Christa Wirth, Memories of Belonging. Descendants of Italian Migrants to the United States, 1884-Present, Leiden-Boston, Brill, 2015, XIII-406 pp

Il mantenimento di un senso dell’identità etnica basato sull’ascendenza nazionale da parte dei discendenti degli immigrati europei negli Stati Uniti, a fronte della polarizzazione della società americana sulla base di linee di appartenenza razziale e dell’assimilazione delle nuove generazioni, è una questione che da tempo appassiona storici e sociologi (David A. Hollinger, Postethnic America. Beyond Multiculturalism, New York, Basic Books, 1995; Matthew Freye Jacobson, Roots Too. White Ethnic Revival in Post-Civil Rights America, Cambridge, MA, Harvard University Press, 2006). In particolare, nel caso degli italo-americani, la tesi di Richard Alba riguardo alla loro confluenza nel gruppo più vasto degli americani di origine europea a partire dal secondo dopoguerra (Italian Americans. Into the Twilight of Ethnicity, Englewood Cliffs, Prentice Hall, 1985), se ha trovato una parziale conferma nella crescente letteratura sul progressivo whitening dei discendenti degli immigrati provenienti dalle aree del Mediterraneo, è stata anche oggetto di critiche e contestazioni tra chi, come Rudolph J. Vecoli (Are Italian Americans Just White Folks?, “Italian Americana”, 13, 2 (1995), pp. 149-161), ha respinto l’ipotesi che gli epigoni di coloro che avevano dato vita ai flussi di massa dall’Italia a cavallo dell’inizio del Novecento siano solo white folks.
La monografia di Christa Wirth offre un significativo contributo a questo dibattito attraverso un dettagliatissimo caso studio della progenie di Giovanni ed Elvira Soloperto, una coppia di immigrati pugliesi, originari di Sava, in provincia di Taranto, che si stabilirono a Worcester, in Massachusetts, nel 1913. Fino dalla generazione successiva, la loro famiglia si divise in due rami principali a causa del trasferimento di una delle figlie, Beatrice, dopo il matrimonio con un altro italo-americano. Il primo ramo è rimasto a vivere a Worcester, all’interno della locale Little Italy, dove ancora oggi risiede una parte dei discendenti dei Soloperto. Il secondo, invece, si è spostato in un primo momento in un altro centro del Massachusetts, Chelsea, e poi in diverse località del New Hampshire, vivendo al di fuori di luoghi caratterizzabili come quartieri etnici e producendo con la terza generazione ulteriori ramificazioni della famiglia nell’Illinois, nel Colorado e perfino in Svizzera. Inoltre, mentre gli appartenenti al primo ramo hanno conservato una condizione collocabile tra il ceto operaio e la classe media bassa, come può connotarsi l’esercizio di piccole attività commerciali di rivendita al dettaglio, fino all’odierna quinta generazione, la seconda linea della famiglia si è subito collocata stabilmente nella classe media, grazie al conseguimento di un lavoro impiegatizio presso l’amministrazione statale del Massachusetts da parte di Beatrice già all’inizio degli anni Trenta, nonostante la depressione economica che si era abbattuta sugli Stati Uniti. Infine, se il ramo del New Hampshire ha vissuto il proprio sogno americano in termini di mobilità sociale, quello di Worcester ha perseguito ideali di solidità della famiglia, senso del rispetto e stabilità del lavoro.
Wirth non è particolarmente interessata a tracciare gli spostamenti dei Soloperto e il loro profilo occupazionale di per se stessi. La ricostruzione di entrambi risulta, però, essenziale nella sua ricerca perché il quadro socio-residenziale aiuta a precisare le differenti condizioni dei due diversi rami della famiglia e permette, quindi, di affinare uno studio comparativo, introducendo la variabile della classe sociale e affiancandola alla dimensione più convenzionale del radicamento o meno dei discendenti degli immigrati nella comunità etnica.
Gli scopi dell’autrice sono analizzare le dinamiche del trasferimento dei ricordi dell’esperienza migratoria e della vita quotidiana da una generazione all’altra nonché esaminare come questi meccanismi rivelino elementi fondamentali per gettare luce sull’identità e sul senso dell’appartenenza degli italo-americani in un arco temporale di circa un secolo. Tali obiettivi sono pienamente centrati, grazie a un intreccio accorto e intelligente di storia orale (Wirth ha condotto personalmente trentadue interviste con svariati membri della progenie di Giovanni ed Elvira Soloperto tra gli Stati Uniti, la Svizzera e l’Italia) e di documentazione archivistica, rinvenuta sia tra le carte familiari private degli informatori sia in fondi pubblici statunitensi e pugliesi.
Il volume dimostra che entrambi i rami principali dei Soloperto hanno conservato la propria identità etnica, ancorché declinandone i contenuti e la valenza in maniera diversa in ragione del differente ceto della maggioranza dei componenti di ciascuna linea di discendenza. Per coloro che sono rimasti a Worcester, un fattore significativo è stato la permanenza in un quartiere etnico. Invece, per la diramazione del New Hampshire, la sopravvivenza di un senso di italianità è stata soprattutto la risposta alle pressioni verso l’americanizzazione che i suoi membri hanno subito come una sorta di effetto collaterale all’ingresso nella classe media. Inoltre, il fatto che nessuno dei due rami della famiglia abbia beneficiato di politiche pubbliche come il Servicemen’s Readjustment Act del secondo dopoguerra, che la storiografia colloca generalmente tra i “privilegi” della componente “bianca” della società statunitense, è servito a frenare la maturazione di un senso dell’appartenenza in termini di razza.
I risultati del caso studio sul mantenimento delle radici italiane tra i Soloperto inducono Wirth a concludere che gli italo-americani non si prestano a costituire il modello esemplificativo della relativa facilità di assimilazione dei discendenti degli immigrati giunti dall’Europa orientale e meridionale intorno all’inizio del Novecento in virtù della loro appartenenza alla “razza bianca”. L’ethnic revival degli italo-americani, pertanto, non deriverebbe solo dalla loro reazione alle rivendicazioni degli afro-americani negli anni Sessanta, ma attingerebbe anche a ricordi della propria esclusione e discriminazione nella società di adozione, mentre il divario tra le generazioni sarebbe in parte compensato dalle comuni tradizioni gastronomiche. Inoltre, il ridimensionamento del paradigma dell’accoglienza degli Stati Uniti – insito nel modello dell’assimilazione anche nella sua più recente riformulazione come “assimilazione segmentata”, che cerca di tenere conto delle forme di esclusione (Alejandro Portes e Rubén G. Rumbaut, Immigrant America, Berkeley, University of California Press, 2006) – è ulteriormente attestato dal definitivo ritorno in Italia di alcuni degli epigoni di Giovanni ed Elvira.
Se la tesi dell’autrice appare convincente a un livello di microanalisi per quanto riguarda le vicende specifiche dei Soloperto, resta la questione di quanto la loro esperienza sia rappresentativa della comunità italo-americana nel suo complesso, a fronte anche della constatazione che il motivo principale nella scelta di questa famiglia quale oggetto dell’indagine risiede nel fatto che la stessa Wirth è una dei discendenti della coppia degli immigrati pugliesi attraverso la loro diramazione svizzera. Inoltre, in una prospettiva transnazionale, sarebbe stato auspicabile un approfondimento di quanto l’immagine dell’Italia negli Stati Uniti abbia contribuito all’identificazione etnica nella seconda metà del Novecento. Nondimeno, oltre a fare luce su un tassello di storia italo-americana, Memories of Belonging è una monografia che si segnala anche per il suo rigore metodologico nell’uso delle fonti orali e della memoria nello studio dell’emigrazione e che, pertanto, resterà sicuramente come un modello di riferimento per la ricerca in questo campo negli anni a venire.