Un bastimento carico di note: musica, musicisti e cantanti italiani in Argentina

In Los italianos en la historia de la cultura argentina, di Dionisio Petriella, alla voce “Musica” si contano 228 schede biografiche di immigranti italiani la cui presenza è stata rilevante nel panorama musicale argentino. Le schede, divise in “Insegnamento” (16), Composizione (34), Piano, organo e clavicembalo (49), Strumenti a corda (57), Strumenti a fiato (6), Direttori d’orchestra (27), Direttori di bande (21), Registi di opere liriche (2), Operisti (1), Payador (1), Critici (2), Musicisti vari (26) e Cantanti di lirica (36) offrono un panorama piuttosto completo alla data di pubblicazione del dizionario (1979) e aggiornano il precedente Diccionario biográfico ítalo-argentino che lo stesso Petriella, con Sara Sosa Miatello, aveva pubblicato tre anni prima[1]. Ma, certamente per scelta dei compilatori, nessuno dei due repertori include una voce specifica su cantanti o autori di tango (testo e/o musica), ambito in cui, invece, gli italiani, come si vedrà, hanno svolto un ruolo di primaria importanza quanto a nascita e diffusione del genere.

Comunque sia, il lavoro di Petriella offre lo spunto per alcune considerazioni generali che, una volta di più, testimoniano lo stretto legame tra Argentina e Italia. Ovviamente, la gran parte dei musicisti si muove tra i due paesi tra la seconda metà del XIX secolo e i primi decenni del XX, a scapito di coloro che si insediano nella regione rioplatense negli anni della colonia. Cinque sono i musicisti citati per il XVII e XVIII secolo: Pietro Comental, gesuita nato a Napoli nel 1595 e arrivato a Buenos Aires nel 1617 per poi stabilirsi nella riduzione di San Ignacio dove fonda uno delle prime scuole musicali create in America; Domenico Zipoli (1688-1726), altro gesuita già noto in Italia come compositore, autore, negli anni trascorsi in America, di musica che veniva copiata e diffusa nelle altre missioni dell’ordine[2]; e Francesco Faa, nato nel 1734, ricordato con i baresi suoi contemporanei Domenico Saccomano (flautista) e Bartolomeo Massa (compositore) per l’impulso dato alla musica da camera.

Per quanto riguarda il XIX secolo, una prima considerazione riguarda la figura di Bernardino Rivadavia, attiva anche sul fronte musicale. Rivadavia, dopo aver esercitato la sua azione diplomatica in Europa fra il 1814 e il 1820, impegnandosi per il riconoscimento dell’indipendenza argentina, dal 1821 al 1824 era stato Ministro del Governo della provincia di Buenos Aires e, nei due anni successivi, ministro plenipotenziario presso le corti di Londra e Parigi, fino ad essere nominato, nel 1826, Presidente della repubblica, carica che assunse per poco più di un anno. Il suo spirito progressista aprirà la strada agli intellettuali liberali della generazione del ’37, ma, soprattutto, gli permetterà di realizzare importanti riforme in ambito economico, educativo, sociale e culturale. A lui si deve l’arrivo in Argentina di professionisti italiani (ingegneri, giornalisti, chimici, fisici) che reclutava direttamente durante i suoi viaggi in Europa attingendo soprattutto fra i numerosi esiliati politici dei moti risorgimentali del 1820-21 rifugiatisi oltreconfine[3]. Grazie a Rivadavia si trasferiscono in Argentina il compositore, strumentista e insegnante genovese Stefano Massini, autore, tra l’altro, di Himno al la Libertad (1826), della canzone patriottica El 25 de Mayo (1830) e della Canción fúnebre a la memoria del general Juan Facundo Quiroga (1836), dedicata a Manuelita Rosas[4]; il pianista e direttore d’orchestra Francesco Tanni, che nel 1824 arriva a Buenos Aires da Rio de Janeiro insieme ai fratelli Angela, Maria, Pasquale e Marcello, tutti cantanti lirici; Michele Vaccani, già noto baritono, giunto a Buenos Aires nel 1823; il violinista Giacomo Massoni, che si esibisce anche in diversi altri paesi dell’America del Sud (Brasile, Uruguay, Cile e Perù); il pianista, fagottista e insegnante di canto Giuseppe Troncarelli; e Virgilio Rabaglio che nel 1822 fonda una scuola di musica e disegno dove insegna chitarra, violino, pianoforte e canto. I loro nomi si aggiungono a quelli del giornalista e storico napoletano Pietro de Angelis e di Pietro Carta Molino, condannato a morte dalle autorità sabaude a seguito dell’insurrezione di Alessandria, poi docente di Fisica sperimentale nella Facoltà di Medicina dell’Università di Buenos Aires (fondata proprio da Rivadavia), coadiuvato dal biellese Carlo Ferraris, pure reo dei fatti di Alessandria. E, ancora, del savoiardo Carlo Enrico Pellegrini, il quale, dopo una fuga a Parigi dove si laurea in ingegneria, giunge a Buenos Aires e acquisisce una notevole fama come pittore più che come ingegnere. Un altro condannato a morte dal governo sabaudo, il vercellese Cristiano Vanni, è docente di economia politica all’Università di Buenos Aires. Infine, vi sono gli importanti contributi cartografici del ligure Nicola Descalzi, il quale, tra il 1820 e i primi anni del decennio successivo, realizza esplorazioni fluviali tese a favorire la navigazione mercantile, e gli interventi e i progetti urbanistici o decorativi di Carlo Zucchi, architetto e scenografo. Insieme ai già citati musicisti, e grazie al ruolo svolto da Rivadavia, costruiscono l’immagine di un’Italia all’estero operosa, imprenditoriale o altamente qualificata, che la caratterizza per un retroterra culturale e professionale di valore che le permette di inserirsi con successo in Argentina[5].

Inoltre, la presenza di musicisti italiani nei primi decenni del XIX secolo testimonia anche che la musica in Argentina stava uscendo dall’ambito delle riunioni famigliari, delle funzioni religiose o delle feste popolari per assumere una dimensione pubblica, senz’altro favorita dall’operato di Rivadavia, ma anche incrementata, fin dagli ultimi decenni del Vicereame, dalla costruzione del teatro della Ranchería, inaugurato a Buenos Aires nel 1783 e distrutto da un incendio nel 1792. Nella Ranchería, così come nel successivo Teatro Coliseo Provisional, attivo dal 1804[6], la musica serve ad allietare gli intermezzi tra un atto e l’altro e in queste circostanze si esibiscono anche cantanti italiani, come Pietro Angelelli e Carolina Griffoni, già noti al pubblico europeo. Infine, nella prima metà dell’Ottocento si avvia quel processo che porterà al consolidamento dell’opera lirica italiana in Argentina: Rossini prima, e poi Donizetti, Bellini e il primo Verdi sono gli autori più rappresentati e suonati, cantati o diretti da artisti italiani che includono Buenos Aires nelle loro tournée sudamericane (fra essi la soprano Nina Barbieri e il violinista Agostino Robbio).

Negli anni che vanno dalla seconda metà del XIX secolo al primo decennio del Novecento, il periodo dell’esodo italiano di massa verso l’Argentina, la presenza dei musicisti si incrementa e rivela una tipologia di emigrazione (temporanea o definitiva) che probabilmente è anche il riflesso dell’influenza che la cultura italiana sta esercitando attraverso le melodie e gli strumenti importati dai flussi migratori appartenenti alle classi sociali più basse. Infatti, se la lirica italiana, rappresentata al Teatro de la Victoria e nel primo teatro Colón, attivo dal 1857 al 1888[7], continua ad essere in auge[8], pure non va ignorato che i diversi gruppi provenienti dall’Italia sono portatori di un patrimonio musicale regionale che diffondono nel paese d’accoglienza durante le feste patronali, le sagre, i balli e anche negli spazi abitativi dei conventillos[9], dove, oltretutto, la musica, nella promiscuità residenziale con immigranti provenienti da altri contesti nazionali europei ed extraeuropei, era un elemento di integrazione sociale. Il bagaglio musicale dei nostri emigranti è testimoniato anche dalle relazioni di viaggio di quegli intellettuali italiani (politici, turisti, religiosi, medici, esploratori, ufficiali, giornalisti, scrittori) diretti in America Latina su quelle stesse navi che, nella terza classe, ospitavano gli emigranti. Scrive Giuseppe Modrich, viaggiatore nel 1889:

 

Musica a bordo!…Lì, a bordo, fra cielo e mare, con un sole delizioso, con la costa spagnuola a destra, che si disegnava leggerissimamente, come una poetica sfumatura, quattro note musicali, comunque suonate, producono un fremito generale di contentezza. Cinque calabresi, coi loro istrumenti a fiato, abbastanza intonati, improvvisamente si misero a suonare la patetica melodia del Fra Diavolo. Sparì la musoneria, come per incanto. I suonatori ebbero applausi e qualche spicciolo. Dopo la melodia, un walz, poi una polca, una mazurka, infine una tarantela. La giocondità si propagò in un attimo, come per contagio, tra tutti i passeggieri. Quel quintetto che anche nei giorni successivi contribuì a tenerci allegri, valeva per noi l’orchestra della Scala. Il villaggio in fiera – come avevo battezzato il piroscafo – era completo. Ogni volta che i calabresi si mettevano a suonare, parecchie coppie d’innamorati al cospetto di Dio si davano alla danza, precisamente come dinanzi alle chiese dei paeselli, nei giorni di gran solennità[10].

 

Un altro viaggiatore, Giuseppe Guadagnini, ricorda la presenza a bordo di un giovane siciliano con il suo organetto:

 

Canta con voce da soprano e cerca di accompagnare talvolta il canto suo con uno di quegli organetti scordati, sui quali i poveri ciechi si sforzano di suonare una ballata qualunque. In principio non c’è male, ma dopo due o tre battute, l’organetto diventa paralitico. Invano il suonatore gira la manovella, nessun suono ne esce. Poscia tutto d’un tratto l’istrumento ricupera la voce, e lancia una bordata di suoni stridenti[11].

 

Il bagaglio musicale degli emigranti, insomma, era il più vario. Inoltre, come segnala Marcello Ravveduto, nelle fila degli emigranti si annoverano

 

numerosi suonatori dilettanti di fisarmoniche, chitarre, mandolini e violini che normalmente animano le serate danzanti nelle loro comunità rurali. […] Si tratta in gran parte di un patrimonio culturale trasferito oralmente, proprio come avveniva con i canti della tradizione contadina che si tramandavano di generazione in generazione senza nessun spartito musicale o trascrizione verbale. [In effetti,] tra i migranti vi è una piccola quota di artisti napoletani, ambulanti e professionisti (i cosiddetti posteggiatori: cantanti e suonatori che si muovono in gruppi di cinque persone: un chitarrista, un mandolinista, un violinista, un “cantante di voce” e un “cantante dicitore”) che cominciano a compiere viaggi stagionali presso le comunità di italiani all’estero[12].

 

Ma, come fanno fede i dizionari biografici di Petriella, vi sono anche diversi musicisti diplomati nei conservatori italiani, soprattutto quello di San Pietro a Maiella di Napoli e quello di Milano, che arrivano in Argentina dopo aver intrapreso una carriera di successo in Italia o in Europa, pure segnale di una emigrazione molto più variata di quanto la storiografia tradizionale non abbia a lungo trasmesso insistendo sulla componente contadina e analfabeta dei nostri connazionali migranti. Dal conservatorio di Napoli provengono, ad esempio, Caietano Bagnati, orchestrale del teatro Colón; Felice Lebano, radicatosi a Buenos Aires nel 1885 dopo aver suonato nei maggiori teatri europei; Alfredo Pinto, di cui si ricordano l’opera Gualicho, rappresentata al Colón, e il poema sinfonico La Sulamita; Luigi Romaniello, il quale, giunto a Buenos Aires nel 1896 per tenere una serie di concerti, decide poi di radicarsi nella capitale dove apre un famoso conservatorio; Vincenzo Scaramuzza, pure noto per aver fondato nel 1912 a Buenos Aires un conservatorio che porta il suo nome (dove si formarono diverse generazioni di prestigiosi musicisti), oltre che per aver composto l’opera Hamlet. Provengono, invece, dal Conservatorio di Milano, tra gli altri: Vincenzo Cicognani, residente in Argentina dal 1890 al 1896, insegnante di musica e autore dell’opera in tre atti Fiamma; Alfredo Donizetti, già noto in Italia come compositore, direttore d’orchestra e insegnante di armonia e contrappunto, stabilitosi a Rosario nel 1906, vi fonda nel 1911 il Conservatorio Donizetti; il pianista Edmondo Piazzini, a Buenos Aires dal 1878; Pietro Ripari, dal 1875 al 1882 insegnante di violino nella Escuela de Música de la Provincia e poi nel Conservatorio di Buenos Aires; Ernesto Galeazzi, arrivato a Buenos Aires nel 1903 con l’orchestra di Arturo Toscanini, è poi primo violino al teatro Ópera e al Colón; Raffaele Baldassari, per sei anni primo violoncellista alla Scala e poi fagottista al teatro Carlo Felice di Genova, dal 1899 al 1912 è membro delle orchestre di diversi teatri bonaerensi.

Fra i musicisti italiani non mancano poi figure femminili. Fra esse: Emma Mengarini de Moretti, che in Argentina è insegnante e direttrice della Academia Cecilia de Tres Arroyos; Adalgisa Pane, nel 1911 fondatrice a Buenos Aires del Conservatorio Mascagni; Teresa Bemporat Rex, che dal 1894 si distingue a Buenos Aires come pianista; Carolina Bianchi Montaldo, insegnante di pianoforte; la pianista Iris Romaro de Waldbott von Bassenheim, che con le sorelle Nerina (violinista) e Fernanda (violoncellista) costituisce nel 1915 il Trio Romaro, famoso anche fuori dai confini argentini; Adela Spena, pure pianista, che con il marito Lorenzo Spena fonda a Buenos Aires il Conservatorio Clementi; Olga Agnini, che nella capitale argentina è prima arpa dell’orchestra di Toscanini ed è poi insegnante nel Conservatorio di Buenos Aires; Albertina Contratto de Bertini, arpista che, dopo essersi esibita in Italia e poi in Cile e in Uruguay, nel 1888 entra nella compagnia di Adelina Patti nel teatro Politeama di Buenos Aires per poi dedicarsi all’insegnamento del pianoforte; Esther Pavesi, arpista, arriva in Argentina per la stagione lirica del 1888 al Colón come prima arpa, ruolo che in seguito mantiene per otto anni al teatro Ópera, per poi dedicarsi all’insegnamento; Rosa Alba, celebre violinista che, emigrata nel 1901 con la famiglia a Montevideo, viene notata dal violinista Thompson e, dopo aver suonato nei maggiori teatri europei, dal 1911 si stabilisce a Buenos Aires dove insegna violino nel Conservatorio della capitale; e, infine, Ines Ruotolo, prima arpa nell’orchestra del teatro Colón e poi in quella del Politeama. Ovviamente molte sono anche le cantanti liriche, fra le quali si ricordano Adelina Agostinelli, Francesca Aimo, Romana Baldanza, Carolina Briol Nicolao, Elvira Colonnese e Amelia Pasi, moglie di Angelo Ferrari, impresario del Colón dal 1873.

Non va poi dimenticata la presenza di direttori di bande militari o municipali, a volte autori anche di marce[13]. Fra essi vale la pena segnalare Antonio Malvagni, giunto in Argentina nel 1897 dopo essere stato maestro di banda nel 3° Artiglieri di Bologna. Malvagni, dopo un periodo trascorso a Tucumán come direttore della banda militare, si sposta a Buenos Aires dove nel 1910, proprio in vista dei festeggiamenti per il primo Centenario dell’indipendenza argentina, istituisce e dirige la Banda Sinfonica della città. Come lui stesso narra nella sua autobiografia, fra i pezzi scelti per il debutto vi era un brano tratto dalla Cavalcata delle Valchirie di Wagner, aspetto che non mancò di preoccupare gli esponenti del governo municipale. Ecco come Malvagni ricorda l’episodio:

 

En verdad, estos alarmistas algo de razón tenían, pues para ellos una banda era una banda: es decir, una gavilla de tocadores de instrumentos que pueden acometer la ejecución de una marcha, de un bailable y hasta un “pout-pourri” de óperas viejas, pero no una corporación de acabados músicos, capaces de arrimarse a Wagner, al mismo Beethoven y, aun más, a todos el sinfonismo moderno, con Strauss, Debussy, etc. De modo que, al formar en Buenos Aires una gran banda, había que tratar que ésta fuera magnífica por número y calidad de profesores: pero, el repertorio debía quedar inalterado y circunscripto en los límites de las demás.

El Intendente me llamó, y con toda discreción me abrió su pensamiento al respecto; es decir, que en conocimieno de que yo ensayaba “La Walkiria”, tenía sus dudas acerca de la eficiencia artística de su ejecución por banda. Le observé que “La Cabalgata de las Walkirias”, para una banda como yo pensaba y me había propuesto fuese la de la Capital Federal, no era una pieza de difícil y, aun menos, de imposible ejecución, pues, en Europa, cualquier banda, cívica o militar, con apenas una apariencia de seriedad artística, la ejecutaba. Además, le dije, nuestra Banda Municipal deberá llegar a tal grado de adelanto artístico, que ningún autor de fama deje de figurar en sus programas, aun, como dije, fuese el mismo Strauss[14].

 

Il concerto è stato poi un successo e testimonia l’ingresso in Argentina di compositori provenienti da altre tradizioni musicali, ingresso a cui, comunque, gli artisti italiani danno il loro contributo. Malvagni va ricordato anche perché durante la sua permanenza a Tucumán, dove era giunto nel 1899, oltre a fondare con alterne fortune un Conservatorio, come direttore della banda della città ha sperimentato l’esibizione musicale accompagnata da proiezioni cinematografiche utilizzando una lanterna magica, che, nel caso specifico, doveva aiutare il pubblico a comprendere le vicende narrate nella Tosca di Puccini, opera che non era mai stata rappresentata a Tucumán.

Malvagni non è l’unico italiano direttore di banda presente in Argentina anche fuori dai confini della capitale. Pure vanno menzionate le figure di Serafino Bugni, direttore della banda di polizia di Paraná, nel 1862, e poi, nel 1880, della banda della città di Tucumán; di Giulio Monni, direttore della banda di polizia della provincia di Corrientes; di Pietro Ruta, direttore della banda di polizia di La Plata; e di Enrico Spreafico, che a partire dal 1873 diresse varie bande a Santa Fe, a Concepción del Uruguay e a Rosario.

In generale, si può affermare che non vi è stata città argentina dove, grazie alla presenza di musicisti italiani, non si siano fondati conservatori[15], scuole, teatri, bande o non si siano insediati o esibiti per periodi più o meno lunghi artisti provenienti dal nostro paese[16]. Un tale fermento culturale, oltre a favorire lo sviluppo di una produzione musicale nazionale, ha senz’altro svolto un ruolo importante come forma di sociabilità e, secondo Héctor Rubio, ha permesso di mantenere un legame tra gli immigranti e la madrepatria: “las colectividades entendieron que el cultivo del canto en sus lenguas originales y la conservación de sus músicas con sus instrumentos y su éstilo proprio de ejecución constituían la única forma posible de mantener en tensión el hilo que los vinculaba con su pasado y su lejana madre tierra”[17]. Ovviamente si tratta di un comportamento destinato a scomparire, prima nei contesti urbani e poi anche nelle colonie rurali,[18] ma anche a mescolarsi con le forme musicali già diffuse nel paese d’accoglienza. Non è un caso che tra gli immigranti italiani si contino alcuni payadores, ovvero cultori di quell’arte poetica musicale basata sull’improvvisazione di versi accompagnati con la chitarra che tanto circolava nelle regioni rioplatensi fin dal XVIII secolo e che comunemente era associata alla figura del gaucho. Fra i payadores italiani vanno ricordati il napoletano Ambrosio Rio, più conosciuto con lo pseudonimo di Capichela, il quale, giunto ancora infante in Argentina con la famiglia, nei primi decenni del XX secolo si distingue nell’arte della payada con José Bettinotti (pure figlio di italiani) e Francisco M. Bianco; e Giovanni Battista Fulginiti, ligure, noto per essere componente di un trio di musicisti (integrato da Luis Acosta García e dalla moglie di questi) dedito all’improvvisazione con diverse forme del canto popolare.

Non va poi dimenticato che del bagaglio musicale degli emigranti italiani facevano parte anche le canzoni dell’emigrazione, le cui tematiche (la nostalgia, il problema della subalternità sociale, delle necessità materiali) via via penetrano nel tessuto musicale del paese d’adozione tanto da consegnarle anche a chi non aveva vissuto un’esperienza migratoria[19]. Tali tematiche si sono poi trasferite nel tango (diffusosi a partire dagli ultimi decenni del XIX secolo)[20], a cui l’emigrazione ha dato il proprio contributo sebbene la questione sull’origine e l’evoluzione del genere sia stata a lungo dibattuta e non sempre abbia visto la componente migratoria (italiana e non) in primo piano[21].

In realtà una storia sociale del tango non può assolutamente escludere il ruolo degli immigranti italiani soprattutto per quanto riguarda la nascita e la diffusione del cosiddetto tango “orillero”, quello che comincia a diffondersi dai sobborghi di Buenos Aires, nella “orilla”, geograficamente quasi una zona di frontiera fra lo sviluppo urbano e la pampa, ma, metaforicamente, qualunque spazio in cui si manifestava lo stile spirituale di un’epoca che, grazie alla presenza migratoria, subiva continue trasformazioni[22]. Scrive Ricardo Ostuni a proposito del tango “orillero”:

 

no es osado afirmar que en el tango (insisto, el tango orillero), en su etapa de nacimiento y en la siguiente, de expansión y difusión, gravitó, de modo preponderante, la presencia de la inmigración peninsular (Gobello habla de italianización o agringamiento del tango) a través de compositores, directores de bandas, músicos, maestros de música, bailarinas, salones de baile, entidades mutualistas y periódicos de la colectividad, que lo enriquecieron musicalmente y lo proyectaron, como danza, hacía una sociedad que, ciertamente, lo resistía.

No fueron pocos lo maestros de música que hicieron la notación en el pentagrama de famosos tangos cuyos autores desconocían la grafía musical. Tampoco es irrelevante el número de los que introdujeron arreglos en la estructura original de esos temas para armonizarlos o embellecerlos, acudiendo a la memoria de viejas canciones del terruño lejano[23].

 

Anche Alfredo Mascia ribadisce l’influenza migratoria sul tango, insistendo, però, sulla marginalità povera che lo produce:

 

La multitud de inmigrantes que llegó al país no sólo acrecentó la frustración, la nostalgia y la tristeza de los nativos, sino que dió origen al advenimiento de un fenomeno original: el tango. En el ámbito de la miseria de las orillas, en prostíbulos, lupanares, salones de baile, academia, etc., en ambiente de pobreza, poblados de humo y alcohol se desarrollaban milongas […] Allí iba a nacer el tango […] entre prostitutas, bailarines, canfinfleros, malevos, guapos, asesinos, entregadora, ladrones, etcétera. El tango surge en un ambiente de incultura; un baile híbrido, generado por gente híbrida. Es la unión de canciones procedentes de la pampa pobre y canciones de la Europa pobre […] principalmente italiana[24].

 

Se pure Mascia estremizza l’ambiente umano e sociale in cui il genere sarebbe nato, non è un caso che anche gli strumenti delle orchestre di tango siano agli inizi quelli degli immigranti italiani: la chitarra, il violino, l’arpa, il flauto, a volte un’armonica e gli organetti[25]; così come non è un caso che il tango abbia avuto uno sviluppo simultaneo nelle città argentine in cui il flusso migratorio italiano è stato più forte, come Córdoba, Rosario e La Plata, oltre, naturalmente, a Buenos Aires. “Un rápido cálculo demostrará la porción de apellidos italianos que intervienen en todo lo que atañe el tango”, scrive Carella[26]. E Vidart aggiunge: “La literatura de la época señala orquestas que eran identificadas como ‘del tano’: Prudente, Genaro, Vicente, Bachicha, Roque, Sacramento, etcétera”[27]. Tanti sono gli autori di tango nati in Italia tra la fine del XIX secolo e i primi due decenni del XX ed emigrati in Argentina in questo stesso arco temporale, nella maggior parte dei casi con la famiglia. Di seguito segnalo alcuni tra quelli biografati da Ricardo Ostuni (una lista che lo stesso autore dichiara essere non completa, ma per certo sufficientemente indicativa della presenza e importanza dei musicisti italiani)[28]. Ecco i loro nomi accompagnati da brevi cenni biografici: Luigi Cesare Amadori, pescarese, nato nel 1902, autore, tra gli altri, dei testi di Confesión (scritta con Enrique Santos Discepolo), Rencor, Viejas alegrías, Juramento, Cobardía, Vendrás alguna vez, Madreselva; Mario Batistella Zoppi, nato nel 1893, con Le Pera è l’autore di Melodía de arrabal, Me da pena confesarlo, Estudiante, Cuando tú no estás, tutti tanghi composti espressamente per Carlos Gardel; Giulio Camilloni, nato nel 1906 ad Ancona, tra i più noti autori di testi di tango, fra i quali vanno ricordati Desocupado, Predestinada, Mensajera, La última, Tengo un amigo, Pichuco está tocando, Ya lo sabe todo el barrio; Julián Centeya (pseudonimo di Amleto Enrico Vergiati), nato a Parma nel 1910, oltre per l’attività di giornalista è ricordato per aver composto i tanghi Lluvia de abril, Más allá de mi rencor, Lison, Pa’ los muchachos, La vi llegar; Andrea Ignazio Corsini, siciliano, arrivato in Argentina nel 1896 quando aveva cinque anni, è stato un famoso cantante e attore che ha portato al successo il tango Patotero sentimental inserito nell’opera teatrale El bailarín de cabaret; Enrico Cheli, in Italia allievo di Giacomo Puccini, dal 1886 a Buenos Aires dove è stato direttore artistico di diversi teatri e ha composto i tanghi Figurita, Carca, Pucho e Rulito; Cesare De Pardo, nato a Napoli nel 1900, autore di Fierro chifle (cantato da Gardel), Sueño de arrabal, Vos ya no me querés e Laurenz; Manlio Francia, che agli inizi del Novecento e fino allo scoppio della Prima guerra mondiale ha accompagnato il padre musicista contrattato stagionalmente dall’Hotel Bristol di Mar del Plata e si è poi distinto come violinista in diverse orchestre argentine componendo anche vari tanghi, tra i quali si ricordano Los perros antiguos, Todo para mí, El nochero, Coperito, Caramelito, Fantasías, Pasionaria, Qué racha, Queja campera e Maldita visión;  Augusto Umberto Gentile, nato a Roma nel 1891, è stato pianista e ha composto moltissimi tanghi, tre dei quali sono stati incisi da Gardel (Flor de tango, Desdichas e Dejame que la acompañe); Robero Maida, cantante nelle orchestre di Cátulo Castillo e poi di Francisco Canaro e Antonio Sureda, ha composto anche i tanghi Baile de disfraz e Aquellas cartas; Alberto Marino (pseudonimo di Alberto Vincenzo Marinaro), come cantante si è esibito nell’orchestra di Aníbal Troilo e come autore si ricordano i tanghi Calle del ocaso, El veterano, Mi barco no está, Mashé, Ya no largo, Cómo cambia el corazón, Busco tu piel, El paria de los caminos e Tres cariños; Eugenio Giuseppe Nobile, calabrese, nato nel 1903, ha composto, tra gli altri, i tanghi Quimeras, Ce fini, Cocoliche, Y no tengas que sufrir, Rico Tipo, Cholita e El Lido; Giuseppe Domenico Pecora, nato nel 1891, fin da piccolo suona il violino in un trio musicale con il padre e lo zio, per poi passare nell’orchestra di Carlos Di Sarli e comporre numerosi tanghi (tra questi: Don Alberto, El circo, El pibe, Indomable, La de todas las tardes, Pasaje de la ribera, Para vivir hay que contarla); Alfredo Angelo Pelaia, calabrese, nato nel 1888, con la famiglia emigra nella provincia di Mendoza dove si distingue come cantante di canzoni popolari e fa parte di diversi duo vocali (tra i quali, Pelaia-Catán, Pelaia-Tejeda Ruiz, Pelaia-Italo); Gaetano (Cayetano) Puglisi, originario di Messina, nel 1918 ha fatto parte della famosa orchestra Firpo-Canaro ed è autore dei tanghi Sueño florido, Si el corazón supiera, Alma criolla, Sol, Diez años e Mirando al cielo; Giovanni Battista Domenico Rezzano, nato nel 1895, nel 1920 forma la sua prima orchestra che si esibisce a Rosario e a Córdoba ed è autore dei tanghi Si sabés, callate, Entrá nomás, Duelo criollo, El favorito, Adiós, que te vaya bien, Mala racha, Tango amigo; Antonio Scatasso, nato a Napoli nel 1886, compone moltissimi tanghi, tra i quali si segnalano Pobre gringo, Yo también carrero fui, Qué sabe la gente, Adiós para siempre, Dejá el conventillo, El poncho del amor, La cabeza del italiano, La he visto con otro, La mina del Ford e Ventanita de arrabal. Infine, va ricordata anche Vera Virginia (pseudonimo di Virginia Borioli), nata a Pavia nel 1898, fra le prime cantanti di tango di fama; fra i suoi successi: ¿Por qué te has ido?, Vieja calesita, Barrio pobre, Por aquello que más quieres, ¿Por qué lloras muchacha? e Pasó a la historia.

Oltre ad autori di musica e testi vi sono poi importanti cultori del bandoneón, lo strumento che, come noto, si impone nel tango diventandone uno dei simboli. Sono bandoneisti, tra gli altri, gli italiani Antonio Albanese, Antonio Bonavena, Salvatore Cascone, Nicola Donadio, Francesco Famiglietti, Salvatore Grupillo, Giuseppe Nicola Libertella, Pasquale Mazzeo, Nicola Paracino, Giuseppe Domenico Platerotti, Natalio Porcellana, Donato Racciatti e il gia segnalato Antonio Scatasso.

Tutti gli italiani citati (e altri se ne potrebbero citare) che a diverso titolo si sono cimentati con il tango, hanno respirato la musica nell’ambiente famigliare. Sergio Pujol menziona alcuni fra quelli che, nati in Argentina, sono stati educati all’arte musicale dai genitori o da parenti prossimi. Fra questi spiccano Armando ed Enrique Santos Discepolo, il cui padre aveva studiato nel conservatorio napoletano di San Pietro a Maiella e, una volta arrivato a Buenos Aires, nel 1872, quasi subito era stato nominato direttore delle bande musicali della polizia e dei pompieri, per poi aprire un conservatorio nella capitale dove avevano studiato diversi musicisti in seguito diventati famosi. Ma Pujol cita anche Vicente Greco, Francisco Lomuto, Sebastián Plana, Pedro Maffia, Julio e Francisco De Caro ed Elviro Vardaro[29], e aggiunge:

 

Las oposiciones paternas al tango – comunes a muchos padres amantes irrenunciables de la ópera y el sinfonismo romántico – no fueron impedimentos concretos para que un movimiento expansivo, y comercialmente justificado, llenara los tiempos recreativos de toda una generación de músicos argentinos que transitaba, socialmente, de la clase proletaria a la clase media. En ese movimiento de identificación popular, los principales interpretes y autores provenieron de la cultura italiana trasladada al Plata e integrada, más por fusión que por asimilación, a la nueva realidad[30].

 

In ogni caso, la musica lirica e sinfonica continua in Argentina ad avvalersi dell’apporto italiano, soprattutto al teatro Colón dove, soprattutto fino agli anni ‘60 del XX secolo, si è mantenuto un cartellone ricco di compositori italiani, da Ottorino Respighi, a Gian Francesco Malipiero a Franco Alfano, ad Adriano Lualdi, a Goffredo Petrassi[31].

Contemporaneamente, canzone italiana e tango argentino hanno continuato a mantenere uno stretto rapporto quanto a tematiche che si incrociano da un lato all’altro dell’oceano. Ecco come lo scrittore Rubén Tizziani, di origine italiana, esprime questo rapporto a partire da una esperienza autobiografica:

 

una sensación que me acompaña desde la infancia, cuando en las fiestas que congregaban a mi enorme familia, las canzonetas y el tango se fusionaban en una sola canción, en un solo acento, en un mismo sentimiento del mundo. Una y otro tienes un aire cadencioso, melancólico y hasta, se diría, lastimero. Ambos hablan de las mismas cosas: el viaje, el desarraigo, el paraíso perdido, el desamparo, el amor no correspondido y arrastran un sentimiento trágico de la vida, común a los pueblos del Mediterráneo. Y Buenos Aires y Montevideo participan de ese Mar Mediterráneo sudamericano que es el Río de la Plata[32].

 

Il rapporto tra tradizione famigliare e canzone argentina non è mai cessato, alimentato anche dall’ultima ondata migratoria successiva alla Seconda guerra mondiale. Fra i cantanti argentini di nascita italiana spicca Carlo (in arte Gian Franco) Pagliaro, nato a Napoli nel 1941 e arrivato in Argentina con la famiglia nel 1957. Il suo repertorio, inizialmente caratterizzato da canzoni italiane, si è poi sviluppato in lingua spagnola ottenendo grande consenso sul mercato latinoamericano. Negli anni ’70 del secolo scorso, però, le sue canzoni, incentrate anche su tematiche sociali e di protesta, subiscono la censura della dittatura militare, aspetto che lo costringe all’esilio in Venezuela. Non è l’unico a non avere più accesso al mercato discografico e musicale argentino. Anche diversi cantanti italiani subiscono la stessa censura entrando in una sorta di lista nera venuta alla luce solo nel 2009, quando è stata resa pubblica dal Comfer (Comité Federal de Radiodifusión argentino)[33].

Ma che ruolo ha oggi la musica italiana in Argentina? Nel 2007 la Società Dante Alighieri di Roma ha diffuso un questionario fra i suoi numerosi membri e corrispondenti sparsi in tutto il mondo[34]. In Argentina la rosa dei cantanti italiani conosciuti e preferiti comprende autori classici o evergreen (Modugno, Endrigo, Cotugno, Morandi, Mina, Celentano), cantautori (Baglioni, Bennato, Vecchioni, Cocciante, Nannini),  figure internazionali (Pavarotti, Bocelli, Zucchero) e giovani emergenti come i Negramaro (proprio quell’anno lanciati al Festival di Sanremo). Naturalmente molto apprezzate sono anche la musica lirica e sinfonica. È ovvio che il sondaggio non può che fornire un’idea parziale sull’attuale diffusione e conoscenza della canzone italiana all’estero. E pure, almeno per quanto riguarda il Sudamerica e in particolare l’Argentina, l’Italia musicale è ancora lì a testimoniare la vitalità di un rapporto tra due paesi che hanno ancora molto da condividere.

[1]           Cfr., nell’ordine, Dionisio Petriella, Los italianos en la historia de la cultura argentina, Buenos Aires, Asociación Dante Alighieri, 1979, e Id. e Sara Sosa Miatello, Diccionario biográfico ítalo-argentino, Buenos Aires, Asociación Dante Alighieri, 1976, ora anche in http://www.dante.edu.ar/web/editorial/dicbiografico.htm.

 

[2]           Di lui si conservano due Messe, un Te deum, un Tantum ergo, inni, salmi, cinque antifone e due litanie. Cfr. anche Héctor Rubio, La presencia de la música italiana y de los músicos italianos en el desarrollo de la música in Argentina, in América Latina y la cultura artística italiana: un balance en el Bicentenario de la Independencia Latinoamericana, coordinado por Mario Sartor, Buenos Aires, Istituto Italiano di Cultura, 2011, p. 406.

 

[3]           Sono esiliati politici, probabilmente dei successivi moti del 1848-49, anche i fratelli Antonio e Luigi Scappatura, entrambi insegnanti di musica e canto. Lo stesso dicasi per Giuseppe Giribone, giunto nel Río de la Plata nel 1843 per integrare le fila della Legione Italiana di Montevideo; combattente nella battaglia di Caseros (1852) che decreta la fine del governo di Juan Manuel de Rosas, rimane poi nell’esercito di Buenos Aires. A partire dal 1860 è direttore della banda della Guardia Nazionale di Buenos Aires. In precedenza, nel 1854, aveva composto la celebre marcia El Tala. Infine, va ricordato Antonio Lagomarsino il quale, dopo aver combattuto in Uruguay al fianco di Garibaldi, si trasferisce a Buenos Aires dove si esibisce come tenore nel Teatro de la Victoria.

 

[4]           Figlia del successore di Rivadavia, Juan Manuel de Rosas, il cui governo federalista è considerato la prima forma dittatoriale della Repubblica Argentina. La figura di Manuela Rosas è ricordata da Pietrella anche a proposito del violinista genovese Antonio Restano che della giovane fu insegnante di pianoforte, violino e chitarra. Cfr. D. Petriella, Los italianos, cit., pp. 116-117.

 

[5]           Su questa fase dell’immigrazione italiana cfr. anche Niccolò Cuneo, Storia del’emigrazione italiana in Argentina 1810-1870, Milano, Garzanti, 1940.

 

[6]           Dal 1834 al 1873 Coliseo Argentino o Teatro Argentino; dopo la demolizione fu ricostruito e riaperto nel 1905. Nel corso del XIX secolo a Buenos Aires furono attivi, fra gli altri,  anche il Teatro de la Victoria (1838), il Teatro del Buen Orden (1844), il Teatro de la Ópera (1872).

 

[7]           Il primo Colón si trovava nell’edificio attualmente sede del Banco de la Nación, di fronte a Plaza de Mayo. Il nuovo teatro, inaugurato nel 1908, è considerato uno dei migliori al mondo quanto ad acustica e architettura.

 

[8]           Nei teatri argentini si esibiranno anche i maggiori cantanti lirici dell’epoca, dalle soprano Adelina Patti e Claudia Muzio, ai tenori Francesco Tamagno, Enrico Caruso, Tito Schipa e Beniamino Gigli, al baritono Titta Ruffo. Inoltre, diversi musicisti italiani migranti in Argentina si cimenteranno nella composizione di opere: “Una pléyade de italianos intentó la aventura de la ópera, a veces con un único producto, que pasó velozmente por la escena, cayendo a continuación en el olvido: Inocente Cárcano con Amelia, Alfredo Donizetti con Naná y Dopo l’Ave Maria, Corradino D’Agnillo con Il Leone di Venzia y La zíngara, Luigi Strigelli con la operetta Una scena nell’Olimpo, Ferruccio Cattelani con Atahualpa, la lista podría prolongarse.” (H. Rubio, La presencia, cit., p. 414)

 

[9]           I conventillos erano palazzi dall’architettura coloniale o tipici dell’ eclettismo ottocentesco, con uno o più cortili interni (patios) separati da corridoi con tante stanze che si aprivano sui corridoi stessi o sui ballatoi, se la casa era a più piani. Gli edifici, inoltre, erano privi dei requisiti di abitabilità necessari per l’alloggio di almeno centocinquanta persone che si trovavano a dover condividere servizi igienici, lavatoi e spesso un’unica cucina, per non parlare dell’assenza di qualsiasi forma di riscaldamento e di illuminazione. Forse la presenza di prostitute fra gli inquilini ha fatto sì che a questi agglomerati urbani sia stato dato il nome generico di conventillo (convento, in castigliano popolare, è il postribolo), ma poi molti conventillos hanno ricevuto una denominazione specifica. Per citare solo alcuni esempi, uno dei più noti, situato nel quartiere bonaerense di San Telmo, si chiamava “Las catorce provincias”, un altro “Babilonia”, un altro ancora “Los dos mundos”, termini che rinviano alla mescolanza etnica e culturale dei loro abitanti. Una storia della nascita e della diffusione dei conventillos è tracciata da Horacio Vázquez Rial, Tu cuna fue un conventillo. La vivienda obrera en Buenos Aires en la vuelta del siglo, in Buenos Aires 1880-1930. La capital de un imperio imaginario, a cura di Id., Madrid, Alianza, 1996.

 

[10]          Giuseppe Modrich, Repubblica Argentina. Note di viaggio da Buenos Aires alla Terra del Fuoco, Milano, Galli, 1890, p. 21.

 

[11]          Giuseppe Guadagnini, In America, Repubblica Argentina. Da Buenos Ayres al Capo delle Vergini. Repubblica del Brasile. Da Rio de Janeiro al paese delle Amazzoni, Milano, Zanoletti & Dumolard, 1892, I, p. 22.

 

[12]          Marcello Ravveduto, Tra Napoli e Buenos Aires: una rotta musicale dell’emigrazione italiana, in Buenos Aires Italiana, Buenos Aires, Comisión para la Preservación del Patrimonio Cultural de la Ciudad Autónoma de Buenos Aires, 2009, p. 144.

 

[13]          Fra esse: Suipacha, General Belgrano, Patricios, Victorica, Juramento, tutte composte da Giuseppe Arena, arrivato in Argentina nel 1890; Polka Malvina (1883) e Marcha de Artillería (1884), di Bernardo Bruzzone; Marcha de la Paz, di Angelo Maria Metallo, a Buenos Aires dal 1880; Marcha a Garibaldi, di Giovanni Battista Montano. Per una storia delle bande militari argentine cfr. Vicente Gesualdo, Las bandas militares. El coraje a través del ritmo, “Todo es historia”, 133 (junio de 1978).

 

[14]          Antonino Malvagni, Mis treinta años de vida artística en la República Argentina, Buenos Aires, Talleres Gráficos de la Editorial “Italia”, 1931, pp. 53-54. Sulla banda Sinfónica di Buenos Aires cfr. anche Gabriel Balmaceda, Biografía no autorizada de 1910, Buenos Aires, Sudamericana, 2010, p. 1921.

 

[15]          A proposito del proliferare di conservatori in Argentina, nelle memorie Malvagni scrive: “hay que reconocer que aquí en la República se fundan conservatorios lo mismo que se abren almacenes” (A. Malvagni, Mis treinta, cit., p. 39).

 

[16]          Da notare anche la presenza di famiglie. Fra queste, i Paoloantonio (provenienti dall’Abruzzo e appartenenti a una stirpe di musicisti nota già nel XVIII secolo), i Poggi (genovesi, fabbricanti di organi) e i già citati Tanni (perlopiù cantanti d’opera). Ovviamente, anche in questo caso il fenomeno non riguarda solo Buenos Aires. Solo a titolo esemplificativo, sulle famiglie di musicisti italiani insediate a San Juan cfr. F. Graciela Musri, Músicos inmigrantes. La familia Colecchia en la actividad musical de San Juan 1880-1910, San Juan, EFFHA, 2004 (oltre ai Colecchia, l’autrice cita i Berutti, i Ferla, i Costanza, gli Amincarelli e i Cisella).

 

[17]          H. Rubio, La presencia, cit., p. 419.

 

[18]          Ecco come l’emigrante Luis Rebuffo, nella sua autobiografia, ricorda i festeggiamenti per il XX Settembre nel 1919 in una colonia nella provincia di Santa Fe: “No sólo hubo bailes y juegos, también se cantó. Había un grupo de concurrentes, todos buenos cantores; hicieron volar las hermosas canciones piamontesas que alegraron la concurrencia y dijeron de la nacionalidad de los colones del Lote. No faltó, claro está, quien cantó varias canciones de esta tierra. En aquel entonces estaban de moda la ‘Loca de amor’, ‘Norocha argentina’, ‘Pobre mi madre querida’, ‘Caminito’ y otras muy populares y cantadas por el pueblo” (Luis Rebuffo, Un inmigrante piamontés en la Argentina, 1904-1987, Rosario, Ed. La Fiama, [s.a.], v. 3, p. 4).

 

[19]          Sul tema cfr. Emilio Franzina, Le canzoni dell’emigrazione, in Storia dell’emigrazione italiana, I, Partenze, a cura di Piero Bevilacqua, Andreina De Clementi ed Emilio Franzina, Roma, Donzelli, 2001, pp. 537-562.

 

[20]          Comunemente, la diffusione del tango si distingue in due periodi: la Guardia Vieja (dal 1890 al 1920), ovvero gli anni dell’ascesa come musica “proibita”; e la Guardia Nueva, quando il tango si definisce nelle sue tre forme (ballo, musica e canzone).

 

[21]          Cfr. ad esempio gli studi di Héctor e Luis Bates che non prendono minimamente in considerazione l’apporto migratorio: “Nuestro tango tiene de habanera la línea melódico-sentimental y la fuerza emotiva; de la milonga la coreografía; del condombe el ritmo. A nuestro juicio, de la amálgama de estos factores nace el tango” (Héctor Bates, Luis Bates, La historia del tango, Buenos Aires, Taller Gráfico de la Cía Gral Fabril Financiera, 1936, p. 27).

 

[22]          “La historia del tango es la historia de la ciudad – o por lo menos de gran parte de la ciudad – desde fines del siglo [il XIX] hasta nuestros días. El tango declara una época, la explica” (Tulio Carella, Tango, mito y esencia, Buenos Aires, CEAL, 1966, p. 17).

 

[23]          Ricardo Ostuni, Tango, voz cortada de organito. La inmigración italiana y su influencia, Buenos Aires, Lumiere, 2005, pp. 37-38, corsivi nel testo. Come si deduce dalla citazione, anche Gobello rileva l’importanza dell’impronta italiana nel tango. Cfr. José Gobello, Crónica general del tango, Buenos Aires, Editorial Fraterna, 1980.

 

[24]          Alfredo Mascia, Tango y política, Buenos Aires, Paidós, 1970, p. 262.

 

[25]          Alla fine dell’Ottocento, “los tanguistas que pasaban por la Boca [il quartiere genovese di Buenos Aires] eran en su mayor parte italianos meridionales. La guitarra y la armónica […] las reemplazaban por el clarinete.” (José S. Tallón, El tango en sus etapas de música prohibida, Buenos Aires, Amigos del Libro Argentino, 1964, p. 59) Vidart individua negli “organilleros” italiani l’influenza nella genesi del tango e il loro innegabile ruolo di diffusori del genere. Cfr. Daniel Vidart, El tango y su mundo, Montevideo, Ediciones Tauro, 1967, p. 133.

 

[26]          T. Carella, Tango, cit., p. 55.

 

[27]          D. Vidart, El tango, cit., p. 263. Come noto, “tano” è il diminutivo con cui ancora oggi si identificano in Argentina gli italiani o i loro discendenti.

 

[28]          R. Ostuni, Tango, cit., pp. 69-104.

 

[29]          Cfr. Sergio A. Pujol, Las canciones del inmigrante. Buenos Aires: espectáculo y proceso inmigratorio. De 1914 a nuestros días, Buenos Aires, Editorial Almagesto, 1989, pp. 150-151.

 

[30]          Ibid., pp. 151-152.

 

[31]          Sul tema cfr. H. Rubio, La presencia, cit., pp. 421 e segg.

 

[32]          Rubén Tizziani, E la Violeta la va, la va… La impronta italiana en el tango, in Il ricordo e l’immagine. Vecchia e nuova identità italiana in Argentina, a cura di Ilaria Magnani, Santa Maria Capua Vetere (CE), Edizioni Spartaco, 2007, p. 113.

 

[33]          Fra i cantanti italiani censurati: Nicola Di Bari, Umberto Tozzi, Claudio Baglioni, Lucio Battisti e Gino Paoli.

 

[34]          Si può prendere visione del questionario in Stefano Telve, “tu vuo’ fa’ l’italiano”, sulla musica leggera italiana all’estero, “Carta bianca. Rivista di Lingua e Cultura Italiana”, 4 (novembre 2012), p. 32.