La diaspora diventi risorsa: il caso della provincia di Avellino

Nell’Italia a più velocità, nel Mezzogiorno differenziato, persiste un elemento che unisce tutti: l’emigrazione. Si può discutere e schierarsi pro o contro il revisionismo di Pino Aprile, scegliere di essere neoborbonici o filo sabaudi, padani o leghisti a vario titolo, ma indubbiamente, dalla Valle d’Aosta a Lampedusa, siamo stati e siamo il popolo migrante per eccellenza. Poi si può declinare il concetto in maniera diversa, eliminandone, in base al punto di vista il suffisso “emi” o “imi”, declinarlo in forme diverse – parlando di mobilità, fuga o diaspora – ma in fondo il concetto rimane lo stesso.

In questo quadro, la provincia di Avellino si riconferma inesorabilmente protagonista, insieme ad altre province dell’entroterra meridionale, con i suoi 100.916 iscritti all’Aire[1]. In aggiunta, in alcune aree dell’Irpinia, il processo di desertificazione demografica e sociale rischia di diventare irreversibile. D’altronde già nel 2008 il Rapporto elaborato da Confcommercio-Legambiente sul disagio insediativo prevedeva che, a partire dal 2016, molte aree interne, soprattutto quelle del Mezzogiorno del paese, corressero il rischio di diventare “paesi polvere”[2]. Purtroppo le previsioni di questa analisi, che si basa sul ventennio 1996-2016, vengono riconfermate annualmente anche dal Rapporto”Italiani nel mondo” della Fondazione Caritas-Migrantes[3].

Nella settima edizione del Rapporto, la fotografia che emerge di parte dell’Irpinia riconferma, se non aggrava, quanto già emerso nelle edizioni precedenti. L’Alta Irpinia e con essa quella che ormai è stata ribattezzata l’Irpinia d’Oriente[4], continua progressivamente a svuotarsi. I dati purtroppo ribadiscono come in queste aree il processo di desertificazione, legato al disagio insediativo, sociale e occupazionale, sia quasi irreversibile. Mentre altre aree della provincia – la fascia dei comuni intorno alla città capoluogo e il baianese – crescono a ritmi da boom economico, anche se le ragioni non sono queste, nel resto della provincia di Avellino, dal 2007 ad oggi, si perde un piccolo comune di 2000 abitanti l’anno. D’altronde nella classifica dei primi 100 comuni campani, analizzando sia la percentuale d’incidenza (rapporto tra residenti nei comuni e residenti all’estero) che quella in termini assoluti, l’Irpinia conquista questo amaro primato regionale. Nel primo caso tra le prime 100 posizioni troviamo ben 44 comuni della provincia, dei quali 26 hanno un tasso d’incidenza superiore al 50%, con picchi che vanno dal 142,6% di Cairano, al 118,5% di Conza della Campania, al 113,6% di Teora, fino ad arrivare al 100simo posto occupato dal 38,7% di Montemarano. Sull’altro versante, quello delle presenze in termini assoluti, continuano a prevalere i comuni dell’Alta Irpinia: Sant’Angelo dei Lombardi (3.373), Montella (3.250), Lioni (2.795) e Nusco (2.748), rispettivamente in quinta, sesta, dodicesima e quattordicesima posizione[5].

Il dato complessivo della sola presenza all’estero, oltre ad allarmare – anche se è una costante in crescita a partire dalla metà degli anni 1990, che, però, si aggrava durante l’arco dell’ultimo decennio – ci fornisce anche un’ulteriore chiave di lettura. Azzardando stime scientificamente accettabili possiamo affermare che la presenza reale degli irpini nel mondo si aggiri intorno al mezzo milione. Tale cifra si raggiunge sommando agli oltre 100.000 attuali, perlopiù sparsi in Europa, tutti gli oriundi (seconda, terza e quarta generazione), in questo caso, prevalentemente presenti nelle Americhe e in Oceania.

 

1. Emigrazione. Peculiarità territoriale

Il periodo in cui per la prima volta si registrano dati di una certa rilevanza numerica è ascrivibile a dopo il 1880, con scarse 1.000 partenze, le quali crescono in media sulle 3-4.000 unità all’anno fino a ridosso del 1900. In questo primo ventennio i flussi sono diretti, prevalentemente, verso il Messico e il Sud America, in particolare Brasile e Argentina. Nell’arco del quindicennio 1900-1915, si ha invece una netta prevalenza degli espatri verso gli Stati Uniti, con una media annua oscillante tra le 12.000 e le 18.000 partenze l’anno, toccando il picco di oltre 20.000 partenze nel 1902. In definitiva, nel periodo tra il 1880 e il 1915, la provincia di Avellino ha subito oltre 280.000 partenze, equamente suddivise tra i tre circondari di Ariano Irpino, Sant’Angelo dei Lombardi ed Avellino, con rispettivamente un tasso di espatrio del 22%, del 30% e del 40%[6]. La fase tra le due guerre mondiali, oltre ad essere caratterizzata dal blocco e dalla legislazione fascista in materia di emigrazione, non offre dati in merito, solo stime. Stando a quest’ultime, si ipotizza che non più di 25.000 irpini modificano la propria residenza[7]. A partire dal secondo dopoguerra, le partenze riprendono con vigore, attestando la provincia di Avellino quale prima provincia campana in termini d’incidenza sulle partenze.

 

2. Lo spopolamento dell’entroterra meridionale

Nel 1950, mentre si chiude per il Mezzogiorno l’epoca segnata dal dominio dei grandi proprietari terrieri a livello economico, sociale e politico, si apre una nuova fase definita da nuovi equilibri sociali e politici basati sulla voglia di una diffusa proprietà coltivatrice[8]. I limiti di tale impostazione affiorano nel 1957, quando l’avvio del Mercato comune europeo provoca un esodo di enormi proporzioni dalle campagne del Sud, che rimangono ben lontane dagli standard del Centro-Nord.

Un primo indicatore del divario di sviluppo tra le regioni meridionali e quelle centro-settentrionali lo possiamo riscontrare nel principale indicatore economico, il PIL per abitante, il quale offre un’immagine della persistenza e dell’immutabilità del sottosviluppo meridionale. Nel 1951 il PIL del Sud corrisponde al 54% di quello del Centro-Nord[9]. Inoltre alcuni dati complessivi confermano come agli inizi di quel decennio il divario tra Nord e Sud sia tutt’altro che attenuato. Nonostante l’intervento straordinario dello Stato – Cassa per il Mezzogiorno, Ente di riforma agraria e Legge sulle aree industriali (1957), la quale puntava nella prima fase alla realizzazione delle infrastrutture e delle opere pubbliche e nella seconda all’industrializzazione del Meridione – il divario resta assai forte. Analizzando indicatori quali il consumo di carne e di energia elettrica, il possesso di apparecchiature radiofoniche, la condizione della povertà, la spaccatura tra il Sud e il Centro-Nord è ancora considerevole. Inoltre al Sud è notevolmente marcato l’analfabetismo, in una percentuale cinque volte superiore a quella del Centro-Nord. In una simile cornice si intuisce come un numero molto alto di giovani continui a scoprire il mondo del lavoro prima dei 14 anni, malgrado la Costituzione repubblicana preveda l’istruzione obbligatoria sino a tale età[10].

Restando ancora sulla questione meridionale, possiamo individuare il problema dell’agricoltura del Mezzogiorno nella sua sovraoccupazione. Con questo non ci riferiamo tanto al peso percentuale degli addetti in agricoltura sul totale dell’occupazione, sebbene tale dato faccia certamente parte del quadro, bensì, ad un eccesso di occupazione tecnicamente necessaria al comparto stesso che genera, insieme alla politica dei “coltivatori diretti”, una produzione tecnicamente inefficiente[11]. Dunque l’emigrazione era funzionale all’alleggerimento del settore agricolo dal peso dell’eccessivo numero di braccia e avrebbe portato all’aumento di produttività[12]. Nel fare un bilancio del fenomeno migratorio, Rossi-Doria definisce l’esodo rurale apertosi nel periodo 1950-1955 come un: “[…] processo irreversibile e sostanzialmente liberatore”[13]. Tale giudizio, sostanzialmente positivo, non è stato mai smentito dal suo autore, neppure quando a metà degli anni 1970 il movimento migratorio ha toccato quota 5 milioni. Nonostante questo, però, Rossi-Doria non si è mai stancato di denunciare la condizione “vergognosa” in cui è avvenuto l’esodo degli emigranti, abbandonati a se stessi e privi del minimo sostegno, sia nei luoghi di origine che in quelli di partenza.

In definitiva, se durante gli anni del boom economico l’Italia si è lentamente allineata agli altri paesi europei, ciò è avvenuto anche nel Mezzogiorno, ma a velocità totalmente diverse. Infatti nelle zone di montagna e di collina, come quelle ad esempio dell’entroterra campano, calabrese, lucano e molisano, la riforma agraria ha stentato e probabilmente non è mai riuscita a modificare la miseria strutturale[14]. Tuttavia, se le caratteristiche e le peculiarità delle aree interne del meridione sono state solo parzialmente scalfite dalla riforma agraria, l’emigrazione ne ha invece decretato il lento e progressivo declino, tanto da farle rientrare ancora oggi in cima alle classifiche delle zone ad alto disagio insediativo[15]. In questo lasso di tempo, per il Sud non c’è stata solo l’emigrazione all’estero, in particolare in Svizzera, Francia, Belgio e Germania. Gli spostamenti interni (1955-1970) tra zone di campagna e città, tra Sud e Nord del Paese, hanno interessato 25 milioni di italiani e di questi oltre 10 milioni hanno cambiato regione di residenza[16].

Fra il 1958 e il 1963 i meridionali che si trasferiscono nel Centro-Nord sono poco meno di un milione. A svuotarsi, in primo luogo, sono le aree di montagna e di collina, le case isolate, le frazioni e i nuclei abitativi sparsi (vi vive 1 italiano su 4 nel 1951, meno di 1 su 5 nel 1961, 1 su 8 nel 1971)[17]. Mentre, nel decennio 1951-1961, il 70% dei comuni italiani perde i suoi abitanti ed il grosso degli aumenti di popolazione si registra nelle città del triangolo industriale e nella capitale. Per quanto attiene il meridione, in questi anni reggono, solo parzialmente, il confronto Napoli e alcune zone della Puglia, come ci ricorda Danilo Dolci nelle sue celeberrime inchieste in Sicilia[18].

In un simile quadro rientra l’Irpinia, nella quale i risultati della riforma agraria sono totalmente deficitari[19].

 

3. La zona del cratere prima del sisma del 1980

In questo quadro di riferimento, sia pure così rapidamente tracciato, come possiamo contestualizzare la provincia di Avellino? Ed, in essa, la zona del cratere nel periodo che va dal 1951 al 1971? In particolare, quali erano le caratteristiche di chi partiva in questo periodo? Analizzando i dati dell’inchiesta sull’occupazione della popolazione campana negli anni 1951, 1961 e 1971[20], è interessante notare come le percentuali degli addetti all’agricoltura in Alta Irpinia subiscano una lenta diminuzione. Nonostante il tasso risulti più alto rispetto alla media nazionale, nel 1971 i coltivatori diretti sono pari al 22%, contro il 33% del 1961 e il 42% del 1951[21]. In linea di massima, possiamo tranquillamente affermare che, per tutto il secondo dopoguerra, l’emigrazione da questa area è caratterizzata dalle partenze dei poveri contadini. Se si analizzano i tassi di disoccupazione nei tre anni in questione, lo stupore è ancora maggiore. Infatti, mentre gli addetti al settore primario diminuiscono in modo esponenziale, il tasso di disoccupazione segue la tendenza inversa. Si passa dal 47% del 1951, al 49% del 1961, fino ad arrivare al 58% del 1971[22]. In altre parole, l’emigrazione si prospetta quale unica soluzione percorribile. Infatti, analizzando il saldo netto migratorio dei comuni appartenenti alla fascia A (18 per la provincia di Avellino), per il periodo 1951-71, esso è pari al 29,76% (64.172 unità) con un’incidenza di ben il 133,51% sull’incremento naturale della popolazione. Ciò significa, in pratica, che i flussi migratori, oltre ad assorbire per intero l’incremento demografico, hanno intaccato direttamente lo stesso patrimonio di quei comuni per il restante 33,51%[23].

Analizzando i dati della tabella (Tab. 1), si nota subito come l’indice del saldo migratorio raggiunga proporzioni allarmanti. Se nel caso della provincia di Avellino non supera il 27,74%, per i pochi paesini coinvolti delle province di Potenza e Salerno arriva a toccare quasi il 40%. Calcolando che, ad esempio per quanto riguarda il salernitano, i paesi rientranti nella fascia A sono solo 9, si comprende come ci si ritrovi di fronte a veri e propri spopolamenti.

Per quanto attiene alla provincia di Avellino, se si prendono come riferimento i dati dei censimenti del 1961 e del 1971 e ci si sofferma esclusivamente sui comuni disastrati, ci si rende conto di come, nell’arco di un decennio, si siano manifestate esclusivamente variazioni in negativo. Infatti solo il capoluogo (Avellino) e Solofra (0,9%), in maniera irrilevante, hanno subito variazioni in positivo. Escludendo il capoluogo irpino, per lo stesso motivo per il quale nella precedente tabella è stato fatto per Potenza, i dati cambiano totalmente. Si passa dal +1,4% allo sconcertante –12,6%, fino a toccare la punta massima nel caso del comune di S. Mango sul Calore con il 22,5%.

Analizzando la situazione nel complesso provinciale e distaccandosi dalle classificazioni post-sisma, per il periodo 1961-1971, prendendo come limite massimo la perdita del 10% di popolazione nell’arco di un decennio, si nota come ben 77 comuni su 119 perdono oltre il 10% di popolazione e solo 12 fanno registrare un segno positivo. Si nota inoltre come, se nel 1961 la popolazione della provincia di Avellino corrisponde a 465.623 abitanti, dieci anni dopo scende al di sotto delle 430.000 unità; per restare pressoché uguale nel 1981.

 

4. L’Irpinia a trent’anni dal terremoto

Sono passati da poco trent’anni dalla tragica sera del 23 novembre 1980. Molte cose sono cambiate, molte speranze sono state deluse e tradite. Non spetta a noi, in questa sede, fare delle valutazioni su come siano state spese le ingenti cifre – oltre 30 miliardi di euro (pari ad una manovra finanziaria) – su quanto alto sia stato il costo di ogni chilometro di asse viario realizzato e non ancora realizzato; su quanto sia costato ogni posto di metalmeccanico creato grazie agli incentivi statali e quanto questi soldi abbiano agevolato l’imprenditoria del Nord del Paese. Non tocca a noi valutare il reale impatto della fiatizzazione[24]e dell’intero indotto in Irpinia, soprattutto oggi che grossa parte di quest’ultimo vive l’amara realtà della cassa integrazione e delle probabili chiusure (caso Irisbus[25]). Non tocca a noi valutare le ridefinizioni dei tanti piccoli centri storici che in nome di nuovi modelli abitativi e dei tanti soldi che sono arrivati per la ricostruzione, molti amministratori locali non hanno avuto scrupoli nell’abbattere. Non tocca a noi valutare se un reale progresso ci sia stato e se questo sia stato accompagnato da un reale sviluppo. Come non spetta a noi valutare quante e quali generazioni abbiano usufruito del miracolo terremoto, oppure quanto risulti paradossale in zone sismiche come queste correre il rischio di vedersi cancellare ogni presidio ospedaliero di base.

In questa sede a noi spetta il compito di valutare e mettere in correlazione il fenomeno migratorio che ha interessato la realtà territoriale in questione, osservandone in modo critico l’evoluzione, ma soprattutto verificando cosa è accaduto e cosa hanno prodotto tanti sforzi in una pur minuscola realtà territoriale del Mezzogiorno d’Italia. In altre parole analizzando, in rapporto con i dati antecedenti il sisma del 1980, come e se si è arrestato l’ingente flusso migratorio, che fa della provincia di Avellino la prima provincia campana come tasso d’incidenza.

Già nel 2010, a distanza di 30 anni dal terremoto del 1980, emerge chiaramente come 55 comuni abbiano perso oltre il 10% di popolazione. Con percentuali che oscillano dall’oltre 56% di Cairano, al 40% di Montaguto e Morra de Sanctis; inoltre, ben 31 comuni registrano perdite oltre il 20% rispetto all’immediato post-sisma. Inoltre è significativo notare da un lato l’interconnessione con i dati del decennio antecedente il sisma, ma soprattutto come tutti i comuni della fascia A, ad eccezione di Lioni (+9,4%), Solofra (+24,1%) e S. Michele di Serino (59,4%), continuino a perdere popolazione.

Tracciando sinteticamente un parziale bilancio della vicenda migratoria irpina, possiamo dunque affermare che oramai non si può più parlare di inarrestabile processo emigratorio, bensì risulta più corretto parlare di desertificazione inarrestabile, in particolare per quanto concerne l’Alta Irpinia. Infatti negli ultimi cinque anni ci sono state oltre 10.000 nuove iscrizioni all’Aire. Si è passati dai 90.944 iscritti del 2007 ai 100.916 del 31 dicembre 2011. Se di queste, il 30% sono nuove iscrizioni per nascita all’estero e, se aggiungiamo un 10% c.a. di riallineamenti dei dati effettuati dalle anagrafi comunali, la provincia di Avellino ha visto, stando ai dati ufficiali, oltre 6.000 partenze verso l’estero nell’ultimo cinquennio. Inoltre, stando a diverse indagini indipendenti, solo 1 italiano su 2 si iscrive, nonostante l’obbligatorietà, all’Aire. Quindi rispetto al 2010, nel 2011 l’Irpinia vede aumentare il proprio contingente estero di 1000 unità. Duplicando il dato e aggiungendo ad esso circa il 30% di mobilità interna, che di fatto compensa lo stesso dato relativo alle nascite all’estero, possiamo suffragare l’affermazione all’inizio di questo testo sul fatto che la provincia di Avellino perda un piccolo comune di 2.000 abitanti ogni anno.

Studiando il trend nell’ultimo decennio della provincia – la quale stando a dati (ancora provvisori) dei censimenti 2001 e 2011 passa complessivamente dai 431.179 ai 430.292 abitanti – possiamo inoltre asserire che il deficit demografico viene interamente assorbito dalla presenza degli stranieri regolari, i quali sono complessivamente circa 12.000 e rappresentano il 3% della popolazione residente.

 

[1]           Fondazione Caritas-Migrantes, Rapporto Italiani nel Mondo 2012, Roma, Idos, 2012, p. 483.

 

[2]           Confcommercio e Legambiente, Rapporto sull’Italia del disagio insediativo (1996/2016). Eccellenze e ghost town nell’Italia dei piccoli comuni, Serico, Gruppo Cresme, 2008.

 

[3]           Toni Ricciardi, A trent’anni dal terremoto del 1980. Un bilancio migratorio, in Fondazione Caritas-Migrantes, Rapporto Italiani nel Mondo 2010, Roma, Idos, 2010, pp. 62-76.

 

[4]           Franco Arminio, Terracarne. Viaggio nei paesi invisibili e nei paesi giganti del Sud Italia, Milano, Mondadori, 2011, p. 166.

 

[5]           Fonte: Rapporto Italiani nel Mondo 2010, cit. Elaborazioni su dati Aire (2012).

 

[6]           Roberto Guidi, Riccardo Scartezzini e Anna Maria Zaccaria, Tra due mondi. L’avventura americana tra i migranti italiani di fine secolo. Un approccio analitico, Milano, Franco Angeli, 1994, pp. 31-51. Si noti che per questo periodo, non si posseggono dati comune per comune.

 

[7]           Nicola Savino, Esodi. Rapporto sulle emigrazioni in Irpinia, Regione Campania, Area 17 – STAP 07, 2002, p. 14.

 

[8]           Francesco Barbagallo, Il Sud, Editori Riuniti, Roma, 2001, p. 21.

 

[9]           Luca Bianchi e Giuseppe Provenzano, Ma il cielo è sempre più su? L’emigrazione meridionale ai tempi di Termini Imerese. Proposte di riscatto per una generazione sotto sequestro, Roma, Castelvecchi, 2010, p. 65.

 

[10]          Ibid.

 

[11]          Manlio Rossi-Doria, Dieci anni di politica agraria nel Mezzogiorno, Bari, Laterza, 1958 (riedizione Napoli, L’Ancora del Mediterraneo, 2004).

 

[12]          Ibid., 2004, p. 37.

 

[13]          Relazione tenuta da Rossi-Doria durante il convegno organizzato dal PSI a Napoli nel giugno 1965 sul tema Programmazione e Mezzogiorno, oggi in Manlio Rossi-Doria, Scritti sul Mezzogiorno, Napoli, L’Ancora del Mediterraneo, 2003, p. 29 (ed. or., Torino, Einaudi, 1982).

 

[14]          Per l’entroterra campano si veda, R. Guidi, R. Scartezzini e A.M. Zaccaria, Tra due mondi, cit.

 

[15]          Confcommercio e Legambiente, Rapporto, cit.

 

[16]          Ugo Ascoli, Movimenti migratori in Italia, Bologna, il Mulino, 1979, pp. 109-143; Paul Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi. Società e politica, 1943-1988, Torino, Einaudi, 1989, pp. 283-286.

 

[17]          Giovanni Croncioni, Il rapporto città-campagna nel dopoguerra, Feltrinelli, Milano, 1978, p. 77.

 

[18]          Danilo Dolci, Banditi a Partinico, Bari, Laterza, 1955, e Inchiesta a Palermo, Torino, Einaudi, 1957.

 

[19]          Il dibattito sulla questione meridionale conta una molteplicità di interventi e di analisi. Per una panoramica sulla questione dell’intervento straordinario si veda, ad es., Salvatore Cafiero, Storia dell’Intervento Straordinario nel Mezzogiorno (1950-1993), Lacaita, Roma-Bari-Manduria, 2000. Per quanto attiene le differenti letture della questione meridionale: Franco Cassano, Il pensiero meridiano, Roma-Bari, Laterza, 1996; Luigi De Rosa, La provincia subordinata. Saggio sulla questione meridionale, Roma-Bari, Laterza, 2004; Giuseppe Galasso, Il Mezzogiorno da “questione” a “problema aperto”, Manduria, Lacaita, 2005.

 

[20]          Fonte: Regione Campania, Indagine sull’occupazione della popolazione campana. Negli anni 1951 – 1961 – 1971, II.

 

[21]          Gli addetti in tale settore raggiungono, addirittura, per il 1951, percentuali molto più alte per i comuni quali Torella dei Lombardi (51%, 1589 unità su complessive 3920) e Rocca San Felice ( 51%, 630 unità su complessive 1221).

 

[22]          Anche per quanto riguarda i tassi di disoccupazione, possiamo notare come le percentuali nel 1971, in alcuni comuni siano ancora più alte: Bisaccia 61%; Calitri 60%; Lacedonia 64%; fino ad arrivare addirittura al 66% di Monteverde Irpino.

 

[23]          Gilberto Antonio Marselli, Un ritorno doloroso, un’occasione da non perdere, “Studi Emigrazione”, 63 (1981), pp. 305-316.

 

[24]          Cesare Ianniciello, Fiat Val d’Ufita. Autobiografia di un quadro irpino, Avellino, Elio Sellino Editore, 2007.

 

[25]          Michele De Leo, Metalmezzadri. La lotta degli operai dell’Irisbus, Atripalda, Mephite, 2011.