Stefano Agnoletto, The Italians Who Built Toronto. Italian Workers and Contractors in the City’s Housebuilding Industry, 1950-1980, Oxford, Peter Lang, 2014, xvii-360 pp.

In un episodio del romanzo di John Fante The Brotherhood of the Grape, Nick Molise compie un suo personalissimo Grand Tour: porta il figlio a vedere tutte le opere pubbliche di San Elmo, California, che ha costruito quando lavorava come muratore. Il gesto si configura come un’orgogliosa rivendicazione del contributo degli immigrati italiani all’edificazione della società statunitense e, conseguentemente, quale segno tangibile della loro integrazione.

Lo stesso senso dell’orgoglio etnico pervade la monografia che Stefano Agnoletto dedica alle attività degli immigrati italiani nell’edilizia abitativa a Toronto nel secondo dopoguerra fino dalla citazione posta in epigrafe (“You know, Italians built houses”) e ripetuta per altre due volte nel testo (pp. vii, 163). Infatti, come l’autore dimostra in modo convincente, in un arco di tempo situabile tra gli anni Cinquanta e Settanta del Novecento, questo settore rappresentò una nicchia dell’economia cittadina nella quale gli italiani riuscirono a inserirsi con successo, sia per trovare un’occupazione sia per intraprendere un percorso di inserimento e ascesa sociale attraverso la formazione di numerose imprese di costruzione di cui divennero titolari. Tagliati fuori da altri impieghi, per mancanza di esperienza pregressa e perché oggetto di discriminazione, gli immigrati italiani a Toronto sfruttarono la cospicua richiesta di case in una città che stava attraversando un periodo di forte crescita demografica per andare a svolgere lavori rischiosi e non sindacalizzati che pochi altri erano disposti a fare. Se gli italiani erano spinti verso occupazioni pericolose e prive di tutele dalle condizioni strutturali dell’economia, queste ultime avevano anche una componente positiva, rappresentata dalla progressiva espansione della domanda di alloggi, un fattore di cui gli immigrati seppero approfittare, utilizzando le proprie risorse per trasformare una necessità in una occasione di mobilità sociale verso l’alto. In effetti, la loro presenza nell’edilizia abitativa divenne così capillare che finirono per esercitare quasi un vero e proprio monopolio in questo campo, tanto nella manodopera quanto tra le aziende di categoria. Tali imprese, dall’esistenza spesso effimera, si collocarono soprattutto nell’ambito dei subappalti e la loro nascita fu favorita non solo dalla bassa capitalizzazione per l’avvio, ma anche dalla capacità di introdurre innovazioni dimostrata dai loro fondatori.

Tra le opportunità che gli immigrati italiani si crearono vi fu anche la possibilità di uscire dallo sfruttamento selvaggio in un mercato del lavoro inizialmente equiparabile a una sorta di giungla senza norme, perfino rispetto ad altri settori dell’industria delle costruzioni, grazie a due scioperi proclamati nel 1960 e nel 1961 che produssero la formazione di un sindacato di categoria, la stipula di regolari contratti, la regolamentazione dell’orario di lavoro nonché l’ottenimento di garanzie sulla sicurezza e altri benefici tra cui aumenti salariali. Questo comune percorso di lotta aiutò ad accelerare la maturazione di un’identità etnica legata all’origine nazionale italiana tra un folto numero immigrati che erano arrivati a Toronto con un ben radicato senso campanilistico dell’appartenenza. Tuttavia, a porre le premesse per scardinare tale autopercezione originaria, erano già intervenuti altri fattori omogeneizzatori quali la marginalità in campo lavorativo a causa dell’ascendenza italiana, il reclutamento della manodopera tra connazionali e il fatto che le imprese costituite dagli immigrati – oltre ad attingere la propria forza lavoro tra gli italiani stessi in maniera da poter sfruttare meglio i propri operai – trovarono i loro primi committenti tra altri italiani che avevano bisogno di abitazioni. Lo sviluppo dell’italianità, infatti, fu un fenomeno che caratterizzò non soltanto le maestranze dell’edilizia residenziale, ma anche l’imprenditoria del settore. In tal modo, erigendo le case di Toronto e gettando le basi per trovare un posto nella società d’adozione, gli immigrati costruirono pure la loro comunità etnica, incardinandola sull’acquisizione della consapevolezza di essere italiani.

Queste vicende potrebbero prestarsi con facilità a fornire materiale per tracciare una storia edificante dell’esperienza italiana a Toronto. Agnoletto, però, non cede alla tentazione di offrire una ricostruzione celebrativa. Il suo intento è, invece, duplice. Da un lato, analizza il contributo dello stretto rapporto tra fattori strutturali e determinanti culturali per spiegare l’inserimento degli immigrati italiani a Toronto e la rielaborazione della loro identità etnica. Dall’altro, utilizza tale interazione per presentare un esempio di come individui privi di qualifiche professionali e provenienti da una realtà prevalentemente rurale nella terra d’origine abbiano incontrato la modernità attraverso l’immissione nel mercato globale del lavoro, l’inurbamento nella città d’adozione e l’ingresso nelle file del proletariato.

Il risultato è un volume ricchissimo di spunti e articolato su quattro livelli di lettura che risultano spesso intrecciati tra loro attraverso una sapiente combinazione di storia sociale, storia etnica, storia del movimento operaio e storia d’impresa. Agnoletto non trascura neppure la dimensione di genere, nonostante il fatto che questo aspetto si presterebbe a rimanere in ombra in uno studio incentrato su un’attività tipicamente maschile. Per esempio, l’adesione agli scioperi viene collocata all’interno di strategie familiari alla cui definizione concorrevano entrambi i coniugi nel valutare in quale misura la coppia potesse permettersi finanziariamente la sospensione temporanea degli introiti in conseguenza dell’astensione dell’uomo dal lavoro. Le donne espressero anche un sostegno indiretto agli scioperi, compensando il mancato reddito del coniuge per mezzo del salario che traevano dal proprio impiego in altri settori dell’economia.

La più sfuggente delle quattro direzioni di ricerca affrontate è l’indagine sulle imprese edili, come attestato da una trattazione relativamente stringata. Nonostante il ricorso a un’ampia gamma di fonti, che spaziano dalla stampa locale (compresi i giornali etnici) ai rapporti di commissioni d’inchiesta sulle condizioni di lavoro nelle costruzioni e dai censimenti della popolazione alle fonti orali, Agnoletto non ha reperito costruttori italo-canadesi disposti a farsi intervistare né ha potuto avvalersi della documentazione di tali aziende. Inoltre la tesi secondo cui la coscienza di classe sarebbe derivata dall’identità etnica, cioè dalla consapevolezza di appartenere a una minoranza nazionale di lavoratori sfruttati, avrebbe necessitato di un ulteriore approfondimento alla luce della constatazione che a prevaricare sugli addetti del settore dell’edilizia abitativa erano imprenditori con la medesima ascendenza italiana. Infine, a fronte dell’attenzione nel tracciare una sintetica storia della comunità italiana di Toronto prima del secondo conflitto mondiale e nel delineare il contesto urbano, economico e sociale in cui gli immigrati si trovarono a vivere una volta giunti in città nel secondo dopoguerra, l’aver rinunciato preventivamente a una rassegna – ancorché succinta – delle ragioni specifiche che causarono l’espatrio rende problematico avvalorare l’ipotesi di partenza di Agnoletto, cioè la connotazione dei protagonisti del suo studio quali vittime che lasciarono l’Italia più per costrizione che per scelta volontaria a tal punto da essere definiti “economic refugees” (pp. 313-14).

La nozione di etnia quale costruzione socio-culturale suscettibile di trasformazioni nel tempo rappresenta un concetto largamente acquisito nella storiografia sulle migrazioni. In questa prospettiva, la monografia di Agnoletto propone un ulteriore caso studio che ribadisce la validità di un paradigma interpretativo che sarebbe oramai difficile mettere in discussione. Il contributo più originale di The Italians Who Built Toronto risiede, quindi, nell’attribuzione di una matrice etnica alla coscienza di classe dei lavoratori. Appare, però, improbo riuscire a ricavare un modello generale a partire dall’esperienza di Toronto, come sembrerebbe invece essere l’ambizione di Agnoletto. La larga prevalenza degli immigrati italiani tra gli addetti dell’edilizia per le abitazioni precluse una possibile divisione delle maestranze sulla base dell’origine nazionale degli operai e impedì che la solidarietà di classe venisse incrinata, o addirittura spezzata, da contrapposizioni e antagonismi tra le componenti etniche della manodopera. In ogni caso, lo studio di Agnoletto offre importanti riflessioni, anche di ordine teorico e in prospettiva comparativa, sul rapporto tra identità etnica e coscienza di classe dalle quali non sarà facile poter prescindere in futuro.