sono tratti dagli articoli apparsi sui quotidiani locali, in particolare Il Secolo XIX e Il Corriere Mercantile, nei mesi di luglio agosto e settembre 1892.

[xlv] ASGe, Fondo Giornali nautici, Giornali generali e di contabilità, Giulio Cesare, 16 gennaio 1893.

[xlvi] La Lettera riprende una nota pari oggetto e contenuto trasmessa dal Ministero dell’Interno al Ministero della Marina presente all’interno dello stesso fascicolo. Cfr ACS, Ministero della Marina, Direzione generale della Marina Mercantile, Gente di mare, busta n. 391.

[xlvii] Brano della lettera scritta a bordo del piroscafo Fortunata R in data 10 aprile 1895, allegata al fascicolo ad oggetto “Giornale sanitario del piroscafo Alacrità”. Cfr. ACS, Ministero della Marina, Direzione generale della Marina Mercantile, Gente di mare, busta n. 391.

[xlviii] Ibidem.

[xlix] ASGe, Fondo Giornali nautici, Giornali generali e di contabilità, Giulio Cesare, 4 febbraio 1893.

[l] Queste considerazioni sono tratte dalla cronaca dell’incontro tra autorità spagnole ed italiane, pubblicata in appendice alle Cronache della commemorazione del IV centenario Colombiano edite a cura del Comune di Genova, Stabilimento Fratelli Armanino, Genova 1892, pp. 317-322.

[li] Al termine della descrizione delle merci sbarcate e imbarcate il comandante Ramò fa un breve cenno ai passeggeri imbarcati senza indicarne il numero, ma lasciando uno spazio bianco che gli avrebbe permesso di aggiungere l’informazione in un secondo momento. Cfr. ASGe, Fondo Giornali nautici, Giornali generali e di contabilità, Giulio Cesare, 28 febbraio 1893.

[lii] Cfr. Regolamento di Sanità marittima , R.D. 29 settembre 1895, art. 98-104. 

 

 

Carlo Stiaccini

Dipartimento di storia moderna e contemporanea

Università degli Studi di Genova