La Libia in sostituzione dell’ America

Occorre fare lo sforzo di calarsi nella realtà dell’Italia di inizio Novecento, nelle aspirazioni e nelle convinzioni della sua classe dirigente, nella sua cultura in fondo nazionalista, pur tra varie sfumature, se si vuole capire il motivo per cui il fenomeno dell’emigrazione di massa oltreoceano fu considerato come l’insuccesso di un’intera nazione: una cosa di cui vergognarsi[1]. Tutti coloro che avevano creduto nel fatto che l’Italia unita sotto casa Savoia potesse svilupparsi fino a diventare una grande potenza, erede in qualche modo dell’antica Roma, non potevano del resto ritenere che lo spettacolo fornito dagli emigranti fosse in linea con questo ambizioso programma[2]. Come scrisse Sidney Sonnino su “Il Giornale d’Italia” del 10 novembre 1902, gli emigranti italiani, “ignoranti e rozzi”, “privi di qualsiasi capitaluccio materiale e morale”, erano la prova che l’Italia non avesse saputo adempiere al “primo dei suoi doveri di civiltà”[3].

Naturalmente, è evidente che l’emigrante non fu solo il simbolo dell’incapacità dell’Italia di creare sviluppo, lavoro e benessere per tutti, oppure non fu solo l’analfabeta disprezzato dagli americani; anzi, rappresentò spesso una persona di cui la patria poteva andare fiera, dato che moltissimi emigranti ebbero esperienze lavorative di successo negli Stati Uniti, facendosi rispettare dalla nazione che li accoglieva. Lo stesso ambasciatore italiano a Washington, Edmondo Mayor des Planches, poté indicare nei suoi rapporti le numerosissime colonie di italiani che si stavano positivamente mettendo in luce oltreoceano[4]. Però, la classe dirigente e l’opinione pubblica dell’epoca ebbero in genere la convinzione che i lavoratori italiani fossero trattati dagli americani alla stregua dei neri o dei cinesi[5]. E se si pensa alla scarsissima reputazione di cui godevano queste due etnie in un’epoca ancora segnata da profondi sentimenti razzistici, tanto in America, quanto in Italia, ciò basta a indicare con quale senso di frustrazione dovesse essere vissuta nella Penisola la questione dell’emigrazione[6]. Gli italiani del resto, se non subivano la pratica del linciaggio – che riguardò comunque un numero a dir poco irrilevante di essi – , erano però spesso vittime del peonage, cioè di maltrattamenti, angherie, abusi o riduzioni in semi-schiavitù, soprattutto nelle lontane regioni dell’interno e del Sud degli Stati Uniti, nelle miniere, nei lavori ferroviari e nelle piantagioni. In ogni caso, essi apparivano come abbandonati al loro destino – a volte anche di morte, in caso di tragedie sul posto del lavoro – , proprio perché il governo di Roma si sentiva impotente a porre rimedio alle tragiche situazioni a cui essi andavano incontro[7]. L’amministrazione federale, d’altronde, non ammetteva ingerenze dei governi stranieri riguardo al modo in cui la società statunitense intendeva organizzarsi e comportarsi nei confronti dei nuovi arrivati. Se gli italiani si fermavano quindi nelle grandi città sulla costa atlantica, erano etichettati come dei fannulloni o dei malviventi. Se infine lavoravano onestamente e si integravano, erano persi per l’“italianità”, poiché, come aveva sempre spiegato il presidente Theodore Roosevelt, gli unici emigranti buoni erano da considerarsi quelli che sapevano spogliarsi della loro cultura d’origine per diventare veri cittadini americani.

Ma ancor peggio che vederli maltrattati, ingiuriati, linciati, ridotti in semi-schiavitù o nel migliore dei casi perduti per l’“italianità”, sarebbe stato vederli non emigrare affatto, poiché la Terza Italia, quella che era sorta con il mito di Roma, era convinta di non poterli mantenere dentro i confini nazionali, se non a rischio dell’esplosione di gravi conflitti sociali, pericolosi per lo stesso ordine monarchico. L’Italia era troppo piccola per la sua prolifica gente. Pertanto, accadde che il governo di Roma – e in primo luogo gli esecutivi guidati da Giovanni Giolitti, il quale si sentiva chiamato a segnare un’epoca e, quindi, a risolvere i problemi più sentiti dalla nazione – si trovò a un certo punto di fronte a una situazione quasi inestricabile. Esso avvertiva lo scacco per il fatto che gli emigranti fossero o abbandonati a se stessi o perduti per la patria, ma al tempo stesso doveva augurarsi che uscissero dalla Penisola. Da qui, il programma di procurare all’Italia le colonie di popolamento, tanto che la politica coloniale dell’Italia giolittiana non fu dovuta solo a un progetto o “sogno” di grandezza, ma fu piuttosto una necessità[8]. Chi volle fortemente l’impresa di Libia fu, non a caso, quell’Antonino di San Giuliano, ministro degli Esteri nel 1911, che già sette anni prima aveva visitato l’America, portando con sé tutti i sentimenti che agitavano i politici liberali quando osservavano gli emigranti: solidarietà, ma anche vergogna per come questi si presentavano, con le loro miserie morali e materiali, di fronte agli americani; orgoglio, perché gli italiani sapevano comunque mostrare grandi doti lavorative negli Stati Uniti, ma anche sensazione che fossero alla mercé dello spietato Paese che li riceveva[9]. Infine, San Giuliano temeva, come tutti coloro che si interessavano fattivamente al fenomeno migratorio, che l’America potesse chiudere le sue porte agli emigranti. Questi si sarebbero così ritrovati a vivere in un’Italia che non era in grado di sfamarli, il che voleva dire che la loro presenza o avrebbe impoverito tutta la nazione o avrebbe alimentato la “sovversione”[10]. Restava perciò solo la conquista della Libia per far sfuggire l’Italia a un destino di decadenza, o peggio di rivoluzione, dato dal fatto che la quantità di lavoro disponibile nella Penisola era inferiore alla domanda. Né l’Italia liberale voleva restare ostaggio delle decisioni che gli Stati Uniti avrebbero potuto prendere in qualsiasi momento in materia di immigrazione. Va da sé che andrebbero rivalutate e considerate come sincere le parole che pronunciarono anche gli altri due fautori dell’impresa di Libia, il re Vittorio Emanuele III e Giolitti, quando, dopo la fine della guerra contro la Turchia, proclamarono in parlamento la loro convinzione, o almeno speranza, che la Libia potesse diventare, se non in tutto, per lo meno in parte, la sostituta dell’America quale luogo di accoglienza degli emigranti per lavoro[11].

Ovviamente, è anche opportuno sottolineare come l’idea di fare della Libia il surrogato dell’America fosse un’illusione, se non una “mistificazione” e un madornale errore[12]. Col senno del poi, sapendo come è andata a finire la colonizzazione libica, una simile interpretazione appare anzi inattaccabile. Dacché, possono essere reputate nel giusto tutte quelle voci – specie provenienti dall’estrema sinistra – che avvertirono il governo Giolitti che la Tripolitania e la Cirenaica non sarebbero mai potute diventare delle colonie di popolamento, se non dopo colossali e perciò impossibili sforzi, e che quindi, per migliorare la condizione delle masse contadine italiane, sarebbe stato meglio spendere i denari delle imprese coloniali in misure di sviluppo interno[13]. Pertanto, può anche essere vero che il progetto relativo alla colonia di popolamento fu solo una scusa, sfruttata ad arte da un governo che invero, con la conquista della Libia, voleva raggiungere obiettivi per lo più geostrategici, di politica di potenza, se non esclusivamente di prestigio e di rivincita rispetto alla sconfitta di Adua[14].

Tuttavia, occorre fare alcune precisazioni, che possono apparire scontate o anche suonare come la giustificazione della propaganda nazionalista di inizio Novecento, ma dalle quali non si può prescindere. Il progetto della colonia di popolamento si basava, in primo luogo, su calcoli a lunghissima scadenza[15]. Chi approntò l’impresa di Libia non si nascose mai che, per fare di quel territorio nord-africano una colonia di popolamento, per metterlo cioè in valore, ci sarebbero voluti anni, se non decenni, nonché molti e costanti sacrifici in termini di denaro e a livello sociale. In sostanza, sarebbero stati necessari il tempo e la determinazione di un’intera nazione; due fattori, questi, che poi vennero a mancare anche perché, con lo scoppio della prima guerra mondiale (che nel 1911 nessuno poteva ragionevolmente prevedere), fu sconvolta e poco a poco soppiantata l’epoca del colonialismo[16]. Va inoltre tenuto conto che la leadership dell’Italia giolittiana riteneva che l’invio in Libia di una parte almeno degli emigranti sarebbe stato il miglior modo per sfruttare una forza – le masse – che poteva mettere sul lungo periodo l’Italia alla pari con le altre potenze. Gli Stati Uniti, infatti, come l’impero inglese, la Germania, la Russia o l’Australia – disse San Giuliano – possedevano:

 

diversi elementi di successo nella concorrenza internazionale: capitale, spirito d’iniziativa, potenza ed efficacia di organismo di Stato, popolazione crescente. Non tutti posseggono questi elementi di lotta e di vittoria nel medesimo grado; noi ne possediamo uno; una popolazione crescente e disposta a emigrare. Questa è una forza di primissimo ordine, che non bisogna continuare a lasciare tutta disperdere, che bisogna con ogni cura studiare i modi di far sì che non diventi tutta unicamente strumento della grandezza economica e politica altrui, mano d’opera a buon mercato in servizio del capitale altrui, materia grezza, con cui si fabbricano ispano-americani, anglo-americani, franco-africani[17].

 

Tuttavia, pur potendosi giustificare in tal modo il colonialismo italiano, lo storico non può evitare certo di mettere in rilievo il rimprovero che fu lanciato soprattutto dai socialisti all’indirizzo del governo Giolitti: se quest’ultimo, infatti, si fosse dedicato allo sviluppo del Mezzogiorno, invece che all’impresa di Libia, avrebbe potuto creare le condizioni affinché la piaga dell’emigrazione fosse sconfitta alla radice e, quindi, affinché risultasse inutile la ricerca delle colonie di popolamento in sostituzione dell’America[18]. San Giuliano stesso, del resto, era un fautore della cosiddetta colonizzazione interna, cioè della messa in valore della terra meridionale al fine di dare lavoro ai contadini, che altrimenti sarebbero emigrati[19]. Tuttavia, la classe dirigente italiana si convinse a un certo punto che qualunque sforzo di sviluppo interno fosse stato fatto, anche il più grande, sarebbe stato comunque inadeguato a creare lavoro per tutti[20]. Il saggio di remunerazione del capitale investito nella terra meridionale e siciliana, del resto, era reputato talmente alto – per via dell’impervia connotazione geografica o della scarsezza delle infrastrutture – che pochi avrebbero giudicato un tale investimento come conveniente[21]. Vi era poi il problema costituito dalle classi dirigenti meridionali, giudicate inadatte per vari motivi – storici e culturali – a pensare e a realizzare la messa in valore delle aree che amministravano[22]. Infine, c’era una cosa che la classe dirigente liberal-conservatrice non avrebbe in fondo mai potuto accettare, nonostante potesse servire a fermare l’emigrazione: l’effettivo spezzettamento del latifondo e la sua redistribuzione tra i contadini. Pertanto, si tornava sempre al punto di partenza: una buona fetta della popolazione rurale sarebbe restata comunque sempre senza impiego e, perciò, era desiderabile che fosse incentivata nella sua tendenza a migrare e a cercare fortuna fuori dai confini nazionali. L’emigrazione oltreoceano, tuttavia, insegnava anche che i lavoratori italiani fossero, per ammissione degli stessi americani, capaci di trarre frutti dai terreni più ostici, rocciosi e desertici, o di sapersi adattare a climi come ad esempio quello di Panama. Questo punto, non a caso, fu sempre un motivo d’orgoglio per la classe dirigente dell’epoca, la quale era convinta che la grandezza dell’America fosse anche, se non soprattutto, dovuta all’impegno profuso dai lavoratori provenienti dalla Penisola. Il 20 giugno 1910, furono pronunciate nell’aula di Montecitorio, dal ministro degli Esteri, queste parole: “gli agricoltori dell’Italia del Mezzogiorno, una volta che siano posti nelle condizioni di poter far valere le loro grandi qualità, possono essere per qualunque Paese del mondo un grande elemento di prosperità e di ricchezza”[23]. Mentre Paolo Borsarelli, relatore del progetto di legge sull’emigrazione, aggiunse che gli emigranti creavano in America “la civiltà, l’immensa e sconfinata ricchezza, le città fiorenti, i campi opimi, là lavorano e fanno fruttare il bestiame di valore incalcolabile”[24]. L’onorevole Francesco Paolo Materi, grande proprietario terriero lucano e studioso della questione meridionale, precisò infine che, “per confessione degli stessi americani”, i lavoratori italiani erano “il principale strumento dell’elevazione economica e della ricchezza pubblica degli Stati Uniti”[25].

Non c’era dunque da temere che lo “scatolone di sabbia” libico potesse scoraggiare o vanificare l’intraprendenza e le grandi capacità lavorative e di adattamento degli italiani. In Nord Africa, potendo conservare la proprio lingua, con la prospettiva di diventare padroni della terra che andavano a lavorare, supportati dal capitale e da imprenditori che avrebbero operato sotto le leggi italiane, ogni impresa poteva essere alla portata dei contadini, dei minatori e degli operai italiani, ovviamente se avessero avuto tempo a disposizione e avessero mostrato coesione e determinazione insieme alla loro classe dirigente[26]. Questo fu il modo in cui si ragionò nell’Italia di inizio Novecento, presso chi doveva dirigere la politica estera e coloniale mentre assisteva al fenomeno dell’emigrazione di massa oltreoceano. La conquista della Libia, inoltre, avrebbe potuto fornire all’Italia un ampliamento di territorio tale da porla all’altezza delle altre vere grandi potenze, in un mondo in cui queste ultime venivano ormai classificate anche in base alle dimensioni, come d’altro canto gli Stati Uniti, con la loro proiezione continentale e perfino planetaria, stavano dimostrando.

[1]           Questo articolo è sostanzialmente l’ultimo paragrafo del capitolo VI del volume di Gianpaolo Ferraioli, L’Italia e l’ascesa degli Stati Uniti al rango di potenza mondiale (1896-1909). Diplomazia, dibattito pubblico, emigrazione durante le amministrazioni di William McKinley e Theodore Roosevelt, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2013. L’autore, per la composizione del suddetto volume, ha utilizzato in particolare i documenti conservati nell’Archivio Storico del Ministero degli Affari Esteri italiano (ASMAE).

 

[2]           Cfr. Emilio Gentile, La Grande Italia. Il mito della nazione nel XX secolo, Roma-Bari, Laterza, 2006, pp. 6-7, 11 e 76. Sul mito della “grandezza” e sulle aspirazioni dell’Italia unita, si veda naturalmente anche il classico Federico Chabod, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896. Le premesse, Bari, Laterza, 1951, nonché Alberto Aquarone, L’Italia giolittiana, Bologna, il Mulino, 1981, p. 387.

 

[3]           Sidney Sonnino, Scritti e discorsi extraparlamentari, I, a cura di Benjamin F. Brown, Bari, Laterza, 1972, pp. 837-838.

 

[4]           Cfr. Mayor a Morin, 30 luglio 1903, ASMAE, Rappresentanze diplomatiche negli USA (1901-1909), b. 158, fasc. 3466, rap. n. 1685/720.

 

[5]           Cfr. Ferdinando Fasce, Gente di mezzo. Gli italiani e “gli altri”, in Storia dell’emigrazione italiana, a cura di Piero Bivilacqua, Andreina De Clementi ed Emilio Franzina, II, Arrivi, Roma, Donzelli, 2002, pp. 238-243; Gian Antonio Stella ed Emilio Franzina, Brutta gente. Il razzismo anti-italiano, ibid., pp. 283-311.

 

[6]           Cfr. David A. Richards, Italiani d’America. Razza e identità etnica, Milano, Giuffrè, 2004, pp. 237 sgg.; Aliza S. Wong, Race and the Nation in Liberal Italy, 1861-1911. Meridionalism, Empire, and Diaspora, New York, Palgrave Macmillan, 2006, pp. 120 sgg.

 

[7]           Cfr. la documentazione contenuta in: ASMAE, Rappresentanze diplomatiche negli USA (1901-1909), b. 135 e 143; ivi, b. 148 e 149, fasc. 3248, 3249, 3252, 3253, 3254, 3256, 3261, 3262, 3263; Mayor a Morin, 15 maggio e 9 giugno 1903, ivi, b. 147, fasc. 3241, rap. n. 1195/484 e 1326/575; Papers Relating to the Foreign Relations of the United States, 1906, part I, pp. 919-6, 929-33; Atti Parlamentari, Camera dei Deputati (d’ora in avanti AP, CD), XXII Legislatura, Discussioni, I sessione, II tornata del  15 maggio 1907, vol. XI, pp. 14167-71; Tittoni a Mayor, 27 marzo 1908, ASMAE, Rappresentanze diplomatiche negli USA (1901-1909), b. 135, fasc. 3068, dis. n. 17318/14; AP, CD, XXIII Legislatura, Discussioni, I sessione, II tornata del 18 novembre 1909, vol. IV, p. 418-1; ivi, II tornata del 22 giugno 1912, vol. XVII, p. 21484.

 

[8]           Antonino di San Giuliano, I fini della nostra politica coloniale, “La Riforma Sociale”, III (1895), pp. 314-5 e 317, e La crisi dell’Africa italiana, “Nuova Antologia”, XXIV (15 dicembre 1895), p. 607. Cfr. anche Brunello Vigezzi, L’imperialismo e il suo ruolo nella storia italiana del primo ’900, “Storia contemporanea”, 11, 1 (1980), pp. 29-56. Sull’importanza anche per il capo dell’opposizione liberale, Sidney Sonnino, delle colonie quale luogo dove inviare gli emigranti italiani, si veda: Luciano Monzali, Sidney Sonnino e la politica estera italiana dal 1878 al 1914, “Clio”, 35, 3 (1999), pp. 404-405 e 436-437; Rolando Nieri, Costituzione e problemi sociali. Il pensiero politico di Sidney Sonnino, Pisa, ETS, 2000, p. 144.

 

[9]           AP, CD, XXIII Legislatura, Discussioni, I sessione, II tornata del 22 giugno 1912, vol. XVII, p. 21484.

 

[10]          AP, Senato, XXII Legislatura, Discussioni, I sessione, II tornata del 14 giugno 1905, vol. 95, p. 1440; Antonino di San Giuliano, L’emigrazione italiana negli Stati Uniti d’America, “Nuova Antologia”, CXVIII (1905), p. 88.

 

[11]          AP, CD, XXIV Legislatura, Discussioni, I sessione, tornata del 27 novembre e 16 dicembre 1913, vol. I, pp. XI e 483-485.

 

[12]          Cfr. Zeffiro Ciuffoletti e Maurizio Degl’Innocenti, L’emigrazione nella storia d’Italia 1868-1975, Firenze, Vallecchi, 1978, pp. 475-477; Ludovico Incisa di Camerana, Il grande esodo. Storia delle migrazioni italiane nel mondo, Milano, Corbaccio, 2003, p. 209; Nicola Labanca, Nelle colonie, in Storia dell’emigrazione italiana, II, Arrivi, cit., pp. 199-200; Giorgio Rochat, Il colonialismo italiano, Loescher, Torino 1973, pp. 62-68.

 

[13]          AP, CD, XXI Legislatura, Discussioni, II sessione, II tornata del  22 maggio 1902, vol. II, pp. 1971-5 e 1983; ivi, XXIII Legislatura, Discussioni, I sessione, tornata del 22 febbraio 1913, vol. XIX, pp. 23301-2; ivi, XXIV Legislatura, Discussioni, I sessione, tornate del 5 e 10 dicembre 1913, I, pp. 143, 148-149, 155 e 305.

 

[14]          Cfr. Luigi Albertini, Le origini della guerra del 1914, vol. I, Bocca, Milano 1942, p. 359; Alberto Aquarone, L’Italia giolittiana, cit., pp. 94-95; Giampiero Carocci, Storia d’Italia dall’unità ad oggi, Milano, Feltrinelli, 1986, pp. 203-4; Benedetto Croce, Storia d’Italia dal 1871 al 1915, Milano, Adelphi, 1991, pp. 337-339; Luigi Salvatorelli, La Triplice. Storia diplomatica (1877-1912), Milano, ISPI, 1939, p. 397. Sulle tante motivazioni alla base del colonialismo italiano – politiche, strategiche, umanitarie, di prestigio, economiche, demografiche, commerciali, ecc. – si rinvia all’analisi, fondata anche su un esame della storiografia, di Luigi De Matteo, Sviluppo economico, emigrazione e colonialismo nell’età della sinistra storica. Storiografia e prospettive di ricerca, in Alla ricerca delle colonie (1876-1896), a cura di Pier Luigi Ballini e Paolo Pecorari, Istituto di Scienze Lettere ed Arti, Venezia 2007, pp. 325-342; Nicola Labanca, Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana, Bologna, il Mulino, 2002; Wolfgang Schieder, Fattori dell’imperialismo italiano prima del 1914, “Storia contemporanea”, 3, 1 (1972), pp. 3-35.

 

[15]          A. di San Giuliano, La crisi, cit., pp. 608-9 e 627. Cfr. anche AP, CD, XXII Legislatura, Discussioni, I sessione, II tornata del 15 maggio 1907, vol. XI, p. 14173-4; ivi, XXIII Legislatura, Discussioni, I sessione, tornata del l’1 dicembre 1910, vol. IX, p. 10123.

 

[16]          Sul fatto che la politica estera giolittiana fosse fondata su calcoli a lunga scadenza, poi vanificati dallo scoppio della prima guerra mondiale, si può vedere anche: GianPaolo Ferraioli, Considerazioni sulla politica estera dell’Italia giolittiana, “Clio”, 47, 1 (2011), pp. 55-82.

 

[17]          AP, Senato, XXII Legislatura, Discussioni, I sessione, II tornata del 14 giugno 1905, vol. 95, p. 1442-1443.

 

[18]          Sul dibattito interno al partito socialista e al mondo del sindacato, dove comunque non tutti (specie i meridionali e Arturo Labriola) furono contrari all’impresa di Libia, nel suo significato di conquista di una colonia che avrebbe potuto accogliere gli emigranti italiani, si rinvia a Maurizio Degl’Innocenti, Il socialismo italiano e la guerra di Libia, Roma, Editori Riuniti, 1976.

 

[19]          A. di San Giuliano, I fini, cit., pp. 314-315.

 

[20]          AP, CD, XXI Legislatura, Discussioni, II sessione, II tornata del  21 maggio 1902, vol. II, pp. 1937-1938.

 

[21]          Cfr. Ercole Sori, L’emigrazione italiana dall’unità alla seconda guerra mondiale, Bologna, il Mulino, 1979, p. 184.

 

[22]          A. di San Giuliano, Le condizioni presenti della Sicilia. Studi e proposte, Treves, Milano 1893, e L’emigrazione italiana, cit., pp. 103-104; S. Sonnino, Scritti e discorsi, cit., II, pp. 1336-1340. Cfr. anche Francesco Barbagallo, Lavoro ed esodo nel Sud 1861-1971, Napoli, Guida, 1973, e Mezzogiorno e questione meridionale (1860-1980), Napoli, Guida, 1980, pp. 45-52; Antonio Jannazzo, Sonnino meridionalista, Roma-Bari, Laterza, 1986, pp. 82-83 e 151-152.

 

[23]          AP, CD, XXIII Legislatura, Discussioni, I sessione, I tornata del  20 giugno 1910, vol. VII, pp. 8699.

 

[24]          Ivi, tornata del 9 giugno 1911, vol. XIII, p. 15463.

 

[25]          Ivi, XXII Legislatura, Discussioni, I sessione, tornata del  20 maggio 1908, vol. XVIII, p. 21606.

 

[26]          Ivi, XXI Legislatura, Discussioni, I sessione, tornata dell’8 giugno 1901, vol. V, p. 4895; ivi, II sessione, II tornata del  23 maggio 1902, vol. II, p. 2022; AP, Senato, XXII Legislatura, Discussioni, I sessione, II tornata del 14 giugno 1905, vol. 95, p. 1444-1448; AP, CD, XXIII Legislatura, Discussioni, I sessione, tornata del 22 febbraio 1913, vol. XIX, pp. 23319-23320; ivi, XXIV Legislatura, Discussioni, I sessione, tornata del 10 dicembre 1913, vol. I, p. 282.