Le nuove generazioni nei nuovi spazi e nuovi tempi nelle migrazioni, a cura della Federazione Italiana Lavoratori Emigranti e Famiglie, Roma Ediesse, 2014, 174 pp

Il volume pubblicato dalla Federazione Italiana Lavoratori Emigranti e Famiglie è parte integrante del progetto “Ebasco”, realizzato a Salerno tra il 2011 ed il 2012 dall’Associazione Multiculturalità Attiva, vincitrice del bando “Giovani Attivi” promosso dalla Regione Campania. È composto da dodici saggi, divisi in tre sezioni che vanno dal “macro” al “micro”: si passa infatti dall’analisi delle nuove migrazioni che hanno recentemente riguardato l’Italia (viste in un’ottica transnazionale), ad alcune indagini sulla situazione dell’Italia Meridionale, per concludere con cinque paradigmatiche storie di giovani migranti.
Secondo il progetto iniziale, pubblicato in appendice al volume, l’antirazzismo sarebbe stata l’area tematica prevalente dell’intervento di comunicazione sociale promosso da Ebasco nel territorio di riferimento e rivolto anche a studenti italiani ed immigrati delle scuole primarie e secondarie. Uno dei presupposti del progetto sarebbe stata l’idea che “una seria politica antirazzista va ricondotta al recupero della memoria della nostra emigrazione […]. Risulta paradossale come questa memoria si sia perduta e i nostri compatrioti trattino i problemi posti dalle migrazioni [sottinteso: in ingresso] come problemi sconosciuti e del tutto nuovi” (pp. 164-165). Tuttavia, il tentativo di stabilire un legame tra l’attualità e la storia dell’emigrazione italiana dell’Otto-Novecento non è più un approccio del tutto innovativo: esso infatti, a partire dagli anni Novanta, ha caratterizzato una parte importante del dibattito pubblico, degli studi sulle migrazioni del passato e del presente, ed anche alcuni progetti attuati da varie Regioni italiane. È dubbia, purtroppo, anche l’efficacia di tale tipo di narrazioni nel prevenire o disinnescare il razzismo e gli stereotipi che investono ogni giorno di più gli immigrati in Italia.
In realtà, dal raffronto tra i dodici saggi che compongono il volume, emerge un paradigma interpretativo sostanzialmente diverso ed effettivamente meno battuto e più innovativo, a riprova del fatto che evidentemente il progetto Ebasco, sul piano euristico, è andato ben oltre i presupposti iniziali. A partire dal dato secondo cui il numero di giovani italiani partiti per l’estero nel 2013 potrebbe essere stimato addirittura come uguale alla media delle partenze annuali degli anni Sessanta (p. 34), l’Italia non può banalmente dirsi un “ex paese di emigrazione”; la Penisola sarebbe invece oggi, come ieri, parte integrante di una gigantesca rete di mobilità mediterranea di lunga durata (p. 9), ed un vero e proprio “crocevia migratorio” (p. 17). Si cerca quindi in questo volume non tanto di trovare un legame diacronico tra l’emigrazione e l’immigrazione italiana, cioè tra il passato ed il presente, quanto piuttosto un legame sincronico: per quanto persistano molti aspetti di continuità con il secolo precedente, e molte differenze tra gli italiani che partono e gli extracomunitari che arrivano, una peculiare propensione alla mobilità caratterizzerebbe oggi un’intera generazione nata nel bacino del Mediterraneo tra gli anni Settanta e Ottanta, sostanzialmente globale e globalizzata e soprattutto, insoddisfatta. Per questa generazione il “neo-nomadismo” (p. 38) rappresenterebbe una risorsa non solo economica, ma anche esistenziale, un fenomeno che riguarda tutto e tutti, chi parte, chi arriva, chi resta: “era tangibile lo scontento di chi se e andava e, ancora di più, quello di chi era costretto a rimanere” (p. 109). Si ricerca all’estero una crescita ed una sicurezza personale attraverso lavori altrettanto precari di quelli che è possibile trovare in Italia, ma che in terra straniera non vengono vissuti come uno stato di minorità e di sotto-impiego, bensì come un tirocinio, un “rodaggio” temporaneo in vista di una promozione sociale percepita, a contrario che in Italia, ancora come raggiungibile (p. 65). La condizione di irregolarità e di illegalità che caratterizza il lavoro in Italia (e non solo la precarietà quindi), è un altro dei trade d’union che lega i giovani cittadini italiani che aspirano a stabilirsi altrove e gli immigrati extracomunitari. Chi parte cerca di sfuggire la subalternità sociale e professionale che deriva dalla gerarchia politico-clientelare che è anche subordinazione generazionale (pp. 104, 156); allo stesso modo chi arriva consegna addirittura la propria esistenza ai datori di lavoro, come dimostra l’emblematico caso del caporalato etnico nell’agricoltura e le numerose vicende di ricatto e di estorsione (che rasentano il reato di riduzione in schiavitù) attraverso cui i datori di lavoro italiani hanno vessato i braccianti agricoli in occasione (paradossalmente!) della sanatoria del 2002 (pp. 88-100). La legge contro il caporalato, come molte altre leggi a tutela del lavoro “autoctono” o “straniero” che sia, di fatto ancora oggi non viene applicata; la “distrazione” delle istituzioni nella tutela dei migranti, del lavoro e dei giovani in generale, emerge, per contrasto, proprio con i paesi europei in cui emigrano gli italiani, dove c’è un’aria meno soffocante, razzista ed omofoba rispetto all’Italia. Secondo alcune testimonianze, “qui in Francia si respira un gratificante senso di “normalità”, che non riguarda soltanto persone di origini diverse” (p. 113); oppure “un Paese [il Regno Unito] che offre queste opportunità è un Paese civile […] e che fa della diversità una risorsa, perché la sa gestire. In Italia si parte già sconfitti” (p. 151). Italiani e marocchini, per quanto con effetti di disagio materiale molto diverso, scontano entrambi, oltre alla mancanza di libertà civili, anche l’assenza di servizi e diritti globali, e, nell’era della crisi finanziaria e delle risposte sostanzialmente neoliberiste, la compressione del welfare state e dei diritti sociali promossi dallo stato-nazione.
Altro punto importante che emerge dal libro è la mobilità che caratterizzerebbe i giovani di tutte le classi sociali e di tutti i livelli di istruzione, esattamente come nel passato. Il fatto che il livello di istruzione medio sia cresciuto rispetto agli anni Cinquanta e Sessanta non permetterebbe infatti di riassumere la vicenda dei giovani cittadini italiani all’estero nel paradigma della “fuga dei cervelli” (un’espressione effettivamente riduttiva, sciovinista e, soprattutto, deresponsabilizzante per la classe dirigente italiana: trattandosi di “cervelli”, infatti, si presupporrebbe che una volta all’estero essi non necessitino di troppe tutele). I giovani italiani, alla pari degli immigrati che approdano in Italia, cercano spesso infatti un lavoro qualsiasi, non necessariamente quello corrispondente al proprio titolo di studio (p. 22), tanto che si parte molto spesso senza un contratto. Come nell’Ottocento, i legami informali giocano un certo ruolo nell’orientare i migranti nella scelta della destinazione, per cui addirittura nel saggio di Adriana Bernadotti si analizza il ruolo dei nuovi “apripista” nella riscoperta dell’Argentina, la più importante meta storica dell’emigrazione italiana che, passata la crisi del 2002, ha visto progressivamente aumentare il numero di ingressi di persone provenienti dall’Italia (p. 64). Oggi tuttavia, molto spesso, tali legami non hanno un volto e sono sostanzialmente spersonalizzati e precari (tanto quanto il lavoro), basandosi spesso su informazioni, contatti e notizie reperite sulla Rete.
L’analisi della “fluida” situazione presente, condotta soprattutto con gli strumenti interpretativi dell’antropologia (per quanto in alcuni punti con poco rigore scientifico), sarà in grado di riorientare anche la ricerca storica che avrà quindi lo scopo di rispondere ad alcune delle domande qui lasciate aperte. Prima tra tutte, la legittimità dell’uso del paradigma generazionale nella definizione delle peculiarità dell’ “emigrazione mediterranea” degli anni Duemila.