Gli Stati Uniti come meta

1.       Introduzione

La percezione dell’America del Nord quale terra della libertà fu così radicata anche nell’Italia preunitaria da precorrere perfino la nascita degli stessi Stati Uniti come nazione sovrana. Le prime manifestazioni di interesse nella penisola per le vicende dell’altra sponda dell’Atlantico, sorte in occasione della fine della guerra dei Sette Anni nel 1763, si accompagnarono, infatti, alla diffusione della visione della colonia della Pennsylvania quale “libera Patria”, come emerse per esempio nell’avvertenza del traduttore all’edizione veneziana di An Account of the European Settlements in America di William ed Edmund Burke, uscito proprio in quell’anno nella città lagunare col titolo di Storia degli stabilimenti europei in America[1].

La libertà di coscienza praticata nella Pennsylvania, fino dalla sua fondazione sotto il quacchero William Penn nel 1681, potrebbe non essere stata estranea all’edificazione di tale immagine in Italia, “un paese in cui nel 1765” – come ha affermato Giorgio Spini, non senza una certa enfasi da polemista protestante – “l’Inquisizione esisteva ancora”[2]. Tuttavia la nozione di libertà nordamericana assunse sempre più un significato esclusivamente politico in seguito alla Dichiarazione d’Indipendenza delle tredici colonie britanniche nel 1776 e al loro riconoscimento come Stato sovrano nel 1783. Basterebbe pensare all’entusiasmo di Vittorio Alfieri per la Rivoluzione americana espresso nelle cinque odi del poemetto L’America libera, composto tra il 1781 e il 1783[3]. Ma già nel 1778 Francesco Longano aveva considerato la Pennsylvania la sua “ideale repubblica” perché terra di “libertà effettiva” e pochi anni dopo Gaetano Filangeri l’aveva definita “l’asilo della libertà”[4]. Nonostante lo slancio repubblicano del giacobinismo d’impronta napoleonica, nel 1796 Francesco Becattini contrappose le “libere contrade dell’America settentrionale” all’“orribil giogo del dispotismo” del Vecchio Mondo[5].

L’occupazione napoleonica della penisola indusse nel complesso i liberali italiani a preferire l’archetipo francese di libertà “per convinzione o per necessità”[6]. Tuttavia non mancò il caso di Giuseppe Ceracchi – uno scultore romano emigrato temporaneamente negli Stati Uniti, attrattovi dagli ideali repubblicani – che, dopo aver ideato un irrealizzato colosso monumentale celebrativo della libertà americana, finì i suoi giorni sulla ghigliottina nel 1801 perché coinvolto in un attentato contro Napoleone Bonaparte[7]. Inoltre, la delusione subentrata in alcuni patrioti italiani per l’involuzione del processo rivoluzionario francese nel successivo impero napoleonico contribuì, come ha scritto Antonio Pace, a rendere la “rivoluzione americana” un “paradigma del Risorgimento”[8]. Ad ogni buon conto, la Restaurazione infuse nuovo vigore in Italia al modello americano e contribuì ad accentuare per contrasto con la realtà europea in generale e italiana in particolare l’immagine degli Stati Uniti come luogo della libertà politica per antonomasia. Per esempio, l’esaltazione di questa nazione pervase Dell’Italia uscita il settembre del 1818, l’opera del patriota Luigi Angeloni che, non a caso, si reputò uno dei primi promotori della “libertà americana”[9]. Allo stesso modo, nella sua Storia d’America, uscita tra il 1820 e il 1823, Giuseppe Compagnoni celebrò le “moderne e libere istituzioni” statunitensi[10]. Nonostante avesse stigmatizzato il federalismo quale “mostro politico” incompatibile con il principio imprescindibile dell’unità nazionale al tempo della sua precedente fase giacobina nel 1798, un quarto di secolo più tardi Compagnoni sottolineò la natura democratica della Rivoluzione americana, che identificava soprattutto con la tolleranza religiosa e la laicità dello Stato[11]. Pochi anni più tardi, nel 1826, un altro storico dell’indipendenza statunitense dai trascorsi giacobini, Carlo Botta, affermò di aver “imparato ad amare la libertà alla scuola di Washington, non a quella di Napoleone”[12]. Come aveva già ammonito nel 1820 il primo console generale del Regno di Sardegna a Filadelfia, Gaspare Deabbate, “L’importanza americana d’oggi” era rappresentata soprattutto dalla “forza dell’esempio” nella diffusione di ideologie repubblicane[13].

2.       Tipologie e dinamiche dell’esilio risorgimentale negli Stati Uniti

In un tale clima politico, non stupisce che alcuni esuli risorgimentali italiani, costretti a prendere la strada dell’esilio, scegliessero come destinazione proprio gli Stati Uniti, una opzione facilitata pure dallo sviluppo dei trasporti navali transatlantici[14]. Nondimeno è stato stimato che nel complesso le Americhe finirono per ricevere meno del 10% del flusso totale dei fuorusciti in quanto la maggioranza di fuggiaschi e proscritti preferì stabilirsi in regioni più vicine alla terra d’origine per potervi rientrare in tempi più rapidi nel caso di sviluppi politici favorevoli[15]. Del resto, a prescindere dai motivi specifici del trasferimento oltre l’Atlantico, appena 439 italiani immigrarono negli Stati Uniti nel corso degli anni 1820-1830 e non più di 13.000 li seguirono nei restanti tre decenni che precedettero l’unificazione della penisola[16]. Dunque, anche a non prendere in considerazione l’ovvio – cioè il fatto che non tutti gli emigranti italiani di questo periodo varcarono l’Atlantico per ragioni politiche – gli Stati Uniti assorbirono solo una piccola parte di un flusso di profughi la cui entità è stata diversamente stimata, ma che – secondo le valutazioni più attendibili – avrebbe superato i 50.000 individui per quanto riguardò i soli rifugiati in Piemonte dal Lombardo-Veneto dopo la conclusione della prima guerra d’Indipendenza[17]. Secondo uno degli stessi esuli, alla metà dell’Ottocento la città di New York avrebbe ospitato “qualche centinaio di profughi italiani e parecchi noti per patriottismo e virtù civile”[18].

Comunque, l’inizio dell’esodo risorgimentale verso gli Stati Uniti fu contestuale all’instaurarsi della Restaurazione. Già nel 1816 il console americano a Livorno volle segnalare all’ex presidente Thomas Jefferson che “il numero di coloro che chiedono il visto per gli Stati Uniti è divenuto incalcolabile”, aggiungendo come l’entità del fenomeno fosse tale da attestare come “nessun miglioramento vi sia nello stato politico del paese; al contrario va progredendo quella sorta di maturità che deve terminare in una generale convulsione”[19]. Tra questi primi esuli vi furono alcuni ex ufficiali napoleonici e murattiani come Agostino Codazzi e Costante Ferrari che giunsero negli Stati Uniti, in parte sulle orme degli stessi figli dell’ex re di Napoli e di altri militari italiani che avevano servito nelle armate francesi[20]. Nel caso di Codazzi e Ferrari, però, questo approdo fu solo l’esito temporaneo di un percorso indiretto che li aveva condotti in precedenza a fare tappa in Medio Oriente. Inoltre, il desiderio dell’azione – per poter sfruttare le proprie competenze militari anche da un punto di vista professionale – indusse entrambi a un soggiorno estremamente breve in terra statunitense. Sia Codazzi sia Ferrari ripartirono ben presto per l’America Latina allo scopo di prendere parte alle lotte indipendentiste delle colonie spagnole, in un contesto decisamente più adatto di quello statunitense per coniugare gli ideali liberali e la ricerca di ingaggi come combattenti. Sebbene sia ragionevole affermare che Codazzi e Ferrari rappresentassero più degli avventurieri che non dei patrioti, il retroterra risorgimentale fa comunque parte integrante della loro esperienza precedente l’emigrazione[21].

In seguito, come per l’esodo risorgimentale nel suo complesso[22], fu il fallimento dei successivi moti carbonari del biennio 1820-1821, delle insurrezioni del 1831 e delle rivoluzioni del 1848-1849 a produrre le principali ondate emigratorie politiche preunitarie alla volta degli Stati Uniti. Dopo il rapido soffocamento dell’esperienza liberale in Spagna, prima che la rivoluzione di luglio tornasse a fare della Francia un punto di riferimento almeno per i moderati italiani, il modello politico statunitense rafforzò la sua attrattiva sui patrioti italiani, forte soprattutto dell’ammirazione suscitata nei circoli massonici che non ignoravano certo l’affiliazione di alcuni dei padri dell’indipendenza americana da Benjamin Franklin a George Washington[23]. Ad alimentare tali flussi furono diverse categorie di fuorusciti: gli insofferenti al pesante clima politico della Restaurazione; coloro che sull’altra sponda dell’Atlantico cercarono scampo dalla repressione delle autorità governative; chi in seguito all’arresto e alla condanna – e talvolta anche dopo un periodo di detenzione più o meno lungo – approfittò della grazia condizionata alla possibilità di andare in esilio quale alternativa alla carcerazione. La prima categoria – definibile in termini di esuli volontari – incluse Giacomo Costantino Beltrami, giunto a Filadelfia nel 1823 per sottrarsi alle vessazioni delle autorità pontificie provocate dai suoi trascorsi filo-napoleonici e dai sospetti di affiliazione alla Carboneria[24]. La seconda comprese Orazio De Attellis, marchese di Sant’Angelo. Impossibilitato a rientrare a Napoli “da una proscrizione a morte”, dopo la sua partecipazione alle insurrezioni liberali nel Regno delle Due Sicilie e in Spagna, e persuaso che “la corrotta e schiava Europa non offre asilo piacevole né sicuro”, De Attellis sbarcò a New York il 20 maggio 1824 alla ricerca di “pace, sicurezza, libertà”, convinto dalla lettura di “certi scritti del celebre Giorgio Washington” che “gli Stati Uniti di America sono il solo soggiorno convenevole all’uomo pensante, onesto e libero”[25]. Alla terza appartenne Luigi Tinelli, arrestato nel 1833 e condannato a morte per la propria partecipazione al movimento mazziniano in Lombardia, prima di vedersi commutata la pena capitale nella deportazione negli Stati Uniti in virtù di un rescritto imperiale promulgato da Ferdinando I d’Austria in occasione della sua ascesa al trono nel 1835[26].

Il caso di Tinelli attesta anche come le due ondate di espatri legate ai primi cicli rivoluzionari tendessero a sovrapporsi. A bordo dell’Ussaro, il brick austriaco da cui Tinelli sbarcò a New York il 16 ottobre 1836, viaggiarono anche Pietro Borsieri, Gaetano De Castillia ed Eleuterio Felice Foresti, i milanesi affiliati alla setta segreta dei federati. Anch’essi erano reduci del carcere dello Spielberg, ma erano stati coinvolti nelle cospirazioni del 1820 – quando avevano cercato di indurre il Regno di Sardegna a muovere guerra all’Austria per liberare la Lombardia – al pari di Piero Maroncelli, che li aveva preceduti sul suolo americano dopo aver ricevuto la grazia imperiale nel 1833, e di Federico Confalonieri, che li raggiunse nel 1837 perché una malattia gli aveva impedito di prendere il mare con il gruppo di Tinelli[27].

Come ha scritto Giorgio Spini, “con l’arrivo negli Stati Uniti dei superstiti dello Spielberg comincia un va e vieni di profughi politici fra Italia e America”[28]. I percorsi di questi esuli, però, furono spesso tortuosi e portarono i patrioti risorgimentali a toccare anche altre destinazioni prima di varcare l’Atlantico. Un’esperienza emblematica a tale proposito fu la vicenda di Francesco Arese Lucini. Fuggito dalla Lombardia nel 1831 per sottrarsi alla polizia austriaca, trascorse alcuni anni tra il castello che l’ex regina di Olanda Ortensia possedeva in Svizzera e l’Algeria, per la quale era partito volontario con la Legione straniera francese. Negli Stati Uniti sbarcò soltanto nel 1837, per preparare l’arrivo dell’amico Luigi Napoleone Bonaparte che aveva conosciuto nel periodo svizzero del proprio esilio[29]. In modo analogo, lasciata l’Italia in seguito all’abbandono del progetto di assassinare il re di Sardegna Carlo Alberto e all’insuccesso dell’invasione della Savoia da parte del generale mazziniano Gerolamo Ramorino nel 1834, Antonio Gallega approdò a New York nel 1836 dopo essersi fermato a Tunisi e a Tangeri nel corso del biennio precedente[30].

In alcuni casi, i soggiorni negli Stati Uniti furono ripartiti in più fasi. Per esempio, l’ex ufficiale sabaudo Giuseppe Avezzana giunse una prima volta a New Orleans nel dicembre del 1823, dopo essersi sottratto a una condanna a morte in contumacia a causa del suo contributo all’insurrezione nel Regno di Sardegna del 1821 e aver preferito la deportazione al carcere in seguito alla cattura da parte delle truppe francesi per il sostegno che aveva offerto alle forze costituzionali spagnole una volta lasciato il Regno di Sardegna. Trasferitosi in Messico nel 1826, Avezzana si stabilì a New York otto anni dopo per poi rientrare in Italia in occasione dei moti del 1848. Fu alla testa dell’insurrezione di Genova nel 1849 e successivamente ricoprì la carica di ministro della Guerra della Repubblica romana. Crollata quest’ultima, fece ritorno a New York[31]. Parimenti, il palermitano Ignazio Batolo fuggì a Boston dopo i moti siciliani del 1821 e si portò a Malta nel 1844 nella vana attesa di una nuova insurrezione in Sicilia. Tornato una prima volta negli Stati Uniti quando si rese conto che la rivoluzione non sarebbe scoppiata, rientrò in Sicilia per prendere parte agli avvenimenti del 1848, ma fu ancora una volta costretto sulla via dell’esilio per rifugiarsi nuovamente a Boston[32]. Felice Argenti trovò scampo addirittura per tre volte negli Stati Uniti: nel 1822 dopo la partecipazione ai moti piemontesi dell’anno precedente e un suo coinvolgimento in una cospirazione repubblicana contro l’imperatore del Messico, nel 1836 con gli altri “martiri dello Spielberg” dove aveva scontato la condanna per l’adesione alle attività rivoluzionarie del 1831 e in seguito al fallimento delle insurrezioni del 1848 in Lombardia che lo avevano indotto a tornare in Italia, sebbene fosse giunto troppo tardi nella penisola per prendere parte ai sommovimenti di quest’ultimo anno[33].

Anche in corrispondenza a tale esodo per alcuni di coloro che trovarono rifugio negli Stati Uniti si può parlare più appropriatamente di esilio volontario, anziché di proscrizione o di vera e propria fuga verso la salvezza. Per esempio, il corso ma livornese d’adozione Leonetto Cipriani fu forse il più autorevole rappresentante di un gruppo di esuli che lasciarono l’Italia non perché bersaglio di persecuzione politica, ma più semplicemente perché non si riconoscevano nei rispettivi governi dopo i moti del biennio 1848-1849. Cipriani prese parte alla prima guerra d’indipendenza, combattendo prima con i volontari toscani a Curtatone e poi con le truppe sarde a Novara. Non tollerò il ritorno al potere di Leopoldo II nel Granducato di Toscana dopo la caduta del governo democratico di Giuseppe Montanelli nel 1849 e partì per la California nell’agosto del 1851, con l’incarico di console del Regno di Sardegna a San Francisco. Come avrebbe scritto nelle memorie dettate al figlio, “Restaurata la dinastia dei Lorena, fu sostituita alla coccarda tricolore quella toscana, ed egli sentì ripugnanza a rimanerne al servizio cambiando i colori che rappresentavano la libertà ed il risorgimento italiano, pei quali aveva combattuto, con quelli toscani, che rappresentavano l’assolutismo e la tomba delle speranze italiane. Se fosse rimasto in queste condizioni, guardandosi allo specchio si sarebbe vergognato di sè stesso [sic], sembrandogli averlo fatto per la pagnotta”[34].

La circolazione dei patrioti attraverso l’Atlantico attesta le diramazioni americane di quella che, ancorché in riferimento all’Europa, Maurizio Isabella ha chiamato l’“internazionale liberale”[35]. Inoltre, come dimostrato dal caso di Argenti, l’esito negativo per il Risorgimento degli avvenimenti del biennio 1848-1849 segnò una ripresa dell’afflusso di esuli italiani negli Stati Uniti. Oltre ad Avezzana tale esodo incluse anche Giuseppe Garibaldi e Giuseppe Barilli – alias Quirico Filopanti, che all’Assemblea costituente della Repubblica romana aveva presentato il decreto che dichiarava decaduto il potere temporale dei pontefici – nonché figure meno conosciute come il marchigiano Pasquale Enrico Papiri[36]. Quest’ultimo – insofferente della vigilanza della polizia pontificia causata dalla sua partecipazione alla prima guerra d’Indipendenza e, quindi, anch’egli in parte un caso di esilio volontario – sì imbarcò alla volta di New York alla fine del 1850 per ricercare oltre l’Atlantico quella libertà che non riusciva a trovare in patria[37].

L’attrattiva degli Stati Uniti sull’emigrazione politica successiva ai moti del biennio 1848-1849 ebbe nuovamente una ragione prevalentemente ideologica. La nazione americana apparve ancora una volta quale luogo ideale per i fuorusciti o come la “Terra Promessa”, per usare un’espressione del mantovano Tullio De Suzzara Verdi, che vi si rifugiò nel 1850 dopo aver combattuto nelle truppe sabaude contro l’Austria fino alla sconfitta di Novara[38]. Non fu un caso, per esempio, che dimostrazioni repubblicane, come una manifestazione svoltasi a Livorno il 13 maggio 1848, associassero il grido di “viva la repubblica” all’esposizione della bandiera statunitense[39].

L’attrattiva esercitata dagli Stati Uniti sui patrioti italiani fu rafforzata dagli sviluppi politici in questo paese. La calda accoglienza e l’aiuto materiale che i newyorkesi riservarono ai “martiri dello Spielberg”, di cui Foresti volle dare pubblicamente atto in segno di riconoscenza, furono già di per se stessi un’esemplificazione dell’empatia americana per il Risorgimento[40]. A tale solidarietà non era stato estraneo lo sdegno per il trattamento inumano che l’Austria aveva riservato ai patrioti italiani, così come era stato rappresentato nella traduzione inglese de Le mie prigioni di Silvio Pellico, un testo diffusissimo negli Stati Unitiche, come osservò Confalonieri, “trovasi sparso per tutto dalle capanne dell’Alabama a quelle del Michigan”[41]. Inoltre, secondo la testimonianza di Foresti, “le gazzette tutte parlarono di noi continuamente per due o tre mesi”[42].

Dopo l’arrivo dei reduci dello Spielberg l’adesione degli statunitensi alla causa italiana si era ulteriormente approfondita negli anni seguenti. Infatti, non solo l’opinione pubblica americana aveva manifestato una grande attenzione per le vicende della penisola e, in particolare, aveva espresso un marcato sostegno all’esperienza della Repubblica romana, grazie anche alle appassionate corrispondenze che la giornalista Margaret Fuller aveva pubblicato sulla “Daily Tribune” di New York, con la dovuta e ovvia eccezione dei comunque minoritari ambienti cattolici[43]. All’interno della classe politica americana e, in particolare, in seno al partito democratico era pure sorta una corrente – la Young America, che almeno nella denominazione lasciava trasparire una qualche ascendenza mazziniana – la quale propugnava il coinvolgimento diretto degli Stati Uniti nelle insurrezioni e nelle guerre indipendentiste, scoppiate in Europa alla metà dell’Ottocento. Lo scopo di questo progetto di politica interventista da parte di Washington, che si ricollegava alla ripresa dell’espansione continentale culminata con la vittoriosa guerra contro il Messico nel 1846-1848, sarebbe stato quello di adempiere a una presunta missione provvidenziale volta alla diffusione dei principi di libertà, repubblica e democrazia, incarnati dagli stessi Stati Uniti, anche nelle nazioni europee sottoposte al giogo di monarchie autoritarie[44]. D’altro canto, fin dal 1845 la stessa Fuller – che era solita assistere alle riunioni di vari gruppi di esuli europei – aveva alluso a un patriottismo cosmopolita liberale che avrebbe potuto arricchire ideologicamente gli Stati Uniti in una prospettiva transazionale[45].

Questi orientamenti si riflessero in parte nell’atteggiamento di William A. Sparks e Nicholas Brown, i consoli statunitensi rispettivamente a Venezia e a Roma. Sparks espresse le proprie felicitazioni alla Repubblica di San Marco dopo l’insurrezione che scacciò gli austriaci dalla città lagunare, un gesto che rasentò il riconoscimento de facto del nuovo governo[46]. Brown non soltanto sostenne in modo aperto la Repubblica romana, senza neppure consultarsi con il Dipartimento di Stato e in parziale contrasto con l’atteggiamento più neutrale dell’incaricato d’affari di Washington Lewis Cass Jr., giungendo a partecipare in divisa diplomatica alla cerimonia per l’insediamento dell’Assemblea costituente e ricevendo il plauso di Giuseppe Mazzini[47]. Dopo la caduta della Repubblica, si prodigò anche per assicurare l’incolumità ad alcuni dei suoi reduci più compromessi, incluso Avezzana, fornendo loro passaporti americani e la possibilità di raggiungere gli Stati Uniti[48]. Brown manifestò così una disponibilità decisamente maggiore a quella rivelata da Cass, che pure nel 1851 ottenne la liberazione di tredici detenuti politici dello Stato pontificio impegnandosi a pagare i 3.000 dollari di spesa per la loro deportazione in California[49].

Espatri e deportazioni alla volta dell’America proseguirono anche negli anni successivi e riguardarono non soltanto gli Stati più reazionari della penisola, ma anche il governo costituzionale sabaudo. Sedata la rivolta del 27 gennaio 1850 alla Fieravecchia di Palermo, uno dei suoi promotori, Domenico Minnelli, si mise in salvo trovando un passaggio gratuito per New York su una nave statunitense[50]. La tentata insurrezione di Milano del 6 febbraio 1853 indusse il Regno di Sardegna a esiliare una settantina di rivoluzionari, soprattutto per compiacere il governo austriaco. Nessun paese volle accoglierli fatta eccezione per gli Stati Uniti, che i proscritti raggiunsero nel maggio di quello stesso anno a bordo della fregata sabauda San Giovanni grazie ai passaporti che aveva rilasciato loro William Burnet Kinney – lo chargé d’affaires americano a Torino – su pressioni del ministro degli esteri di Vittorio Emanuele II, il generale Giuseppe Dabormida[51]. A differenza dei diplomatici di altre nazioni, Kinney si mostrò disponibile a tale richiesta perché era “politica del popolo e del governo americano, mantenendo la dottrina della libertà civile e religiosa, offrire asilo a tutti quelli che ne erano stati privati”[52]. Inoltre, un nucleo di dieci esuli giunse dal Granducato di Toscana e dallo Stato pontificio a New York nel 1856[53].

Alla stessa meta era destinato un gruppo di patrioti napoletani che vennero banditi dal Regno delle Due Sicilie nel 1859 nel contesto della politica di Ferdinando II di Borbone incentrata su proscrizioni e perfino accondiscendenza verso le fughe per evitare di trasformare i suoi oppositori in martiri come era accaduto, invece, per i giustiziati dopo la rivoluzione del 1799[54]. Questi esuli, però, riuscirono a persuadere il capitano della nave a lasciarli sbarcare a Cork in Irlanda prima di intraprendere il viaggio transoceanico. Pur riconoscendo che gli Stati Uniti costituivano indubbiamente una nazione “bella, libera e civile”, i deportati preferirono farsi concedere ospitalità dalla Gran Bretagna per non allontanarsi troppo dall’Italia meridionale, dove auspicavano di poter rientrare in tempi rapidi nella convinzione che la monarchia di Ferdinando II sarebbe stata presto rovesciata[55]. Tra coloro che non vollero proseguire la traversata c’era anche Luigi Settembrini. Sebbene il patriota avesse ricordato come negli ambienti risorgimentali napoletani “si leggeva con ardore le storie del Botta”, denotando così un palese interesse per gli Stati Uniti nelle cerchie che frequentava, e nonostante riconoscesse che dall’altra parte dell’Atlantico vivevano “uomini […] più liberi”, Settembrini fin dalla notifica della sua deportazione e prima ancora che si presentasse l’occasione di non varcare l’oceano si era determinato a “stare in America il più breve tempo che potrò” per poter riabbracciare il figlio che viveva in Inghilterra[56].

Malgrado la comprensibilità e la ragionevolezza delle motivazioni – anche di carattere personale – addotte, nella scelta dei profughi napoletani può essere colto pure un ridimensionamento dell’attrattiva esercitata dagli Stati Uniti. Questa destinazione rimase un’opzione per Francesco Crispi, espulso anch’egli dal Regno di Sardegna per il suo coinvolgimento nelle vicende milanesi del 1853, qualora non fosse riuscito a trovare asilo in Francia[57]. Però, anche in considerazione dell’ampio ventaglio delle posizioni politiche espresse dai patrioti italiani, non tutti gli esuli risorgimentali finirono per identificarsi ideologicamente col modello americano e tale orientamento contribuì a ridurre il fascino che gli Stati Uniti esercitarono su di loro. A tale paese guardavano soprattutto i repubblicani, stando almeno ai rapporti del già menzionato Kinney[58]. Ma questa posizione non esauriva l’articolazione del panorama risorgimentale. Per limitarsi alle decisioni dei reduci dello Spielberg, Giorgio Pallavicino Trivulzio, alla deportazione negli Stati Uniti, preferì il confino a Praga, malgrado la noia della vita sociale nel capoluogo boemo riscontrata da chi lo aveva preceduto nell’esilio in tale città[59]. Infatti, come scriveva già alla fine del 1821 il generale napoletano Gabriele Pedrinelli, “Che si fa da noi in Praga? […] Si legge, si passeggia solo, si mangia bene […]. Qualche sera per disperazione si va a teatro, teatro di provincia e tedesca, vale a dire, che non se ne intende alcun’arguzia”[60]. Inoltre, nonostante il caloroso benvenuto tributatogli, l’aristocratico conte Confalonieri prese ben presto le distanze dalla democrazia americana, in corso di instaurazione sotto le amministrazioni di Andrew Jackson (1829-1837) e dell’appena insediatosi (4 marzo 1837) Martin Van Buren, presidenti affetti dalla limitazione di essere “tutti del partito della plebe, che è quella che li elegge e che sola governa”. Sebbene questo sistema fosse “antipode” a quello austriaco che lo aveva perseguitato, Confalonieri non tardò a criticare la concezione statunitense della “libertà fatalmente prossima alla licenza”, paventando l’imminente degenerazione della democrazia americana nella “oligarchia de’ molti, forse più temibile che quella de’ pochi, e che l’istesso despotismo”[61]. Così, alla prima occasione utile, fuggì per rientrare in Europa e nel settembre 1837, a pochi mesi dalla sua deportazione oltre l’Atlantico, era già a Parigi[62]. Anche Barilli rientrò presto in Europa, ma si stabilì in Gran Bretagna[63].

 

  1. Difficoltà economiche e impegno risorgimentale

Terminato il periodo di quarantena al suo arrivo a New York nel 1850 Garibaldi scrisse a un comitato di esuli italiani che avrebbe voluto tributargli un ricevimento ufficiale che declinava di aderire all’iniziativa perché gli unici obiettivi del suo soggiorno negli Stati Uniti erano quelli di “guadagnare il mio pane ed aspettare un’occasione più favorevole per liberare il mio paese da’ suoi oppressori esteri e domestici”[64]. In questo duplice obiettivo era riassunta la condizione e gli intenti della maggior parte dei profughi politici italiani in America. Al di là dell’alone di eroica dignità che poteva circondare l’esilio, la prima incombenza dei fuorusciti fu la sopravvivenza materiale. Una costante delle loro testimonianze risultò rappresentata proprio dalla necessità di procurarsi i mezzi di sostentamento. Le considerazioni di apertura della lettera indirizzata da Tinelli al fratello Carlo dopo il suo sbarco a New York furono un’articolata esposizione del suo sgomento per l’alto costo della vita che stava riscontrando negli Stati Uniti: “i primi giorni del soggiorno qui mi trovai veramente atterrito dalla grandissima difficoltà di poter trovare qualunque alloggio o pensione, essendo tutto enormemente caro; figurati che i primi 4 giorni abbiamo speso, Bargnani e io, 20 dollari ciascheduno pel solo alloggio e vitto, senza contare tante altre spese accessorie pel discarico e trasporto di effetti”[65]. Molti anni più tardi Tinelli avrebbe ribadito il concetto ancora una volta al fratello: “in questa magnifica repubblica se non c’è il com quibus bisogna morire come cani”[66].

L’ansia di Tinelli fu condivisa da molti altri esuli. La prima apprensione di De Attellis una volta giunto negli Stati Uniti fu quella di trovare un impiego al figlio e Borsieri non mancò di diffondersi sugli espedienti a cui dovettero ricorrere lui stesso e gli altri “martiri dello Spielberg” per trovare da sbarcare il lunario[67]. L’immagine di Garibaldi intento a lavorare nell’opificio di Antonio Meucci a Staten Island è parte integrante dell’epopea risorgimentale ed emblematica delle condizioni di molti fuorusciti, anche se al tempo suscitò l’indignazione dell’amico Francesco Carpaneto, che lo era andato a trovare nell’aprile del 1851: “dopo aver sudato sangue sul campo della libertà, dopo aver sostenuto l’onore Italiano, dopo aver umiliato i Francesi e qualche Re, e dimostrato ai stranieri quanta virtù possa in cuore Italiano, indovina un po’ a cosa sta egli occupato? niente meno che a fab­bricar candele di sego […] egli che la virtù decantata sui teatri mette in pratica si lascia perire nell’oblio, nella miseria: vergogna nostra!”[68]

Come è stato rilevato, generalmente la precarietà della condizione economica afflisse soprattutto gli esuli dei moti del biennio 1848-1849 in quanto, a differenza dei patrioti risorgimentali che li avevano preceduti, erano più numerosi, appartenevano a una molteplicità di ceti sociali e risultavano privi di quella rete di solidarietà di ceto che aveva connotato i loro antesignani di estrazione aristocratica[69]. Nel caso specifico statunitense, però, tali reti furono indebolite da tensioni e incomprensioni che lacerarono in parte la ristretta comunità degli esuli. Ne risulta esemplificativo un passo di una lettera di Arese sui suoi compagni di sventura: “Qui ho conosciuto tutti i vecchi e nuovi esportati e deportati; e per alcuni di essi meglio varrebbe l’esserci accontentati di conoscerne il nome; Argenti, uomo debole, senza mezzi (intellettuali) e d’una presunzione eccessiva, Confalonieri, uomo di gran numeri ma d’amor proprio immenso, Maroncelli discreto, Bargnani, senza forme […], Castiglia buono ma bigotto”[70]. Risparmiato da Arese, Maroncelli era criticato da Borsieri – che lo accusava di essere “traviato […] da una inarrivabile vanità, che lo riduce a mali passi” – ma, a sua volta, si doleva che gli altri reduci dello Spielberg – come lo stesso Borsieri – avessero accesso a sussidi finanziari che erano invece preclusi al “mutilato”, come si definiva con un misto di autocommiserazione e sarcasmo[71]. Inoltre, le difficoltà finanziarie afflissero anche i nobili come Tinelli, che per trovare un’occupazione redditizia cercò di trasformarsi in imprenditore tessile diffondendo la coltura del gelso e l’allevamento del baco da seta per l’industria serica, oltre ad ambire a raggiungere una certa sicurezza economica con incarichi diplomatici per conto del governo di Washington, una volta acquisita la cittadinanza statunitense[72].

A differenza dell’esperienza di Tinelli, la soluzione adottata da numerosi esuli fu l’insegnamento della lingua e della letteratura italiana a più livelli, a cui non si dedicò invece a tempo pieno Maroncelli, convinto che “se non fosse la musica, di cui egli e sua moglie danno lezioni, la sola maestranza delle lingue lo lascerebbe morire di fame”[73]. Borsieri e De Attellis impartivano lezioni private. Dopo aver svolto anch’egli l’attività di insegnante privato, nel 1839 Foresti sostituì Lorenzo Da Ponte, l’ex librettista di Mozart, alla cattedra di italiano che era stata istituita al Columbia College. Ad essa ne aggiunse una seconda alla New York University nel 1841 fino a quando non tornò in Italia nel 1856 nella veste di console degli Stati Uniti a Genova. Batolo svolse a più riprese corsi all’Università di Harvard, che dovette però integrare con l’insegnamento privato a causa della modestia del suo compenso, fino a quando non fu rimosso dall’incarico nel 1846. Dal 1854 al 1859 il suo sostituto, Luigi Monti, fu un altro esule politico che era fuggito da Palermo nel 1850, dopo aver partecipato ai moti del biennio precedente, prima di farvi ritorno quale console americano dal 1861 al 1863[74].

Se il conseguimento della cittadinanza statunitense e l’ingresso nella carriera diplomatica per il paese d’adozione da parte di alcuni degli esuli risorgimentali come Tinelli poté forse configurarsi come un segnale di un attenuamento, almeno parziale, dell’identificazione con la terra d’origine, altri fuorusciti mantennero anche negli Stati Uniti il loro impegno a favore dell’unità italiana. Non a caso, pur essendosi naturalizzato cittadino americano, alla “notizia delle riforme liberali incominciate negli Stati Romani del nuovo pontefice Pio IX”, De Attellis si imbarcò per l’Europa per “volare al soccorso dell’Italia”[75].

Particolarmente significativo per attestare l’impegno risorgimentale degli esuli negli Stati Uniti fu l’esperienza di Foresti. Il 6 giugno 1841, lo stesso anno in cui ricevette la cittadinanza americana, Foresti fu collocato da Mazzini alla presidenza della Congrega Centrale della Giovine Italia per l’America del Nord. La Congrega aveva sede a New York, contava una sessantina di aderenti in questa città e si proponeva di diffondere gli ideali mazziniani, tanto tra gli immigrati italiani quanto presso l’opinione pubblica statunitense, in modo da suscitare il sostegno al processo di unificazione politica della nazione italiana in forma repubblicana. A tale scopo promosse anche la raccolta di fondi in ambienti protestanti che potevano essere ragionevolmente ritenuti ostili a una potenza cattolica quale era l’Austria. Da New York, l’azione della Congrega si estese ben presto ad altre città degli Stati Uniti dove sorsero le sue “ramificazioni”: a Boston sotto la guida del già menzionato Bachi, a Filadelfia con Giuseppe De Tivoli – alias Cola di Renzo – come “ordinatore”, a Richmond in Virginia con alla testa Carlo Bassini, a Charleston nel South Carolina con a capo Cristoforo S. Salinas, a New Haven nel Connecticut sotto Luigi Roberti e a New Orleans in Louisiana sotto la direzione del Dr. Natilj. La Congrega operò fino alla primavera del 1848 quando venne trasformata nell’Associazione Nazionale Italiana, un’organizzazione che, negli intenti di Mazzini, attenuando l’intransigenza repubblicana del precedente organismo, avrebbe dovuto coinvolgere un maggior numero di immigrati italiani negli Stati Uniti[76].

Pure l’insegnamento della lingua italiana divenne uno strumento a sostegno del risorgimento. Un po’ tutti i docenti menzionati in precedenza imposero ai loro allievi la lettura de Le mie prigioni di Pellico come un classico della letteratura al pari di Dante o di Tasso, aiutando così la diffusione di sentimenti antiaustriaci[77]. Inoltre, la Congrega Centrale della Giovine Italia per l’America del Nord istituì a Boston e a New York due scuole per i figli di famiglie povere di immigrati italiani, sul modello di quanto aveva fatto Mazzini a Londra nel 1841, dove è presumibile che gli ideali risorgimentali nella loro accezione repubblicana venissero trasmessi insieme alle nozioni di lingua e letteratura[78].

I fuorusciti svolsero anche un’intensa attività pubblicistica per propagandare la causa dell’indipendenza italiana negli Stati Uniti, scrivendo per alcuni grandi periodici in lingua inglese. Foresti collaborò con la “Democratic Review”, la testata di riferimento per il movimento della Young America e, quindi, un giornale già sensibile a questa tematica. Per il giornale rivale, l’“American Whig Review”, scrisse invece un altro proscritto, il piacentino Giovanni Francesco Secchi de’ Casali, esule dopo la fallita cospirazione del 1836 contro la duchessa di Parma, Piacenza e Guastalla Maria Luigia d’Austria[79].

Per raggiungere in maniera più efficace l’intera comunità italiana newyorkese, non soltanto la sua componente già politicizzata dalla partecipazione ai moti risorgimentali in patria, de’ Casali volle anche fondare un periodico in lingua italiana. Ci provò una prima volta nel 1849 con “L’Europeo Americano”, un periodico bilingue per non perdere il contatto con il pubblico anglofono, che però interruppe le pubblicazioni nel giro di qualche settimana. Ritentò l’anno successivo con il giornale “L’Eco d’Italia”, a cui arrise miglior fortuna tanto che continuò a uscire fino al 1896, ben oltre la morte del suo ideatore e proprietario sopraggiunta nel 1885. Dal 1850 de’ Casali si fece anche promotore della diffusione negli Stati Uniti del giornale “L’Italia del Popolo”, stampato da Mazzini prima a Losanna e poi a Genova[80].

Tutto faceva presagire che de’ Casali e “L’Eco d’Italia” potessero diventare la voce dei mazziniani negli Stati Uniti. Tuttavia, dopo un primo sostegno alle iniziative di de’ Casali, Foresti ruppe in poco tempo i suoi rapporti con lui. Già nell’ottobre del 1850 definì il suo rivale “un uomo inetto – cattivo – e mercenario – servile – e cangevole”, accusandolo di essersi appropriato dei proventi derivanti dalla vendita de “L’Italia del Popolo”[81]. Alle idiosincrasie e alle rivalità personali tra Foresti e de’ Casali si sommò la posizione progressivamente moderata che il secondo espresse in misura crescente dalle colonne de “L’Eco d’Italia” e che condusse il settimanale a presentare la politica del Regno di Sardegna e della Casa Savoia quale strumento più efficace e opportuno per realizzare il processo di unificazione nazionale in Italia[82]. Foresti volle liquidare “L’Eco d’Italia” come “un giornaletto italiano di niun conto”, ma le sue parole sprezzanti non rispecchiavano il reale ascendente di de’ Casali[83]. Foresti stesso ne era consapevole e si propose di correre ai ripari. Per cercare di arginare l’influenza di de’ Casali – costituita non tanto dall’esigua circolazione del suo settimanale, attestata sul centinaio di copie, quanto dal fatto che i suoi articoli erano ripresi dalle testate più autorevoli statunitensi in lingua inglese – i mazziniani tentarono di contrapporgli un proprio organo. Tale sforzo si rivelò tuttavia infruttuoso. Già nel 1850 Foresti promosse la nascita de “L’Esule Italiano”, affidandolo a un ex cappuccino, Giovan Battista Torricelli. Cessate le pubblicazioni dopo pochi numeri, nell’agosto dell’anno seguente il giornale fu sostituito da “Il Proscritto”, diretto da Alberto Maggi e Filippo Manetta, ma anch’esso fallito in breve tempo[84].

La mancanza di fondi costituì l’ostacolo più ostico per la sopravvivenza delle testate mazziniane radicali prima ancora che nella seconda metà degli anni Cinquanta la voce sempre più moderata e filo-monarchica di de’ Casali trovasse una pronta eco nel distacco dell’opinione pubblica americana e dello stesso governo statunitense dalle istanze più estremistiche del Risorgimento soprattutto in seguito alla reazione per il presunto coinvolgimento di Mazzini nell’attentato di Felice Orsini contro Napoleone III nel 1858[85].

Solo a San Francisco – nella lontana California, meta soprattutto di immigrati ed esuli genovesi – l’ideologia mazziniana rivelò una maggiore capacità di sopravvivenza nella comunità italiana. Tale dinamismo fu attestato dal sorgere di due testate repubblicane proprio nel periodo a cavallo della proclamazione del Regno d’Italia: “La Cronica Italiana”, creata nel 1860 da Angelo Mangini, sottrattosi alla condanna a morte in contumacia che colpì i protagonisti del moto di Genova del giugno di tre anni prima, e “La Parola”, fondato nel 1861 da due altri esuli ed ex collaboratori del primo giornale, Raffaele Ancarani e Agostino Spivalo, e ben presto scivolato su posizioni monarchiche[86].

Il reperimento di finanziamenti tra gli immigrati italiani e nei settori italofili della società statunitense costituì un ulteriore terreno di iniziativa degli esuli a beneficio della causa risorgimentale. Tra il 1859 e il 1860, per esempio, a New York operarono ben due comitati per alimentare la campagna del “milione di fucili”, la raccolta di contributi per equipaggiare le milizie garibaldine, che nel complesso riuscì a inviare alle camice rosse armamenti e altre forniture per un totale di circa 100.000 dollari: il Garibaldi Fund Committee, presieduto da Avezzana e di orientamento più radicale, e l’Italian National Committee, diretto da Vincenzo Botta e di tendenza moderata[87]. L’iniziativa fu così estesa da avere ramificazioni fino in California, dove a San Francisco sorse un comitato diretto da Fulgenzio Seregni che raccolse altri 4.100 dollari[88]. Però, il suo sdoppiamento a New York fu ancora una volta significativo della scarsa coesione interna del mondo degli esuli a causa delle diverse posizioni politiche e in particolare della crescente contrapposizione tra democratici e moderati monarchici, una condizione rafforzata dal boicottaggio di questa campagna da parte di de’ Casali e de “L’Eco d’Italia”[89]. Un precedente esempio di questa lacerazione era stato fornito nel 1857 quando, in California, i monarchici avevano offerto 5.000 lire al Regno di Sardegna per rafforzare le fortificazioni nel presidio di Alessandria e i democratici avevano risposto aderendo – con l’ancorché modesta cifra di 162,25 lire – alla sottoscrizione lanciata dal giornale mazziniano di Genova “Italia e Popolo” per donare 10.000 fucili alla prima provincia italiana in cui fosse scoppiata un’insurrezione[90]. Altre collette riguardarono il reperimento di circa 10.000 dollari destinati alle vedove e agli orfani dei patrioti caduti in battaglia nella guerra contro l’Austria nel 1859[91]. Furono pure raccolti sussidi anche per le famiglie dei soldati sabaudi morti durante la guerra di Crimea[92].

Vincenzo Botta – che era giunto a New York nel 1853, non come esule politico, ma per studiare il sistema scolastico americano, anche se si trattenne negli Stati Uniti perché ne apprezzò ben presto “i dolcissimi frutti d’una libertà tanto sconfinata quanto il consente ragione”[93] – svolse anche un’importante funzione di propugnatore dell’indipendenza italiana presso l’opinione pubblica statunitense attraverso una serie di conferenze e di interventi sui principali periodici in lingua inglese. In questo compito fu particolarmente facilitato dal matrimonio contratto nel 1855 con la celebre poetessa Anne Charlotte Lynch, che gli dischiuse la porta dei salotti letterari newyorkesi[94]. Nell’ambito dei propagandisti vanno considerate anche alcune figure di esuli che, pur senza stabilirsi negli Stati Uniti, vi si trattennero per qualche tempo per tenere conferenze. Uno dei personaggi più significativi in proposito fu forse l’ex barnabita Antonio Gavazzi. Già protagonista della Repubblica romana, Gavazzi si recò negli Stati Uniti e in Canada tra il 1853 e il 1854 su invito dell’organizzazione protestante American and Foreign Christian Union e pronunciò una serie di violenti discorsi contro Pio IX, la tirannide papale e la Chiesa cattolica, che accusò del fallimento dei moti italiani del 1848. Le sue invettive ricevettero particolare attenzione per il contemporaneo viaggio negli Stati Uniti del nunzio pontificio Gaetano Bedini, a cui Gavazzi non mancò di imputare la responsabilità per la fucilazione di un altro dei patrioti che avevano preso parte alla Repubblica romana, il sacerdote Ugo Bassi. Le polemiche alimentate da Gavazzi in una società attraversata da marcati atteggiamenti anticattolici servirono a ridestare le simpatie dell’opinione pubblica statunitense per la Repubblica romana e, con essa, per il Risorgimento italiano[95].

Inoltre, fin dal 1843, De Attellis e Avezzana avevano costituito a New York una Guardia Italiana per mantenere l’addestramento militare dei fuorusciti nel caso si fossero presentate le condizioni per riprendere la lotta risorgimentale sul campo di battaglia. Soprattutto Avezzana era convinto che “il giorno della grande riscossa nazionale fosse molto vicino e più prossimo che taluni il credessero”[96].

 

4. L’esilio risorgimentale postunitario

La concretizzazione dell’unità italiana richiamò nella penisola alcuni esuli. Avezzana, per esempio, non volle rinunciare all’opportunità di tornare all’azione militare e riuscì a rientrare in tempo per unirsi ai “Mille” di Garibaldi e per combattere nella battaglia del Volturno, guadagnandosi sul campo i galloni di tenente generale[97]. Cipriani rientrò nel Regno di Sardegna già alla notizia dell’alleanza sardo-francese del gennaio del 1859 per arruolarsi nelle truppe sabaude con la funzione di ufficiale di collegamento con il quartier generale dell’imperatore Napoleone III, di cui era amico[98].

Nondimeno la proclamazione del Regno d’Italia non mise fine all’emigrazione politica risorgimentale. Rispetto al passato, però, non si trattò più di un esodo in prevalenza forzoso, bensì soprattutto di un esilio volontario da parte dei delusi dell’esito che stava avendo il processo di unificazione nazionale.

Dopo che il suo tentativo di marciare su Roma e di annettere all’Italia quel che restava dello Stato pontificio era stato frustrato dall’esercito sabaudo sull’Aspromonte nel 1862, Garibaldi ventilò la possibilità di accettare l’offerta di un comando nelle forze armate unioniste fattagli dal presidente statunitense Abraham Lincoln e di partire, quindi, per gli Stati Uniti per prendere parte alla guerra civile americana. Falliti gli sforzi per fomentare un’insurrezione nel Lazio e sconfitto a Mentana dalle truppe francesi e pontificie, Garibaldi tornò a ipotizzare il trasferimento negli Stati Uniti, rivendicando una sua presunta cittadinanza americana che in realtà non aveva mai conseguito. Si può pensare che il generale avesse voluto fare affidamento su Washington per ottenere la liberazione dalla fortezza del Varigliano dove era stato recluso in entrambe le occasioni. Ma non è neppure da escludere, come ha suggerito H. Nelson Gay, che Garibaldi avesse minacciato di rinunciare alla cittadinanza italiana e di intraprendere un nuovo esilio – azioni che sarebbero suonate come uno smacco, se non addirittura come un’implicita messa in stato di accusa, per il neocostituito Regno d’Italia – per indurre il governo sabaudo a risolvere la questione romana. Comunque, in entrambi i casi, i propositi del generale, se realmente tali, non ebbero alcun seguito[99].

Quanto rimase sul piano meramente virtuale per Garibaldi venne, invece, attuato da alcuni garibaldini. Come ha osservato Giorgio Spini, “nulla di strano che dei ‘picciotti’ siciliani, dopo aver seguito Garibaldi verso Aspromonte, siano poi scappati negli Stati Uniti”[100]. Per esempio, il console generale degli Stati Uniti presso il Regno d’Italia riconobbe in questi ultimi buona parte dei garibaldini che chiesero di potersi arruolare nell’esercito unionista dopo lo scoppio della guerra civile americana[101]. È molto probabile, però, che per costoro, come era già avvenuto per alcuni dei loro predecessori dell’inizio dell’Ottocento, l’intenzione di trovare opportunità per continuare a esercitare il mestiere delle armi si andasse a sommare al senso di delusione per l’assetto politico del nuovo Stato unitario. Tale connubio emerse dell’esperienza di Enrico Fardella, che si dimise dall’esercito sabaudo nell’aprile del 1861 sull’onda lunga dello sconforto della rinuncia a Roma da parte di Vittorio Emanuele II per emigrare negli Stati Uniti dove si arruolò nell’esercito nordista[102]. Un numero imprecisato di ex combattenti delle guerre risorgimentali attraversò l’Atlantico sulle orme di Fardella per entrare nelle truppe unioniste, contribuendo alla costituzione della Garibaldi Guard a Est e alla milizia del generale John Frémont a Ovest[103]. Questo fu forse anche il caso di Giovanni Martini, un reduce dello scontro di Mentana, aggregatosi come trombettiere al Settimo Cavalleggeri del colonnello George Armstrong Custer e unico sopravvissuto alla battaglia del Little Big Horn del 1876[104]. Inoltre, la Compagnia Garibaldina, sorta nel 1868 a San Francisco – dove la comunità italo-americana che era già stata teatro di manifestazioni di protesta per i fatti di Mentana, compresa una sottoscrizione per le famiglie dei morti e dei feriti tra le milizie di Garibaldi – annoverò tra i suoi membri numerosi ex combattenti che erano stati agli ordini del generale[105]. Oltre a queste campagne di sostegno alle iniziative di Garibaldi nell’ambito delle Little Italies, fu l’atteggiamento di empatia dell’opinione pubblica americana verso il generale a offrire ancora una volta agli occhi dei suoi reduci l’immagine degli Stati Uniti come una terra politicamente accogliente. Proprio dopo lo scoppio delle ostilità con la Confederazione, la stampa dell’Unione stigmatizzò l’asservimento del Regno d’Italia alla Francia sulla questione romana, presentò Vittorio Emanuele II come un “doppiogiochista” e propose lo stesso Garibaldi – “vittima dell’ipocrisia ministeriale” sull’Aspromonte e “ribelle che ha agito nell’interesse dell’Italia” – quale modello per la società nordista a tal punto che, alla fine di ottobre del 1862, nel pieno della guerra civile, la rivista “Harper’s Magazine” gli dedicò la copertina, ritraendolo pensieroso e con la gamba ferita durante la detenzione nella fortezza di Varigliano[106].

L’emigrazione negli Stati Uniti per disillusione politica coinvolse perfino i moderati. Cipriani, che era stato nominato governatore della Romagna dopo l’insurrezione del 1859 ma aveva destato il sospetto di voler avallare le mire francesi sull’Italia centrale a causa della sua amicizia con Napoleone III, si sentì “messo in disparte” proprio alla vigilia della proclamazione del Regno d’Italia, dopo tutto quello che aveva fatto “per ingrandire il Piemonte”. Pertanto, si dimise dalla carica di governatore ed emigrò ancora una volta in California già alla metà del 1860[107].

Soprattutto gli Stati Uniti meridionali divennero il rifugio per alcuni dei nuovi sconfitti del Risorgimento. Prima che scoppiasse formalmente la guerra tra il Nord e il Sud e la marina unionista imponesse un blocco navale alle coste nemiche, tra il dicembre del 1860 e il marzo del 1861 diverse centinaia di soldati del disciolto esercito borbonico – con il tacito avallo del governo sabaudo, desideroso di liberarsi della loro scomoda presenza – furono reclutati dalle forze armate confederate da Chatham Roberdeau Wheat, un avventuriero della Louisiana che paradossalmente aveva combattuto con i Mille di Garibaldi. All’internamento, per chi era rimasto fedele al sovrano deposto, e alle discriminazioni per l’inserimento tra le truppe sabaude, nel caso dei più pragmatici, un certo numero di ex militari di Francesco II preferì prendere la via dell’esilio alla volta della Louisiana e di altri Stati del Sud[108].

In tal modo, gli Stati Uniti continuarono in parte a rappresentare una metà per alcuni di coloro che seguitarono a restare insoddisfatti della situazione politica italiana anche dopo il raggiungimento dell’unificazione nazionale. Costoro anticiparono di qualche decennio quel più nutrito gruppo di scontenti per motivi politici costituito dagli anarchici e dai socialisti trasferitisi sull’altra sponda dell’Atlantico tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, attratti da una nuova accezione del mito americano[109].

 

[1]           William ed Edmund Burke cit. in Piero Del Negro, Il mito americano nella Venezia del ‘700, Padova, Liviana, 1986, p. 45.

 

[2]           Giorgio Spini, Prefazione, in Italia e America dal Settecento all’età dell’imperialismo, a cura di Giorgio Spini et al., Venezia, Marsilio, 1976, pp. 12-13.

 

[3]           Charles R. D. Miller, Alfieri and America, “Philological Quarterly”, 11, 1 (1932), pp. 163-66; Piero Bairati, Alfieri e la rivoluzione americana, in Italia e America, cit., pp. 67-83.

 

[4]           Longano cit. in Franco Venturi, Francesco Longano. Nota introduttiva, in Illuministi italiani, V, Riformatori napoletani, a cura di Id., Milano, Ricciardi, 1962, p. 337; Filangeri cit. in Franco Venturi, Settecento riformatore, IV, La caduta dell’Antico Regime (1776-1789), tomo 1, I grandi stati dell’Occidente, Torino, Einaudi, 1984, p. 26. Per il quadro generale del periodo, cfr. anche Anna Maria Martellone, Introduzione. L’età della Rivoluzione Americana, in Italia e America, cit., pp. 27-37 e Carlo Mangio, Illuministi italiani e Rivoluzione americana, ivi, pp. 39-65.

 

[5]           Becattini, cit. in Carlo Morandi, Giuseppe Compagnoni e la “Storia dell’America”, “Annali della R. Scuola Normale Superiore di Pisa”, 8, 3 (1939), p. 253.

 

[6]           Joseph Rossi, Il mito americano nel pensiero politico del Risorgimento, in Italia e Stati Uniti nell’età del Risorgimento e della guerra civile, Firenze, La Nuova Italia, 1969, p. 241.

 

[7]           Regina Soria, Artisti nell’emigrazione, in Storia dell’emigrazione italiana, II, Arrivi, a cura di Piero Bevilacqua, Andreina De Clementi e Emilio Franzina, Roma, Donzelli, 2001,pp. 710-711.

 

[8]           Antonio Pace, Benjamin Franklin and Italy, Philadelphia, American Philosophical Society, 1958, p. 169.

 

[9]           Angeloni cit. in James H. Billington, Fire in the Minds of Men. Origins of the Revolutionary Faith, New Brunswick, NJ, Transaction Publishers, 2007,p. 567.

 

[10]          Compagnoni cit. in C. Morandi, Giuseppe Compagnoni, cit., p. 260.

 

[11]          Giuseppe Compagnoni, Federalismo, “Il Monitore Italiano”, 3 fruttidoro VI (20 agosto 1798), ora in Giornali giacobini italiani, a cura di Renzo De Felice, Milano, Feltrinelli, 1962, p. 488; Giuliano Procacci, Rivoluzione americana e storiografia italiana, in Atti del XXXII Congresso di Storia del Risorgimento Italiano, Roma, Vittoriano, 1954, p. 399.

 

[12]          Botta cit. in Carlo Tivaroni, L’Italia durante il dominio austriaco (1815-1849). L’Italia meridionale, Torino, Roux, 1894, p. 527. Per il cambiamento degli orientamenti politici di Botta, cfr. Il giacobino pentito. Carlo Botta fra Napoleone e Washington, a cura di Luciano Canfora e Ugo Cardinale, Roma-Bari, Laterza, 2010.

 

[13]          Gaspare Deabbate alla segreteria di Stato, 5 novembre 1820, cit. in Marco Mariano, Da Genova a New York? Il Regno di Sardegna e gli Stati Uniti tra Restaurazione e integrazione nel mondo atlantico, “Annali della Fondazione Luigi Einaudi”, 42 (2008), p. 29.

 

[14]          Giovanni Pizzorusso e Matteo Sanfilippo, Viaggiatori ed emigranti. Gli italiani in Nord America, Viterbo, Sette Città, 2004, pp.37-39.

 

[15]          Donna R. Gabaccia, Italy’s Many Diasporas, London, UCL Press, 2000, pp. 43-44.

 

[16]          U.S. Bureau of the Census, Historical Statistics of the United States, Colonial Times to 1957, Washington, DC, U. S. Government Printing Office, 1960, p. 57.

 

[17]          Patrizia Audenino e Antonio Bechelloni, L’esilio politico fra Otto e Novecento, in Storia d’Italia. Annali 24, Migrazioni, a cura di Paola Corti e Matteo Sanfilippo, Torino, Einaudi, 2009, p. 345.

 

[18]          Eleuterio Felice Foresti a Giovan Battista Cuneo, New York, 25 luglio 1851, ora in Salvatore Candido, L’azione mazziniana nel Nuovo Mondo, “Il Veltro”, 17, 4-6 (1973), p. 171.

 

[19]          Thomas Appleton a Thomas Jefferson, Livorno, 27 settembre 1816, cit. in Giuseppe Massara, Viaggiatori italiani in America (1860-1970), Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1976, p. 16.

 

[20]          Emilio Franzina, Gli italiani al Nuovo Mondo. L’emigrazione italiana in America, 1492-1942, Milano, Mondadori, 1994, p. 90.

 

[21]          Fabio Zucca, Agostino Codazzi. Cartografo, geografo ed esploratore (1793-1859), Firenze, La Nuova Italia, 1989; Vincenzo Fannini, Ferrari, Costante, in Dizionario biografico degli italiani, XLVI, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1996, pp. 534-536.

 

[22]          Zeffiro Ciuffoletti, L’esilio nel Risorgimento, in L’esilio nella storia del movimento operaio e l’emigrazione economica, a cura di Maurizio Degl’Innocenti, Manduria, Lacaita, 1992, p. 56.

 

[23]          Salvo Mastellone, La Costituzione degli Stati Uniti d’America e gli uomini del Risorgimento (1820-1860), in Italia e Stati Uniti nell’età del Risorgimento, cit., pp. 266-269.

 

[24]          Romain Rainero, Beltrami, Giacomo Costantino, in Dizionario biografico degli italiani, VIII, Roma, Istituto della Enciclopedia Treccani, 1966, p. 68; Andrew F. Rolle, The Immigrant Upraised. Italian Adventurers and Colonists in an Expanding America, Norman, University of Oklahoma Press, 1968,p. 60.

 

[25]          Oreste De Attellis, I miei casi di Roma sotto il triumvirato Mazzini, Armellini, Saffi. Preceduti da una sinopsi biografica di tutta la mia vita militare e politica da ottobre 1774 a oggi, 1849, pp. 19-20, manoscritto V A 47/3, Biblioteca Nazionale, Napoli.Su De Attellis, cfr. Luciano G. Rusich, Un carbonaro molisano nei due mondi, Napoli, Glaux, 1982; Cinzia Cassani, De Attellis, Orazio, in Dizionario biografico degli italiani, XXXIII, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana,1987, pp.329-332.

 

[26]          Giuseppe Castelli, Figure del Risorgimento lombardo: Luigi Tinelli (Da Mazzini a Carlo Alberto), Milano, Ceschina, 1949, pp. 80-81. Oltre a questo studio, sui trascorsi mazziniani di Tinelli, cfr. anche Franco Della Peruta, Luigi Tinelli e la Giovine Italia: 1831-1833, in I Tinelli. Storia di una famiglia (Secoli XVI-XX), a cura di Marina Cavallera, Milano, Angeli, 2003, pp. 49-66.

 

[27]          Joanne Pellegrino, An Effective School of Patriotism, in Studies in Italian American Social History. Essays in Honor of Leonard Covello, a cura di Francesco Cordasco, Totowa, NJ, Rowman and Littlefield, 1975, pp. 88-93.

 

[28]          G. Spini, Prefazione, cit., p. 19.

 

[29]          Romualdo Bonfadini, Vita di Francesco Arese. Con documenti inediti, Torino, Roux, 1894, pp. 28-48.

 

[30]          Pietro Orsi, Antonio Gallenga(con documenti inediti), “Nuova Antologia”, 67, 1439 (1932), pp. 31-34.

 

[31]          Luigi Lerro, Avezzana, Giuseppe, in Dizionario biografico degli italiani, IV, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1962, pp. 675-76; Yael Razzoli, Avezzana Giuseppe, in Fondazione Casa America, I primi italiani in America del Nord. Dizionario biografico dei liguri, piemontesi e altri. Storie e presenze italiane tra Settecento e Ottocento, a cura di Chiara Vangelista, Reggio Emilia, Diabasis, 2009, pp. 65-67.

 

[32]          S. Eugene Scalia, Figures of the Risorgimento in America. Ignazio Batolo, Alias Pietro Bachi and Pietro D’Alessandro, “Italica”, 42, 4 (1965), pp. 311-324.

 

[33]          Francesco Caravatti, Un martire viggiutese dello Spielberg. Felice Argenti nel centenario del suo processo, Varese, La Tipografica, 1932; Mario Barsali, Argenti, Felice, in Dizionario biografico degli italiani, IV, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1962, pp. 117-19.

 

[34]          Nidia Danelon Vasoli, Cipriani, Leonetto, in Dizionario biografico degli italiani, XXV, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1981, pp. 755-756; Leonetto Cipriani, Avventure della mia vita, a cura di Leonardo Mordini, Bologna, Zanichelli, 1934, II, p. 20.

 

[35]          Maurizio Isabella, Risorgimento in esilio. L’internazionale e l’età delle rivoluzioni, Roma-Bari, Laterza, 2009.

 

[36]          Emilio Franzina e Matteo Sanfilippo, Garibaldi, i Garibaldi, i garibaldini e l’emigrazione, “Archivio Storico dell’Emigrazione Italiana”, 4 (2008), pp. 26-27, 30.

 

[37]          Enrico Liburdi, Le “memorie autobiografiche” di Pasquale Papiri e i suoi viaggi in America, in Atti del XXXII Congresso di Storia del Risorgimento Italiano, cit., p. 221.

 

[38]          Tullio De Suzzara Verdi, Vita americana, Milano, Hoepli, 1894, p. 2.

 

[39]          J. Rossi, Il mito americano, cit., p. 243.

 

[40]          E. Felix Foresti, Political and Personal Reminescences, “New York Times”, 7 luglio 1854, p. 2. Un’esperienza di particolare vicinanza agli esuli fu il caso della famiglia Sedgwick (cfr. Life and Letters of Catharine M. Sedgwick, a cura di Mary E. Dewey, New York, Harper & Brothers, 1871, pp. 223, 256-259, 262-263).

 

[41]          Federico Confalonieri a Camillo Casati, New York, 13 giugno 1837, ora in Carteggio del Conte Federico Confalonieri ed altri documenti spettanti alla sua biografia, a cura di Giuseppe Gallavresi, II, 2, Milano, Ripalta, 1913,p. 713.

 

[42]          Ricordi di Felice Foresti, in Atto Vannucci, I martiri della libertà italiana. Dal 1794 al 1848, Milano, Bortolotti, 1878, p. 365.

 

[43]          Gli americani e la Repubblica romana del 1849, a cura di Sara Antonelli, Daniele Fiorentino e Giuseppe Monsagrati, Roma, Gangemi, 2000; Margaret Fuller, “These Sad but Glorious Days”. Dispatches from Rome, 1846-1850, a cura di Larry J. Reynolds e Susan Belasco Smith, New Haven, Yale University Press, 1991; Francesca Bisutti, The Sad Nymph of Margaret Fuller. A Description for a Besieged City, “Rivista di Studi Anglo-Americani”, 3, 4-5 (1984-1985), pp. 557-564; Paola Gemme, Domesticating Foreign Struggles. The Italian Risorgimento and Antebellum American Identity, Athens, Georgia University Press, 2005, pp. 89-106; Peter R. D’Agostino, Rome in America. Transnational Catholic Ideology from the Risorgimento to Fascism, Chapel Hill, NC, University of North Carolina Press, 2004, pp. 26-31.

 

[44]          Merle Curti, Young America, “American Historical Review”, 32, 1 (1926), pp. 34-55; P. Gemme, Domesticating Foreign Struggles, cit., pp. 72-82; Yonatan Eyal, The Young America Movement and the Transformation of the Democratic Party, 1828-1861, New York, Cambridge University Press, 2007, pp. 93-115.

 

[45]          Charles Capper, Margaret Fuller. An American Romantic Life. The Public Years,New York, Oxford University Press, 2007, pp. 258-259.

 

[46]          Howard R Marraro, American Opinion on the Unification of Italy, 1846-1861, New York, Columbia University Press, 1932, pp. 36-37; Giorgio Spini, Le relazioni politiche fra l’Italia e gli Stati Uniti durante il Risorgimento e la guerra civile, in Italia e Stati Uniti nell’età del Risorgimento, cit., pp. 144-45.

 

[47]          Daniele Fiorentino, Il governo degli Stati Uniti e la Repubblica romana del 1849, in Gli americani e la Repubblica romana del 1849, cit., pp. 91-92, 108-10, 118-19, 130; Giuseppe Mazzini a E. Felice Foresti, Losanna, 10 novembre 1849, ora in Scritti editi ed inediti di Giuseppe Mazzini, vol. XLII, Imola, Galeati, 1925, p. 17.

 

[48]          Nathaniel Niles a John M. Clayton, Torino, 10 agosto 1849, ora in L’unificazione italiana vista dai diplomatici statunitensi, a cura di Howard R. Marraro, Roma, Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, 1964, II, p. 126; Lewis Cass, Jr. a John M. Clayton, Roma, 20 settembre 1849, ora in United States Ministers to Papal States. Instructions and Despatches, 1848-1868, a cura di Leo Francis Stock, Washington, DC, Catholic University Press, 1933, p. 59.

 

[49]          H. R. Marraro, American Opinion on the Unification of Italy, cit., p. 174.

 

[50]          Luigi Antonio Pagano, Sicilia e Stati Uniti d’America nel Risorgimento, in Atti del XXXII Congresso di Storia del Risorgimento Italiano, cit., pp. 318-19.

 

[51]          Giovanni Francesco Secchi de’ Casali, Trent’otto anni d’America – XXXI, “L’Eco d’Italia”, 13-14 maggio 1883, p. 1; H.R. Marraro, American Opinion on the Unification of Italy, cit., pp. 175-77; H. Nelson Gay, Scritti sul Risorgimento, Roma, La Rassegna Italiana, 1937, p. 186.

 

[52]          Kinney cit. in Howard R. Marraro, Relazioni fra l’Italia e gli Stati Uniti, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1954, p. 68.

 

[53]          H.R. Marraro, American Opinion on the Unification of Italy, cit., pp. 180-181.

 

[54]          Marta Petrusewicz, Come il Meridione divenne una Questione. Rappresentazioni del Sud prima e dopo il Quarantotto¸Soveria Mannelli, Rubbettino, 1998, pp. 113-114.

 

[55]          H.R. Marraro, American Opinion on the Unification of Italy, cit., pp. 181-84 (p. 184 per la citazione).

 

[56]          Luigi Settembrini, Ricordanze della mia vita, Roma, Gremese, s.d., pp. 45, 381, 424.

 

[57]          Francesco Crispi, I Mille, Milano, Treves, 1912, p. 44.

 

[58]          S. Mastellone, La Costituzione degli Stati Uniti d’America e gli uomini del Risorgimento, cit., p.290.

 

[59]          A. Vannucci, I martiri della libertà, cit., p. 36.

 

[60]          Pedrinelli cit. in M. Petrusewicz, Come il Meridione divenne una Questione, cit., p. 121.

 

[61]          F. Confalonieri a C. Casati, cit.,pp. 713, 715-16.

 

[62]          Luigi Ambrosoli, Confalonieri, Federico, in Dizionario biografico degli italiani, XXVII, Roma, Istituto della Enciclopedia Treccani, 1982, p. 776.

 

[63]          J. Pellegrino, An Effective School of Patriotism, p. 96; E. Franzina e M. Sanfilippo, Garibaldi, cit., p. 27.

 

[64]          Garibaldi cit. in Jasper Ridley, Garibaldi, Milano, Mondadori, 1975,p. 421.

 

[65]          Luigi Tinelli a Carlo Tinelli, New York, 22 ottobre 1836, ora in Giancarlo Peregalli, L’emigrazione politica forzata: Luigi Tinelli attraverso una sua lettera, in Emigrazione e territorio. Tra bisogno e ideale, a cura di Carlo Brusa e Robertino Ghiringhelli,Varese, Lativa, 1995, I, p. 312. L’avvocato Alessandro Bargnani, nativo di Iseo nel bresciano, era un altro dei reduci dello Spielberg, dove scontava una condanna a vent’anni, poi commutati in dieci, per la sua affiliazione alla Carboneria. Cfr. Massimo Petrocchi, Un progetto di Stati Uniti d’Italia, “Rassegna Storica del Risorgimento”, 24, 1 (1947), p. 74.

 

[66]          Luigi Tinelli a Carlo Tinelli, New York, 2 febbraio 1872, cit. in Marco Sioli, Se non c’è il conquibus si muore come cani: Luigi Tinelli a New York (1851-1873), in Gli Stati Uniti e l’Unità d’Italia, a cura di Daniele Fiorentino e Matteo Sanfilippo, Roma, Gangemi, 2004, p. 149.

 

[67]          O. De Attellis, I miei casi di Roma, cit., p. 20; Pietro Borsieri a Costanza Arconati, Filadelfia, 31 maggio 1838, ora in Renzo U. Montini, Vita americana di Pietro Borsieri, in Atti del XXXII Congresso di Storia del Risorgimento Italiano, cit., pp. 298-306.

 

[68]          Lucy Riall, Garibaldi. Invention of a Hero, New Haven, CT, Yale University Press, 2007, pp. 109-110; Carpaneto cit. in Phillip Kenneth Cowie, Garibaldi in Nicaragua e nel Regno di Mosquito nell’agosto-settembre 1851, “Rassegna Storica del Risorgimento”, 71, 1 (1984),pp. 15-16.

 

[69]          Laura Guidi, Donne e uomini del Sud sulle vie dell’esilio, 1848-60, in Storia d’Italia, Annali 22, Il Risorgimento, a cura di Alberto Mario Banti e Paul Ginsborg, Torino, Einaudi, 2007, pp. 229-230.

 

[70]          Arese cit. in R. Bonfadini, Vita di Francesco Arese, cit., p. 29.

 

[71]          P. Borsieri a C. Arconati, cit., p. 304; Luisa Cetti, Piero Maroncelli. Lettere dall’America, 1834-1844, “Il Risorgimento”, 45, 3 (1993), p. 387.

 

[72]          Marco Sioli, Nella terra della libertà: Luigi Tinelli in America, in I Tinelli, cit., pp. 67-91.

 

[73]          Pietro Borsieri, Avventure letterarie di un giorno e altri scritti editi ed inediti, a cura di Giorgio Alessandrini, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1967, p. 267.

 

[74]          Joseph Guerin Fucilla, The Teaching of Italian in the United States. A Documentary History, New York, Arno Press, 1975, pp.30, 33, 41, 87-95, 106-7, 218.

 

[75]          O. De Attellis, I miei casi di Roma, cit., p. 38.

 

[76]          Joseph Rossi, The Image of America in Mazzini’s Writing, Madison, University of Wisconsin Press, 1954,pp. 19-21, 29-30; Salvatore Candido, L’azione mazziniana delle Americhe e la congrega di New York della Giovine Italia (1842-1852) attraverso lettere inedite di E.F. Foresti e G. Albinola a G. Garibaldi e G.B. Cuneo, “Bollettino della Domus mazziniana”, 18, 2 (1972), pp. 123-175; Id., Esuli italiani negli Stati Uniti d’America fra guerre e rivoluzioni (1820-1861). La Congrega della “Giovine Italia” in New York, in Italia e Stati Uniti dall’indipendenza americana ad oggi (1776/1976). Atti del I Congresso Internazionale di Storia Americana, Genova, Tilgher, 1978,spec. pp. 285-288; Id., La “Giovine Italia” nella diaspora americana, “Garibaldi”, 20 (2005), pp. 44-47.

 

[77]          H.R. Marraro, Relazioni fra l’Italia e gli Stati Uniti, cit., p. 127; J.G. Fucilla, The Teaching of Italian in the United States, cit., p. 115.

 

[78]          J. Rossi, The Image of America in Mazzini’s Writing, cit.,pp. 24-25.

 

[79]          Bénédicte Deschamps, Dal fiele al miele. La stampa esule italiana di New York e il Regno di Sardegna (1849-1861), “Annali della Fondazione Luigi Einaudi”, 42 (2008), p. 83; Anders Stephanson, Destino manifesto. L’espansionismo americano e l’Impero del Bene, Milano, Feltrinelli, 2004, pp. 60-61.

 

[80]          Giovanni Francesco Secchi de’ Casali, Trent’otto anni d’America – XXVII, “L’Eco d’Italia”, 15-16 aprile 1883, p. 1; B. Deschamps, Dal fiele al miele, cit., pp. 84-85.

 

[81]          E. Felice Foresti a Giuseppe Mazzini, New York, 21 ottobre 1850, ora in Francesco Durante, Italoamericana. Storia e letteratura degli italiani negli Stati Uniti, 1776-1880, Milano, Mondadori, 2001, pp. 382-383 (p. 382 per la citazione).

 

[82]          B. Deschamps, Dal fiele al miele, cit., spec. pp. 92-96.

 

[83]          E. Felice Foresti a Giuseppe Mazzini, New York, 23 luglio 1850, ora in F. Durante, Italoamericana, cit., p. 379.

 

[84]          H. R. Marraro, Relazioni fra l’Italia e gli Stati Uniti, cit., p. 143; F. Durante, Italoamericana, cit., p. 229; B. Deschamps, Dal fiele al miele, cit., pp. 88-91.

 

[85]          H. R. Marraro, American Opinion on the Unification of Italy, cit., pp. 215-18.

 

[86]          Francesca Loverci, Italiani in California negli anni del Risorgimento, “Clio”, 15, 4 (1979), pp. 536-540; F. Durante, Italoamericana, cit., p. 231; Deanna Paoli Gumina, The Italians of San Francisco, 1850-1930, Staten Island, NY, Center for Migration Sudies, 1978,pp. 3-4; Dino Cinel, From Italy to San Francisco. The Immigrant Experience, Stanford, CA, Stanford University Press, 1982, pp. 211. Su Mangini, cfr. anche Yael Razzoli, Mangini Angelo, in Fondazione Casa America, I primi italiani in America del Nord, cit., pp. 126-128.

 

[87]          H. R. Marraro, American Opinion on the Unification of Italy, cit., p. 287; J. Pellegrino, An Effective School of Patriotism, cit., p. 99; Jerre Mangione e Ben Morreale. La Storia. Five Centuries of the Italian American Experience. New York, HarperCollins, 1992, p. 26; Matteo Sanfilippo, L’emigrazione italiana nelle Americhe in età preunitaria, 1815-1860, “Annali della Fondazione Luigi Einaudi”, 42 (2008), pp. 77-78.

 

[88]          F. Loverci, Italiani in California, cit., p.537.

 

[89]          F. Durante, Italoamericana, cit., pp. 229-30.

 

[90]          F. Loverci, Italiani in California, cit., p.534.

 

[91]          Richard N. Juliani, Building Little Italy. Philadelphia’s Italians Before Mass Migration, University Park, PA, Pennsylvania State University Press, 1998, p. 171.

 

[92]          J. Pellegrino, An Effective School of Patriotism, cit., p. 99,

 

[93]          Giovanni Battista Michelini, Un italiano in America, “Rivista Contemporanea”, 18, 7 (1859), p. 173.

 

[94]          Maria Teresa Zagrebelsky Prat, Botta, Vincenzo, in Dizionario biografico degli italiani, XIII, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1971, p. 379; Yael Razzoli, Botta Vincenzo, in Fondazione Casa America, I primi italiani in America del Nord, cit., pp. 78-79.

 

[95]          Luigi Santini, Alessandro Gavazzi e l’emigrazione politico-religiosa in Inghilterra e negli Stati Uniti nel decennio 1849-1859, in Atti del XXXII Congresso di Storia del Risorgimento Italiano, cit., pp. 417-24; Matteo Sanfilippo, Tra antipapismo e cattolicesimo: gli echi della Repubblica romana e i viaggi in Nord America di Gaetano Bedini e Alessandro Gavazzi (1853-1854), in Gli americani e la repubblica romana, cit., pp. 159-187.

 

[96]          Giovanni Francesco Secchi de’ Casali, Trent’otto anni d’America – XX, “L’Eco d’Italia”, 25-26 febbraio 1883, p. 1.

 

[97]          L. Lerro, Avezzana, cit., p. 676; Agostino Bistarelli, Gli esuli del Risorgimento, Bologna, il Mulino, 2011, pp. 326-327.

 

[98]          N. Danelon Vasoli, Cipriani, cit., pp. 756-757.

 

[99]          H.N. Gay, Scritti sul Risorgimento, cit., pp. 230-31, 241. Cfr. anche L. Riall, Garibaldi, cit., p. 317.

 

[100]         G. Spini, Le relazioni politiche fra l’Italia e gli Stati Uniti, cit.,p. 176.

 

[101]         T.B. Lawrence a John Albion Andrew, Firenze, 30 gennaio 1865, cit. in Howard R. Marraro, Volunteers from Italy for Lincoln’s Army, “South Atlantic Quarterly”, 44, 4 (1945), pp. 393-394.

 

[102]         Frank W. Alduino e David J. Coles, Sons of Garibaldi in Blue & Gray. Italians in the American Civil War, Yongstown, NY, Cambria Press, 2007, pp.234-35.

 

[103]         H.R. Marraro, Volunteers from Italy for Lincoln’s Army, cit., pp. 395-396. Cfr. anche Id., Lincoln’s Italian Volunteers from New York, “New York History”, 24, 1 (1943), pp. 56-67.

 

[104]         Raimondo Luraghi, Introduzione. Dalla formazione degli Stati Uniti all’età della Ricostruzione, in Italia e America, cit., p. 163; Yael Razzoli, Martini Giovanni, in Fondazione Casa America, I primi italiani in America del Nord, cit., pp. 129-130. L’effettiva presenza di Martini allo scontro di Mentana è stata messa in dubbio da Emilio Franzina, Italiani “yankee”, i garibaldini di Custer, “Corriere della Sera”, 22 aprile 2003, p. 31. Alla possibile renitenza alla leva quale causa dell’espatrio di Martini e alla sua millantata partecipazione alla battaglia di Custoza per ottenere l’arruolamento negli Stati Uniti allude, invece, il profilo divulgativo tracciato da Angelo Mastrandrea, Il trombettiere di Custer e altre storie bizzarre di migranti italiani, Roma, Ediesse, 2010, pp. 13-27, spec. pp. 17, 19. Alla conoscenza della vicenda risorgimentale di Martini e delle sue ragioni per l’abbandono dell’Italia non aggiunge elementi rilevanti, anche a causa delle sviste che lo costellano, il recente volume di Leo Solimine, Custer’s Bugler. The Life of John Martin (Giovanni Martino), Boca Raton FL, Universal Publishers, 2012, pp. 35-40.

 

[105]           Francesca Loverci, Giuseppe Garibaldi e la comunità italiana in California, in Garibaldi generale della libertà. Atti del convegno internazionale (Roma 29-31 maggio 1982), a cura di Aldo Alessandro Mola, Roma, Ufficio Storico SME, 1984, pp. 650-651. Per la reazione della comunità di San Francisco a Mentana, cfr. anche Ead., Un pioniere del giornalismo italiano in California: Carlo Andrea Dondero, in Miscellanea in onore di Ruggero Moscati, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1985, pp. 453-455.

 

[106]           Gigliola Sacerdoti Mariani, Garibaldi negli Stati Uniti: tra cronaca e mito, in Garibaldi: visione nazionale e prospettiva internazionale, a cura di Pier Fernando Giorgetti, Pisa, Edizioni ETS, 2008, pp. 429-433.

 

[107]         L. Cipriani, Avventure della mia vita, cit., II, p.177. Per i problemi politici di Cipriani, cfr. N. Danelon Vasoli, Cipriani, cit., p. 758; Umberto Marcelli, Dal commissariato di Massimo D’Azeglio al governatorato di Leonetto Cipriani, in Il 1859-’60 a Bologna, a cura di Gabriele Malaguti, Bologna, Calderini, 1961,p. 197.

 

[108]         Franco Rebagliati, con Furio Ciciliot, Garibaldi Guard, Garibaldi Legion. Volontari italiani nella guerra civile americana, Savona, Sabatelli, 2008, pp. 83-85. Sulle condizioni complessive degli ex soldati borbonici dopo l’annessione del Regno delle Due Sicilie, cfr. Gigi Di Fiore, I vinti del Risorgimento. Storia e storie di chi combatté per i Borbone di Napoli, Torino, Utet, 2004, p. 232-262. Su Wheat, cfr. Charles L. Dufour, Gentle Tiger. The Gallant Life of Roberdeau Wheat, Baton Rouge, Louisiana State University Press, 1999.

 

[109]         Arnaldo Testi, L’immagine degli Stati Uniti nella stampa socialista italiana (1886-1914), in Italia e America, cit., pp. 313-347.