Attraversati dai confini. Emigrare rimanendo (quasi) fermi

La storiografia relativa agli spostamenti di popolazione da, verso ed all’interno delle aree adiacenti alla “mobilissima” frontiera nordorientale italiana, così come gli stessi protagonisti delle migrazioni e la memoria sociale ed istituzionale, hanno molto spesso enfatizzato la dimensione straordinaria dei movimenti di popolazione avvenuti nel passato a cavallo o a ridosso dei confini orientali. L’immagine che generalmente emerge, modellata sulla vicenda dell’esodo istriano, rappresenta l’estremo lembo nord-est come un’area in cui ci si è spostati prevalentemente con il confine, e non anche attraverso o nonostante il confine:

“La nostra è stata un’emigrazione diversa da quella tradizionale delle altre regioni italiane, in quanto non è stata determinata, principalmente, dalla necessità di sfuggire a condizioni di miseria e sottosviluppo ma è stata, in gran parte, determinata dalle travagliate vicende storico-politiche che hanno interessato le zone della Venezia Giulia, dell’Istria, di Fiume, delle isole del Quarnaro e della Dalmazia”.(1)

Di conseguenza è stata talvolta sottostimata la propensione della popolazione a “normali” pratiche di mobilità legate a motivazioni professionali: la tradizionale emigrazione economica; gli spostamenti pendolari o temporaneamente ripetuti che, pur presupponendo l’attraversamento di un confine amministrativo, etnico, “altimetrico” od economico, non comportavano un vero e proprio processo di sradicamento per chi compiva il “salto”, dal momento che veniva raggiunto uno spazio percepito come noto e familiare, oltre che relativamente vicino e da cui era estremamente facile rientrare.
Al centro del presente contributo stanno quindi coloro per i quali attraversare frequentemente tali frontiere ha rappresentato nel corso della storia un’ordinaria pratica legata al lavoro, e coloro che sono stati “attraversati”, assieme alla loro quotidianità dai confini stessi, cioè chi è rimasto nel proprio luogo di nascita ogni qual volta le frontiere sono state ridefinite o chi ha continuato a muoversi per brevi distanze all’interno di un’area precedentemente libera. Si analizzeranno innanzi tutto alcuni risultati ottenuti dalla storiografia del confine orientale e dei suoi movimenti di popolazione; si proveranno quindi ad abbozzare delle linee di ricerca, analizzando il funzionamento di alcuni sistemi migratori di medio o lungo periodo, anche sfruttando alcuni materiali finora indagati in modo marginale relativi all’emigrazione frontaliera friulana in Austria-Ungheria tra Ottocento e Novecento ed agli spostamenti di popolazione a corto raggio che hanno investito la città di Trieste prima e dopo la Seconda Guerra Mondiale.

1. IL CONFINE ORIENTALE ITALIANO ED IL MITO DELLA FRONTIERA ETNICA NELLA STORIA E NELLA MEMORIA
Nell’Europa dell’Ottocento e del Novecento, i confini nazionali, al contrario della “frontiera” americana di Turner, rappresentarono più un vincolo che un’opportunità per le popolazioni. Tuttavia, anche i confini europei controllati dagli Stati e in misura minore dalle popolazioni residenti in loro prossimità, possono essere considerati al pari della frontiera statunitense un “mito” funzionale alla promozione degli obiettivi nazionali, un costrutto culturale, un discorso ideologico in grado di produrre particolari effetti psicologici, culturali ed identitari.
Il confine orientale e nord-orientale italiano, tra il 1861 ed il 2007, è stato un limes “mobile”, critico, mitico, volutamente indeterminato (2); è una frontiera che continua ad essere percepita come soglia problematica anche oggi, dopo l’adesione di Italia, Austria e Slovenia a Schengen(3). È questo il risultato dell’intrecciarsi delle molte e contraddittorie frontiere visibili ed invisibili che si è creduto di riconoscere (quando in realtà venivano reificate) come esistenti al fianco dello stesso confine amministrativo. Si tratta di soglie ideologiche o “immaginate” prima ancora che antropologiche, geografiche o materiali, ma che pure hanno avuto degli effetti a diversi livelli in quanto concretizzatesi nelle pratiche amministrative e di polizia, nella percezioni di sé e dell’altro, nei linguaggi di legittimazione, nei dispositivi di esclusione ed inclusione, nelle narrazioni identitarie che legavano “comunità immaginate” a precise e rigide appartenenze territoriali.
Particolari significati venivano (e vengono ancora oggi) attribuiti alla reale o presunta frontiera linguistica, un limes che, soprattutto nel corso del Novecento, si riteneva fosse sorto nella notte dei tempi(4): esso avrebbe da sempre separato il “mondo latino” (o romano o veneziano o occidentale) e il “mondo slavo” (o “est”, o comunismo). Paradossalmente, fu proprio l’indeterminatezza della frontiera linguistica a giustificare la ripetuta violazione e messa in discussione dei confini da parte degli Stati: il Regno d’Italia, la Federativa di Jugoslavia, la Repubblica Italiana. Gli stati hanno così cercato, non solo di “espandere” la frontiera, ma anche di attuare ai lembi estremi della loro sovranità dei veri e propri progetti di semplificazione etnica e/o politica, favorendo l’emigrazione di quei soggetti ritenuti appartenenti ad etnie, a minoranze linguistiche, a categorie produttive o politiche ritenute potenzialmente pericolose(5) ; in senso uguale e contrario, come già sottolineato per i suoi riflessi nella storiografia, l’emigrazione di chi si trovava “dalla parte giusta” del confine è stata quindi interpretata come “straordinaria” o comunque messa in connessione con la sfera politica e con il fenomeno dei movimenti forzati di popolazione. Il discorso della frontiera etnico-linguistica e della competizione “naturale” tra i gruppi residenti fu proiettato e perfezionato anche da ulteriori schemi che interpretavano in termini antitetici e gerarchici “l’al di là” e “l’al di qua”: il confine tra le città e le campagne, per cui le seconde, abitate da sloveni e croati, sarebbero dovute essere subordinate e tenute ben distinte dalle prime, in nome di una presunta relazione gerarchica tra settore secondario/terziario e primario(6); il confine tra le pianure/coste e gli entroterra collinari e montuosi(7); il confine tra il Friuli “storico” (coincidente con il medievale Patriarcato di Aquileia) e la Venezia Giulia, aree spesso percepite e descritte come in competizione per le risorse amministrate dalla Regione a Statuto Speciale; il confine tra le zone economicamente connesse al resto della nazione e le zone scarsamente e male allacciate proprio a causa della loro posizione a ridosso del confine politico-amministrativo, e quindi vera e propria “periferia” produttiva(8); la distinzione tra la presunta autoctonia e la presunta origine “altra” dell’una o l’altra popolazione residente nell’uno o l’altro territorio. Al centro di tale intricata rete materiale ed ideale di soglie, di rappresentazioni e di cliché, ma anche di progetti politici e nazionali, sta o viene posta Trieste, città “di confini” e non solo “di confine”, luogo di origine ed allo stesso tempo di destinazione di molteplici miti politici.
Un dato è tuttavia acquisito dalla storiografia: gli intrecci tra dimensione locale e dimensione nazionale nelle gestione del confine orientale hanno imposto l’antislavismo verso l’interno e l’antijugoslavismo verso l’esterno come rilevanti (quando non maggioritarie) componenti della cultura politica italiana fin dalla nascita del Regno; tali orientamenti sono infatti riusciti ad incidere nella storia e su ampi settori dell’opinione pubblica friulgiuliana e nazionale, anche di orientamento liberale, democratico, cattolico, autonomista o di sinistra, con conseguenze effettivamente disastrose nel momento in cui la stessa Jugoslavia, uscita vincitrice da un conflitto che non aveva contribuito a provocare, pose nuovamente la questione dei confini presentando il conto a nome di coloro che fino a quel momento erano stati indicati come idealmente appartenenti “al di là” pur essendo “al di qua”.

2. SULLE PISTE DEI CRAMARS: L’EMIGRAZIONE FRONTALIERA VERSO L’IMPERO ASBURGICO
Il confine tracciato tra l’Italia e l’Austria-Ungheria nel 1866 correva attraverso i territori dell’attuale Friuli-Venezia Giulia. Esso separava Udine e la sua enorme provincia (annessa con il Veneto al Regno d’Italia) dalle città e dai territori limitrofi, dominio degli Asburgo: Gorizia, Trieste, e Monfalcone (parte del “Litorale Austriaco”), la Carinzia, la Slovenia. Tale frontiera fu il primo confine moderno realmente operante nell’area; esso ristrutturò dal punto di vista istituzionale gli spazi in forme inedite per la popolazione residente; il nuovo confine ebbe anche profondi riflessi sulle modalità dell’evoluzione economica e civile del territorio che (con la parziale eccezione del porto di Trieste) fino a quel momento si era sviluppato lungo direttrici sostanzialmente premoderne (per quanto non necessariamente “arretrate”), legate soprattutto al contesto locale, piuttosto che alle cornici statuali(9). La creazione del confine rappresentò per molti individui, da una parte e dall’altra, il primo incontro con lo Stato moderno(10); la reazione iniziale fu quindi sostanzialmente negativa, dal momento che la popolazione continuò a muoversi come se quel confine non fosse esistito, aggirando, anche attraverso forme collettive ed organizzate, i divieti, le barriere e le altre forme di controllo, così come sarebbe avvenuto ogni qual volta esso fu ridefinito(11). Nello stesso periodo, con l’emergere delle istanze di “nazionalizzazione delle masse”, l’élite dirigente liberal-nazionale austro-italiana, sfruttando il decentramento amministrativo dell’Impero Asburgico, cercò di edificare all’interno dell’area mistilingue del Litorale Adriatico ed in particolare a Trieste le già citate barriere “etniche” che si pretendeva di trasformare in futuro confine di Stato o in altri dispositivi discriminatori. Paradossalmente però, proprio nei decenni immediatamente successivi la creazione dei confini materiali e immateriali, il movimento pendolare e migratorio a corto raggio che connetteva i territori limitrofi raggiunse i suoi massimi sviluppi.
Per i friulani, divenuti sudditi italiani, lo spostamento temporaneo, ripetuto o stagionale nei territori rimasti sotto il dominio degli Asburgo continuò a rappresentare una risorsa economica importante anche dopo il 1866, nonché un vero e proprio “stile di vita”, lo stesso che fin dall’Ancien Régime aveva caratterizzato la storia dei “cramars”, i venditori ambulanti che partendo dalle zone di montagna, si spingevano per la propria attività commerciale nei territori a valle di entrambi i versanti dell’arco alpino, smerciando anche i prodotti dell’industria tessile ed alimentare domestica della Carnia. A partire dagli anni 1880, le possibilità occupazionali e le mete del lavoro temporaneo o stagionale in Austria-Ungheria per gli operai friulani di collina o di montagna addirittura si moltiplicarono grazie agli sviluppi dei mezzi di trasporto e di comunicazione(12). A partire da Trieste o dalla vicina Carinzia, come per un effetto di “rimbalzo”, i friulani scoprirono e sfruttarono possibilità di lavoro e guadagno in Germania, in Slovenia, in Ungheria, in Romania, in Bosnia, in Serbia, come notò anche uno studioso di fine Ottocento che aveva analizzato le relazioni del console italiano a Fiume:

“A Fiume, il porto principale dell’Ungheria, gli italiani si trovano numerosi in certe epoche dell’ anno; ma non si può dire che essi vi si rechino nella lusinga di trovare occupazione nel porto; bensì per sparpagliarsi da questa città in tutte le parti dell’ Ungheria e della penisola balcanica”(13).

L’intera area danubiana e mitteleuropea diventò quindi, nonostante il confine, uno spazio aperto, familiare e quindi raggiungibile, quasi una “frontiera” nel senso americano del termine, all’interno della quale era possibile vendere il proprio lavoro e la propria professionalità pur mantenendo la residenza in Friuli; i tradizionali network di lavoro transfrontaliero, da locali ed a corto raggio, divennero quindi “continentali”, per quanto, molto spesso, ci si continuava a spostare prevalentemente a piedi. La relativa vicinanza del confine e dei luoghi da raggiungere, determinarono anche peculiari pratiche di intermediazione: il collegamento tra gli operai friulani e gli imprenditori austro-ungarici era infatti stabilito da cittadini italiani residenti in Italia, e non dai leader etnici (“boss” o “caporali”) residenti nel paese di immigrazione. Essi erano significativamente indicati anche al di qua del confine con un espressione di lingua tedesca, i polier, cioè i “capomastri”. I polier, in diretto contatto con gli imprenditori austriaci, dopo aver firmato i contratti e assunto gli operai, partivano al loro seguito per sorvegliare e coordinare il lavoro direttamente nelle località in cui sarebbe stata prestata l’opera; con gli operai sarebbero rientrati durante l’inverno. Tale pratica, sconveniente per l’operaio dal momento che il guadagno del polier era generalmente sottratto al monte-salari della squadra di lavoratori, rafforzò il carattere temporaneo dell’emigrazione, accentuò l’isolamento degli operai friulani nelle località di destinazione, favorì il crumiraggio. Spesso i polier diventavano temporaneamente imprenditori nel senso vero e proprio del termine, dal momento che si vedevano subappaltare non solo il reclutamento degli operai e la loro sorveglianza, ma la costruzione di intere parti dell’opera che doveva essere consegnata conclusa. Per tale motivo i polier, per quanto restii, dovevano spesso anticipare le retribuzioni degli operai: questa situazione determinava un complicato ping-pong di capitali attraverso la frontiera.
È bene ribadire che, a contrario dell’emigrazione diretta verso Francia e Svizzera, l’emigrazione italiana in Austria-Ungheria rimaneva, anche a cavallo di Ottocento e Novecento, prevalentemente emigrazione temporanea, veneta e friulana, quindi, in senso lato, “frontaliera”; vedeva cioè protagoniste soprattutto, per quanto non esclusivamente, le popolazioni vicine al confine(14). Le ragioni di questa peculiarità vanno cercate, oltre che nella già citata pratica dei polier, anche negli ostacoli frapposti dalle autorità austro-ungariche alla naturalizzazione degli italiani(15) e nella precarietà degli impieghi che rendeva poco conveniente le spese dei viaggi via terra o via mare fino al confine austro-italiano per chi proveniva da regioni italiane molto distanti.
Giovanni Cosattini della Società “Umanitaria”, riteneva che all’inizio del Novecento il Friuli fornisse circa un quarto di tutta l’emigrazione temporanea italiana che stimava nel 1903 in circa 280.000 persone(16). Tali network di mobilità incisero profondamente nello sviluppo economico e sociale del Friuli in quanto “regione migratoria”(17), ritardarono lo spopolamento della montagna nonostante il permanere di sacche di arretratezza, aumentarono la capacità di consumo della popolazione (maschile) e la circolazione monetaria, contribuirono a costruire l’immaginario “etnico” dei friulani (successivamente utilizzato anche a scopo politico per cui la retorica della “tradizione migratoria” e la memoria dell’emigrazione veniva interpretata in senso positivo o negativo, a seconda dell’uso che se ne voleva fare)(18). Tale “sistema migratorio” crollò allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, quando fu organizzato in fretta e furia il tumultuoso rimpatrio anticipato (in quanto predisposto a metà stagione) di circa 80 mila residenti della provincia di Udine; tuttavia, negli anni successivi al conflitto, il dirottamento dell’emigrazione temporanea friulana verso altre mete europee (principalmente Belgio, Francia e Svizzera) o l’Africa Orientale Italiana, fu letta e vissuta come espressione “alternativa” dei tradizionali spostamenti frontalieri, pendolari o stagionali per lavoro verso Trieste, l’Austria-Ungheria e la Germania. Il “dovere” di partire, rientrare e ripartire, così come il modello del “matrimonio alla friulana”, per cui il marito-padre rientrava a casa solo nel periodo di Natale (a causa delle mete di lavoro sempre più lontane), sarebbe stato messo in discussione in Carnia e nel Friuli solo nella seconda metà degli anni Sessanta dalle giovani generazioni che avevano vissuto “l’autunno caldo” e che rifiutavano esplicitamente lo stile di vita dei propri padri e nonni e l’intera storia migratoria del Friuli:

“L’emigrazione da allora [inizio del Novecento, n.d.a.] è sempre stata in continuo aumento. Bisogna solo ammettere che non si cammina più per centinaia di chilometri a piedi, ma che oggi le mete vengono raggiunte più rapidamente anche se spesso si trova a stento un posto in piedi nei corridoi dei treni [mentre] la macchina è soltanto uno scherzo che il capitalista concede [dopo aver impiegato l’emigrato nelle fabbriche], avendogli spremuto fino all’ultima goccia di sangue”(19).

3. TRIESTE ED I SUOI “INGORGHI UMANI”: REGNICOLI, ALEKSANDRINKE, SAURINE
Cambiando versante del confine, va rilevato innanzitutto tra Ottocento e Novecento dall’Austria all’Italia non esistesse un vero e proprio regolare movimento di operai, come era invece per la direzione inversa: per i sudditi degli Asburgo, negli spostamenti per lavoro a corto raggio, il confine austro-italiano rappresentò quindi un termine, non un punto di passaggio. Molto consistente era, però, il numero di coloro che passavano la frontiera per raggiungere Genova ed imbarcarsi per l’America, dal momento che il Nuovo Mondo non era raggiungibile dai porti dell’Impero fino al 1903, quando a Trieste e Fiume furono stabilite regolari linee di navigazione. In tutta la parte meridionale dell’Impero venivano venduti i biglietti delle navi in partenza dai porti italiani; gli “agenti di emigrazione” con sede ad Udine, in sinergia con le autorità dei governi dei paesi di destinazione ed in particolare con il consolato argentino di Trieste, operavano al di qua ed al di là del confine nella loro “caccia” ai potenziali coloni da inviare in Brasile ed Argentina. L’andamento statistico dei flussi in uscita dalla provincia di Udine per l’America è quindi perfettamente sovrapponibile a quello relativo agli emigranti dell’Istria, del Goriziano e della Slovenia sud-occidentale, cioè i territori limitrofi amministrati dall’Austria-Ungheria(20). Si può quindi parlare di un unico network migratorio che indirizzava verso il Nuovo Mondo via Genova le popolazioni della pianura e della costa al di qua ed al di là del confine(21). In modo uguale e contrario, quando effettivamente le compagnie di navigazione austriache iniziarono a fare concorrenza alle compagnie italiane, a Trieste cominciarono ad imbarcarsi cittadini italiani renitenti alla leva, oppure persone che già si trovavano nella città adriatica o che vi erano arrivati passando clandestinamente il confine: erano questi i così detti “regnicoli”, gli italiani privi della cittadinanza austro-ungarica residenti nello scalo giuliano. Ai tempi dell’Impero esisteva infatti un consistente nucleo di cittadini italiani residenti a Trieste, soprattutto friulani.
Per quanto essi fossero favoriti nei settori dell’economia direttamente controllati dalla politica locale, per l’élite liberal-nazionale e per il movimento irredentista la loro presenza non era sufficiente a preservare la presunta italianità della città, dal momento che i “regnicoli”, a contrario degli immigrati slavofoni, in quanto stranieri non avevano diritto di voto, erano poco propensi ad assumere la residenza stabile e quindi erano scarsamente sfruttabili in chiave elettorale. Per tale motivo, negli anni immediatamente precedenti la Prima Guerra Mondiale, gli irredentisti costituirono un circolo filantropico ad hoc, attraverso il quale intendevano favorire l’immigrazione in città di operai trentini, di lingua italiana, ma cittadini austroungarici, quindi con diritto di voto e, per l’immaginario irredentista, potenzialmente utili a “correggere” gli equilibri etnici e politici della città in senso filo-italiano. L’iniziativa ebbe scarso successo, dal momento che i trentini continuarono a preferire l’emigrazione verso le nazioni latinoamericane piuttosto che verso Trieste, città tutto sommato lontana, “estranea” e che offriva prevalentemente occupazioni precarie, legate ai lavori di costruzione del nuovo porto e della ferrovia protrattisi tra il 1901 ed il 1913; tuttavia tale progetto di “selezione” della migrazione interna all’Impero può essere considerato il primo vero tentativo di semplificazione etnica dell’area attuato “dall’alto” attraverso strumenti diversi dall’inculturazione forzata(22). La crescita della popolazione di Trieste, che presentava un bassissimo saldo naturale, continuò quindi ad essere garantito, oltre che dai “regnicoli” che attraversavano il confine amministrativo ma rientravano in patria una volta guadagnate le preziose corone austriache, dalle popolazioni slavofone o mistilingue dei distretti adiacenti che violavano la frontiera “etnica”. Le fonti esistenti non permettono di rilevare e quantificare con precisione il carattere temporaneo, stagionale o pendolare dell’immigrazione dal circondario verso Trieste nel contesto dell’immigrazione in generale; è possibile tuttavia rilevare la predominanza della componente femminile, e mettere in relazione l’afflusso dei giovani uomini non tanto con i fattori “pull” (l’attrazione esercitata dalla crescente industria locale) quanto con i fattori “push”, quali la progressiva modernizzazione in senso capitalistico dell’agricoltura slovena, l’espulsione dal mercato del lavoro di contadini poveri esclusi dalla razionalizzazione produttiva, l’apertura al mercato e la formazione del movimento cooperativistico. Tali fenomeni si verificarono prima in Slovenia, poi nel Goriziano ed infine, in misura minore, in Istria, aree dalle quali tra il 1860 ed il 1915 provenivano la maggior parte degli immigrati di lingua slovena e croata o bilingui sloveno-italiano.
Il porto giuliano, connesso con il Mediterraneo orientale fin dal Settecento, servì anche da “trampolino di lancio” per le slovene, goriziane e, in minore misura friulane, istriane ed austro-italiane che lavoravano ad Alessandria d’Egitto come balie o domestiche, le cosiddette “Alessandrine”, che, non a caso, in Egitto erano chiamate “le Slovene” o “le Goriziane”(23). Si trattava anche in questo caso di un’emigrazione “a rimbalzo”, dal momento che spesso le “Alessandrine” partivano dopo aver lavorato qualche anno nella stessa Trieste. L’allontanamento dalla famiglia (e spesso, dai figli) avveniva così “a tappe” e rendeva meno traumatico il distacco. Il network avrebbe continuato a funzionare oltre la fine della Seconda Guerra Mondiale, e avrebbe fatto affluire nel ricco porto africano attraverso Trieste donne provenienti da entrambi i versanti del confine italo-jugoslavo. Erano ragazze di madrelingua slovena e croata, ma di diverso status socio-economico, anche le protagoniste del commercio al dettaglio che veicolava i prodotti dell’hinterland nella città di Trieste; latte, pane, pesce, carne erano i principali prodotti che fin dalla giovanissima età le ragazze trasportavano in estenuanti marce che potevano durare anche più di un giorno. Lo scrittore sloveno Marjan Tomšič, originario di Maribor, ma residente a Gračišče nell’Istria settentrionale dove insegnava lingua slovena, nel 1986 dopo aver raccolto le testimonianze delle anziane del posto ricostruì e descrisse in un romanzo di grande successo, poi tradotto in Italiano, il network del commercio delle uova che, raccolte in tutta l’Istria, venivano trasportate e vendute a Trieste ad opera delle “Saurine”, le ragazze della zona(24). Tale sistema da una parte manteneva le donne slovene dell’area vincolate al sistema produttivo del settore primario dominato dalla componente maschile della famiglia, ma allo stesso tempo le elevava fin da prima del matrimonio a detentrici della parte monetaria del reddito familiare (a contrario di quanto accadeva in Carnia, in cui come visto, tale ruolo spettava ai maschi in seguito all’emigrazione in Austria e Germania: da qui, tra l’altro, la diffusione dell’alcolismo). Le donne che viaggiavano regolarmente a Trieste, bilingui, diventavano per la comunità di origine anche i vettori delle informazioni su quanto accadeva al di là della barriere etnica, e, nei viaggi di ritorno, le detentrici di merci che erano difficilmente reperibili nelle zone interne dell’Istria, tra cui il petrolio. Alla pari delle Alessandrine dunque, le pendolari che smerciavano prodotti alimentari arricchivano le aree di origine non solo con il denaro, ma anche con un patrimonio di conoscenze e di esperienze; non a caso, in tutto il romanzo di Tomšič, l’unica figura maschile “mobile” e di un qualche spessore è quella del postino che viaggia lungo i percorsi delle Saurine. Tali forme di commercio, obsolete ma non antieconomiche per le famiglie dell’area, sopravvissero almeno fino agli anni 1970-1980. I territori di origine e le strade lungo cui si snodavano i percorsi delle Saurine e delle altre donne che smerciavano i prodotti, sarebbero stati prima annessi in blocco al Regno d’Italia, poi, dopo la Seconda Guerra Mondiale, attraversate dai confini; ciò tuttavia non impedì alle donne di continuare a praticare la propria attività che, dopo il 1954, veniva svolta con il benestare di agenti “tolleranti” della Guardia di Finanza Italiana(25) o assumeva anche la forma del contrabbando(26). Le protagoniste di tali sistemi pendolari violavano quindi contemporaneamente i confini “di genere”, “etnici” e di classe(27), oltre a quelli amministrativi; anche per questo sollevarono fino a tempi molto recenti sospetti, paure, diffidenze, sia nei luoghi di origine, che nella città, dal momento che molto spesso lasciavano i figli dietro di sé, oppure si sospettava che esercitassero saltuariamente la prostituzione, o che vendessero, dopo esserseli procurati in luoghi diversi da cui provenivano, prodotti adulterati(28). La stessa pubblicistica “allarmistica” coeva all’Esodo istriano, prevalentemente di sinistra, non mancava di sottolineare il ruolo di “apripista” svolto dalle prostitute di Fiume, trasferitesi in massa a Trieste dopo la chiusura dei casini ad opera del regime comunista jugoslavo(29).
La Prima Guerra Mondiale (con la successiva definizione del primo confine italo-jugoslavo e l’occupazione/annessione italiana dell’ex Litorale Austriaco), fu il primo di una serie di eventi straordinari (per quanto tutto sommato “consueti” nel tragico contesto della storia europea della prima metà del Novecento) che misero in movimento forzato le popolazioni dell’area, lungo direttrici parallele rispetto a quelle percorse dai vari pendolari, stagionali e frontalieri nei decenni precedenti. I primi a subire il processo di espulsione, come visto, furono i regnicoli, allontanati nel 1915 da Trieste e dal resto dell’Austria-Ungheria, quando non internati perché in età di leva, poi rientrati dopo la guerra ed organizzati politicamente dal Fascio di Trieste. Poi, con lo stabilizzarsi del fronte poco ad est del confine del 1866, tanto le autorità del Regno che quelle dell’Impero organizzarono lo spostamento di decine di migliaia di civili, in particolare di persone ritenute potenzialmente “pericolose” dal punto di vista etnico o politico: gli sloveni nei territori occupati dall’Italia, gli italiani filo-irredentisti nei territori fino al 1918 ancora sotto controllo degli Asburgo. Dopo la firma del trattato di pace, le autorità militari italiane cercarono di applicare un “filtro” etnico e politico a coloro che intendevano rientrare a Trieste o negli altri territori di origine. Si era creato quello che Franco Ceccotti ha definito un vero e proprio “ingorgo umano”(30): soldati che cercavano di partire senza riuscirci, civili che pretendevano di tornare, ma che erano ostacolati nei loro intenti dalle autorità italiane.
Negli anni successivi, le autorità del Regno d’Italia incentivarono in vari modi l’emigrazione di coloro che, pur essendo di lingua slovena, erano diventati cittadini italiani contro la propria volontà: tra il primo ed il secondo conflitto mondiale emigrarono in Jugoslavia dal Friuli Venezia Giulia, dall’Istria e dalla parte di Slovenia annessa dall’Italia circa 70.000 persone; esse furono accettate dai governi, ma non sempre dalle popolazioni del Regno balcanico nel quale erano state sventagliate e sottoposte a controllo politico; la scelta tuttavia si presentava praticamente irreversibile e poco adatta a qualsiasi forma di pendolarismo o frontalierato verso le aree di origine(31). All’appello mancavano anche circa 10.000 germanofoni nati o precedentemente residenti nei territori annessi dal Regno d’Italia, che si presuppone siano emigrati in Austria percorrendo al contrario i vecchi percorsi dei “cramars”(32), ed almeno 30.000 cittadini italiani di lingua slovena “incentivati” ad emigrare in Argentina nello stesso periodo.

4. DOPO LA SECONDA GUERRA MONDIALE. NUOVI CONFINI, LAVORATORI “FUORI ZONA”, STRANIERI RESIDENTI
Con la fine della Seconda Guerra Mondiale gli spostamenti da, verso ed attraverso le aree contese da Italia e Jugoslavia si complicarono ulteriormente. L’attuale Provincia di Trieste, cioè la Zona A del Territorio Libero di Trieste (Tlt) fu amministrata fino al 1954 dal Governo Militare Alleato angloamericano (Gma) e fu formalmente e materialmente separata dall’Italia e dalle attuali province di Gorizia e Udine. Verso est la Zona A confinava invece con la Jugoslavia lungo una linea spostata ad ovest rispetto al confine del 1919: la nuova frontiera teneva quindi Trieste separata da comuni quali Sezana e Postumia da e verso i quali non era mai stato un problema spostarsi; lo stesso si può dire per il confine sud che separava la Zona A dalla Zona B, cioè la parte dell’Istria governata dall’Amministrazione provvisoria jugoslava. Presso questi confini era sistemata una fitte rete di posti di blocco gestita dai militari angloamericani e jugoslavi. L’importanza del controllo su chi entrava e su chi usciva era la diretta conseguenza della preoccupazione del Governo militare alleato (Gma) e dei governi statunitense e britannico per il problema del mantenimento dell’ordine pubblico nella Zona, vera e propria ragion d’esistere della stessa “area cuscinetto”; attraversarli regolarmente, sia in ingresso, sia in uscita, non era quindi un’impresa semplice da un punto di vista burocratico. Per chi arrivava dall’estero attraverso la Repubblica italiana, italiano o straniero, non era sufficiente il semplice passaporto: esso doveva essere accompagnato da uno speciale permesso di viaggio rilasciato dal Gma. Il permesso, valido un mese, poteva essere vidimato dalle rappresentanze consolari britanniche o americane di varie città italiane ed europee oppure da una Questura italiana, per quanto vigesse comunque l’obbligo di utilizzare l’apposito modulo predisposto dal Gma(33). Lo stesso permesso era necessario anche per i cittadini della Zona che volevano recarsi temporaneamente in Italia o all’estero, transitando attraverso uno dei confini della Zona A, ad eccezione di quello a sud che la separava dalla Zona B, per attraversare il quale era sufficiente la sola carta d’identità che attestava la residenza in una delle due Zone. Il passaporto del Tlt, riservato ai residenti, a contrario del permesso temporaneo permetteva di entrare ed uscire liberamente dalla Zona e di recarsi e rientrare dall’estero senza limitazioni(34).
La complicata procedura per ottenere i permessi temporanei ed i passaporti, in ingresso o in uscita, fu oggetto tra il 1949 ed il 1950 di una serie di proteste da parte di alcune associazioni di categoria che temevano l’isolamento economico oltre che politico della città. Il problema dei nuovi confini e delle complicazioni burocratiche riguardava naturalmente anche i frontalieri che dovevano entrare nella Zona A per motivi di lavoro, quotidianamente o per un certo periodo di tempo, ma comunque senza assumere la residenza stabile a Trieste (che, per altro, non era facile ottenere, in quanto subordinata al possesso di un permesso di soggiorno rilasciato dalla Polizia). Tali lavoratori nel linguaggio burocratico dell’epoca venivano definiti in italiano “lavoratori fuori Zona” e in inglese “imported workers”; essi erano distinti dai lavoratori stranieri ma residenti, per i quali vigevano altre normative. Erano quindi considerati “lavoratori fuori Zona” tutti i cittadini italiani, jugoslavi o di altra nazionalità, che prestavano la propria attività a Trieste ma che restavano residenti nei comuni limitrofi di Italia, Jugoslavia o Zona B. L’azienda che intendeva assumere lavoratori fuori Zona doveva quindi presentare un’apposita domanda all’Ufficio del Lavoro (UdL)(35) che valutava la richiesta in relazione alla situazione della manodopera disoccupata e residente. Infatti, se per la qualifica che il frontaliero avrebbe dovuto ricoprire c’erano lavoratori disoccupati iscritti alle liste di collocamento, generalmente l’Ufficio dava parere negativo all’assunzione. La stessa procedura era richiesta anche per i dipendenti della temporaneamente decaduta amministrazione italiana che il Gma aveva “recuperato” includendoli nella propria struttura burocratica:

“Risulta non essere chiaro a qualche pubblico funzionario dirigente che per quanto riguarda la Zona A della Venezia Giulia questo HQ [Quartier Generale] assume la maggior parte della prerogative e delle funzioni di Ministeri Italiani […]. Nessun trasferimento di personale sia da, sia verso l’Italia può essere fatto senza l’approvazione del Gma”(36).

L’analisi della documentazione conservata presso l’Archivio di Stato di Trieste rivela come il parere dell’UdL non fosse vincolante per il rilascio del permesso di assunzione, dal momento che l’ultima parola spettava ai vertici della Labour Division del Gma, retta da funzionari americani. Da un punto di vista pratico, i funzionari americani avallavano quasi sempre le richieste presentate dagli imprenditori locali, qualunque fosse il parere dell’UdL; tale liberalità nella concessione dei permessi contrastava teoricamente, oltre che con le leggi della Zona, anche con la precisa volontà del Gma di alleviare per quanto possibile (anche con strumenti antieconomici quali il blocco dell’immigrazione) la disoccupazione locale, principale causa, secondo la loro interpretazione, della diffusione dell’ideologia comunista e delle tensioni sociali che nella Zona A si intrecciavano e si sommavano alle tensioni politiche e nazionali.
Furono migliaia gli operai e gli impiegati residenti fuori dal Tlt che con il permesso di “fuori zona” (quindi con un lavoro regolare) erano riusciti a lavorare nella città adriatica; comunque si trattava sempre una minoranza dei lavoratori attivi. La documentazione conservata presso l’archivio di Stato di Trieste permette di ricostruire la situazione di tali “frontalieri”, innanzi tutto nelle cifre. Se fino al 1947 nella provincia di Trieste, allora parte della Zona A della Venezia Giulia, i lavoratori fuori Zona erano stimati in 3.660 unità, con il trasferimento all’amministrazione italiana dei comuni di Gorizia e Monfalcone (dove lavoravano molti pendolari friulani ed isontini) essi scesero rapidamente a meno di mille. La cifra dei frontalieri registrati ufficialmente crebbe negli anni seguenti: nell’ottobre-novembre 1951 essa raggiunse il picco massimo di 1.800 unità, su un totale di circa 91.000 occupati regolarmente. Tra questi non erano computati i profughi di nazionalità italiana o di altra nazionalità, che non potevano utilizzare i canali dell’UdL per trovare un impiego; ad essi era riservata invece l’emigrazione assistita, che nella Zona A Tlt, a contrario della Repubblica Italiana, era organizzata soltanto per i profughi(37).
Le statistiche redatte dalla Labour Division del Gma sui “lavoratori fuori Zona”, cioè i transfrontalieri, non distinguevano a seconda della cittadinanza ma soltanto per nazione di residenza. Emerge quindi come nello stesso 1951, l’89% dei frontalieri arrivasse dalle provincie limitrofe dell’Italia, il 6% dalla Jugoslavia e solo il 4% dalla Zona B, dalla quale era, almeno in teoria, più facile entrare essendo sufficiente la sola carta d’identità(38). Per quanto riguarda le professioni esercitate dai “fuori Zona”, i muratori rappresentavano la maggioranza, il 56% del totale nel 1947 e addirittura il 61% nel 1951. Anche il Gma, contravvenendo il suo stesso ordine n. 72, aveva assunto nell’amministrazione civile alle sue dirette dipendenze e nella Polizia Civile alcuni lavoratori “fuori Zona” di cittadinanza italiana o stranieri residenti nella Zona A di cittadinanza tedesca, austriaca, jugoslava o apolidi (riteniamo si tratti prevalentemente di profughi), che nel complesso erano quasi l’8% degli oltre 5000 dipendenti civili degli angloamericani. Sulle ragioni che potevano indurre gli imprenditori e la stessa amministrazione angloamericana ad assumere i “fuori Zona” o gli stranieri residenti, il Labour Division dava le sue interpretazioni, riconducendo tale situazione ai programmi di lavori pubblici finanziati dallo stesso Gma o dall’attuazione nel Tlt del “Piano Marshall”, per avviare i quali non era stato possibile assumere lavoratori qualificati “autoctoni”, nonostante quella che veniva definita la “costante pressione [esercitata dal Gma] sui datori di lavoro affinché formassero persone locali allo scopo di rimpiazzare i lavoratori importati”(39).
La scarsa incidenza dei residenti nella Zona B tra i registrati come “fuori zona” va invece indubbiamente ricondotta ai limiti frapposti dalle autorità Jugoslave ai transiti in uscita, spesso anche frutto dell’arbitrio dei funzionari locali dell’amministrazione civile e militare: infatti il funzionamento dei varchi terrestri e marittimi che collegavano Trieste all’Istria settentrionale, lungo i percorsi delle Saurine, veniva periodicamente interrotto per intere giornate, senza preavviso e senza una fondata ragione apparente, comunque non in contraddizione con le direttive generali provenienti dall’alto(40). La stampa Jugoslava di lingua italiana, eterodiretta dall’autorità politica, stigmatizzava i pendolari sostenendo che essi “vendono la loro preziosa manodopera al di là del posto di blocco ai padroni capitalisti di Trieste […] sottraggono il pane ad altrettanti lavoratori triestini che sono costretti perciò a trascinarsi di porta in porta per le strade di Trieste alla ricerca di un lavoro che non troveranno mai […] non hanno ancora compreso che il loro avvenire non sta al di là del posto di blocco”(41). Paradossalmente, la stigmatizzazione dell’immigrato istriano che “ruba il lavoro” agli autoctoni triestini, iniziava quindi, per ragioni politiche, già nei luoghi di origine. Tra il 1950 ed il 1951 furono imposte ai pendolari delle restrizioni nel cambio e nell’uso degli stipendi ottenuti in Zona A, dal momento che in Zona B veniva emessa una valuta diversa; poi a Capodistria e Isola le mogli di alcuni pendolari “settimanali” (che cioè rientravano da Trieste solo nel fine settimana) si videro recapitare l’ordine di sfratto, dal momento che, sostenevano le autorità locali, gli alloggi dei frontalieri servivano a persone provenienti da altre parti della Slovenia e della Jugoslavia arrivate a loro volta in Istria per motivi di lavoro.
La storiografia dell’Esodo e la pubblicistica coeva ha generalmente espresso l’opinione che i lavoratori pendolari tra l’Istria jugoslava e la Trieste alleata, sui quali era calato il nuovo confine, fossero molto più numerosi di quanto emerge dai documenti ufficiali, in quanto molti sarebbero stati occupati “in nero” o avrebbero ottenuto una residenza fittizia a Trieste presso parenti o amici(42). Alcuni di tali frontalieri de facto ma non de iure, furono tuttavia “scoperti” dalle autorità jugoslave, si videro ritirata la carta d’identità del Tlt e furono minacciati di subire un procedimento penale o l’espulsione dalla Zona B.
Il parere espresso dall’UdL all’assunzione dei “fuori Zona” divenne vincolante a partire dall’ottobre del 1954, quando, dopo l’evacuazione dei militari alleati ed il ritorno della città sotto la sovranità italiana, il Governo italiano nominò ed insediò a Trieste un Commissario alle sue dirette dipendenze, con poteri più ampi di quelli di un prefetto e che aveva il compito di applicare progressivamente le leggi italiane nella Zona(43). Per alcuni mesi dunque, almeno fino all’inizio del 1955, gli imprenditori che intendevano assumere lavoratori fuori Zona, anche se cittadini italiani, videro respingere la propria richiesta; evidentemente si trattava dell’ennesimo tentativo di controllare dall’alto la popolazione locale dal punto di vista politico ed etnico e di porre un nuovo “filtro” agli spostamenti di popolazione. L’analisi sistematica delle domande respinte nel 1954 dall’amministrazione italiana, presentate anche più volte dagli imprenditori, ci permette di capire meglio il fenomeno dei “fuori Zona”. La motivazione prevalente con cui i datori di lavoro giustificavano la propria richiesta era la “fiducia” personale che essi riponevano nel lavoratore residente fuori città che intendevano assumere. È chiaro quindi che l’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro, in tale contesto, era prevalentemente avvenuta attraverso contatti e conoscenze personali, quindi, è ipotizzabile, attraverso il mantenimento in scala ridotta dei tradizionali network di lavoro temporaneo, pendolare e “rotatorio” che negli anni precedenti, come visto, avevano legato la città adriatica con i territori circostanti. In alcuni casi limite, gli imprenditori “minacciarono” l’UdL che non avrebbero assunto nessuno se non avessero ricevuto il permesso di impiegare la persona “fuori zona” di proprio gradimento:

“I motivi della presente richiesta sono: avere una persona di fiducia propria, la stessa non porta via il posto a nessuno perché altrimenti si fa a meno come si è fatto fino ad ora”(44).

Chi scrive ha iniziato anche lo studio sistematico di un altro interessante fondo documentario dell’Archivio di Stato di Trieste, nel quale sono stati depositati i libretti di lavoro di cittadini stranieri residenti nel periodo 1945-1970 (per cui vigeva una normativa diversa rispetto ai “fuori zona” ed agli esuli istriani che avevano mantenuto la cittadinanza italiana e si erano stabiliti a Trieste)(45). L’analisi a campione di 112 fascicoli, i cui dati sono stati raccolti e rielaborati in un database elettronico(46), permette già di ricostruire e comprendere meglio non solo il movimento di stranieri a Trieste nel periodo considerato, ma anche il funzionamento della normativa relativa all’ingresso di stranieri nell’Italia dell’epoca e, in generale, la storia degli “attraversati dal confine”: infatti più del 50% dei lavoratori stranieri presenti a Trieste nel periodo 1946-1970 e di cui si sta cercando di ricostruire la “biografia collettiva”, era nato nella stessa città adriatica, o in Friuli altre aree dell’Istria o della Slovenia annesse dall’Italia nel 1918 e quindi scappati dal Regno dei Savoia, autonomamente, o con i genitori. La maggioranza di essi aveva per lo più la cittadinanza jugoslava (circa il 60% dell’intero campione), e, a conferma della permanenza nel lungo periodo delle “tradizioni migratorie”, emerge una leggera prevalenza delle donne (domestiche, impiegate o maestre di sloveno nelle scuole riaperte dal Gma dopo la parentesi del Regno d’Italia) sugli uomini (prevalentemente operai). Il livello medio di istruzione e le qualifiche professionali dichiarate dagli “stranieri residenti” (che in questo caso potremmo paradossalmente definire anche “stranieri autoctoni”) erano infine piuttosto alte.

5. CONCLUSIONI
Le migrazioni avvenute presso ed attraverso la frontiera orientale italiana hanno coperto l’arco completo delle forme dei movimenti migratori europei del XIX e XX secolo(47). La storia del Friuli Venezia Giulia e delle aree confinanti è stata infatti segnata sia dall’emigrazione economica (a corto a lungo raggio, a “rimbalzo”, temporanea, pendolare o permanente) sia dai due grandi “esodi” coincidenti cronologicamente con lo spostamento dei confini, da considerarsi prevalentemente come migrazioni politiche e forzate: la partenza dalla Venezia Giulia di sloveni, croati e germanofoni verso Jugoslavia e Austria nel periodo 1918-1923, e l’esodo dall’Istria annessa da Tito tra il 1947 ed il 1955. È tuttavia quest’ultimo l’avvenimento che ha avuto maggior rilievo nella storiografia e nella memoria pubblica locale e nazionale, italiana e forse anche, di riflesso, slovena e croata. Le categorie interpretative costruite ed utilizzate per analizzare, comprendere e soprattutto commemorare l’esodo istriano sono quindi state utilizzate, spesso impropriamente o in modo troppo poco critico, per analizzare l’intera storia migratoria dell’area. In particolare si segnala l’uso eccessivo del paradigma nazionale e della “migrazione politica” (per cui l’appartenenza etnica o linguistica ed il “sentimento” nazionale sarebbero stati sempre i principali fattori “push” e “pull” alla base dei vari spostamenti di popolazione)(48), e la tendenza, controversa e pericolosa, a cercare di stabilire l’“autoctonia” o meno dei migranti soprattutto per ricavare da tale dato una qualche “morale” (per cui l’espulsione della popolazione “autoctona” sarebbe più iniqua dell’espulsione di coloro che pur non essendo nati nell’area vi avevano posto legittimamente la residenza in un momento successivo)(49). La sovraesposizione mediatica ed istituzionale della storia dell’esodo istriano, ha fatto anche sì che la narrazione storiografica e la commemorazione di altre migrazioni avvenute nell’area assumessero spesso i connotati e, per così dire, il sapore della countermemory (50): è questo ad esempio il caso dell’emigrazione dei circa 20.000 triestini in Australia avvenuta tra il 1954 ed il 1957, interpretata fin dal suo svolgersi come un “contro-flusso” di compensazione causato dall’arrivo in città degli esuli istriani, e parzialmente indotto dallo Stato italiano che aveva nuovamente messo le mani sulla città adriatica nello stesso 1954(51).
Alla luce degli elementi sopra menzionati non è quindi un caso che siano passati in secondo piano i piccoli ma intensi network di mobilità a corto ed a medio raggio funzionanti nel lungo periodo nonostante e spesso addirittura grazie alla vicinanza dei confini amministrativi o “etnici”, una “zona grigia” in grado di sfumare gli schemi ed i paradigmi interpretativi dualistici e spesso manichei sopra descritti. La principale sfida per gli studiosi della storia migratoria italiana e jugoslava è quella di mettere in connessione e trovare dei comuni denominatori tra fenomeni spesso percepiti come distinti se non addirittura reciprocamente incommensurabili e spesso “in competizione” nell’arena della memoria pubblica. L’ipotesi di fondo alla base della presente ricerca è che i network di mobilità del periodo dell’Impero Asburgico abbiano determinato una peculiare “cultura migratoria” che è sopravvissuta nel tempo al punto da indirizzare anche i percorsi “forzati” degli spostamenti in massa successivi alla fine della Prima e della Seconda guerra mondiale, oltre che, soprattutto nel Friuli, dell’emigrazione economica del secondo dopoguerra. Rimane ancora da capire quanto invece i grandi “esodi” di popolazione siano stati causati dall’interferenza delle nuove frontiere nel funzionamento degli ordinari circuiti di mobilità pendolare e circolare sui quali donne, uomini o, come visto, intere comunità, basavano la propria sopravvivenza materiale. Le vicende umane e collettive trattate nel presente lavoro, lasciano aperte ulteriori piste di ricerca, qui solo abbozzate o intravedibili in controluce. La prima è quella delle famiglie divise dai confini e della parallela permanenza di legami familiari ed amicali al di qua ed al di là della frontiera, sovrapposti ed intrecciati ai network di mobilità per lavoro, studio ed anche, nell’Italia del boom economico e nella Jugoslavia del non-allineamento e della distensione, ai percorsi del turismo di massa e del commercio internazionale. Tale tema sarà indagabile solo ed esclusivamente se si cercherà di leggere l’esodo istriano, oltre che nei suoi innegabili aspetti drammatici, anche come una “normale” migrazione, caratterizzata dalla “partenza” ma anche dall’arrivo, cioè dall’interazione e dall’integrazione nella società di arrivo fatto salvo il mantenimento di un legame più o meno forte con l’area di origine (al punto che molti istriani arrivati in Friuli Venezia Giulia dopo il 1947 sono tornati a vivere in Slovenia e Croazia come pensionati), da pratiche ordinarie quali le “visits home” e l’esibizione del “successo” e della promozione sociale ottenuta con la migrazione (per quanto al prezzo di tanta fatica e sofferenza).
L’altro grande tema da esplorare è quello della gestione e delle pratiche quotidiane legate al transito di confine; si tratta cioè di capire come abbiano realmente funzionato i servizi di frontiera e la gestione dei passaggi di merci e persone nelle varie epoche storiche, al di là dei contenuti degli accordi bilaterali tra Stati e dei protocolli di polizia e dogana definiti per via burocratica. Deve quindi essere ricostruita la storia soggettiva e collettiva del personale di controllo del confine, del suo rapporto con la popolazione locale e con “l’utenza” della frontiera, dei legami personali che inevitabilmente si devono essere formati con chi attraversava quotidianamente (legami che si può presupporre siano stati in grado di incidere sia nelle modalità e frequenza dei passaggi che nella ridefinizione di trattati e protocolli), ma anche delle ostilità e delle stigmatizzazioni di cui spesso poliziotti e doganieri furono bersaglio, emigranti essi stessi, dal momento che generalmente provenivano dal Sud Italia (per la polizia italiana) o dalla Serbia (per la polizia jugoslava). Sarà quindi paradossalmente necessario includere anche la vicenda umana e non solo professionale del personale di frontiera nella ricostruzione della composita storia della mobilità da lavoro che ha connesso luoghi, persone, esperienze nell’area del confine orientale italiano.
Il Friuli Venezia Giulia, per la sua particolare posizione, è stata infine una delle prime regioni dell’Italia repubblicana in cui l’immigrazione si è manifestata ed è stata percepita e gestita come un fenomeno “di massa” e permanente; all’esodo istriano, a partire dagli anni Settanta è seguita l’immigrazione (più contenuta) di lavoratori provenienti dal resto della Jugoslavia(52). Nel 1976 Manlio Cecovini, futuro sindaco della città e leader della Lista per Trieste (una formazione autonomista che raggruppava politici di diversa estrazione), in un’area segnata dal declino industriale, sociale e culturale, dalla stagnazione e dalla senilizzazione demografica, si opponeva al progetto di Zona Franca Transfrontaliera contenuto nel Trattato di Osimo paventando la nascita della “Nova Trst” che avrebbe ospitato gli operai, i quali avrebbero potuto compromettere la “superiore civiltà” della città italiana attraverso un “inevitabile imbastardimento ed inquinamento demografico e linguistico”(53). Nei giorni in cui queste righe vengono scritte (settembre 2015), vale la pena chiedersi, in sede storiografica, se Cecovini e la Lista per Trieste abbiano rappresentato il canto del cigno del tradizionale ma allora già obsoleto antislavismo ed antijiugoslavismo italiano, oppure una prima forma della “moderna” xenofobia dell’Italia post-boom economico.

(1) Così si è espresso il presidente dell’Associazione Giuliani nel Mondo in occasione del quarantesimo anniversario dalla fondazione: Giuliani nel mondo, 40 anni di sfide. Al via il raduno a Trieste e Gorizia, “Il Piccolo”, 15 settembre 2010.

(2) Per la storia politica e diplomatica dell’area, si veda Marina Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale, Bologna, Il Mulino, 2007.

(3) “Da dove può entrare in Italia un ipotetico terrorista che volesse mettere a segno un gesto eclatante durante l’Expo di Milano? Non da Lampedusa o dalle coste mediterranee, dove il viaggio sarebbe rischioso e il punto di approdo comunque lontanissimo dalla Lombardia. Molto più facile scegliere la frontiera di terra, lungo il confine del Friuli Venezia Giulia […]. Ai confini orientali d’Italia gli operatori di polizia […] sono molto preoccupati” (Giuseppe Pietrobelli, L’Expo sguarnisce Tarvisio, “Il Gazzettino”, 11 aprile 2015).

(4) In tal senso si potrebbe anche dire il risultato della costruzione di una memoria sociale artificiale, o di attualizzazione del passato. Tale tendenza coinvolse anche storici militanti della cosiddetta area di “irredentismo democratico”: Carlo Schiffrer, Italiani e slavi nella Venezia Giulia dal Medioevo ad oggi, Roma, Editrice italiana arti grafiche, 1946. Sull’uso pubblico della storia attuato del movimento nazionale sloveno, secondo cui la Venezia Giulia sarebbe stata invece abitata da “sloveni” ante litteram fin dalla preistoria, si veda Marta Verginella, La comunità slovena e il mito della Trieste slovena, in La storia del confine oltre il confine. Uno sguardo alla storiografia slovena, a cura di Marta Verginella, “Qualestoria” (numero monografico), 35, 1 (2007), pp. 103-118.

(5) Sull’Italia si vedano Piero Purini, Metamorfosi etniche. I cambiamenti di popolazione a Trieste, Gorizia, Fiume e in Istria. 1914-1975, Udine, Kappa Vu, 2010 (in questo caso il titolo è volutamente ironico, in quanto lo studio non è centrato su un’evoluzione antropologica “naturale”, ma sui tentativi di attuare una semplificazione etnica dall’alto ad opera dello Stato italiano); Sandi Volk, Esuli a Trieste: bonifica nazionale e rafforzamento dell’italianità sul confine orientale, Udine, Kappa Vu, 2004; in lingua inglese, Gianfranco Cresciani, Trieste goes to Australia, Lindfield, Padana Press, 2011. Sull’esodo degli italiani dalla Jugoslavia dopo il 1947 la storiografia è vastissima, cfr. Raoul Pupo, Il lungo esodo. Istria: le persecuzioni, le foibe, l’esilio, Milano, Rizzoli, 2005.

(6) Marta Verginella, Il paradigma città/campagna e la rappresentazione dualistica di uno spazio multietnico, “Contemporanea”, 11, 4 (2008), pp. 779-792.

(7) Sulla stereotipizzazione negativa della popolazione “in quota”, caricata di significati politici ed antropologici sia in ambito scientifico e letterario, sia nell’immaginario popolare, si veda Bojan Baskar, I paesaggi mediterranei ed istriani in chiave etnica, in La storia di confine, cit., pp. 133-155.

(8) Stefano Petrungaro, Annettere e connettere: l’Istria e Fiume, in Frontiera, periferia, a cura di Rolf Petri, “Qualestoria” (numero monografico), 38, 1 (2010), pp. 29-40. Per queste tematiche di veda Giulio Mellinato, L’unificazione separatrice. L’Italia, l’alto Adriatico e la prima globalizzazione (1861-1914), “Quaderni giuliani di storia”, 32, 1-2 (2012), pp. 177-190.

(9) Nell’età moderna infatti, il confine terrestre tra la Repubblica di Venezia ed i domini degli Asburgo non era di fatto sorvegliato, essendo la Serenissima interessata soprattutto a far rispettare i confini marittimi.

(10) Sul comportamento della popolazione nel periodo in cui il confine tra Italia e Jugoslavia fu tracciato nei pressi di Gorizia, nel 1947, si veda ad esempio l’interessante Katja Škrlj, All’ombra del Muro di Berlino. (De)costruendo la memoria di una città divisa a Gorizia e Nova Gorica, “Memoria e Ricerca”, 39 (2012), pp. 51-64.

(11) Paradossalmente, nello stesso periodo, con la crisi dell’industria tessile della pianura friulana dovuta all’unificazione del mercato nazionale italiano, si chiudeva uno dei tradizionali sbocchi del lavoro temporaneo degli operai di montagna.

(12) Pietro Sitta, L’Emigrazione Italiana nell’Europa Centrale e Orientale, “Giornale degli Economisti”, serie seconda, 9, 5 (1894), p. 39. Giovanni Cosattini, L’emigrazione temporanea del Friuli, Ristampa anastatica dell’edizione originale (1903), Trieste – Udine, Direzione Regionale del Lavoro, Assistenza Sociale ed Emigrazione della Regione Autonoma Friuli – Venezia Giulia, 1983; Bianca Maria Pagani, L’emigrazione friulana dalla metà del secolo XIX al 1940, Udine, Arti Grafiche Friulane, 1968.

(13) Questo valeva anche per Trieste. Esistono tuttavia alcune significative eccezioni, come ad esempio quella dei friulani che trasferirono la propria residenza in Romania, dove ancora oggi, nelle aree un tempo parte dell’Austria-Ungheria, vivono numerosi discendenti di quei “coloni” e dove esiste anche un “Fogolar Furlan”, cioè un circolo aderente all’Ente Friuli nel Mondo.

(14) G. Cosattini, L’emigrazione temporanea, cit., p. 13.

(15) Chi scrive ha discusso il problema della scala spaziale della ricerca storica sulle migrazioni al seminario “Paesani. Microcosmi dell’emigrazione italiana” organizzato dal Museo storico del Trentino il 6 dicembre 2012, con una relazione intitolata [r]egioni e [R]egioni migratorie. Identità, pratiche, politiche e memorie transnazionali, atti in corso di pubblicazione.

(16) Alessio Marzi, Regioni d’Italia e migrazioni: politiche, pratiche e identità transnazionali. La Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia, 1952-1994, tesi di dottorato discussa presso l’Università di Trieste, in corso di pubblicazione, e “Siamo canadesi solo per nascita, però abbiamo il bisogno di sentirci friulani”: la regionalizzazione dell’emigrazione dall’Italia nel secondo dopoguerra e la Repubblica transnazionale delle regioni, “Percorsi Storici”, 1, 1 (2013), http://www.percorsistorici.it/.

(17) Dialogo con Subit, “Emigrant”, n. 7-8, 1973. La rivista era il bollettino dell’Unione Emigrati Sloveni del Friuli Venezia Giulia – Zveza Slovenskih Izseljencev Furlanije Jiulijske Krajine, per la quale si rimanda alla bibliografia della nota 16.

(18) Un’altra terra, un’altra vita. L’emigrazione isontina in Sud America tra storia e memoria (1878 – 1970), a cura di Franco Ceccotti e Dario Mattiussi, Gorizia, Grafica Goriziana, 2003.

(19) Le stesse autorità argentine preposte al governo dell’immigrazione progettarono delle colonie agricole in cui sarebbero confluiti contadini friulano-veneti sudditi dei Savoia e contadini austro-italiani sudditi degli Asburgo. Sugli austroitaliani in Brasile Fábio Bertonha, Non tutti gli italiani sono venuti dall’Italia. L’immigrazione dei sudditi imperiali austriaci di lingua italiana in Brasile, 1875-1918, “Altreitalie”, 46 (2013), pp. 4-29. Molti di questi ultimi sarebbero stati “attraversati dal confine” nel 1918 mentre si trovavano in Sudamerica, diventando cittadini italiani in paesi lontani decine di migliaia di chilometri, in un groviglio burocratico che permane ancora oggi per coloro che aspirano ad ottenere la cittadinanza italiana come “neoriconosciuti”.

(20) Primo tra tutti: il divieto imposto dal Comune di aprire scuole in lingua slovena, che, anziché favorire l’apprendimento della “lingua di Dante”, condannava parte della popolazione cittadina all’analfabetismo. Marina Cattaruzza, La formazione del proletariato urbano. Immigrati, operai di mestiere, donne a Trieste dalla meta del secolo 19 alla prima guerra mondiale, Torino, Mussolini, 1979, p. 21. Un bilancio dell’associazione filantropica per favorire l’immigrazione trentina è nelle memorie di Desico (Edoardo Schott), La passione di Trieste. Ottobre 1914-maggio 1915, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1981 (pubblicazione postuma), p. 7.

(21) Il lavoro femminile tra vecchie e nuove migrazioni. Il caso del Friuli Venezia Giulia, a cura di Ariella Verrochio e Paola Tessitori, Roma, Ediesse, 2009; From Slovenia to Egypt. Aleksandrinke’s Trans-Mediterranean Domestic Workers’ Migration and National imagination, a cura di Mirjam Milharčič Hladnik, Göttingen, V&R Unipress, 2015.

(22) Marjan Tomšič, Le Saurine, Capodistria, Società Storica del Litorale/Centro di ricerche scientifiche della Repubblica di Slovenia, 1997.

(23) Si veda la testimonianza dell’ex finanziere piacentino Angelo Barani nel sito curato dall’Istituto Livio Saranz di Trieste, http://www.memorialavoro.it/andare-altrove.htm, materiale raccolto per un documentario intitolato Andare altrove. Dopo aver prestato servizio a Trieste, dove ha imparato lo sloveno e vive tuttora, Barani ha oggi la doppia cittadinanza, italiana e slovena.

(24) Vida Rožac Darovec, L’attraversamento del confine nei ricordi delle donne istriane, in La storia al confine, cit., pp. 37-58.

(25) Come ha notato Mirjam Milharčič Hladnik, le fotografie dell’epoca che ritraggono le Alessandrine mostrano “servants we could almost mistake for the ladies they served”, From Slovenia, cit., p. 21.

(26) M. Cattaruzza, La formazione del proletariato, cit. p. 28. Viceversa, però, dopo che il Regno d’Italia introdusse nell’Istria delle restrizioni al trasporto ed alla vendita di merci, la comunità si organizzò ancora una volta per aggirare i controlli e permettere alle donne di continuare a raggiungere Trieste: V. Rožac Darovec, L’attraversamento del confine, cit., p. 44.

(27) Cristiana Columni, Liliana Ferrari, Gianna Nassisi e Germano Trani, Storia di un esodo. Istria 1945-1956, Trieste, Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione nel Friuli-Venezia Giulia, 1980, inserto iconografico, p. 6. Nella vignetta satirica pubblicata su un settimanale locale del 1946 si rappresenta la conversazione tra un soldato americano stanziato a Trieste ed una prostituta fiumana: “Essere molte esuli da Fiume?”, “Per forza, hanno abolito il mercato libero!”.

(28) “Un esilio che non ha pari”. 1914-1918. Profughi, internati ed emigrati di Trieste, dell’Isontino e dell’Istria, a cura di Franco Ceccotti, Gorizia, Libreria Editrice Goriziana, 2001.

(29) Anche in tempi recenti, tale emigrazione più o meno forzata, non ha avuto, né in Slovenia, né in Italia, la stessa attenzione che ha avuto l’Esodo istriano, avvenuto in direzione opposta dopo la Seconda Guerra Mondiale. Si veda la bibliografia nelle note precedenti.

(30) Paolo Dorsi, Stranieri in patria. La parabola del gruppo minoritario tedesco nella Trieste austriaca, “Clio. Rivista trimestrale di studi storici”, 37, 1 (2001), pp. 7-58.

(31) Il Gma riforniva costantemente la Questura di Udine di detti moduli; non è noto se invece li inviava regolarmente anche ad altre Questure italiane. Ad ogni modo, se a Trieste il Gma rilasciava i permessi di transito gratuitamente, ad Udine la Questura imponeva il pagamento di una marca da bollo. Archivio di Stato di Trieste (AsTs), Prefettura, Gabinetto, busta 586, fascicolo 515

(32) AsTs, Prefettura, Gabinetto, busta 569.

(33) L’Ufficio Provinciale del Lavoro di Trieste fu istituito dal Gma e dipendeva dagli stessi militari alleati, non dal Ministero del Lavoro italiano, per quanto svolgesse in loco quasi tutte le funzioni generalmente attribuite agli omologhi della Repubblica, con la significativa eccezione del servizio collocamento per l’estero. Nel 1954 fu creato l’Ufficio Regionale del Lavoro del Friuli Venezia Giulia, che coordinava anche le attività delle sedi provinciali di Udine e Gorizia, fino a quel momento inquadrate nel Veneto. Sulla centralità degli UdL come strumento per la regolamentazione del mercato del lavoro e dell’emigrazione si vedano Stefano Musso, Le regole e l’elusione: il governo del mercato del lavoro nell’industrializzazione italiana, 1888-2003, Torino, Rosenberg & Sellier, 2004, e Michele Colucci, Lavoro in movimento. L’emigrazione italiana in Europa 1945-57, Roma, Donzelli, 2008.

(34) AsTs, Prefettura, Gabinetto, busta 563, fascicolo 41, Nota della Divisione Finanza del Gma della Venezia Giulia del 13/11/1946.

(35) Sulla gestione e la migrazione dei profughi di nazionalità italiana e non si vedano almeno Pamela Ballinger, Opting for Identity: the Politics of International Refugee Relief in Venezia Giulia, 1948–1952, “Acta Histriae”, 14, 1 (2006), pp. 115-140, e Tullia Catalan, Governo Militare Alleato e Stato italiano di fronte all’emergenza dei profughi. Politiche assistenziali nella Trieste del secondo dopoguerra, in Carità pubblica, assistenza sociale e politiche di welfare: il caso di Trieste, a cura di Anna Maria Vinci, Trieste, Edizioni Università di Trieste, 2012, pp. 109-123. Come era accaduto oltre cinquant’anni prima, anche nel secondo dopoguerra gli “agenti di emigrazione”, in questo caso australiani e canadesi, non tennero conto del confine, e, preso contatto con l’Ufficio del Lavoro di Udine e l’Ente Friuli nel Mondo, si misero a reclutare immigrati sul suolo italiano, senza utilizzare i canali predisposti dal Ministero del Lavoro e dal Ministero degli Esteri, ed anzi minacciando il governo italiano che avrebbero interrotto l’assunzione di operai in Italia se non fossero stati liberi di scegliere le provincie più gradite, in questo caso Udine e Belluno. A. Marzi, “Siamo canadesi”, cit. In Australia poi sarebbero stati censiti dalle autorità preposte all’immigrazione come “venetian giulians” un numero di austriaci, serbi ecc. partiti dallo scalo giuliano almeno pari a quello degli “autoctoni”: Francesco Fait, L’emigrazione giuliana in Australia, (1954-1961), Udine, Ente Regionale per i Problemi dei Migranti, 1999, pp. 68-69.

(36) I dati riportati nelle relazioni della Labor Division del Gma attestano il progressivo calo dei frontalieri provenienti dalla Zona B, come cifra assoluta e come incidenza percentuale sul totale tra il 1947 (inizio dei rilevamenti) ed il 1952 (quando i dati sui “fuori Zona” iniziarono a non essere più distinti per nazione di residenza). Alcuni dei fondi d’archivio utilizzati per la presente parte dell’articolo, sono stati analizzati anche da Chiara de Draganich Veranzio per la sua tesi di laurea, i cui risultati sono stati pubblicati in Aleksander Panjek e Chiara de Draganich Veranzio, Ricostruzione, lavoro e immigrazione di manodopera specializzata nel dopoguerra triestino, in Trieste tra ricostruzione e ritorno all’Italia (1945-1954), a cura di Ariella Verrocchio, Trieste, Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia, 2004, pp. 16-37.

(37) Relazione in inglese del Gma del dicembre 1947 intitolata Importation of Labor, AsTs, Ufficio Regionale del Lavoro e della Massima Occupazione del Friuli Venezia Giulia (Urlmo), busta 126, fascicolo 224, traduzione mia.

(38) I residenti nei territori ceduti con i trattati del 1947 (Fiume, la provincia di Pola, e l’area occidentale dell’attuale Slovenia, comprendente le città di Tolmino, Caporetto, Postumia, Sezana) ebbero la possibilità di scegliere tra la cittadinanza italiana e quella jugoslava; tale possibilità era riservata tuttavia ai soli appartenenti alla minoranza italofona, non facilmente identificabili in quanto tali. La stessa possibilità fu riservata anche ai residenti nei territori ceduti de facto alla Jugoslavia nel 1954 (Zona B del TlT, comprendente le città di Capodistria, Isola, Pirano).

(39) Sottraggono il pane ai lavoratori triestini mentre da noi c’è bisogno urgente di lavoratori, “La Nostra lotta”, 24 maggio 1950, citato in Storia di un esodo, cit., p. 388.

(40) Il Cln dell’Istria (ricostituitosi a Trieste) stimava che nel solo mese di aprile 1950, poco prima dell’introduzione delle prime restrizioni al pendolarismo da parte delle autorità jugoslave, gli istriani che avevano attraversato i confini terrestri o quelli marittimi fossero stati in media 2.000 al giorno, cifra ridotta del 70% solo due mesi dopo. Ammesso che le cifre siano attendibili, è comunque improbabile che fossero tutti lavoratori frontalieri; è viceversa ipotizzabile che una parte considerevole di tale moltitudine fosse formata da persone che viaggiavano tra Trieste e l’Istria traversando i nuovi confini per altri motivi, ad esempio per fare acquisti o vendere propri prodotti. Ad ogni modo i dati che allora furono riportati dal Cln dell’Istria confermano la tendenza per cui era progressivamente sempre più difficile lavorare come pendolari o frontalieri tra l’Istria e Trieste. Lo stesso “accanimento” della stampa jugoslava di lingua italiana verso i transfrontalieri è un indizio che il fenomeno doveva comunque essere consistente: Storia di un esodo, cit., p. 382.

(41) Sul periodo del Commissariato straordinario si veda Piero Purini, Trieste 1954-1963, Dal Governo Militare Alleato alla Regione Friuli-Venezia Giulia, Trieste, Krožek za družbena vprašanja Virgil Šček, 1995.

(42) Erano queste le considerazioni di un’ostessa che voleva assumere B.A. di Albona; la domanda fu presentata il 18 ottobre 1954, Asts, Ufficio Provinciale del Lavoro, Busta 31, poi respinta dalle autorità italiane.

(43) AsTs, Fondo Ispettorato Provinciale del Lavoro, Serie Cittadini Stranieri 1954-1970. Il fondo, formato da 42 buste, è stato depositato probabilmente alla fine degli anni 1980, ma aperto per la prima volta nel 2015 dal sottoscritto.

(44) Le informazioni contenute nei documenti coprono anche gli anni precedenti e successivi. I fascicoli, uno per ogni straniero residente, sono ordinati alfabeticamente. I fascicoli contengono: i libretti di lavoro degli stranieri che, secondo la normativa italiana, dovevano essere esibiti ogni anno dai lavoratori e restituiti al momento del licenziamento o della pensione (i libretti sono di tre tipi, a seconda dell’Istituzione che li ha rilasciati: il Ministero delle Corporazioni del Regno d’Italia; il Territorio libero di Trieste; la Repubblica Italiana); alcuni certificati di residenza rilasciati dal Comune; la corrispondenza tra l’Ispettorato del Lavoro e la Questura; le domande di rilascio del Libretto presentate dai datori di lavoro.

(45) Sono stati presi in considerazione i fascicoli dei cognomi che iniziano con le lettere “m”, “n”, “o”. Con questa analisi, si stima sia stato mappato circa il 10% del fondo; la stima è stata confermata dalle funzionarie dell’Archivio, che ringrazio per la disponibilità nel mettere a disposizione la documentazione. Dai libretti di lavoro sono stati immessi nel database, per un’analisi quantitativa e comparativa, i seguenti dati: nome e cognome, luogo e data di nascita, cittadinanza, data dell’assunzione della residenza a Trieste, data della partenza da Trieste (se nati, emigrati e poi rientrati), data della prima presenza (se precedente all’assunzione della residenza), grado d’istruzione, professione, lingue straniere dichiarate, periodo di lavoro, data dell’eventuale ottenimento della cittadinanza italiana (per cui il libretto di lavoro per stranieri sarebbe stato sostituito da uno per italiani, a disposizione permanente del lavoratore), luogo di rilascio del passaporto.

(46) Per l’emigrazione degli ebrei sionisti in Palestina attraverso il porto di Trieste, dove tra le due guerre mondiali si imbarcarono decine di migliaia di coloni ebrei, si veda Marco Bencich, Il comitato di assistenza agli emigranti ebrei di Trieste (1920-1940): flussi migratori e normative, “Qualestoria”, 34, 2 (2006), pp. 11-60. Si tratta di una vicenda che, nonostante la rilevanza nella vita pubblica ed economica della città nel periodo in esame, è praticamente scomparsa dalla memoria collettiva italiana e friulgiuliana.

(47) Per gli irredentisti ed i liberali-nazionali di Trieste ad esempio, l’afflusso degli slavofoni del circondario in città durante l’ultimo trentennio dell’Impero Asburgico era dovuto non tanto alle trasformazioni economiche precedentemente descritte, quanto ad un “disegno” organizzato dall’alto e volto a modificare gli equilibri etnici di Trieste. Si tratta di un punto di vista ampiamente utilizzato dalla storiografia “nazionale” anche dopo il 1945.

(48) Per delle interessanti considerazioni sull’esibizione di “autoctonia” da parte degli esuli istriani, che intendevano (non a torto) rimarcare la propria differenza rispetto ai profughi dalle colonie si veda Pamela Ballinger, Borders of the Nation, Borders of the Citizenship: Italian Repatriation and the Redefinition of National Identity after World War II, “Comparative Studies in Society and History”, 49, (2007), pp. 713-741.

(49) Cioè una memoria esplicitamente o implicitamente contrapposta alla memoria “ufficiale” formalizzata in istituzioni e commemorazioni pubbliche, spesso diffusa e sfruttata dai mass media (come appunto quella dell’esodo istriano), o addirittura sfruttata politicamente ed a fini elettorali. La countermemory finisce quindi inevitabilmente per presupporre, imitare in senso uguale e contrario e fondare la propria ragione di esistere sulla stessa “memoria ufficiale” che viene messa in discussione; non è escluso, naturalmente, che anche la countermemory possa ripagare in chiave elettorale. Le memorie contrapposte ed in competizione molto spesso sono basate sul “paradigma vittimario”. La ragione del contendere è quindi il riconoscimento pubblico ed istituzionale del ruolo di “vittima”: è intuibile come il passato migratorio sia un terreno fertile per questo tipo di interesse.

(50) Tale schema trova ampio spazio in G. Cresciani, Trieste Goes, cit. Per le criticità di tale impostazione si veda la recensione di Alessio Marzi in “Qualestoria”, 41, 1 (2013), pp. 99-102.

(51) A. Marzi, Regioni d’Italia e migrazioni, cit.

(52) Il discorso è noto; è riportato tra l’altro in M. Cattaruzza, L’Italia e il confine, cit., p. 349.