Fernardo Schiavetti e Franca Magnani: evoluzioni ideologiche e questioni affettive

Il percorso biografico di una persona è indissolubilmente legato al proprio passato familiare, ai luoghi dell’infanzia e, soprattutto, al rapporto con le figure genitoriali di riferimento. È il caso di Fernando Schiavetti, figlio di Ercole, questore di Livorno che incarna l’Italia dei primi decenni nel Novecento. Monarchico, cattolico e rispettoso dell’autorità costituita, la figura di Ercole Schiavetti influì sul carattere e sulle scelte politiche del figlio Fernando[1]. L’educazione militare di Ercole, che rispecchiava la logica della maggior parte delle famiglie borghesi dell’epoca, con ogni probabilità influenzò le posizioni politiche del figlio. Nonostante fosse repubblicano, divenendo nel 1942 azionista, per Fernando il socialismo interventista fu una ragione di vita. A differenza di molti contemporanei, compagni di partito e oppositori interni, l’interventismo rimase una sua connotazione peculiare. L’azione di Fernando Schiavetti, al di là delle sue scelte ideologiche e di posizionamento politico-partitico, fu la diretta conseguenza delle esperienze vissute: a partire dalla Grande guerra al fronte, per la quale fu insignito al valore militare, fino ai quasi due decenni da esule che ne segnarono il vissuto e i rapporti familiari. Il periodo dell’esilio, iniziato a Marsiglia nel 1926, trovò la sua consacrazione nella Svizzera degli anni trenta. Schiavetti, come vedremo, arrivò a Zurigo nel 1930-1931 e visse per qualche tempo nella più grande città della Confederazione, che proprio negli anni di profonda crisi economica metteva in piedi l’intelaiatura normativa per la gestione in maniera strutturata della crescente ondata migratoria, sia di quegli anni e che dell’immediato secondo dopoguerra[2]. Il suo rapporto con il mondo dell’emigrazione italiana in Svizzera fu caratterizzato da divergenze così profonde con la comunità emiliano-romagnola da spingerlo a spostarsi, prima in Ticino e poi a Ginevra, e a rischiare l’espulsione nel 1939, per mancato rinnovo del passaporto da parte delle autorità consolari ormai fascistizzate. L’anno seguente fu graziato dal procuratore federale[3].

L’influenza genitoriale, o parentale in senso ampio, influenzò notevolmente, anche se in maniera del tutto diversa, Franca Schiavetti Magnani. Figlia di Fernando, attraverso il suo romanzo Una famiglia italiana testimonia in forma privata, senza mai far mancare una visione di contesto, gli anni dell’esilio, i tormenti politici e umani del rapporto tra il padre e il nonno Ercole, oltre al rapporto tra padre e figlia, soprattutto dopo che Valdo Magnani entrò a fare parte della loro vita[4]. Probabilmente non poteva che essere così, le tensioni politiche, il fatto di trascorrere il ventennio in esilio e vivere i primi anni di quest’ultimo separati segnarono il rapporto, ma allo stesso tempo lo resero unico e speciale.

 

 

  1. Un percorso politico travagliato

 

La vicenda, politica ed umana, di Fernando Schiavetti, è simile, eppure anche eccezionale, rispetto a quella di tanti giovani, nati nel ventennio a cavallo del secolo, i quali, formatisi per indirizzo di studi e per precoce militanza politica nell’alveo della tradizione liberaldemocratica o repubblicano-democratica e passati attraverso l’esperienza della guerra e del dopoguerra dal versante interventista e combattentista, si trovano a confronto, quasi inaspettatamente, con due ordini di problemi, ciascuno in sé inedito e assai complesso: da un lato la difficoltà di comprendere e definire la forma, affatto peculiare, con cui ebbe a manifestarsi in Italia la crisi del sistema liberale, generando il fenomeno fascista; dall’altro lato la necessità di aggiornare i parametri di confronto con il socialismo, inteso come dottrina e come prassi, alla luce anche del primo esempio di ‘rivoluzione realizzata’ (così almeno si supponeva)[5].

 

Nonostante la figura di Schiavetti negli anni abbia riscosso, almeno dal punto di vista storiografico, maggiore attenzione da parte degli storici dell’emigrazione rispetto a quelli che narrano delle vicende politiche italiane, essa è di indubbio valore e significato per l’epoca. Tra il 1920 e il 1922 fu segretario nazionale del PRI (Partito Repubblicano Italiano) e dal 1923 al 1926 direttore de La Voce repubblicana, attività che gli costò l’esilio. Fu uno dei protagonisti dell’associazionismo in emigrazione, fino a divenire uno dei costituenti nelle fila del Partito d’Azione, prima di finire dove forse sarebbe voluto sempre stare, tra le fila dei socialisti.

Colui che, per sua ammissione, in un articolo autobiografico del 1954, si definì  “un ragazzo ribelle”[6], nella fase da esule si segnalò spesso per essere una “voce stonata nel coro dell’antifascismo democratico fuoruscito”[7]. Fermamente contrario al fronte unico proposto dai comunisti, Schiavetti svolse un ruolo particolare e singolare nel campo dell’antifascismo, differenziandosi sia dalla visione classica dei repubblicani che dal marxismo ortodosso dell’epoca. Piuttosto, propese per una sintesi tra socialismo e democrazia, che ne orientò tutta l’azione, e divenne quasi un eretico tra gli eretici, alla pari di Emilio Lussu, con il quale ebbe gli scontri ideologici e di posizione più accesi[8].

Per Schiavetti, il repubblicanesimo non era altro che la versione autonoma e originale, nazionale e peculiarmente italiana del pensiero socialista: “Quando io aderii […] insieme a molti altri giovani di allora al partito repubblicano questo partito aveva già cominciato a mostrarsi capace […] di sorpassare i vecchi termini del solidarismo nazionale mazziniano per intendere in forma conveniente ai tempi i problemi dell’emancipazione operaia. Per molti di noi, restii, proprio per motivi di cultura o per passione rivoluzionaria a certe generalizzazioni astratte del marxismo e alla svalutazione riformistica delle conquiste politiche e dei fattori ideali, essere repubblicani fu allora il miglior modo di essere in Italia e dal punto di vista umanistico, socialisti”[9].

L’azione e il pragmatismo più che le teorie astratte ne segnarono irrimediabilmente il percorso politico. D’altronde, era stato al fronte e aveva preso parte alla guerra di liberazione, nell’azione patriottica in un modo o nell’altro si riconosceva già, era il 1919, prima che avvenisse l’irreparabile e che questi suoi valori fossero intrepretati e piegati al volere della dittatura fascista: “Nazione e socialismo, una pratica socialista che si mantenga nei limiti della vita nazionale, (ecco il grande insegnamento della guerra) e non la alteri e non la distrugga”[10]. Eppure, nei primi anni, come Nenni – insieme ai fratelli Bergamo tra i fondatori dei Fasci di combattimento di Bologna –, Schiavetti provò un iniziale interesse verso questa nuova folata di pragmatismo che stava pervadendo l’Italia. Probabilmente, utilizzando le analisi di Renzo De Felice, anch’egli come tanti giovani della sua generazione fu attratto, inizialmente, dalla fase rivoluzionaria, di facciata, del fascismo[11]. Anche se già qualche anno dopo, probabilmente per la posizione di contrapposizione assunta dal 1923 con la direzione de La Voce repubblicana, che di fatto gli costò l’esilio, cambiò radicalmente giudizio sul regime mussoliniano: “Nel fascismo vedemmo il regurgito e l’esplosione, favoriti dal sobbollimelo della guerra, di tutti i mali e di tutte le insufficienze del nostro paese, l’arretratezza sociale, l’immaturità politica, l’egoismo e gli istinti reazionari della classe dirigente che aveva consolidato il suo potere all’ombra della monarchia pseudoliberale […]. Identificammo sotto la sua declamazione rivoluzionaria ed anarcoide il suo carattere reazionario e la sua pericolosità”[12].

Schiavetti non accettava la finta contrapposizione narrata dal fascismo, ovvero essere un nuovo ordine costituito in discontinuità con i poteri del passato, quando poi di fatto questi poteri rappresentarono l’asse portante del regime stesso, nel quale egli rivedeva una stridente continuità con l’Italia liberale.

Nell’autunno del 1926, qualche mese prima che i giornali di opposizione al regime venissero banditi, Schiavetti decise di espatriare clandestinamente insieme all’allora deputato repubblicano Eugenio Chiesa, in Francia, direzione Marsiglia, dove venne raggiunto nel febbraio del 1927 dalla moglie Giulia Bondanini, mentre Franca restò a Todi con i nonni materni.

 

  1. La famiglia si riunisce in esilio

“[Si autorizza] la locale questura a rilasciare passaporto con validità limitato ad un mese at Bondanini Domenico per accompagnare bambina Franca presso genitore Schiavetti Fernando»[13]. Questo è il testo del telegramma con il quale il Ministero dell’Intero autorizzò il ricongiungimento familiare della famiglia Schiavetti. Franca era cresciuta con il nonno Chino, figura del tutto diversa dal nonno Ercole. Chino era un “nonno spassoso che mi teneva sempre compagnia. Non l’avrei cambiato con nessuna mamma al mondo”[14]. All’epoca del ricongiungimento, Franca aveva poco più di tre anni e mezzo e viveva questa situazione con profonda curiosità e inconsapevolezza. D’altronde, per lei le figure di riferimento erano i nonni, mentre i genitori erano ricordati solo grazie ai racconti dei nonni.

Rileggere quegli anni, seppur circoscritti ai racconti familiari, attraverso il ricordo di una bambina di allora, diviene un esperimento di notevole interesse. I grandi personaggi, le sofferenze e le violenze dell’epoca assumono un significato del tutto diverso. D’altronde, questi ricordi scevri da sovrastrutture, ci consentono di rileggere e di conoscere in gioventù, personaggi che poi faranno la storia dell’Italia repubblicana. Come nel caso di Sandro Pertini, di cui Franca narra le vicende della radio clandestina con la quale suo padre ed il futuro Presidente della Repubblica cercavano di organizzare la resistenza oltreconfine. Parimenti significative, le descrizioni del quartiere popolare nel quale vivevano con tutte le difficoltà economiche del momento. Partire era l’unica soluzione: “‘almeno così le bambine impareranno il tedesco’, concluse la mamma quando fu deciso che ci saremmo trasferiti in Svizzera. Là il babbo non sarebbe più stato disoccupato e non avrebbe più lavorato come linotipista; avrebbe esercitato la sua professione: l’insegnante”[15].

L’idea di trasferirsi in Svizzera piaceva molto a Franca e sua sorella, come probabilmente ai molti bambini dell’epoca, visto che la Svizzera rappresentava il paese della cioccolata e dal quale incominciavano ad arrivare meravigliose decalcomanie. Schiavetti precedette il resto della famiglia di qualche settimana, ma l’arrivo a Zurigo fu, a prima vista, una delusione: “avevo in mente ancora l’allegro disordine della stazione di Marsiglia, il formicolare di persone di colore diverso, il vociferare della gente mescolato allo sferragliare dei vagoni e al fischio dei treni in partenza e in arrivo, il tutto frammischiato al rumoreggiare confuso di una folla che correva, incalzava e si urtava. Niente di tutto questo, alla stazione di Zurigo. Mi impressionarono il silenzio e l’ordine, che mi permisero, in compenso, di avvertire un rumore mai notato prima di allora: quello che fanno i tacchi delle scarpe quando le persone camminano: tac, tac, tac. Questo suono in una città come Marsiglia veniva inghiottito dal frastuono generale. Alla Hauptbahnhof di Zurigo invece, all’infuori delle risate del nuovo amico di papà e del suono provocato dal battere dei tacchi sul marciapiede, regnava il silenzio”[16]. La quotidianità nella città elvetica, i colori, i rumori, soprattutto, erano di un tenore del tutto diverso. Nei racconti di Franca si percepisce che mancava il frastuono gioioso dell’umanità. Zurigo, che già contava un cospicuo numero di emigranti italiani, ancora non era divenuta la città dalle mille identità migranti del secondo dopoguerra. Eppure, i ricordi della rete degli antifascisti che ormai si stavano stabilendo nell’area vasta della città aumentarono notevolmente. I luoghi d’incontro erano il Coopé – come lo ricorda Franca Magnani –, il Ristorante Cooperativo, e la Scuola Libera di Zurigo, nella quale Fernando Schiavetti venne impiegato durante tutta la sua permanenza zurighese. Anche in Svizzera, alla pari dell’esperienza francese, affiorano i ricordi di personaggi che in varie forme hanno fatto la storia della politica e della cultura italiana del tempo. Tra questi, Ignazio Silone, che proprio in quegli anni dava alle stampe il suo Fontamara (1933), tradotto anche in tedesco e manifesto antifascista per gli esuli tedeschi.

Gli anni trenta rappresentarono lo snodo determinante della costruzione del pensiero e dei movimenti antifascisti in Europa. In Svizzera, si sviluppò maggiormente l’anticomunismo, che nell’immediato secondo dopoguerra fece della Confederazione uno dei paesi formalmente più avversi al blocco sovietico. Sul fronte italiano, invece, il regime attuava a pieno la fascistizzazione della migrazione italiana nel mondo, attraverso la mobilitazione per la costruzione dell’impero. La rete degli esuli in Svizzera, che ebbe in Fernando Schiavetti uno dei maggiori artefici, si mobilitò contro la guerra d’Abissinia. In tutto il paese si moltiplicavano riunioni e manifestazioni contro la campagna d’Africa e nelle case degli antifascisti, proprio grazie a Schiavetti, veniva cantata una nuova versione della hit del momento:

 

Il villaggetto etiopico tripudia,

ché la più bella ha preso per marito

il giovane più forte e più ardito:

tra canti e danze in festa è la tribù.

 

Faccetta nera,

bella abissina,

il tuo cor spera, il futuro non divina:

la stessa sorte

che tocca a te

dolore e morte donna bianca avrà per sé.

 

E lo stranier sbarcò nella tua terra,

col ferro vuole imporre la sua legge,

rubati il casolar, la terra, il gregge,

il popol tuo ridurre in schiavitù.

 

Faccetta nera,

bella abissina,

il tuo cor spera, il futuro non divina:

la stessa sorte

che tocca a te

dolore e morte donna bianca avrà per sé.

 

Partì lontano il giovane guerriero,

col bambin lasciò Faccetta nera;

passò l’inverno e poi la primavera,

ma babbo a casa non ritornò più.

 

Faccetta nera,

forte abissina,

sai chi è vera cagion di tua rovina?

 

È Mussolini

Che guerra fa,

e gli abissini e gli italian rovinerà[17].

 

Non solo la campagna d’Africa, ma anche la guerra di Spagna era il segnale che qualcosa di irreparabile stava per accadere.

 

  1. Vivere in Svizzera durante la seconda guerra mondiale

“La Svizzera, il piccolo porcospino, lo prendiamo durante la ritirata”, fu uno dei refrain dei soldati della Wehrmacht dopo l’armistizio italiano[18]. Già tre anni prima, nel giugno del 1940, la minaccia latente di una sua possibile occupazione aveva mobilitato le truppe, tanto da fare raggiungere quota 448.000 soldati su una popolazione di circa quattro milioni di abitanti. L’occupazione lampo della Francia, che ridisegnava una nuova Europa, fece maturare in alcuni ambienti l’ipotesi di abbandonare la neutralità, spingendo la Confederazione sulla linea collaborazionista di Vichy[19]. Pur conservando ben saldi, rispetto all’Italia, l’unità interna, l’organizzazione politica e militare, lo spirito di solidarietà nazionale, per tutto il corso della guerra furono banditi i conflitti sociali, così come furono messe da parte tutte le questioni che avrebbero potuto inasprire i conflitti religiosi, linguistici e politici.

L’economia di guerra azionò una serie di provvedimenti atti a resistere anche ad un prolungato isolamento totale della Confederazione, pur se la condizione di autarchia economica gettò la Svizzera in una condizione di scarso soddisfacimento alimentare, mostrando la sua interdipendenza dalle importazioni e dalle interconnessioni tra gli alleati e i Paesi dell’Asse, in particolar modo la Germania[20]. Tuttavia, tra il 1938 e il 1942, il Pil aumentò dell’8,3% (pari a oltre 7 miliardi di Franchi), livello ripristinato nuovamente nel 1946[21].

Più difficile, rispetto al primo conflitto mondiale, fu far rispettare la neutralità. In questa fase la Confederazione fu impegnata nella più delicata azione diplomatica della sua storia. Da un lato le pressioni della Germania, dall’altro quelle della Gran Bretagna, portarono più volte al blocco delle importazioni, soprattutto alimentari[22]. Il rigoroso razionamento dei viveri, l’incremento della produzione agricola e la creazione di una piccola ma efficiente flotta d’alto mare riuscirono a rifornire del minimo indispensabile la popolazione. La situazione della neutrale Svizzera non era dunque quella che per secoli, se si esclude il periodo delle imprese napoleoniche, si mostrava alla fine di ogni catastrofe bellica e che Foscolo ebbe a definire “sacro unico asilo delle virtù e della pacifica libertà”.

Nel 1942 la Svizzera viveva in uno stato di autarchia totale, con gli uomini ai confini e sulle montagne, mentre le donne lavoravano nei campi e nelle industrie belliche. Il 13 agosto dello stesso anno, mentre in tutta l’Europa i nazisti davano seguito alla soluzione finale, chiuse per la prima volta le frontiere, scrivendo una delle pagine più buie della sua storia recente: “Profughi per questioni razziali, ad esempio gli ebrei, non sono profughi politici”[23]. Rispetto ai milioni di deportati, al luglio del 1942, avevano trovato asilo in Svizzera solo 8300 perseguitati[24].

La questione profughi – che ritornerà al centro del dibattito pubblico più volte durante la storia recente del paese – scatenò un vivace confronto tra chi sosteneva che la «barca fosse piena» (Das Boot ist voll) e chi, rifacendosi al diritto d’asilo[25], si batté per l’accoglimento provvisorio dei perseguitati. Dopo l’8 settembre i profughi cominciarono a presentarsi numerosi anche lungo tutta la linea di frontiera italiana, da allora i rigorosi provvedimenti di respingimento nei confronti dei richiedenti asilo non furono più applicati. Infatti, una vera e propria fiumana di italiani – circa 45.000[26], tra i quali più di 3800 ebrei italiani[27] – invase il Canton Ticino e gli altri cantoni limitrofi. Ciò fu reso possibile dal fatto che la Svizzera, adottando una straordinaria flessibilità d’azione dinanzi all’emergenza che si presentava, istituì la figura del “rifugiato militare”[28].

Il crollo del regime e il caos nel quale cadde l’Italia, liberata a Sud e ancora occupata nel Centro-nord, ebbero ripercussioni anche tra la comunità italiana che già viveva in Svizzera o che in essa si era rifugiata: “La colonia italiana in Svizzera è stata certamente sorpresa dagli avvenimenti del luglio 1943 in Italia. Essa conosceva più o meno la situazione militare sfavorevole del suo paese, ma per la maggioranza degli immigrati italiani, che fino all’ultima ora erano stati l’oggetto della propaganda fascista, la brusca caduta del regime fu una cosa inattesa. Non tardarono però a tirare le conseguenze del nuovo orientamento politico dell’Italia e dettero in generale agli osservatori esterni l’impressione di farlo senza grande ripugnanza. I distintivi del partito scomparirono e non si vide più il saluto fascista. La maggioranza degli italiani in seguito ebbe una attitudine passiva, in attesa di vedere cosa sarebbe accaduto in Italia”[29].

Chi invece aveva una visione più chiara erano le forze antifasciste, di cui facevano parte molti profughi politici che non avevano mai cessato di mantenere il contatto con gli oppositori del regime rimasti in Italia. Furono, infatti, gli antifascisti a prendere subito l’iniziativa di fondare una Federazione che riunisse tutte le associazioni degli emigranti, sia lavoratori che profughi politici, con lo scopo di appoggiare la resistenza al nazifascismo ed assistere i lavoratori e i rifugiati italiani in Svizzera, ma anche con il fermo convincimento di partecipare alla ricostruzione di una nuova Italia che sarebbe nata dopo venti anni di dittatura.

 

  1. La grande intuizione: le Colonie Libere

La fondazione di semplici Colonie non avrebbe costituito una novità, né sarebbe stata tale la fondazione di Società di Mutuo Soccorso per i rifugiati. In questa fase, bisognava ripristinare la normalità dopo che le leggi mussoliniane sull’emigrazione avevano fascistizzato ogni organizzazione all’estero, connotando politicamente anche quelle a carattere assistenziale, ricreativo o religioso[30].

All’arresto di Mussolini, nel luglio 1943, seguì un periodo di caos sistemico nel paese che ebbe le sue ricadute immediate anche tra le comunità italiane all’estero. Il problema che si pose agli antifascisti italiani in Svizzera fu quello di sapersi inserire immediatamente nel dissidio con il triplice scopo di entrare in contatto con le masse emigrate, influenzate fino a quel momento dall’attivissima propaganda fascista e clericale, di sottrarle alla politica ambigua delle rappresentanze consolari e di orientarle verso generici ideali di democrazia e libertà.

 

Nel vuoto lasciato dalle organizzazioni fasciste di fronte all’ambiguità degli ambienti diplomatici, le minoranze attive e politicizzate dell’antifascismo decisero di prendere l’iniziativa per coinvolgere le masse dell’emigrazione, politicamente incerte e disorientate, in una risolutiva scelta di campo e impedire che la crisi che travagliava il paese, presupposto della futura rinascita democratica, fosse gestita in Svizzera in modo burocratico e verticistico[31].

 

L’idea di federare le Colonie, che si erano moltiplicate nel decennio precedente, fu l’intuizione di Schiavetti, nel 1930 tra i fondatori ed animatori della Colonia di Zurigo – insieme a quella di Ginevra – cuore della nascente organizzazione. Secondo Schiavetti, le Colonie Libere dovevano essere un’esperienza formativa, di educazione alla libertà e alla democrazia, avere una fisionomia spiccatamente popolare e un carattere dichiaratamente di massa. Inoltre, dovevano essere improntate ad un’attitudine severamente censoria e selettiva, attraverso la quale si sarebbe ottenuto l’effetto di scoraggiare o allontanare quanti erano stati fascisti per necessità o per conformismo e, soprattutto, la maggioranza degli afascisti, che avevano passivamente subito la propaganda del regime senza consentire né dissentire. In definitiva, non si trattò di un’operazione strumentale e meramente organizzativa: bensì, dell’impresa di innovare strumentalmente l’antifascismo italiano, trasformando quelle che durante il ventennio erano state le “cittadelle elitarie”, strenuamente difese da una pattuglia di fedelissimi, in organizzazioni popolari di massa, capaci, in quel momento di crisi e di disorientamento, di funzionare come polo di aggregazione per tutti gli italiani della cosiddetta emigrazione permanente.

 

Il 21 novembre scorso si è costituita, con sede a Zurigo, una Federazione delle Colonie Libere italiane della Svizzera. Il suo scopo è quello di difendere gli interessi dell’emigrazione italiana in Svizzera e di coordinare, ogni volta che sia utile e necessario, l’attività e gli atteggiamenti delle Colonie federate. […] Negli ambienti dell’emigrazione italiana libera si sentiva da molto tempo la necessità di un organismo che costituisse la rappresentanza unitaria di tutti gli italiani dimoranti in Svizzera e rimasti fedeli alle grandi tradizioni di libertà e di umanità che percorrono, dai comuni medievali alla epopea garibaldina, tutta la storia d’Italia. La nuova Federazione tiene a mantenersi assolutamente estranea alla influenza di qualsiasi partito, ma non può e non vuole essere insensibile alle esigenze ideali che si sono affermate irresistibilmente nei recenti avvenimenti italiani[32].

 

L’atto formale della costituzione della Federazione delle Colonie – ovvero, delle collettività – Libere Italiane in Svizzera (FCLIS) era dunque compiuto. Le motivazioni per le quali si era definito questo passaggio erano legate all’esigenza di rappresentanza unitaria di tutti gli italiani e alla necessità di coordinamento del lavoro da svolgere intorno al fattore che, dall’avvento del fascismo in Italia, più aveva motivato e giustificato il sorgere di associazioni libere prettamente italiane nella Confederazione: “era dovere di ogni connazionale libero contribuire a salvare il Paese battendosi per il ripristino della democrazia al suo interno”[33].

Dopo l’8 settembre 1943, i compiti che attesero le Colonie Libere furono impegnativi sia per l’atteggiamento delle autorità elvetiche, sia per il gran numero di italiane e italiani che stavano giungendo in Svizzera. Dal punto di vista, invece, delle iniziative a favore dell’emigrazione, le sedi delle Colonie divennero ben presto centri di incontri, di dibatti, di iniziative culturali, politiche ed assistenziali. Le Colonie furono il primo laboratorio veramente democratico nel mondo dell’emigrazione italiana, che guardava con speranza alla nuova Italia che stava venendo fuori dalla Resistenza al fascismo. Per questo, non ci si limitò alle conferenze e alle discussioni, ma si lavorò soprattutto su progetti concreti. Innanzitutto, occorreva rafforzare la Federazione, c’erano da fondare nuove Colonie, occorreva riorganizzare l’appoggio alla Resistenza, anche attraverso l’aiuto ai profughi. Sorsero così in seno alle Colonie i vari Comitati di soccorso ai rifugiati civili e militari, che svolsero tra il 1943 ed il 1945 una proficua opera di assistenza in favore delle migliaia di italiani rimpatriati in Svizzera.

Sul finire del 1944 il movimento della FCLIS registrò una rapida espansione: le Colonie federate erano più di venti – tra le quali anche l’Unione Donne Italiane di Zurigo – ed ognuna di esse aveva un proprio statuto. I principi di questi statuti furono recepiti in quello della Federazione stessa, approvato il 28 maggio 1944 dal Convegno Federale di Zurigo.

Oltre la riconciliazione e l’unione di tutti i gruppi e le associazioni nate in emigrazione, con il chiaro intento di contrapporsi al fascismo, la FCLIS rilanciò immediatamente la sua azione rivendicativa a favore degli emigranti verso i futuri governi italiani.

Sul finire della guerra, ormai la FCLIS si era formata e la sua configurazione iniziò a prendere corpo in maniera strutturata. Terminato il conflitto, i quadri più qualificati e, più in generale, i fuoriusciti, gli esuli e coloro che avevano sulle spalle anni di esilio e di lotta contro il regime rientrarono in Italia.

Se dopo il 1945 l’Italia, devastata dalla guerra, dovette affrontare la scelta del suo collocamento geopolitico e la sua transizione istituzionale dalla monarchia, accusata di essere stata complice del fascismo, alla Repubblica, le Colonie si trovano a giocare una partita complessa su più fronti. L’accordo di reclutamento del 1948 tra Svizzera e Italia segnò una tappa fondamentale per i decenni a seguire. Se per l’Italia questo non rappresentò una novità, avendo inaugurato la stagione d’oro degli accordi di emigrazione già nel 1946 con il Belgio; per la Svizzera marcò il debutto della stagione degli accordi di reclutamento, che successivamente interessarono diversi paesi. Tuttavia, nonostante a trattare per l’Italia ci fosse un uomo che proveniva dalle Colonie, Egidio Reale, la posizione dell’organizzazione fu di totale contrarietà. Le Colonie accusarono la politica governativa italiana di aver svenduto i propri migranti. L’azione nel primo decennio postbellico della FCLIS fu sostanzialmente caratterizzata da attività di accoglienza e tutela dell’emigrazione che, già dal 1946, iniziava ad essere di massa verso la Svizzera. Nel 1968, a venticinque anni dalla loro fondazione, toccarono il massimo storico in termini organizzativi e di diffusione capillare sul territorio, con 117 sedi e quasi 19.000 iscritti. In questi anni la FCLIS istituì decine di corsi di formazione professionale, buona parte sovvenzionati dai consolati italiani. E ancora, nel biennio 1967-68, vennero devoluti in assistenza oltre 150.000 franchi; organizzate 105 feste per bambini e 250 feste ricreative e distribuiti oltre 3.500 pacchi-dono per un valore di 25.000 franchi. Le biblioteche erano 63 e per l’ottava volta fu organizzata la Coppa Italia che vide la partecipazione di ben 30 squadre di calcio[34]. Inoltre, “Emigrazione Italiana”, organo di stampa della FCLIS, subì la trasformazione da mensile in quindicinale e registrò un aumento costante delle tirature (nel gennaio 1968 raggiunse le 15.000 copie). Per quanto concerne le attività prettamente culturali, vi erano 14 cine-club e furono organizzate 3 mostre d’esposizione nazionale di pittura e scultura dell’emigrato, mentre a Grenchen, sempre nel 1968, si tenne il II Festival d’arte drammatica dell’emigrato[35].

Le Colonie esistono ancora, hanno attraversato tutto il XX secolo, cogliendo e perdendo a volte gli appuntamenti con la storia. Nonostante tutto, nel 2013 hanno celebrato i loro primi 70 anni e contano 48 sedi sparse per la Svizzera e poco meno di 5000 iscritti. Rappresentano, insieme alle Missioni cattoliche italiane, l’associazionismo che ha attraversato diverse fasi della storia della presenza italiana in Svizzera. Altre associazioni – come le Acli dagli anni sessanta in poi, i vari patronati che fanno riferimento alle principali sigle sindacali italiane, le associazioni a carattere regionale, dopo il 1970, fino ai partiti e alle associazioni della recentissima migrazione – arricchiscono questo patrimonio di eterogenee umanità in un paese che per trent’anni è stato la destinazione principale della migrazione italiana del secondo dopoguerra.

 

  1. Schiavetti costituente per la rappresentanza degli italiani all’estero

Eletto con il Partito d’Azione, Schiavetti fece parte dei padri costituenti della nuova Repubblica, muovendosi da subito per garantire una rappresentanza agli italiani all’estero. Questa sua attività si tradusse in due appositi interventi in senso all’Assemblea Costituente, nelle sedute del 20 e 23 maggio del 1947[36]. A tal proposito, Schiavetti sottolineò a più riprese come non fosse “sufficiente la semplice rassicurazione di un generico diritto al voto”, che pure si voleva estendere agli italiani all’estero[37]. La sua proposta consisteva, invece, nel potenziamento di tutti gli esperimenti di autogoverno spontaneamente sorti in seno alle comunità italiane all’estero dopo il crollo del fascismo e nel promuovere, su quella base, una struttura rappresentativa ed elettiva.

 

Quando molte comunità si sono trovate in lotta contro i consoli, che rappresentavano un regime decaduto, si sono date un ordinamento autonomo; per meglio dire non sono state comunità intere, ma sono state le minoranze attive e politicamente più intelligenti e progressiste di queste comunità che si sono date un ordinamento autonomo, accogliendo nel loro seno tutti gli italiani, esclusi i fascisti militanti, a qualunque partito essi appartenessero. Bisognerebbe lavorare nel solco di questa naturale reazione al dominio fascista e alla organizzazione fascista della comunità all’estero. Bisogna avere una grande fiducia in tutto quello che è spontaneo, che non risponde a un concetto astratto e teorico, ma che non fa altro che potenziare dei fenomeni che si sono già sviluppati naturalmente nel suolo della nostra vita collettiva[38].

 

L’obiettivo era creare un Consiglio degli emigrati che, democraticamente eletto, potesse rappresentare le comunità italiane all’estero sostenendone gli interessi e le aspirazioni: “A questa rappresentanza noi potremmo dare dei poteri di carattere consultivo, ma di grande valore. Sarebbe la voce di tutti i nostri connazionali, i nostri concittadini all’estero, concittadini che finalmente si sarebbero liberati dalla caporalistica pressione fascista e dalla autorità consolare come era esercitata durante il fascismo, autorità che rispondeva molto a quella di un commissario prefettizio o di un commissario regio in un comune. Queste nostre comunità all’estero sono in coscienza come dei comuni che non hanno libere rappresentanze né amministratori eletti dalla massa degli emigranti”[39].

Queste italiane e italiani all’estero furono – stando ai suoi ricordi – il baule di conoscenze grazie al quale Franca Magnani imparò a conoscere l’Italia e la sua politica. Il 2 giugno del 1946 era insieme al padre a Roma quando furono proclamati i risultati del referendum e insieme assistettero allo sventolio della prima bandiera della Repubblica[40]. Meno di un anno dopo, nel febbraio del 1947 si trovava in piazza San Marco a Venezia, all’incontro con la delegazione dei giovani comunisti jugoslavi, e conobbe l’allora 22enne segretario della Fgic, Enrico Berlinguer, e Valdo Magnani.

Il Pci e il rapporto con Valdo Magnani, che diverrà poi il suo compagno, segnarono gli ultimi anni del rapporto con il padre. Valdo lasciò da parlamentare il Pci perché non accettò la disinformazione su Stalin e perché – questo fu il vero paradosso ripensando alle posizioni di Schiavetti negli anni venti – intravedeva il rischio di antipatriottismo del più grande partito comunista dell’Europa occidentale. La rappresaglia contro Magnani fu durissima soprattutto perché invece di ritirarsi a vita privata, insieme a Cucchi – Magnacucchi, così vennero etichettati –, tentò di costruire una sinistra antistalinista in Italia. Nonostante l’appoggio della Jugoslavia di Tito, il tentativo fallì[41].

 

 

Nel 1954, in seguito ad una lunga malattia, si spense la mamma di Franca, moglie di Fernando Schiavetti, il quale riprese i rapporti con la figlia grazie soprattutto ai due nipoti Marco (chiamato così in onore di piazza San Marco) e Sabina. Passò qualche anno e, nel febbraio del 1954, al XX congresso del PCUS a Mosca, la relazione di Kruscev segnò la vittoria definitiva della posizione di Valdo.

 

Per la nostra famiglia si trattò di una “scossa di assestamento”. Kruscev, nel suo rapporto segreto alla vigilia della chiusura del XX congresso fece delle rilevazioni che “segrete” rimasero per poco. Alzò il sipario: formulò un solenne atto di accusa contra la dittatura terroristica di Stalin. Andò oltre. La caratteristica del nuovo corso infatti fu l’ammissione, da parte dei partiti comunisti, che era finito il periodo in cui era necessario riconoscere come guida indiscussa il Partito comunista sovietico. La teoria e la pratica del partito-guida e dello Stato-guida non erano più valide nella nuova situazione. Per aver sostenuto queste tesi cinque anni prima, da parte comunista e socialista era venuto un invito pubblico al linciaggio morale. Ora è venuto il momento di riconoscere la verità.

Poco dopo il rapporto Kruscev mio padre mi invitò a pranzo a casa sua insieme a Valdo e allo zio Carlo Zuccarini. L’ultima volta che mio padre e Valdo si erano seduti insieme a tavola era stato a Antignano nel 1948 […][42].

 

Per dirla con le parole di Franca: “una questione politica aveva diviso i due uomini, una questione politica li riuniva”[43]. Fernando Schiavetti si spense nel febbraio del 1970.

[1]           Stéfanie Prezioso, Itinerario di un «figlio del 1914». Fernando Schiavetti dalla trincea all’antifascismo, Manduria, Piero Laica editore, 2004, pp. 16-29.

 

[2]           Per un quadro d’insieme sulla costruzione normativa del sistema di gestione die flussi migratori in Svizzera a partire dagli anni venti, cfr. Toni Ricciardi, Breve storia dell’emigrazione italiana in Svizzera. Dall’esodo di massa alle nuove mobilità, Roma, Donzelli, 2018, p. 44, Flora Di Donato, L’integrazione degli stranieri in Svizzera. Genesi ed evoluzioni dei significati giuridici, Milano, Mimesis, 2016; Francesca Falk, Eine gestische Geschichte der Grenze. Wie der Liberalismus an der Grenze an seine Grenzen kommt, München, Wilhelm Fink, 2011.

 

[3]           Per approfondire gli anni trascorsi in Svizzera si rimanda a Stéfanie Prezioso, Itinerario di un «figlio del 1914», cit., pp. 311-380 e a Elisa Signori, Il verde e il rosso. Fernando Schiavetti e gli antifascisti nell’esilio fra repubblicanesimo e socialismo, Firenze, Le Monnier, 1987.

 

[4]           Franca Magnani, Una famiglia italiana, Milano, Feltrinelli, 1991.

 

[5]           Marina Tesoro, L’itinerario politico di Fernando Schiavetti (Dal Partito Repubblicano al Partito d’Azione), “Il Politico”, 49, 4 (1984), p. 675.

 

[6]           S. Prezioso, Itinerario di un «figlio del 1914», cit., pp. 29-42.

 

[7]           M. Tesoro, L’itinerario politico di Fernando Schiavetti, cit., p. 676.

 

[8]           Ibidem.

 

[9]           Fernando Schiavetti, Repubblicanesimo di ieri e di oggi, “Avanguardia repubblicana socialista”, 20 maggio 1934. Cit. ibidem, p. 677.

 

[10]          Ibidem, p. 679.

 

[11]          Renzo De Felice, Mussolini il rivoluzionario: 1883-1920, Torino, Einaudi, 2015 [1965].

 

[12]          Fernando Schiavetti, La prima resistenza al fascismo insieme con Egidio Reale, in AA.VV., Egidio Reale e il suo tempo, Firenze, La Nuova Italia, 1961, p. 76.

 

[13]          F. Magnani, Una famiglia italiana, cit., p. 12.

 

[14]          Ibidem.

 

[15]          Ibidem, p. 44.

 

[16]          Ibidem, pp. 44-45.

 

[17]          Ibidem, pp. 126-127.

 

[18]          Jakob Tanner, Geschichte der Schweiz im 20. Jahrhundert, München, C.H. Beck, 2015, p. 256.

 

[19]          Ibidem, p. 255.

 

[20]            Martin Kuder, Italia e Svizzera nella seconda guerra mondiale. Rapporti economici e antecedenti storici, Roma, Carocci, 2002, p. 106.

 

[21]          Thomas Maissen, Geschichte der Schweiz, Stuttgart, Reclam, 2017, p. 355.

 

[22]            M. Kuder, Italia e Svizzera nella seconda guerra mondiale, cit., pp. 121-127.

 

[23]          Alfred A. Häsler, Das Bot ist voll. Die Schweiz und die Flüchtlinge 1933-1945, Zürich, Ex Libris, 1967, p. 90.

 

[24]           Toni Ricciardi, Associazionismo ed emigrazione. Storia delle Colonie Libere e degli italiani in Svizzera, Roma-Bari, Laterza, 2013, p. 7.

 

[25]          Per un quadro d’insieme sulla questione profughi di guerra in Europa, si rimanda a: Patrizia Audenino, La casa perduta. La memoria dei profughi nell’Europa del Novecento, Roma, Carocci, 2015; Antonio Ferrara e Niccolò Pianciola, L’età delle migrazioni forzate. Esodi e deportazioni in Europa 1953-1953, Bologna, il Mulino, 2012; Silvia Salvatici, Senza casa e senza paese. Profughi europei nel secondo dopoguerra, Bologna, Il Mulino, 2008.

 

[26]            Renata Broggini, Terra d’asilo. I rifugiati italiani in Svizzera 1943–1945, Bologna, Il Mulino, 1993, p.19.

 

[27]            Patrizia Audenino e Maddalena Tirabassi, Migrazioni italiane. Storia e storie dall’Ancien régime a oggi, Milano, Bruno Mondadori, 2008, p. 119.

 

[28]            R. Broggini, Terra d’asilo, cit., p. 21.

 

[29]            Claude Cantini, Per una storia del fascismo italiano a Losanna, “Italia contemporanea”, 19 (1975), p. 55.

 

[30]          Aldo Garosci, Storia dei fuorusciti, Laterza, Bari, 1953; Leonardo Rapone, Emigrazione italiana e antifascismo in esilio, in«Archivio storico dell’emigrazione italiana», VI, 1 (2008), pp. 53-67; Rosita Fibbi, Les associations italiennes en Suisse en phase de transition, “Revue européenne des migrations internationales”, vol. I/I, 1985; e Il fascismo e gli emigrati, a cura di Emilio Franzina e Matteo Sanfilippo, Roma-Bari, Laterza, 2003.

 

[31]            Elisa Signori, La Svizzera e i fuoriusciti italiani. Aspetti e problemi dell’emigrazione politica 1943-1945, Milano, Franco Angeli, 1983, p. 225.

 

[32]            T. Ricciardi, Associazionismo ed emigrazione, cit., p. 23.

 

[33]          Ibidem.

 

[34]          Toni Ricciardi, La «Coppa Italia» delle Colonie Libere in Svizzera, “Studi Emigrazione”, 203 (2016), p. 406.

 

[35]          Ibidem, p. 222.

 

[36]            E. Signori, La Svizzera e i fuoriusciti italiani, cit., p. 231.

 

[37]            Ibidem.

 

[38]          Fernando Schiavetti, Passaporti prego! Ricordi e testimonianze di emigranti italiani, Zurigo, CLI, 1985, p. 15.

 

[39]            Ibidem.

 

[40]          F. Magnani, Una famiglia italiana, cit., p. 191.

 

[41]          Ibidem, p. 202.

 

[42]          Ibidem, p.232

 

[43]          Ibidem.