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Amy Bernardy e il primo congresso di etnografia

 

All’interno del dibattito sul metodo che la nuova disciplina di demologia doveva seguire, si contemplò anche la possibilità di esaminare la cultura materiale dell’emigrazione2. Il primo obiettivo era quello di allestire una sezione dedicata agli italiani all’estero all’interno della Mostra di etnografia che si sarebbe tenuta a Roma per celebrare il cinquantesimo anniversario dell’Unità italiana. Ma la ricerca non era ancora sufficientemente sviluppata, e si dovette rinunciare, orientandosi per un inserimento del tema all’interno del Primo congresso di etnografia che si doveva svolgere nell’autunno dello stesso anno3.

Luca De Risi ha ricostruito attraverso i carteggi gli antecedenti della Mostra, da cui emerge il disegno statale della rappresentazione delle migrazioni. Nelle lettere tra Lamberto Loria, che si può definire uno dei padri dell’etnografia italiana, e il marchese Jon de Johannis, segretario della Camera di commercio italiana di New York, si ipotizza la collaborazione di quest’ultimo per il progetto di studiare la cultura materiale delle comunità italiane negli Stati Uniti. Ma De Johannis, con un taglio assolutamente moderno, constatando “la giovane età delle colonie” italiane negli stati Uniti propone più che uno studio delle sopravvivenze culturali, quello dell’adattamento alla nuova società, e addirittura sostiene che “oggetto della ricerca potrebbero essere gli elementi americani che per influenza della colonizzazione italiana possano aver preso caratteristiche italiane”, da documentarsi attraverso la fotografia e il fonografo. L’ipotesi di incarico viene meno4, l’approccio eccessivamente realistico deve aver preoccupato Loria che, nel 1909, gli comunica l’impossibilità di confermargli il mandato, proponendosi di assegnarlo al figlio di Pasquale Villari, Luigi5. Dell’iniziativa non se ne farà niente forse, come ipotizza De Risi, per la constatata impossibilità di dipingere un ritratto agiografico della comunità italiana, che troppo avrebbe contrastato l’approccio scientifico che la nuova disciplina si era imposto.

Nel 1911 Amy Bernardy (Firenze 1880-Roma 1959) aveva già al suo attivo due lauree, una in Storia, l’altra in Paleografia, numerosi viaggi di studio in Europa, una lunga permanenza con l’incarico di lettrice di italiano presso lo Smith College di Northampton, Massachusetts, di cui fu direttrice dal 1903 al 1910. Negli Stati Uniti aveva iniziato anche l’attività di giornalista, per riviste italiane e statunitensi, dedicandosi all’analisi della condizione degli immigrati italiani6. Era stata già quindi testimone diretta della vita nelle colonie italiane in America quando, nel 1908, il Commissariato Generale dell’emigrazione, organo del Ministero degli Affari esteri del governo italiano7, le affidò l’incarico di condurre un’inchiesta sulle condizioni delle donne e dei fanciulli italiani nel settore nordoccidentale degli Stati Uniti, ricerca che, negli anni immediatamente successivi, venne estesa agli stati del Centro e dell’Ovest8. Si spiega così l’affidamento dell’incarico della relazione su etnografia ed emigrazione alla trentunenne Amy Bernardy. Si era nel pieno della grande emigrazione, come non manca di far notare Bernardy che nella sua relazione esordisce con: “Quando si pensa che sei milioni circa di italiani vivono all’estero”. Probabilmente la cifra era al netto dai rientri: dal momento dell’unificazione del paese allo scadere del secolo erano stati 13.126.980 gli emigrati dall’Italia unita9. La politica statale in quegli anni era quella di tutelare, più che la qualità della vita degli emigrati, gli interessi internazionali dell’Italia passando anche attraverso l’immagine degli emigrati italiani. Luca De Risi ha notato che spettò alla comunità scientifica dell’epoca di esaminare la prospettiva socioculturale dell’emigrazione. In realtà le ricerche effettuate da Bernardy per il Commissariato si erano già mosse in questa direzione. A una manifestazione tenutasi nel giugno di quello stesso anno a Roma, il Secondo congresso degli italiani all’estero organizzata dall’Istituto coloniale italiano, nella sua relazione Amy Bernardy, riprendendo i dati delle inchieste, aveva dipinto un crudo affresco della realtà delle comunità italiane negli Stati Uniti, puntando il dito sulle dure condizioni lavorative e su alcuni aspetti poco noti della famiglia italiana in emigrazione, quali quelli degli abbandoni e dei divorzi10.

Tornando al congresso di etnografia, la sezione sull’emigrazione venne divisa tra lei, che avrebbe dovuto occuparsi di individuare possibili campi di indagine etnografica sull’argomento, e Francesco Baldasseroni, il biografo di Pasquale Villari, per la questione metodologica. In realtà la scelta dell’inserimento del testo di Baldasseroni, secondo la ricostruzione di De Risi11, sembra sia stata effettuata in un secondo momento poiché la relazione inviata da Bernardy era limitata al campo statunitense, come si evince da una lettera di Loria a Bernardy in cui commenta l’intervento proposto da quest’ultima:

Ella non parla degli italiani all’estero in generale, ma più specialmente di quelli dimoranti nell’America del Nord. Al Congresso la sua relazione piacerà certamente, ma d’altra parte il Congresso deve parlare di tutti gli italiani non residenti in patria e la relazione di tale argomento deve naturalmente essere fatta in modo diverso da quello da Lei seguito nel Suo lavoro. Dovevamo però pregare Lei di fare questo scomodo lavoro? Non mi ricordavo forse io che Ella, nell’accettare di trattare il suo tema, mi aveva chiaramente detto che non poteva parlare che di quelle cose delle quali era certa? Questi e molti altri argomenti facemmo noi tre dopo la lettura del Suo lavoro e decidemmo di accettare incondizionatamente la Sua relazione e incaricare nello stesso tempo il Baldasseroni di svolgere il tema generale, prendendo occasione del Suo lavoro particolare12.

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Costumi regionali marchigiani anni Trenta del Novecento. Archivio Privato

La relazione di Bernardy restringe ulteriormente il campo sin dal titolo “L’etnografia delle ‘piccole Italie’”, argomento al quale aveva già dedicato numerose pagine delle sue ricerche13. Il termine lo ritroviamo la prima volta in Attraverso la piccola Italia di Boston del 1906, poi come titolo di un capitolo del suo libro America vissuta, del 1911, e in seguito verrà ripreso in Passione italiana sotto i cieli stranieri del 1931, dove diviene “Il cuore delle piccole Italie”.

la “Piccola Venezia”, la “Piccola Napoli”, la “Piccola Palermo”; delle quali la “Piccola Napoli” si trova a Marsiglia come a New York, mentre la “Piccola Palermo” è assai diffusa nei distretti agricoli degli Stati Uniti prevalentemente coltivati da siciliani. Altre piccole patrie fra cui la friulana sono diffuse attraverso l’America del Sud o si ritrovano alquanto più inaspettatamente per esempio in Australia14.

In America vissuta, oltre a numerose osservazioni etnografiche, troviamo in nuce il discorso sul rapporto etnia e razza che maturerà durante il fascismo:

Che siete in colonia lo sentite immediatamente dai tipi, dagli accenti, dall’intonazione generale dell’ambiente in cui la faccia e la voce americana è una eccezione; da certe linee o da certi atteggiamenti di razza non ancora dimenticati, forse impossibili a dimenticare, che staccano sullo sfondo lacrimevolmente americano con una evidenza latina che dà gioia e pena al tempo stesso, come un’armoniosa frase musicale che tenti sollevarsi imprudentemente sulla discordia di un accompagnamento disadatto[…]

Troppo autentici brillano ancora al collo di qualche giovane sposa d’Abruzzo o di Calabria i monili ereditari che presto, ahimè, essa deporrà in omaggio alla moda locale volontariamente, o peggio rivenderà a qualche rigattiere di North o di Salem St. per comprare petrolio e carbone americano.

La domenica, all’uscita della messa, è tutta una agreste Italia che vi ritorna alla memoria e al rimpianto15.

Bernardy spiega la scelta di campo nordamericana evidenziando come,

essendo le nostre colonie agli Stati Uniti quelle che presentano un maggior contingente, e meno differenziato in sé, di emigrazione dal mezzogiorno, cioè dalle regioni nostre più ricche e tenaci di tradizione e anche di superstizione sia più facile com’è più opportuno cominciare da lì la serie delle nostre osservazioni, raccogliendo senz’altro gli elementi di pratica etnografica che esse ci offrono16.

Come già De Johannis, Bernardy intuisce fin dal primo momento che l’etnografia non è la disciplina più adatta per lo studio degli italiani all’estero, e che comunque non è possibile effettuare con rigore scientifico studi di questo genere prima che siano state effettuate le dovute ricerche sui costumi popolari in Italia. Inizia così la sua analisi rispettando pedissequamente le direttive indicate dagli organizzatori, prestando maggior attenzione alle contaminazioni, all’evolversi dei costumi, che al mantenimento di tradizioni. A partire dall’abbigliamento, osservando che gli uomini sono i primi ad assumere “il vestire esterno dell’operaio americano o americanizzato, con l’unica sopravvivenza del cappello a cencio e della cravatta a fiocco”17. I cambiamenti toccano anche le donne giovani, mentre nelle anziane nota il perdurare dell’abitudine di coprirsi il capo con fazzoletti e di “adornarsi con grosse collane a pendagli, e vistosi orecchini”. A proposito delle abitazioni, riscontra la presenza di amuleti contro il malocchio, immagini di santi alle pareti, campane di vetro con figurazioni sacre e reste di agli, di cipolle e pomodori appesi al soffitto… e “l’allevamento di animali domestici, capre e specialmente polli, dovunque è possibile”18. Riguardo ai mobili fa una sola annotazione riprendendola dalle inchieste, e cita “l’attaccamento al grande letto altissimo, nitidissimo, provvisto di elegante corredo”19. A complicare la sua ricerca etnografica sta il fatto che erano poche le suppellettili che gli emigranti si portavano appresso durante la traversata transoceanica: un baule con il corredo, la coperta matrimoniale, medicamenti, alcuni utensili e vasellame20. La voce V, “Industrie domestiche”, viene liquidata in poche righe in cui si rileva da parte delle donne l’abbandono quasi totale delle attività di crochet e di ricamo per espletare il lavoro a domicilio. In altra sede aveva ampiamente documentato le durissime condizioni di lavoro a domicilio nei tenement. Descrive poi i commerci, caratterizzati dalla contaminazione americana con la nascita di botteghe e bancarelle di commestibili. Dove riscontra il trionfo della tradizione è negli usi alimentari, anzi in questo campo nota l’influenza italiana sulla dieta americana, quanto meno nell’introduzione di molte verdure e del vino. Più tardi sottolineerà la rilevanza economica delle influenze italiane sulla cucina americana:

grande interesse e valore anche della cucina familiare come vincolo e suggestione patriottica; ricordare… come la tradizione genovese delle trenette col pesto, e la cucina dell’aglio e dell’olio abbiano un valore e una portata che trascendono di molto la loro immediata funzione mangereccia; come d’altra parte la memoria, specialmente gastronomica dell’immigrato, abbia servito a diffondere il gusto di talune merci d’importazione fra gli indigeni di altra civiltà e quindi sia direttamente sia indirettamente abbia reso grandi servigii agli scambi e all’esportazione21.

Si mostrerà anche perfettamente consapevole di quel fenomeno, oggi a lungo studiato, che si riferisce al congelamento della cultura d’origine operato dagli immigrati quando osserva:

Sono sicura che di certe costumanze e tradizioni folkloristiche paesane si troverebbero, o almeno fino a pochi anni fa si sarebbero potute trovare, tracce più dirette ed evidenti in colonia che in patria, s’intende quanto all’essenza e all’intima osservanza: certe forme antiquate di confetti di Sulmona, per citare un esempio ovvio, si trovavano ancora ai Cinque Punti di New York, quando a Sulmona non si trovavano più. Logicamente, perché a New York il produttore si era cristallizzato nella confezione delle forme imparate nell’infanzia da un anziano dell’arte, ed essendo individuale e ristretto il nucleo di produzione in mezzo ad un mondo completamente estraneo, ivi perpetuava le forme antiche. A Sulmona invece, ove i produttori erano a contatto con le novità del giorno con desiderio di emularle, si cambiava. A Sulmona interessava la novità, mentre a New York ciò che attirava era appunto la immutabilità del modello, per cui ciascuno nella “corona” nuova poteva trovare l’immagine esatta di quella della sua infanzia22.

Del resto in America vissuta aveva già riscontrato il perdurare in “colonia” di abitudini superate in Italia:

Poiché certe forme ormai antiquate in Italia, come quelle del barbiere petulante e saputello, vivono ancora in colonia, coll’aggiunta, se volete, ultraprogressiva dello sciainatore tribuno23.

Tornando al suo intervento al Congresso, nel punto riguardante la “Morale popolare” nota la severità tra gli immigrati recenti per quanto riguarda l’onore delle giovani donne, ma anche qui sottolinea che l’adeguamento ai costumi americani è piuttosto rapido. Per quanto riguarda la delinquenza cita “il fantasma della Mano nera” e la più reale presenza della Camorra aggiungendo asetticamente che le attività di quest’ultima sono documentate. Le “Usanze e cerimonie popolari” si intrecciano con i capitoli sulla religiosità popolare e le feste: feste dei santi con processioni, ex voto, cerimonie come battesimi funerali e matrimoni celebrati con “liberalità sproporzionata al tenore di vita”. Il capitolo su pregiudizi e superstizioni, che conclude la serie, entra maggiormente nel merito della ricerca:

Infinito è il numero degli scapolari, amuleti, cornetti d’oro, d’argento e di corallo contro il malocchio; si usano inoltre i segnamenti e gli scongiuri contro la iettura o la fattura; i cerchietti d’oro alle orecchie degli uomini per curare le malattie degli occhi; si usa scrivere gli orecchioni; medicare l’angina medicando i polsi; applicare sulla risipola le immagini dei santi; rialzare le costole nelle malattie toraciche e addominali; foggiare ad anello una ciocca di capelli sul sincipite … vestire i bambini da monaco per ringraziare Sant’Antonio di ottenute guarigioni, ecc.24

Altro che ninne nanne sembra pensare quando, alla voce “Letteratura popolare”, scrive: “nello slum e nel tenement non si sente mai un canto di donna; rarissime anche le cantilene; i bambini si lasciano addormentare come possono”25. Del resto lei che aveva osservato per le sue inchieste sulle donne e i bambini le condizioni di vita nelle fabbriche alimentari (cannery) e nei tenement li aveva visti cadere addormentati al lavoro o giocare, come descrisse in un agghiacciante resoconto, con i topi scambiati per gatti: “In compenso i topi, i sorci, o talpe sono un vero flagello: ricordo una casa in cui erano così grossi e disinvolti, che i bambini se li additavano chiamandoli micio”26.

Bernardy è ben consapevole della sommarietà delle risposte date e auspica che le venga concessa l’opportunità per un dettagliato studio a livello regionale per arrivare a distinguere “la parte originaria” della cultura degli immigrati dalla “contaminazione sovrapposta”. Con la precisione della scienziata sociale quindi, elenca quello che le è stato chiesto, ma si astiene dall’entrare nel merito. Dalla relazione si evince che avrebbe salvato poco della cultura materiale degli emigrati: l’oggettistica era molto scarsa, le tradizioni spesso inficiate dalle condizioni di estrema indigenza e dalla contaminazione americana: per guardare alle culture regionali occorreva rivolgere lo sguardo all’Italia. Cosa che fece negli anni successivi, da questo lavoro svilupperà infatti un interesse che sfocerà in una rilevante produzione durante gli anni trenta-cinquanta quando effettuerà numerosi studi dal taglio etnografico sulle regioni italiane e pubblicherà varie monografie, compreso un volume del 1930 dal titolo appunto Rinascita regionale27.

Fu la prima guerra mondiale a consolidare la disciplina etnografica in Italia: “Il contatto quotidiano nelle trincee con le classi inferiori […] spinse intellettuali come Jahier ad esaltarne le virtù di sacrificio e ad apprezzarne le espressioni culturali”28. Anche in Bernardy le distruzioni occorse durante la guerra la fecero riflettere su come:

eravamo noi popolo italiano, ignaro e negligente di tutte le forme d’arte e di vita familiare delle nostre provincie, e come se per caso andasse distrutto l’ultimo esemplare di un utensile da casa o di un arnese da lavoro che portasse il segno dei tempi andati, non avremmo forse né meno, in molti casi una fotografia a cui ricorrere, per non parlare di un museo in cui ritrovarli29.

Nel dopoguerra nacquero numerose riviste impegnate nella rivalutazione delle culture regionali: nel 1928 nacque il Comitato Nazionale per le Tradizioni Popolari, che tenne il Primo congresso a Firenze, nel 1929 venne istituita la Commissione Nazionale Arti Popolari, nel 1930 venne fondata la nuova rivista “Lares”30. Durante gli anni trenta, i demologi vennero inquadrati nelle istituzioni fasciste, ma riuscirono, come ha sostenuto Stefano Cavazza, a proseguire le proprie ricerche scientifiche mostrando una lealtà esclusivamente formale al regime31. Non fu questo il caso di Bernardy, che proseguì la ricerca seguendo le direttive statali, come quando si trattò di risolvere la delicata, e sempre attuale, questione del rapporto tra le diverse culture locali e l’unità del Paese. Secondo la circolare preparatoria per il III congresso di etnografia nel 1934, la nuova disciplina “avrebbe dovuto far emergere il fondo comune nazionale e storico da cui tutte le tradizioni derivavano per accostarci così sempre più allo spirito unitario della Patria”. Sulle pagine di Rinascita regionale, edito dalla Libreria del littorio, Bernardy analizzerà, in una sorta di autocoscienza, i motivi che avevano fatto trascurare il ricco patrimonio culturale delle classi subalterne:

Per troppo tempo l’Italia non aveva potuto guardarsi e tornarsi a pensare in questo modo, sia perché si temeva che lo spirito di regionalità potesse deformarsi in campanilismo o degenerare in separatismo da una parte, sia perché si pensava di sembrare antiquati e provinciali dall’altra […] sicché ricordare e accentuare qualsiasi caratteristica di regionalità poté parere alle coscienze timorate e tremule quasi un attentato all’unità ancora recente e con tante fatiche costituita […] l’Italia che cresceva allora ebbe […] paura di apparire piccola e goffa, e di rimanere ‘provinciale’ e ‘pacchiana’, conservando, o rimettendo in onore certe forme della sua vita e della sua arte paesana; e cedette agli allettamenti della modernità commerciale, livellatrice e ‘standardizzata’32.

Il regionalismo venne allora inserito da Amy Bernardy entro una cornice patriottica per evitare l’indebolimento della coscienza unitaria, anche se l’operazione era complessa, poiché da attenta osservatrice e profonda conoscitrice degli italiani all’estero, aveva avuto ampiamente modo di constatare che la cultura locale era ben più radicata di quella nazionale. Nel 1911 aveva scritto infatti:

Che cosa abbiamo infatti nella Piccola Italia se non una serie di villaggi? La massa immigrante e tutta in questo momento accentrata intorno a tanti nuclei, polarizzati intorno a tanti leaders quanti sono in Italia i villaggi, i campanili, le chiesuole da cui si è mosso ciascun individuo emigrante e di cui ritrova al di qua dell’Atlantico l’eco ed il nome nella persona del compare o del paesano33.

E nel 1930, quasi senza soluzione di continuità, afferma:

In complesso, l’emigrato italiano, tanto settentrionale che meridionale, ricordò sempre più la piccola patria che la grande. Della patria avendo percepito solo elementi particolari, la famiglia, il campanile, il pezzetto di terra, ebbe nostalgie regionali e domestiche, quindi elegiache, sentimentali, limitate; nessuna aspirazione nazionale di ordine superiore e collettivo, se non nei pochissimi differenziati34.

Col fascismo la questione della conciliazione tra regionalismo e fascismo verrà risolta, riconducendo tutta la tradizione culturale italiana alla romanità e alla cristianità. Nel 1934 Bernardy, ormai affermata etnografa, scriverà nell’Introduzione al bellissimo volume di Emma Calderoni, Il costume popolare in Italia35:

dal 1870 in poi l’emigrazione tendeva automaticamente ad eliminarlo [il costume popolare] anche nelle regioni che ne erano più tenaci; l’immaturità spirituale e l’insufficienza culturale dei partiti sovversivi gli muovevano opposizione bestiale […] Quindi e che lo studio critico e l’osservazione comparata delle forme caratteristiche dei nostri costumi popolari possono effettivamente costituire un non indifferente contributo alla conoscenza del paese e dello spirito della razza, dei suoi atteggiamenti e delle sue tendenze spirituali, giungendo attraverso lo smistamento dei suoi elementi costitutivi, e alla sua ricostruzione del suo carattere etnico e storico, e in ultima istanza, pur nelle sue infinite ramificazioni, alla constatazione dell’unita della popolazione italiana dalle Alpi alle isole; e diciamo pure dell’italianità spirituale prevalente da Nizza a Malta e dalla Corsica alla Dalmazia e oltre, per le vie del Levante che furono italiane e ne serbano le tracce, per chi san leggere.[…] Il costume popolare testimonio del passato sulla soglia dell’epoca industriale e livellatrice. Il costume popolare ci ricorda e ci svela con suggestiva evidenza una parte singolare delle infinite correnti di bellezza che pervadono e vivificano l’Italia con una grazia che, se in parte è irreparabilmente tramontata, in grandissima parte ancora produttiva e vitale, dal fondo dell’anima e delle tradizioni della gente risale attraverso la quantità delle gioie e delle trine e degli ornamenti tradizionali a registrare e ricordare insieme con la canzone, con l’immagine, col motto popolare, la storia intima e familiare della gente.

Abbracciando l’ideologia del regime, Bernardy non ha difficoltà a portare avanti il suo discorso sulla razza, rifacendosi a una latinità non culturale, ma fisica. Non sono certo le pagine più felici dell’autrice delle “Inchieste”, che le avevano guadagnato il titolo di Italian social worker da parte della comunità scientifica statunitense, quelle in cui, anticipando il suo percorso dal nazionalismo al fascismo, aveva unito la nuova disciplina etnografica alla antropologia del positivismo per parlare di razza italica, scrivendo:

I negozietti di frutta e di verdura espongono fin sulla strada la loro merce, un po’ avariata forse dal gelo o riarsa dall’aria polverosa, e il prezzo scritto in cents alla americana non impedisce che lì intorno si spettegoli in dialetto di Avellino o di Termini Imerese. Né se tacessero le voci si potrebbe sbagliare: sono così meridionali quegli occhi velati e profondi, troppo velati e troppo profondi qui nel paese degli sguardi rigidi e delle labbra sottili. Troppo evidentemente son formate al conio siracusano e cosentino certe teste che paion di fino bronzo, rotonde e bene incassate, che solo ora, al confronto con la sagoma cruda e angolosa della testa americana, rimpasto frettoloso di razze, ci rivelano di quanta traccia le abbia impresse in patria il lavorio muto dei secoli sulla stirpe autoctona36.

Un percorso complesso, quello della Bernardy etnografa, che mostra ancora una volta la sua versatilità fornendoci preziose e approfondite analisi ancora oggi fruibili, pur collocandole nella cornice ideologica del nazionalismo prima e del fascismo poi.

1 Nel 1907 era stato fondato a Firenze il primo nucleo del Museo dell’etnografia italiana, Amy A. Bernardy, Forme e colori di vita regionale italiana, vol. I, Piemonte, Bologna, Zanichelli, 1926, p. VII.

2 La disciplina si consoliderà in Italia solo negli anni trenta. Stefano Cavazza, La folkloristica italiana e il fascismo. Il Comitato Nazionale per le Arti Popolari, “La Ricerca Folklorica”, 15 (1987), pp. 109-122. Considerazioni interessanti sulla difficoltà di definire la disciplina, ethonohistory, negli Stati Uniti si veda Michael E. Harkin, Ethnohistory’s Ethnohistory. Creating a Discipline from the Ground Up, “Social Science History”, 34, 2 (Summer 2010), pp. 113-128.

3 Luca De Risi, L’etnografia italiana all’estero, “La Ricerca Folklorica”, 39 (aprile 1999), pp. 135-143, in particolare p. 135. Sulle mostre si vedano Emilio Franzina, La tentazione del museo: piccola storia di mostre ed esposizioni sull’emigrazione italiana negli ultimi cent’anni, “Archivio storico dell’emigrazione italiana”, 1 (2005), pp. 165-182; Id., Le mostre sull’emigrazione in Italia, in Museo nazionale delle migrazioni. L’Italia nel mondo, il mondo in Italia, a cura di Norberto Lombardi e Lorenzo Prencipe, Roma, Ministero degli Affari Esteri, 2008, pp. 23-46; Patrizia Audenino, La mostra degli italiani all’estero: prove di nazionalismo, “Storia in Lombardia”, 28, 1 (2008), pp. 211-224.

4 L. De Risi, L’etnografia italiana all’estero, cit., p. 137.

5 Ibid., p. 138.

6 Tra i suoi primi scritti sull’argomento citiamo Attraverso la piccola Italia di Boston, in Gli italiani negli Stati Uniti d’America, New York, Italian American Directory, 1906; Emigrazione di lungo corso, “La Lega Navale”, giugno 1907. Rientrò definitivamente in Italia nel 1920 e venne nominata membro del Consiglio centrale della Società Dante Alighieri, di cui era stata, appena laureata, vicepresidente del Comitato universitario. Una raccolta dei principali scritti sull’emigrazione si trova in Maddalena Tirabassi, Ripensare la patria grande. Amy Bernardy e le migrazioni italiane, Isernia, Cosmo Iannone Ed., 2005; Id., Amy Bernardy e l’emigrazione italiana negli Stati Uniti, in Il problema dell’emigrazione italiana tra Ottocento e Novecento a partire dalle pagine della “Riforma Sociale”, Firenze, Olschki, 1998, pp. 149-161.

7 Il Commissariato fu creato con la legge di emigrazione del 1901.

8 Amy Allemand Bernardy, L’emigrazione delle donne e dei fanciulli nella North Atlantic Division, Stati Uniti d’America, “Bollettino dell’emigrazione”, 1 (1909), pp. 210; Id., L’emigrazione delle donne e dei fanciulli negli stati del Centro e dell’Ovest della Confederazione americana, “Bollettino dell’emigrazione”, 1 (1911), pp. 171.

9 Espatriati dall’Italia: 1861-70 1.210.400; 1871-80 1.175.960; 1881-90 1.879.200; 1891-900 2.834.730; 1901-10 6.026.690. Amy Allemand Bernardy, L’etnografia della “Piccole Italie”. Relazione della signorina Dott. Amy A. Bernardy, in Società di etnografia italiana, Atti del Primo Congresso di Etnografia italiana, Roma 19-24 ottobre 1911, Perugia, Unione tipografica cooperativa, 1912, pp. 173-182, p. 173.

10 Amy A. Bernardy, Tutela delle donne e dei fanciulli italiani negli Stati Uniti d’America, sezione quarta, tema 5, Secondo congresso degli italiani all’estero Istituto coloniale italiano, 2. Roma, Tipografia editrice italiana, 1911, pp. 5-19.

11 L. De Risi, L’etnografia italiana all’estero, cit., p. 138.

12 Lettera di Lamberto Loria a Bernardy, 18 luglio 1911, cfr. ibid.

13 Maddalena Tirabassi, Amy Bernardy et les Petites Italies, in Les Petites Italies dans le monde, études réunis par Marie-Claude Blanc-Chaléard, Antonio Bechelloni, Bénédicte Deschamps, Michel Dreyfus e Éric Vial, Rennes, Les Presses Universitaires de Rennes, 2007, pp. 353-365.

14 Amy A. Bernardy, America Vissuta, Torino, Bocca, 1911, pp. 306-307.

15 Ibid.

16 Amy A. Bernardy, L’etnografia delle “piccole italie”, cit., p. 174.

17 Ibid., pp. 173-182, p. 174.

18 In questo si confermano le abitudini italiane riscontrate nelle inchieste agrarie dell’epoca Stefano Iacini e Eugenio Faina, vedi Maddalena Tirabassi, Per lo studio delle emigrate italiane negli Stati Uniti, in L’emigrazione italiana 1870-1970, Atti dei colloqui di Roma, Roma, Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, 2002, pp. 1154-1169.

19 Amy A. Bernardy, L’etnografia delle “piccole italie”, cit., p. 174.

20 “In generale ogni emigrante di terza classe non ha diritto a trasportare gratuitamente che 100 Kilog. di bagaglio, badando che questo non sorpassi la misura di un terzo di metro cubo né, come già avvertimmo, il bagaglio non può contenere che oggetti di vestiario o biancheria” in Cav. C. Marro, Manuale pratico dell’emigrante all’Argentina, Uruguay e Brasile, Torino, S.G.S., 18891, 2003, pp. 23-24. Nella ricostruzione del bagaglio effettuata da B. Amore, si trovano elencati i seguenti oggetti: vestito della festa a seconda delle regioni, coperta matrimoniale di seta gialla con frange, coperta matrimoniale a quadrati fatti all’uncinetto da corredo, biancheria (calzini fatti a mano, camicia da notte della dote, lenzuola tessute a mano al telaio con iniziali ricamate in rosso, lenzuola con trine all’uncinetto, utensili da cucina, mortaio. Pentole di rame fatte a mano materassini, guanciali, medicine, fotografie, fogli da musica, lettere, passaporto, croce di san Lorenzo Lapio, libri di preghiera, santini, rosario, reliquari con Santa Filomena, coltello e tazzina matrimoniali con iniziali, bambola di porcellana e di pezza, rotella per tagliare i ravioli, attrezzi da lavoro, coltello da tasca, libri: Vite dei Santi, Andrea da Barberino, I reali di Francia, Guerrin Meschino (Andrea da Barberino, “Guerrino detto il Meschino”, ed. Ferdinando Bideri, Napoli, 1893) lettere, gioielli (orecchini di corallo) vedi Bernadette Amore, An Italian American Odyssey. Life line – filo della vita. Through Ellis Island and Beyond, New York, The Center for Migration Studies, 2006. Si veda anche Costantino M. Panunzio, L’anima di un emigrante, Sant’Eustachio di Mercato San Severino, Il Grappolo, 2007.

21 Amy A. Bernardy, Il cuore delle Piccole Italie, in Id., Passione italiana sotto cieli stranieri, Firenze, Le Monnier, Società nazionale Dante Alighieri, 1931, pp. 177-178 e 182-191.

22 Ibid, p. 189.

23 A.A. Bernardy, America vissuta, cit., p. 315.

24 A.A. Bernardy, L’etnografia delle “piccole italie”, cit., p. 178.

25 Ibid, p. 176.

26 A.A. Bernardy, L’emigrazione delle donne e dei fanciulli nella North Atlantic Division cit., p. 151.

27 Amy A. Bernardy, Id., Rinascita regionale, Roma, Libreria del littorio, 1930; Id., Istituto mediterraneo e coloniale dell’artigianato, Roma, IRCE, 1942, p. 26; Id., Stagni e peltri, S.l., s.n., 1930; Id., Geografia e viaggi, Arti e tradizioni popolari, Irce, Ist. naz. per le relazioni culturali con l’estero, Roma, Spoleto, Tip. Panetto e Petrelli, 1943; Id., Trine e tomboli di Liguria, S.l, s.n., 1930?; Id Concezioni educative attraverso il folklore, Roma, Stab. Tip. Centrale, 1931; Id., Studi sul costume paesano tradizionale, Rocca S. Casciano, L. Cappelli, 1935; Id., Unità fondamentale del costume nella cerchia alpina, relazione tenuta al 3. Congresso nazionale di arti e tradizioni popolari, Trento, settembre 1934, Roma, Edizioni dell’O.N.D., (1934?); Id., La cucina regionale, Roma, Stab. tipografico centrale, (1930), p. 8; Id., Forme e colori di vita regionale italiana, cit.; Id., Forme e colori di vita regionale italiana, vol. II., Liguria, Bologna, N. Zanichelli, 1927; Id., Introduzione in Emma Calderoni, Il costume popolare in Italia, pubblicato sotto gli auspici del Comitato Nazionale per le Arti Popolari (O.N.D. e C.N.I.C.I.), Milano, Sperling & Kupfer, c1934.

28 S. Cavazza, La folkloristica italiana e il fascismo, cit., p. 109.

29 A.A. Bernardy, Forme e colori di vita regionale italiana, Piemonte, cit., p. VII.

30 S. Cavazza, La folkloristica italiana e il fascismo, cit., pp. 109-122.

31 Ibid., p. 109.

32 A.A. Bernardy, Rinascita regionale, cit., p. 7-8.

33 A.A. Bernardy, America Vissuta cit., p. 322.

34 A.A. Bernardy, Il cuore delle Piccole Italie, cit., pp. 182-183.

35 E. Calderoni, Il costume popolare in Italia, cit., pp. 18, 65.

36 A.A. Bernardy, America Vissuta cit., pp. 309-310.