Il prezzo del sudore jugoslavo. I lavoratori frontalieri jugoslai in Italia nel nord est italiano

In questo articolo verrà analizzato il fenomeno dei lavoratori frontalieri jugoslavi in Italia, con una particolare attenzione al periodo successivo alla firma del trattato di Osimo (1975), che sancì definitivamente la sistemazione territoriale stabilita dal Memorandum di Londra nel 1954. Si tratta di un flusso per ora indagato solo in ambito locale e con stime approssimative dell’entità del fenomeno, localizzato in gran parte in una zona grigia, priva di copertura giuridica. Nei decenni successivi al Memorandum di Londra (1954), grazie al quale era stato stabilizzato uno dei confini fino ad allora più caldi della Europa della guerra fredda, il miglioramento progressivo dei rapporti tra i due vicini adriatici fino ad allora in conflitto aveva diffuso la convinzione che, una volta risolta definitivamente la questione territoriale, la collaborazione transfrontaliera avrebbe preso un naturale slancio. In particolare, la necessità di una cornice giuridica per questi flussi migratori giornalieri appariva sempre più evidente, entrando a far parte delle aspettative verso un rafforzamento delle relazioni bilaterali tra Italia e Jugoslavia dopo la definitiva sistemazione territoriale del confine. Tale idea si scontrò immediatamente dopo la firma del trattato di Osimo con un riflusso che si espresse nel triestino con i movimenti contrari alla creazione di una Zona franca e successivamente naufragò con la crisi che travolse la Jugoslavia socialista a partire dal decennio successivo. Tuttavia, la regione di confine rimase un’area i cui abitanti potevano profittare della convenienza di vivere a cavallo della frontiera.
Negli ultimi anni alcuni studi si sono concentrati sul cosiddetto “paradosso del confine” con il quale si intende il fatto che le frontiere, nate per essere una barriera tra due stati, si possono trasformare, in situazione di libera circolazione, in ponti che spingono gli abitanti delle zone circostanti ad attraversarle di frequente per trarre un vantaggio dalle differenze e dalle asimmetrie tra i due sistemi. Tuttavia un elevato numero di rapporti transfrontalieri non coincide automaticamente con una maggiore integrazione, ma al contrario potrebbe perpetuare le costruzioni identitarie precedenti, facendo leva esclusivamente su rapporti utilitaristici .
Sebbene oggi se ne sia in parte persa la memoria, la frontiera tra l’Italia e la Jugoslavia socialista, che pur divideva due paesi dal diverso sistema politico e divisi da opposte rivendicazioni territoriali, fu per una lunga parte della sua esistenza additata dai contemporanei come un simbolo di rapporti di buon vicinato e definita da entrambe le parti come uno dei confini più aperti del mondo allora diviso in blocchi. La serrata che era seguita alla seconda guerra mondiale andò attenuandosi con l’accordo di Udine del 1955, che, grazie all’istituzione di un lasciapassare, permise agli abitanti delle zone confinarie di entrare nel paese vicino fino a quattro volte al mese , un limite che fu abolito dagli accordi di Nova Gorica del 1969 . Già negli anni precedente tuttavia si era verificato un aumento percentuale degli ingressi in Italia con passaporto da parte dei cittadini delle aree di confine che, pur avendo diritto al lasciapassare, preferivano attraversare la frontiera con il passaporto per non dover sottostare a limitazioni nel numero dei viaggi . Se a questo si somma una svolta liberale nella concessione dei passaporti in Jugoslavia e una generale distensione dell’atmosfera politica, si arriverà a comprendere il contesto nel quale fiorirono i rapporti transfrontalieri. Se diversi studi hanno messo in luce l’importanza della pratica dello shopping degli jugoslavi a Trieste nel contesto di una maggiore permeabilità del confine, ancora parzialmente inesplorato rimane il tema dei lavoratori jugoslavi in Italia che approfittavano delle crescenti possibilità di mobilità.
All’epoca l’Italia percepiva ancora se stessa come un paese esclusivamente esportatore di manodopera e i micro-flussi migratori che dalla prima metà degli anni 1970 iniziarono ad affluire si svilupparono spontaneamente, al di fuori di qualsiasi normativa. In genere si trattava comunque di numeri relativamente bassi e relativi ad alcune categorie occupazionali che diventavano sempre meno attraenti per la manodopera italiana, come quella delle collaboratrici domestiche, in genere proveniente dalle Filippine, dal subcontinente indiano o dalla ex colonie italiane, oppure dei braccianti e dal personale di bordo tunisino nella zona di Mazara del Vallo, un’area della Sicilia che aveva sempre intrecciato con l’altra sponda del Mediterraneo rapporti privilegiati .
Dall’inizio degli anni 1960 iniziò così a prendere corpo un flusso di lavoratori provenienti dalla federazione confinante nel nostro paese: se nel 1962 furono emessi 416 permessi di lavoro per cittadini jugoslavi , solo un decennio dopo i numeri erano decuplicati . Per quanto riguarda la presenza di jugoslavi, il fenomeno era fortemente visibile nel Friuli-Venezia Giulia, dove si concentrava la maggior parte degli arrivi e dei rapporti lavorativi.
Questi contatti spesso non erano altro che la ricucitura di relazioni precedenti, il che implicava che la nuova forza lavoro fosse aiutata da una consuetudine precedente con i territori passati sotto giurisdizione jugoslava dopo la seconda guerra mondiale, ma anche dai forti rapporti – spesso anche familiari – che esistevano a cavallo del confine. Dall’altra parte, proprio nel periodo qui trattato alcune province dell’estremo Nord Est, che precedentemente avevano espulso manodopera eccedente, conobbero una crescita economica che si scontrava con una relativa carenza di manodopera. Parzialmente diversa era la situazione della provincia di Trieste, il cui sviluppo rimase nei decenni dipendente dall’intervento statale e dal commercio con la vicina Federazione jugoslava e che subiva un drammatico processo di invecchiamento della popolazione.
Inoltre, nei primi anni 1960 nella Jugoslavia socialista si era verificata una svolta epocale riguardo alle politiche migratorie. Il paese balcanico, che, dopo la seconda guerra mondiale, aveva assunto un atteggiamento particolarmente duro verso chi andava a lavorare all’estero, considerando tutti coloro che erano usciti dal paese illegalmente come emigranti politici a prescindere dal loro reale orientamento, aveva adottato un approccio maggiormente pragmatico, arrivando ad aprire – unico tra i paesi socialisti – le frontiere agli emigranti economici desiderosi di trovare un impiego nel Nord Europa, nel tentativo di tappare le falle del sistema jugoslavo: una crescente disoccupazione e una carenza cronica di valuta straniera. Nella seconda metà degli anni 1960 vennero firmati una serie di accordi bilaterali (a partire da quello pionieristico con la Francia nel 1965 fino a quello, di larghissima portata, con la Germania federale) che permettevano il reclutamento diretto dei lavoratori jugoslavi . Si aprivano così le porte della Jugoslavia socialista alle emigrazioni di massa, cessando di resistere alle pressioni dei cittadini jugoslavi che desideravano cercare un lavoro all’estero. Come coloritamente lo studioso statunitense William Zimmermann descrisse il fenomeno, “si aprirono gli argini”. Nel giro di pochi anni un milione di jugoslavi, comprendente sia i lavoratori che i familiari, risultavano residenti all’estero. Tale rivoluzionario passo, lungi dal rappresentare un segno di debolezza di una leadership pronta ad arrendersi a una disoccupazione galoppante, venne presentato come uno dei capisaldi del socialismo alla jugoslava, insieme all’autogestione e al socialismo di mercato . Il suo valore simbolico era particolarmente forte all’interno del blocco socialista, dove pochi anni prima la Repubblica democratica tedesca aveva eretto un muro per evitare la fuga dei suoi cittadini in età lavorativa.
In questo contesto l’Italia, nonostante il boom economico, non veniva considerata nel novero dei paesi capaci di assorbire manodopera straniera nelle proprie industrie. Tuttavia, i positivi rapporti bilaterali tra i due vicini adriatici, furono il motore per una crescente apertura nazionale dei confini sia nei confronti di coloro desiderosi di cercare un lavoro all’estero che di coloro che si spostavano per turismo. Fu così che, partendo da una situazione di tensione, i rapporti tra Italia e Jugoslavia crebbero fino a trasformarsi in un esempio virtuoso di relazioni di buon vicinato instaurate tra due paesi caratterizzati da un diverso sistema politico . In questo contesto la strada sembrava aperta per un’integrazione ulteriore tra i due sistemi che implicasse anche un impiego della più economica manodopera jugoslava in Italia. Potenzialmente un maggiore impiego della manodopera jugoslava in Italia avrebbe potuto anche fornire una soluzione ai due problemi fondamentali che avevano portato la Jugoslavia ad esportare la sua forza lavoro – la crescente disoccupazione e la fame di valuta estera – senza per questo esporre i lavoratori ai rischi connessi a un percorso migratorio in un “estero” più lontano: l’affievolirsi dei legami con la madrepatria e i contatti nocivi con l’emigrazione politica con sede nel paese. Il lavoratore frontaliero per sua stessa natura in genere riduce i contatti con il paese dove è impiegato al tempo trascorso sul lavoro e investe la gran parte del suo stipendio nel luogo dove risiede, profittando della disparità negli standard.
I lavoratori jugoslavi non si ponevano in maniera concorrenziale rispetto a quelli italiani, ma piuttosto coglievano le occupazioni vacanti: domestiche, muratori, operai, ma anche in qualche caso impiegati e commessi che sfruttavano la loro conoscenza della lingua, sempre più ricercata a causa dei fiorenti rapporti commerciali tra Italia e Jugoslavia. Già nei primi anni 1970 ogni giorno approdavano a Trieste le “corriere degli addormentati” che ogni mattina all’alba portavano migliaia di lavoratori in una fascia confinaria che da Trieste raggiungeva la provincia di Pordenone .
Le trattative che portarono alla firma del Trattato di Osimo nel 1975 parvero potenzialmente segnare uno spartiacque per la mobilità transfrontaliera. Ad esso era infatti legata l’idea di costituire una Zona franca di produzione industriale a ridosso del confine che, pensata come una compensazione per l’Italia che aveva appena ceduto definitivamente la sovranità sulla zona B del Territorio Libero di Trieste, venne in seguito pesantemente avversata dagli ambienti triestini legati alla Lista per Trieste. Tra la prima e la seconda bozza dell’accordo era inoltre intervenuta una variazione, secondo la quale l’area sarebbe stata collocata sia in territorio italiano che in territorio jugoslavo e non esclusivamente nel secondo come inizialmente concordato .
All’interno di un settore variegato, che univa preoccupazioni di carattere nazionale a istanze ecologiste, si formò un blocco di opinione che vedeva nella Zona franca più un rischio che un’opportunità: il pericolo della penetrazione economica, dell’invasione della forza lavoro jugoslava e, di conseguenza, seguendo una continuità di pensiero che sarebbe rimasta costante fino al tramonto della Jugoslavia, delle sfavorevoli modifiche all’equilibrio etnico della zona . Come avrebbe ricordato alcuni anni dopo il socialista Gianni Giuricin, uno dei sostenitori della Lista per Trieste, l’istituzione di una Zona franca a ridosso di Trieste “avrebbe comportato l’immigrazione di 20.000 lavoratori accompagnati dai rispettivi familiari provenienti dal meridione della penisola balcanica, provvedimento questo che avrebbe sovvertito l’esistente rapporto fra maggioranza italiana e minoranza slovena” . Ancora una volta la provincia di Trieste dimostrava così di non riuscire a uscire dalla sua dimensione di periferia insicura, tagliata fuori dal suo entroterra e dipendente dall’intervento statale .
La Lista per Trieste, uscita vincente alle elezioni del 1978, tenne fede alle sue promesse elettorali e perseverò in una linea di ferma opposizione alla Zona franca implicante anche l’idea che i rappresentanti triestini dovessero cessare di partecipare alle sedute della Commissione mista prevista dal trattato di Osimo che non riuscì praticamente più a riunirsi. L’opposizione alla Zona franca finì così per caratterizzare tutte le forze politiche locali, compreso il PCI, secondo il quale la sua creazione sarebbe andata incontro esclusivamente agli interessi delle forze della destra .
Se la Zona franca non vide mai la luce, non tramontò affatto l’utilizzo della manodopera jugoslava in Italia. Nei decenni a venire il fenomeno mantenne una sua specifica fisionomia: una punta di lavoratori in regola, impiegati nelle poche grandi industrie e assunti regolarmente – che spesso continuavano a fare i pendolari con i loro luoghi di origine – e un iceberg sottostante di lavoratori in nero, numericamente difficilmente quantificabile.
Tale situazione deve essere inquadrata nel più generale contesto italiano dove almeno fino alla fine degli anni 1980 il crescente impiego di manodopera straniera avveniva nella maggior parte dei casi all’interno dell’economia informale. Per i frontalieri jugoslavi – provenienti in gran parte dalla Slovenia – il pendolarismo permetteva di evitare forme di disagio più evidenti derivanti da uno status di illegalità: erano in regola con i documenti durante la loro permanenza in Italia (perché nella maggioranza dei casi erano in possesso di un lasciapassare o di un passaporto), godevano dell’accesso ai servizi sociali e sanitari in Jugoslavia e non erano toccati dalle problematiche abitative, poiché in genere ogni sera facevano ritorno al proprio domicilio oltre frontiera. In un certo senso costoro riuscivano addirittura a trarre profitto del confine, godendo delle differenze in termini salariali tra l’Italia e la Jugoslavia. La loro condizione appariva privilegiata rispetto a quella della maggior parte degli altri migranti economici. Inoltre, erano spinti a lavorare in Italia non dalla mancanza di alternative in patria – la disoccupazione si attestava su livelli estremamente bassi in Slovenia almeno fino alla fine degli anni 1970 e non diventò mai un fenomeno allarmante come nelle altre repubbliche neppure negli anni 1980 – ma dalla possibilità di percepire un maggiore guadagno.
Al contrario, in una condizione di estrema emarginazione vivevano quei lavoratori jugoslavi provenienti delle repubbliche del sud , intorno ai quali sarebbe stata costruita un’intera “fabbrica dei sogni”. A differenza dei frontalieri, costoro vivevano spesso in alloggi di fortuna, erano privi di diritti e assicurazione sanitaria e risparmiavano al massimo sul vitto e sull’alloggio per riuscire a mandare una somma maggiore di denaro a casa . A Trieste era in particolare significativo il flusso di lavoratori dalla città serba di Požarevac, che in genere si adattavano a fare i lavori più pesanti e per ciò meno ambiti tra gli italiani: dalle cave di pietra, ai lavori stagionali nei campi, al giardinaggio e all’edilizia.
Un’ulteriore spinta propulsiva all’impiego di manodopera jugoslava venne data, nel campo dell’edilizia, dalla ricostruzione successiva al terremoto che colpì il Friuli-Venezia Giulia nel 1976 . Poiché il Friuli, storicamente terra di muratori, era afflitto da una mancanza di manodopera dovuta alle precedenti ondate migratorie, le imprese italiane iniziarono a guardare con interesse alla forza lavoro d’oltre confine, sebbene mancasse qualsiasi quadro giuridico . Alla ricostruzione la Jugoslavia partecipò anche attivamente con donazioni dirette in denaro per la ristrutturazione o l’edificazione di abitazioni e luoghi di ritrovo nelle aree abitate dalla minoranza slovena . Nel 1978, nella sola area colpita dal terremoto erano tra i 200 e i 300 i lavoratori jugoslavi – in gran parte muratori, ma anche autisti e alcuni minatori – forniti di permesso di lavoro .
La paura di una penetrazione economica jugoslava nei territori del Nord Est sopravvisse al naufragio del progetto della Zona franca e si alimentò in parte anche della retorica sviluppatasi in quegli anni. Se inizialmente a destare preoccupazione presso le autorità italiane erano state le società a capitale misto italo-jugoslavo e altre imprese economiche considerate filo-jugoslave ma non direttamente individuabili perché spesso registrate grazie a prestanomi , dalla fine degli anni 1970 emersero quelle che furono più tardi ribattezzate come “iniziative etniche”, descritte in una allarmata relazione del consolato italiano di Capodistria del 1981: l’impianto da parte jugoslava di piccole fabbriche nelle zone di confine italiane abitate dalle minoranze slovene che avrebbero dovuto occupare manodopera locale e lavoratori frontalieri. Si trattava di un progetto a cui gli italiani guardavano con disagio perché avrebbe potuto rappresentare una comparazione implicita negativamente orientata verso “le nostre Autorità, che, purtroppo in tanti anni, non hanno avuto la possibilità di realizzare in quelle zone nuovi posti di lavoro per frenare l’esodo della popolazione”. Inoltre, data la disponibilità dei lavoratori jugoslavi ad accettare qualsiasi lavoro nelle zone di frontiera vicine ai loro domicili per la fame di valuta straniera, l’afflusso di manodopera slovena d’oltreconfine avrebbe potuto “rappresentare un fresco apporto di nuove forze per la minoranza slovena in Italia”. Secondo i dati forniti gli Uffici provinciali del lavoro di Udine, Gorizia e Trieste avevano rilasciato a lavoratori della circoscrizione consolare di Capodistria, quasi tutti sloveni, 237 permessi di lavoro nel 1979 e 340 nel 1980, per i quali erano stati concessi i relativi visti. Più che di un vero proprio disegno jugoslavo, si sarebbe trattato, secondo il Ministero degli Esteri italiano, di un piano prettamente sloveno rivolto a zone in cui quella minoranza era particolarmente forte .
Dal momento che all’epoca, prima di autorizzare l’impiego di manodopera straniera, gli Uffici del lavoro dovevano effettuare delle chiamate per accertare l’indisponibilità di manodopera italiana , per limitare la presenza di jugoslavi si consigliava di effettuare chiamate su base nazionale e non su base locale, dove esisteva effettivamente una carenza di manodopera . La posizione che accomunava il Commissariato del Governo per i Friuli Venezia Giulia, il Ministero dell’Interno e il Ministero degli Esteri era quella di resistere il più possibile alle richieste di permessi di lavoro da parte dei lavoratori jugoslavi, in special modo quando si cercavano operai specializzati, a favore di lavoratori nazionali provenienti da altre regioni, sebbene ciò ponesse con urgenza la questione abitativa. A preoccupare – in particolare le autorità goriziane, dove giravano voci incontrollate secondo le quali la metà degli immobili della provincia sarebbe stata in mani jugoslave – era anche il fatto che ciò avvenisse nonostante la crisi economica che attanagliava il paese. A breve, tuttavia, sarebbero state proprio le difficoltà economiche a ridimensionare e poi mettere fine a tali iniziative economiche.
Nonostante la questione dell’equilibrio etnico delle zone di confine continuasse ad allarmare le autorità, da alcuni decenni si assisteva a una diminuzione della presenza di residenti jugoslavi in provincia di Trieste – in particolare dai 1672 del 1955 era passata ai 794 del 1967, sebbene questo calo potrebbe essere in parte spiegato con la progressiva naturalizzazione di precedenti ondate migratorie – a favore di un maggiore flusso pendolare, sia di lavoratori che di acquirenti sul mercato triestino. Ciò, secondo il Commissariato del Governo della Regione, spiegava la percezione di Trieste “come una città abitata da una cospicua massa di jugoslavi”, dal momento che il centro adriatico, “che svolge un ruolo emporiale alla porta d’Italia, attira queste correnti di turisti “sui generis” di cui l’economia locale ritrae non disprezzabili vantaggi economici” . Si trattava di una presenza che veniva guardata con disagio da una parte della cittadinanza, ma dalla quale l’economia cittadina maturò una reale dipendenza: la stretta nel commercio al dettaglio seguita a un deposito in denaro introdotto dal governo jugoslavo nel 1982 per i viaggi all’estero fu salutata dalla stampa locale come una tragedia per una città che non aveva saputo diversificare la sua offerta.
L’incapacità della politica nazionale nell’elaborare una strategia per la gestione dei flussi migratori venne in parte mitigata dall’attivismo dei sindacati, della società civile e della Chiesa cattolica. I primi in particolare si schierarono al fianco dei lavoratori stranieri e si batterono per una loro regolarizzazione nonostante la disoccupazione crescente in Italia, una scelta non scontata e non comune tra i sindacati europei che nei decenni precedenti avevano spesso appoggiato misure restrittive nei confronti dell’emigrazione straniera, colpevole di falsare il mercato del lavoro locale . La pressione proveniente da questi settori portò nel 1978 al primo studio effettuato dal Censis che mise in luce un esercito di lavoratori invisibili: a fronte di un numero oscillante tra i 290.000 e i 410.000 stranieri risultavano emessi meno di 200.000 permessi di soggiorno e solo 9507 permessi di lavoro per cittadini non italiani. La stessa relazione stimava gli jugoslavi presenti in Italia tra le 20.000 e le 40.000 unità . Come già accennato, prima di assumere un lavoratore straniero, il datore di lavoro doveva presentare domanda al locale Ufficio per il lavoro, che dopo aver vagliato la impossibilità che tale mansione fosse ricoperta da manodopera italiana, doveva inoltrare domanda alla Questura. Si trattava di una procedura macchinosa che scoraggiava le assunzioni regolari . Il caso dei lavoratori frontalieri jugoslavi rimaneva comunque specifico, dal momento che la maggior parte di costoro lavorava sì in nero in Italia, ma, usufruendo dei lasciapassare e non pernottando in Italia, non violava alcuna legge sulla permanenza degli stranieri in territorio italiano.
Nel 1978 i maggiori sindacati italiani (Cgil, Cisl e Uil), di comune accordo con la Confederazione dei sindacati jugoslavi, proposero uno schema di accordo tra Italia e Jugoslavia sull’impiego di manodopera proveniente dal paese vicino che avrebbe dovuto prevenire l’utilizzo di lavoratori in nero . Sin dall’inizio le trattative si prospettarono non semplici e nei circoli jugoslavi si diffuse l’opinione che l’accordo fosse visto dalle autorità italiane come il primo passo verso la creazione di un sistema che permettesse una più facile espulsione dei cittadini jugoslavi privi di uno status giuridico regolare . La preoccupazione italiana nei confronti della penetrazione di manodopera jugoslava conviveva con un approccio pragmatico. Da una parte i lavoratori jugoslavi impiegati nell’economia informale rappresentavano una forza lavoro concorrenziale rispetto a quella italiana, accontentandosi di compensi più bassi anche del 60%, portavano valuta straniera fuori dal paese e non pagavano le tasse. Dall’altro rappresentavano una risorsa economica per gli imprenditori locali . L’accordo tra Italia e Jugoslavia si sarebbe dovuto inserire in quelli sulla Zona franca italo-jugoslava e con essi finì in un vicolo cieco , nonostante le numerose richieste avanzate sia dalle associazioni degli industriali e dei commercianti che dalle varie industrie della zona.
La manodopera legale rimase così sempre legata a piccoli numeri – in gran parte concentrata nella provincia di Udine, dove si trovavano le industrie –, mentre la fotografia occupazionale della comunità jugoslava in Italia, che secondo alcune stime negli anni 1980 oscillava tra le 50.000 e le 70.000 unità, era in gran parte impiegata nell’economica informale . Né le autorità italiane né quelle jugoslave erano a conoscenza del numero esatto delle presenze di lavoratori jugoslavi in Italia, dal momento che costoro erano soliti cambiare spesso residenza, tornare di frequente in Jugoslavia o spostarsi su base giornaliera come pendolari. Chi possedeva una situazione lavorativa regolare in Italia era stimato a circa un quarto del totale. Sebbene su scala nazionale si trattasse di numeri non particolarmente significativi, la concentrazione degli jugoslavi quasi esclusivamente nelle zone di confine faceva sì che il fenomeno fosse particolarmente visibile in particolare in Friuli Venezia Giulia: nel 1980 gli jugoslavi rappresentavano il 2,5% della forza lavoro totale nella provincia di Udine e il 4% nella provincia di Trieste .
Il mondo del sommerso era quanto mai ampio e variegato: dall’impiego femminile come collaboratrici domestiche e per la cura degli anziani, a quello maschile nel settore delle costruzioni, a quello di entrambi i sessi nei lavori di agricoltura e di giardinaggio, oltre ad alcuni incarichi estemporanei, come quelli stagionali nel settore alberghiero e quelli legati a particolari esigenze del territorio, come il carico-scarico di bestiame allo scalo di Prosecco. In alcuni casi, come per i commessi e gli autisti, la conoscenza delle lingue slave continuava a costituire un fattore determinante per orientare i datori di lavoro italiani verso la manodopera jugoslava . Nel 1983 i lavoratori stranieri, provenienti per la quasi totalità dalla Jugoslavia sarebbero stati a Trieste il 3,8% degli occupati e il 2,4% in Friuli, per quattro quinti lavoratori in nero . Nella fascia confinaria ammontavano a un numero che, secondo i sindacati locali oscillava tra i 7500 e i 9150 lavoratori .
Si trattava di lavori faticosi e mal remunerati, che però risultavano estremamente convenienti per chi, come i frontalieri, spendevano tutto il proprio introito, percepito in valuta straniera, in Jugoslavia, approfittando di un cambio favorevole. In alcuni casi, inoltre, costoro godevano di un’entrata anche in patria: alcuni erano pensionati, altri si recavano in Italia alcuni giorni alla settimana, durante il week end o le ferie per svolgere mansioni saltuarie.
Nel 1983, con la visita del presidente del Comitato esecutivo del Parlamento sloveno, Janez Zemljarič a Roma fu lanciata un’ulteriore iniziativa mirante alla regolarizzazione della posizione dei lavoratori pendolari. I negoziati proseguirono tra la Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia e la Repubblica di Slovenia – i cui legami si andavano in quegli anni stringendo nell’ambito della Comunità di lavoro Alpe Adria per la collaborazione transnazionale –, ma ancora una volta fallirono lo scopo di far emergere il sommerso .
Oltre a coloro che avevano un impiego, in regola o meno, oltrefrontiera, un’altra categoria che grazie alla mobilità transconfinaria si guadagnava da vivere erano coloro che del contrabbando faceva la maggiore fonte di introiti, una condizione ricorrente nelle municipalità prossime al confine. Dopo la seconda guerra mondiale l’erezione di un nuovo confine tra Italia e Jugoslavia non aveva fermato quelle strategie di sopravvivenza che portavano ogni giorno molti abitanti del Carso e dell’Istria slovena e croata a vendere i propri prodotti – in particolare carne e grappa – nelle città italiane oltreconfine e a ritornare con un carico di beni da rivendere in patria. Come in molte altre situazioni comparabili, il contrabbando non era percepito come un’attività moralmente deprecabile, quanto piuttosto, date le condizioni di necessità, come una pratica socialmente accettabile. Un recente studio sul villaggio di Rakitovec, che si trova oggi sull’attuale confine tra Slovenia e Croazia, ha messo in luce come le donne del luogo ricordassero la propria “carriera” da contrabbandiere addirittura con orgoglio perché, meno impegnativa e più redditizia del lavoro in fabbrica, aveva permesso loro di trascorrere più tempo con i figli finché erano piccoli e di mantenerli agli studi o di aiutarli economicamente una volta cresciuti . Anche per coloro che si occupavano saltuariamente di contrabbando, lo shopping a Trieste continuava a rappresentare qualcosa di paragonabile a un “impegno lavorativo”, al quale ci si approcciava con l’intento di fare fruttare al massimo il poco tempo a disposizione, valutando e acquistando in modo razionale le merci da rivendere in patria .
Negli anni 1980 la Jugoslavia entrò nella spirale della crisi economica che la avrebbe accompagnata fino alla sua fine e le cui radici affondavano nei decenni precedenti. In particolare negli anni 1975-1980 l’indebitamento estero era cresciuto esponenzialmente fino a toccare un picco di 15 miliardi di dollari nel 1980. A ciò si aggiungeva un calo delle rimesse degli emigranti all’estero in una congiuntura economica che, con la seconda crisi petrolifera del 1979, diminuiva le possibilità di impiego oltrefrontiera. La crescita economica nel 1983 raggiunse valori pari allo zero, con un’inflazione che si aggirava sul 45% e che già nel 1985 toccava il 100%. I redditi reali del 1985 corrispondevano così alla metà di quelli di cinque anni prima, portando a un crollo visibile degli standard di vita. L’ultimo decennio di vita della Federazione jugoslava, oltre ad aprirsi con la dipartita del presidente a vita Josip Broz Tito che aveva giocato il ruolo di collante tra le diverse anime del paese, esordiva con una situazione economica in via di deterioramento: a un’inflazione galoppante si aggiungevano l’aumento della disoccupazione e un’insicurezza politica dovuta alle schermaglie tra le leadership delle diverse repubbliche jugoslave .
Tuttavia, nel contesto di una forte inflazione in Jugoslavia, i compensi percepiti dai frontalieri in lire acquistarono un valore crescente rispetto a quelli dei connazionali in patria percepiti in dinari, il che portò ad equilibri inediti. Donne delle pulizie con paghe da direttori titolava provocatoriamente un settimanale nel 1988: i compensi percepiti dalle collaboratrici domestiche jugoslave in Italia, una volta convertiti in dinari, equivalevano a quello di un direttore di banca, una situazione paradossale particolarmente significativa nelle zone di confine dove il frontalierato era più diffuso – in particolare Capodistria e Pirano, ma anche il distretto di Nova Gorica –, che si esprimeva visivamente nella ristrutturazione delle vecchie case e nella costruzione di nuove , spesso destinate ad essere affittate ai turisti, trasformandosi dunque in un investimento economico potenzialmente remunerativo . Mentre all’epoca una paga media in Jugoslavia si aggirava intorno alle 300.000 lire, le colf provenienti dalla Jugoslavia a Trieste potevano guadagnare cifre che si aggiravano tra le 800.000 lire e il milione, oltre a sfruttare ulteriori margini di guadagno rivendendo a Trieste uova, formaggi, carni, verdure.
Ancora una volta stime precise dell’entità del fenomeno mancavano alle autorità di entrambi i paesi, trattandosi interamente di economia informale con vari gradi di intensità: alcune donne si recavano giornalmente a Trieste, altre a giorni alterni, altre ancora nelle giornate di riposo dal loro “vero” lavoro in Jugoslavia . Tuttavia, i collegamenti esistenti all’epoca tra le città dell’area possono restituire un’idea della interconnessione tra i vari centri: tra Trieste e Capodistria circolavano 18 autobus al giorno, con picchi tra le 6 e le 8 di mattina e tra le 13 e le 15 . Un’inchiesta del settimanale sloveno “Telex” dedicò un reportage al “segreto pubblico” della manodopera nelle zone di confine, da dove partivano ogni mattina flussi di jugoslavi che andavano a lavorare in nero in Italia per poi far rientro alla sera alle loro case. Si trattava di un fenomeno sul quale le autorità slovene chiudevano volentieri un occhio, dal momento che portava nel paese valuta straniera e assicurava la pace sociale in un momento di profonda crisi .
Il prezzo del sudore jugoslavo a Trieste titolava una testata locale raccontando in un reportage come le crescenti opportunità di guadagno a Trieste attraessero una quota sempre maggiore di manodopera, che cercava spasmodicamente lavoro; sui giornali triestini si trovavano diversi annunci con i quali collaboratrici domestiche cercavano lavoro, riportando numeri con prefisso jugoslavo. Non occupandosi in genere di contrabbando e non soggiornando in Italia, i frontalieri non violavano alcuna legge . In particolare in quella congiuntura economica vivere a cavallo di due sistemi economici e beneficiare delle disparità conveniva a entrambe le parti: sia ai lavoratori, l’89% dei quali affermava di godere di buoni standard , che ai datori di lavoro, che avevano a disposizione una manodopera comunque più economica di quella italiana.
La legge Foschi del 1986 sull’immigrazione, che introduceva la parità di trattamento tra cittadini italiani e cittadini provenienti da paesi non appartenenti alla comunità europea, accompagnata da una sanatoria, rappresentò un primo tentativo da parte del governo italiano di far emergere il lavoro nero, portando alla regolarizzazione di una parte dell’ampia economica informale . Secondo i dati della Questura di Trieste nel solo 1987 regolarizzarono la propria posizione 1300 cittadini stranieri, 1083 dei quali jugoslavi. Tra costoro spiccavano 453 unità dedite ai lavori domestici, seguite da muratori, personale impiegato in locali pubblici e in aziende di trasporti. Dai dati disponibili non è dato conoscere quanti di costoro risiedessero in Jugoslavia, ma, secondo un articolo del settimanale serbo “Politika Espres” sarebbero stati la maggioranza . Costoro potevano godere di uno speciale permesso di soggiorno che rendeva possibile la permanenza in territorio italiano nelle ore diurne ed escludeva il pernottamento. A 2-3.000 era stimato il numero delle domestiche jugoslave, che avrebbero servito una famiglia triestina su quattro; si trattava di un numero di molto superiore a quello dei lavoratori e delle lavoratrici legalmente registrati .
A irrompere con violenza nel contesto dei rapporti transfrontalieri tra Italia e Jugoslavia fu la crisi che porto quest’ultima all’implosione violenta, creando le premesse per uno sconvolgimento della precedente situazione economica. Tale congiuntura portò, tra l’altro, alla crescita esponenziale della presenza dai territorio ex jugoslavi in Italia, che passò dalla quinta alla terza posizione tra le comunità straniere presenti nel nostro paese dal 1991 al 1995 .
Tuttavia, gli sconvolgimenti che hanno attraversato l’area non hanno messo fine al fenomeno del frontalierato. Nella crisi economica post-indipendenza in Slovenia, segnata da un drammatico aumento della disoccupazione, il contributo dei lavoratori frontalieri permise a molti nuclei familiari di attraversare un periodo critico . Ancora nei primi anni 2000 la manodopera femminile slovena continuava a recarsi abitualmente a Trieste per effettuare lavori domestici o per dedicarsi alla cura degli anziani, mentre quella croata si era trovata allontanata dal doppio confine . Le collaboratrici slovene, a causa del loro status di lavoratrici live out che ogni sera facevano ritorno al proprio domicilio, continuavano a godere di una condizione decisamente migliore rispetto a quella delle altre collaboratrici domestiche attive in Italia . A quell’epoca erano stimati a circa 8000 i frontalieri sloveni in Italia, di cui 2350 provenienti dal Gorisko, 2030 dal Carso e 2185 dall’Istria Slovena .
Con l’ingresso della Slovenia nell’area Schengen nel 2007 è successivamente scomparso quello che era stato il confine storico tra l’Italia e la Jugoslavia dal Memorandum di Londra del 1954, mentre il confine tra la Slovenia e la Croazia potrebbe sparire già nel 2016, se Zagabria rispetterà le tappe per l’entrata nell’area Schengen.
Già nel 2013, tuttavia, con l’entrata della Croazia nell’Unione Europea determinate categorie di lavoratori ritenute deficitarie, tra cui badanti, colf e baby-sitter, si sono trovate nella condizione di poter lavorare regolarmente in Italia senza bisogno del permesso di soggiorno. La maggior parte di costoro – secondo un reportage del quotidiano “Glas Istre” nel 2014 si sarebbe trattato di circa 4000 donne, delle quali 2500-3000 in regola con i documenti e un altro migliaio in nero dalla sola Istria croata – trascorrerebbe in Italia 15 giorni al mese, alternandosi con una collega, per non recidere definitivamente i propri legami familiari .
Gli effetti della mobilità dei confini nell’area altoadriatica sui rapporti transfrontalieri, i cambiamenti nella normativa comunitaria e lo stato dei rapporti transnazionali continuano così a influenzare profondamente la vita degli abitanti e in particolare di coloro che, come i lavoratori frontalieri, vivono in più di un paese la propria quotidianità.
1 Si veda Ad Knotter, The Border Paradox. Uneven Development, Cross-Border Mobility and the Comparative History of the Euregio Meuse-Rhine, “Fédéralisme Régionalisme”, 3 (2002-2003), consultabile on line all’indirizzo http://popups.ulg. ac.be/1374-3864/index.php?id=237.
2 Gianfranco Battisti, Una regione per Trieste. Studio di geografia politica ed economica, Udine, Del Bianco – Industrie grafiche, 1970, pp. 75-86; Jože Šušmelj, Videmski sporazum, in Vojna in mir na Primorskem. Od kapitulacije Italije leta 1943 do Londonskega Memoranduma leta 1954, a cura di Jože Pirjevec, Gorazd Bajc e Borut Klabjan, Koper, Založba Annales, 2005, pp. 307-322.
3 Claudio Sambri, Una frontiera aperta. Indagine sui valichi italo-jugoslavi, Bologna, Arnaldo Forni editore, 1970, p. 47.

4 Ibid., p. 98.

5 William Zimmermann, Open Borders, Non Alignment and the Political Evolution of Yugoslavia, Princeton, Princeton University Press, 1970, p. 80.

6 Breda Luthar, Shame, Desire and Longing for the West. A Case Study in Consumption, in Remembering Utopia. The Culture of Everyday Life in Socialist Yugoslavia, a cura di Ead. e Maruša Puškin, Washington, New Academia Publishing, 2010, pp. 331-337; Maja Mikula, Highways of Desire. CrossBorder Shopping in Former Yugoslavia 1960s-1980s in Yugoslavia’s Sunny Side. A History of Tourism in Socialism (1950s-1980s), a cura di Hannes Grandits e Karin Taylor, Budapest-New York, Central University Press, 2010, pp. 211-237; Wendy Bracewell, Adventures in the Marketplace: Yugoslav Travel Writing and Tourism in the 1950s and 1960s, in Turizm. The Russian and East European Tourists under Capitalism and Socialism, a cura di Anne E. Gorsuch e Diane P. Koenker, Ithaca NY, Cornell University Press, 2006, pp. 248-265.

7 Luigi Einaudi, Le politiche dell’immigrazione in Italia dall’Unità a oggi, Roma-Bari, Laterza, 2007, pp. 85-88.

8 Archivio della Presidenza del Consiglio dei Ministri, Roma (APCM), Sezione IV, b. 10, 628 del 14

9 Archivio Centrale dello Stato, Roma (ACS), Ministero dell’Interno (MI), Gabinetto, 1971-75, b. 426.

10 Ulf Brunnbauer, Labour Emigration from the Yugoslav Region from the late 19th Century until the End of Socialism: Continuities and Changes, in Transnational Societies, Transterritorial Politics. Migrations in the (Post-)Yugoslav Region, 20th-21st Century, a cura di Ulf Brunnbauer, Münich, Oldenbourg, 2009, pp. 24-3711

11 W. Zimmermann, Open Borders, cit., pp. 75-76.

12 Si veda ad esempio Kad bi svi slijedili primjer Italije i Jugoslavije, “Novi List”, 15 gennaio 1979, p. 2.

13 Vjeko Dobrinčić, Autobusi zvani pospani, “Vjesnik u srijedu”, 7 novembre 1973 (Hrvatski Državni Arhiv [Archivio dello Stato Croato], Zagabria [HDA], Vjesnikova dokumentacija, DZS 38)

14 Karlo Ruzicic-Kessler, Italy and Yugoslavia: from Distrust to Friendship in Cold War Europe, “Journal of Modern Italian Studies”, 19, 5 (2014), pp. 657-658.

15 Jože Pirjevec, L’Italia repubblicana e la Jugoslavia comunista, in La questione adriatica e l’allargamento dell’Unione Europea, a cura di Franco Botta, Italo Garzia e Pasquale Guaragnella, Milano, Franco Angeli, 2007, p. 57.

16 Ezio Giuricin, Istria senza steccati, “Panorama” (Fiume), 12, 1-15 luglio 1990, p. 7.

17 Diego D’Amelio, Il dibattito pubblico sul trattato di Osimo fra ragion di Stato e protesta locale, “Qualestoria”, 41, 2 (2013), p. 86.

18 Diplomatski Arhiv [Archivio Diplomatico], Belgrado (DA), Italija, 1980, fasc. 63, d. 19, 420296.
19 G. Battisti, Una regione per Trieste, cit., pp. 119-121; V. Dobrinčić, Autobusi zvani pospani, cit.

20 M. B., Clandestini, ormai un esercito, “Il Sole 24 ore”, 12 settembre 1985, p. 6.

21 Just Ivetac, Predizborno kavalirstvo, “Novi List”, 26-27 maggio 1979, p. 4.

22 ACS, MI, Gabinetto, 1976-80, b. 287, 159/88 del 1 agosto 1977.

23 DA, Italija, 1978, fasc. 56, d. 1, 425148

24 ACS, MI, Gabinetto, 1964-66, b. 122, 522/107 del 3 dicembre 1966.A

25 ACS, MI, Gabinetto, 1981-1985, b. 331, 331/101 del 18 aprile 1981.

26 L. Einaudi, Le politiche dell’immigrazione in Italia dall’Unità a oggi, cit., p. 99.

27 ACS, MI, Gabinetto, 1976-80, b. 287, Telespresso n. 3369/072 del 14 giugno 1981.

28 ACS, MI, Gabinetto, 1967-70, b. 326, 998/118 del 6 giugno 1968, 182/109 del 2 maggio 1968.

29 L. Einaudi, Le politiche dell’immigrazione in Italia dall’Unità a oggi, cit., p. 113.

30 Ibid., p. 117.

31 Franco Pittau, Il fenomeno del frontalierato. Condizioni economico-statistiche e socio-giuridiche, in “Affari sociali internazionali”, 10, 4 (1982), pp. 110-112.

32 ACS, MI, Gabinetto, 1976-80, b. 210, 1813/274 del 24 settembre 1979; Una nuova convenzione tutelerà i lavoratori, “Panorama” (Fiume), 18, 1-15 ottobre 1978, p. 2; L. Einaudi, Le politiche dell’immigrazione in Italia dall’Unità a oggi, cit., p. 116.

33 DA, Italija, 1979, fasc. 248, d. 4, 113.

34 DA, Italija, 1981, fasc. 47, d. 11, 415157.

35 ACS, MI, Gabinetto, 1976-80, b. 287, 409 del 2 maggio 1978.

36 Margherita Ferrauto e Silvio Orviati, La presenza straniera in Friuli-Venezia Giulia, “Studi Emigrazione”, 91-92 (1988), p. 470.

37 F. Pittau, Il fenomeno del frontalierato, cit., p. 111; Manjo Vukotić, Plata kao bakšiš, “Večernje Novosti”, 12 luglio 1979 (HDA, Vjesnikova dokumentacija, DZS 38)

38 Italija, 1981, fasc. 47, d. 11, 415157.

39 Luciano Santin, Qui passa lo straniero, “Il meridiano”, 1, 16 gennaio 1986, pp. 10-11.

40 Fabio Neri, I lavoratori stranieri nel Friuli Venezia Giulia, “Studi emigrazione”, 20, 71 (1983), pp. 355-356.

41 Emil Heršak, Aspekti i razmjeri suvrmene imigracije u Italiji, “Migracijske i etničke teme”, 2, 3-4 (1986), p. 67

42 Massimo Bucarelli, La Slovenia nella politica italiana di fine Novecento: dalla disgregazione jugoslava all’introduzione euro-atlantica, in Italia e Slovenia fra passato, presente e futuro, a cura di Id. e Luciano Monzali, Roma, Studium, 2009, pp. 108-109.

43 DA, Italija, 1984, fasc. 48, d. 3, 2139.

44 Vida Rožac Darovec, L’attraversamento del confine nei ricordi delle donne istriane, “Qualestoria”, 36, 1 (2007), pp. 37-58.

45 B. Luthar, Shame, Desire and Longing for the West, pp. 361-367.

46 John Allcock, Explaing Yugoslavia, London, Hurst & Co., 2000, pp. 97-98; Mari-Žanin Čalić, Istorija Jugoslavije u 20. veku, Beograd, Clio, 2013.

47 Ivan Šikić, Čistačice sa direktorskim plaćama, “Arena”, 16 gennaio 1988, pp. 25-27.

48 Anton Gosar, Specifičnost migracij za začasno delo v tujino iz obmejnih regij SR Slovenije, na primeru občin ob jugoslovansko-italijanski meji, “Geographica Slovenica”, 6 (1977), p. 91.

49 Francesca Vigori, Una colf tutta d’oro, “Il Meridiano”, 12, 24 marzo 1988, p. 24.
50 Veljko Krulčić, Tršćanska cijena jugoznoja, “Reflektor”, 80, 14 novembre 1986, p. 2.

51 Quelle lire dal sapore agrodolce, Il Meridiano”, 12, 24 marzo 1988, p. 25.

52 V. Krulčić, Tršćanska cijena jugoznoja, cit., p. 2.

53 M. Ferrauto e S. Orviati, La presenza straniera in Friuli-Venezia Giulia, cit., pp. 477-478.

54 L. Einaudi, Le politiche dell’immigrazione in Italia dall’Unità a oggi, cit., p. 124, 129-132; W.S., Clandestini a Trieste: mettersi in regola, “Il Meridiano”, 15, 16 aprile 1987, p. 21.

55 Z. Vlajić, Na posao preko granice, “Politika Espres”, 29 dicembre 1987.

56 F. Vigori, Una colf tutta d’oro, cit., p. 25.

57 L. Einaudi, Le politiche dell’immigrazione in Italia dall’Unità a oggi, cit., p. 92.

58 Martina Orehovec, Delo istrank v Trstu, “Etnolog”, 58, 7 (1997), p. 119.

59 Melita Richter Malabotta, Feminizacija migracijskih tokova i aspekti integracije na području Trsta i Regije Furlanija-Julijska Krajina, “Migracijske i etničke teme”, 18, 4 (2002), p. 375.

60 Živa Žerjal, Valentina Hlebec, Neformalno delo dnevnih migrantk v tržaških zasebnih gospodinjstivih starejših ljudi, “Teorija in praksa”, 47, 1 (2010), p. 188.

61 Jernej Zupančič, Prekogranične dnevne radne migracije iz Slovenije u Austriju i Italiju, “Migracijske i etničke teme”, 18, 4 (2002), p. 159.

62 L’esercito delle quattromila badanti, “Il Piccolo”, 28 marzo 2014, consultabile on line all’indirizzo http:// ilpiccolo.gelocal.it/trieste/cronaca/2014/03/28/news/lesercito-delle-quattromila-badanti-1.8935130.