Verona 1914-1915: il rientro degli emigranti tra emergenza umanitaria e difficoltà economiche

1. INTRODUZIONE

In seguito allo scoppio della guerra europea si manifestò, in Italia, un grave perturbamento sul mercato del lavoro. Specialmente dai paesi belligeranti tornarono d’improvviso i connazionali che in tempi normali vi trovavano occupazione comunemente temporanea, più stabile in molti casi; alcuni di essi rimpatriarono perché impauriti dalla piega degli avvenimenti imprevisti, altri a causa della gravità della depressione economica che contrassegnò il primo periodo di guerra .

Con queste frasi si apriva l’Introduzione alla monografia che il Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio dedicò, all’inizio del 1915, al fenomeno del rientro degli emigranti a causa del grave conflitto bellico deflagrato in Europa nell’agosto dell’anno precedente. Secondo le statistiche ufficiali dal 1° agosto al 30 settembre 1914 rimpatriarono in Italia ben 470.866 persone . Si trattò di un imponente controesodo, consumatosi in circa due mesi, un arco temporale quindi piuttosto ridotto, che investì quasi tutte le regioni italiane anche se la medaglia d’oro dei rientri spettò al Veneto con162.361 rimpatriatI, ben il 34, 5% del totale. Nella provincia di Verona, invece, rientrarono 9.633 persone, l’83, 8% delle quali di sesso maschile . Grazie ad un documento compilato dalla prefettura di Verona probabilmente nella seconda metà del 1915 abbiamo la possibilità di conoscere il numero complessivo dei rimpatriati i quali, in seguito all’ingresso in guerra dell’Italia e al conseguente secondo controesodo, crebbero sensibilmente arrivando a toccare le 15.394 unità .
Gli emigranti italiani che decisero di tornare precipitosamente in patria per l’improvviso “ristagno” della produzione industriale nei paesi europei coinvolti nel conflitto, ben presto si accorsero che le condizioni generali dell’economia italiana non erano certo più floride: secondo il Ministero, infatti, “le difficoltà del finanziamento dei lavori in corso e delle attività agricole o industriali”, unite all’incertezza e alla sfiducia, “caratteristiche dell’epoca di crisi, ostacolarono fortemente il normale andamento della produzione”. La conseguenza inevitabile di questo stato di cose fu un progressivo aumento della disoccupazione che in Veneto riguardò 99.228 persone (su 162.361 rimpatri totali), 4.094 delle quali veronesi .Un fenomeno questo che mise a dura prova l’amministrazione centrale dello stato e soprattutto le sue diramazioni periferiche sulle quali, in definitiva, finì per ricadere sia il peso economico dell’assistenza alle folte schiere di indigenti rimasti senza occupazione, sia la responsabilità di attivare o meno i tanto invocati lavori pubblici.
Le statistiche ufficiali del Ministero, però, non registrarono un altro genere di dati che saranno presi in esame nella prima parte del saggio. Si sta alludendo, in particolare, al transito dalla stazione ferroviaria di Porta Vescovo, all’epoca il principale scalo cittadino, di oltre 200.000 persone tra il 4 agosto e la fine di settembre 1914. Molti di questi emigranti, pur essendo diretti altrove, furono costretti a sostare a Verona per qualche ora, in attesa della coincidenza che li avrebbe condotti nelle provincie di origine, o addirittura per qualche giorno come accadde a tutti coloro che non possedevano i soldi per il biglietto necessario a compiere l’ultima tratta ferroviaria. Si trattò di una pressione sociale enorme che mise a dura prova le forze del comitato di assistenza creato all’uopo dalle principali istituzioni della provincia anche perché gli emigranti giungevano a Verona, città posta all’incrocio tra le direttrici nord-sud della Val d’Adige ed est-ovest della linea Venezia-Milano e quindi crocevia di primaria importanza, dopo molte ore di viaggio, affamati, stanchi e stremati a causa della calura estiva.
L’analisi delle condizioni economiche della provincia scaligera alla vigilia dello scoppio della prima guerra mondiale e delle strategie messe in atto in quei giorni drammatici dalle istituzioni veronesi per far fronte alla piccola emergenza umanitaria, che costituisce un unicum nel panorama veneto e per questo meritevole di attenzione, lascerà poi spazio nella seconda parte del saggio alla descrizione delle condizioni socio-economiche di alcune zone del territorio veronese tra la seconda metà del 1914 e la fine dell’anno successivo quando la mobilitazione generale dell’esercito finirà per assorbire l’enorme quantità di manodopera in esubero.

2. CONDIZIONI ECONOMICHE ED EMIGRAZIONE NEL VERONESE ALLA VIGILIA DELLA PRIMA GUERRA MONDIALE
La camera di commercio di Verona nel rapporto annuale sulle condizioni economiche della provincia sottolineò che nel corso del 1913 la “ricchezza privata” era stata “in crescere” ma

questo aumento di benessere non si estese a vantaggio di tutta la classe lavoratrice, alla quale anzi la iattura di una disoccupazione pervenuta a termini non mai raggiunti, inasprì le strettezze obbligandola a cercare in maggior misura che nei passati anni lavoro e pane nei paesi esteri .

La provincia veronese pur avendo registrato nel corso dell’età giolittiana “importanti sviluppi nel settore secondario”, con una progressiva, anche se lenta, industrializzazione del capoluogo , conservò la propria vocazione agricola mantenendosi legata ai principi fisiocratici saldamente impressi nei cromosomi di una classe dirigente propensa ad investire i propri capitali quasi esclusivamente nelle campagne, per il potenziamento delle tecniche agricole o tutt’al più ad impegnarli in iniziative “miste” e quindi in industrie di trasformazione dei prodotti della terra . Il mercato del lavoro scaligero si trovò quindi sempre in balia delle normali perturbazioni che coinvolgevano il settore agricolo e alla mercé di una disoccupazione strutturale. Quando poi capitava che anche qualche industria chiudesse i battenti, come accadde nel corso del 1913 allo stabilimento Turati di Montorio che occupava 400 operai, le condizioni generali erano destinate ad aggravarsi ulteriormente .
L’ufficio comunale del lavoro, alla fine del 1913, registrò 1.584 disoccupati nella sola città di Verona (1.335 uomini e 249 donne) ai quali bisognava, però, aggiungere i 10.906 del resto della provincia. Ma il dato forse più preoccupante riguardava il numero delle persone iscritte nell’elenco dei poveri di Verona: 30.000 in una città che non raggiungeva i 100.000 abitanti . Il principale foglio socialista scaligero, “Verona del popolo”, non aveva mancato di segnalare per tempo l’irrigidirsi delle condizioni dell’economia locale la quale con ogni evidenza soffriva ancora dei postumi della crisi che aveva investito l’Italia a partire dal 1907. Il 25 gennaio 1913 il giornale era uscito nelle edicole con il seguente monito:

il proletariato d’Italia ed anche la piccola borghesia d’Italia, gemono sotto l’assillo pungente e dolorante della miseria e della disoccupazione. In questo crudo inverno la fame batte alla porta delle famiglie: non si trova da lavorare non si trova da vivere .

Non è certo questa la sede nella quale affrontare un’approfondita disamina della dialettica sociale e dei rapporti di forza nel mondo del lavoro scaligero, tuttavia, limitandoci a sfiorare il problema, si può affermare che proprio con l’aggravarsi della situazione economica, durante la seconda metà del 1913, l’attività della locale camera del lavoro andò acquistando dinamicità rivitalizzata dall’inizio della segreteria di Domenico Maitilasso, un ferroviere di origine meridionale il quale diede “un netto impulso all’attività dell’organizzazione”. Durante i primi mesi del 1914 ci fu “una ripresa di scioperi un po’ in tutti i comparti produttivi del settore secondario” , ma particolarmente attivi furono i ferrovieri, la colonna portante delle agitazioni che segnarono la “settimana rossa” veronese . Anche nelle campagne la temperatura dello scontro sociale era tornata a salire tra il 1913 e il 1914 e già si contavano a “centinaia” i lavoratori che “da mesi hanno inutilmente battuto a tutte le porte” per ottenere un lavoro qualsiasi che consentisse loro “di portar qualcosa da mangiare alle loro donne e ai loro figli aspettanti”. Particolarmente inquietanti si presentavano le condizioni del sud della provincia dove “alla disoccupazione acuta dei braccianti” si era unita “la crisi più dura dell’industria del truciolo” che negli inverni passati aveva consentito “un po’ di lavoro a domicilio” soprattutto alle donne .
Lo “sfogo” più naturale della “moltitudine disoccupata” era stato da sempre “l’emigrazione” che tuttavia, segnalarono gli analisti della camera di commercio, nel 1913 era “andata aumentando fino ad impressionare”. Per quanto riguardava la provincia veronese si era passati dagli 8.432 emigranti del 1910 ai 12.210 del 1913, dati che confermavano indirettamente il peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori e contestualmente il trend negativo regionale e nazionale : secondo le statistiche ufficiali del commissariato generale all’emigrazione, infatti, si era registrata una crescita complessiva degli espatri a livello nazionale passati dai 651.475 del 1910 agli 872.446 del 1913. I flussi continuarono a lievitare anche nel primo semestre del 1914 per poi ovviamente crollare con lo scoppio del conflitto europeo. Impressionante era il dato delle partenze dal Veneto (che comprendeva però anche quelle dall’attuale Friuli-Venezia Giulia), 123.853 unità (14, 2% del totale), il più alto dopo quello siciliano . Secondo l’istituto camerale scaligero queste cifre non potevano “non impensierire” sia perché le cause che le determinano erano “di lor natura stabili sia perché negli effetti che ne seguono il male supera il bene”; il “bene”, per gli estensori della relazione, coincideva non tanto, o quanto meno non soltanto, con l’opportunità dei lavoratori veronesi di trovare un lavoro che consentisse il loro sostentamento, ma con il fatto che “questo sfollamento di bisognosi” aveva evitato “per il momento disordini e turbamenti” di una certa gravità .
Non era certamente questa invece la posizione della camera del lavoro e dei socialisti scaligeri, tanto è vero che quando la definitiva conquista della Libia (o meglio, delle coste settentrionali della Libia) sembrò creare inaspettate opportunità occupazionali e all’allargamento del mercato del lavoro la sinistra veronese reagì molto negativamente ingaggiando una violenta polemica con il consorzio cooperativo di Legnago, peraltro di ispirazione socialista . Questo perché gli amministratori del Consorzio avevano deciso di partecipare alla gara d’appalto per lavori di costruzione delle nuove linee ferroviarie. ”Verona del popolo”, indignata, pubblicò addirittura un articolo dal titolo molto eloquente: Lavoratori veronesi non prostituitevi. Il consorzio legnaghese tirò comunque diritto e si aggiudicò i lavori che occuparono ben 600 operai .
I dati sull’emigrazione veronese e veneta contraddicevano quelli nazionali, che continuavano a descrivere un’emigrazione prevalentemente transoceanica, per quanto riguardava proprio i paesi di destinazione. 9.837 (80, 5%) erano infatti i lavoratori scaligeri che nel 1913 avevano lasciato la provincia alla volta di un paese europeo (soprattutto Germania, Svizzera, Austria-Ungheria e Francia) e soltanto 2.373 quelli che avevano scelto una meta transoceanica (Stati Uniti, Brasile e Argentina principalmente) . Come detto, il dato trova riscontro in quello veneto: su 123.853 emigrati nel 1913 ben 98.455 (79, 4%) partirono alla volta di un paese europeo o appartenente al bacino del Mediterraneo. Anche se le statistiche ufficiali da qualche anno ormai non dividevano più i flussi migratori in temporanei e definitivi , uno sguardo al dato di genere può aiutare a gettare un po’ di luce sulla tipologia degli espatri avvenuti nel 1913: nel Veronese, infatti, emigrarono 10.108 maschi, con più di 15 anni, (82, 8%) a fronte di sole 1.296 femmine (10, 6%) . Questi dati trovavano, ancora una volta, un puntuale riscontro in quelli veneti e, più in generale, di tutta l’Italia settentrionale: per limitarsi al Veneto su 123.853 espatri, 103.386 erano maschi (83, 5%) e 20.467 femmine (16, 5%) ; cifre che descrivevano una tipologia emigratoria che aveva per lo più carattere temporaneo, stagionale o annuale, comunque “a termine”, interessando per la grandissima parte maschi adulti in età lavorativa.

3. INIZIA LA PRIMA GUERRA MONDIALE
Nel Veronese, la notizia del grave assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando, avvenuto alla fine di giugno 1914, venne trattata con una certa distrazione da parte dei fogli d’informazione, impegnati com’erano nelle piccole questioni di politica locale. Durante il mese di luglio, infatti, era in programma una lunga tornata elettorale amministrativa con la quale i veronesi avrebbero dovuto rinnovare il consiglio provinciale e buona parte dei consigli comunali della provincia, compreso ovviamente quello del capoluogo. Sebbene i socialisti affrontassero le elezioni sull’onda dell’entusiasmo per il buon risultato conseguito in occasione delle politiche del 1913, quando il “tribuno” Mario Todeschini era riuscito nell’impresa di battere il liberale di destra Luigi Messedaglia nel collegio di Verona I, il tanto sperato, o temuto, dipende da che prospettiva si analizza il voto, sfondamento non si verificò affatto: i “rossi” conquistarono è vero l’importante municipio di Verona con una maggioranza monocolore che relegò all’opposizione i soli cattolici ed escluse completamente, fatto di per sé epocale, gli esponenti della vecchia classe dirigente liberale. Tuttavia, nel resto della provincia “erano risultate prevalentemente vincenti liste composte da cattolici e liberali, con un diffuso rafforzamento dei primi” in virtù anche delle disposizioni previste dal patto Gentiloni .
Ad ogni modo, quando anche nel Veronese apparve la notizia dell’ultimatum lanciato dall’Austria-Ungheria alla Serbia, la moderatissima “Arena”, foglio di tradizioni liberali e tutto sommato filogovernative, commentò scrivendo che quell’atto politico equivaleva “all’abolizione dell’indipendenza serba, a ridurre il governo di Belgrado in uno stato di vassallaggio” e financo “a calpestare la sua dignità nazionale” . Quando poi la guerra scoppiò veramente un po’ tutti, pur se con accenti diversi, applaudirono alla neutralità italiana anche se non tardarono a farsi sentire le prime conseguenze per lo più di carattere economico che rischiavano di gettare ombre cupe sulle scelte strategiche del governo italiano. A pesare fu in particolare il divieto di transito delle merci attraverso il territorio austriaco, un provvedimento che rischiava di provocare “gravi danni” al commercio della provincia . Verona costituiva un crocevia di fondamentale importanza per i flussi commerciali verso le regioni del centro Europa, in particolare Austria e Germania che da tempo acquistavano ingenti quantitativi di frutta la cui esportazione, per l’appunto, aveva conosciuto uno sviluppo considerevole proprio nel corso del primo decennio del secolo .
Il 4 agosto l’“Arena” pubblicò un trafiletto intitolato Il movimento alle nostre stazioni. Nel testo richiamava l’attenzione sui molti cittadini francesi, tedeschi e austriaci che alla spicciolata stavano rientrando “per rispondere all’appello della patria in guerra”, ma soprattutto sul fatto che con i treni provenienti da Ala giungevano “a centinaia gli emigranti nostri che tornano scacciati dalla guerra”. Si trattava, secondo le prime impressioni registrate direttamente allo scalo di Porta Vescovo, “di una folla misera e confusa” che narrava “storie terribili e pietose” e “le sofferenze di questo loro viaggio verso la patria”. Molti avevano addirittura deciso di raggiungere “il confine a piedi pur di non attendere oltre” . Le prime avvisaglie di un fenomeno di cui difficilmente si potevano delineare i contorni con precisione trovarono una triste e drammatica conferma il giorno successivo quando la stampa informò che in 48 ore erano già transitate dallo scalo cittadino circa 10.000 persone .

I racconti degli emigranti – raccontò “Arena” – che provengono dalle linee di Modane, Chiasso e Peri sono sempre spaventosi. Si conferma sempre più che nel Trentino e Trieste regna il terrore ed è padrona assoluta la polizia. I poveri emigranti hanno dovuto lasciare nei paesi abbandonati il loro mobilio, gli attrezzi da lavoro e le bestie. Sono fortunati quelli che hanno potuto vendere le masserizie ad un prezzo irrisorio. Molti sono stati pagati con della carta moneta tedesca che ora non vale quasi più essendo enormemente deprezzata. Altri sono accompagnati dalla moglie straniera che non conosce una parola d’Italiano. Così si sentono alcune donne a discorrere in francese e in tedesco .

Ai bisogni degli emigranti, che in molti casi arrivavano alla stazione scaligera “in uno stato pietoso, stanchi assonnati, sporchi, affamati”, cercò di provvedere inizialmente il questore Ernesto Carusi organizzando una improvvisata distribuzione di pane, minestra, latte e frutta : “si calcola – scrisse «Arena» – che siano stati distribuiti 7 quintali di pane e 14 grandi marmitte di minestra” che risollevarono le condizioni “di quei poveretti che da giorni non si nutrivano che di pane ed acqua”. Inoltre, per concedere un po’ di riposo ai tanti che avevano viaggiato per molte ore, l’amministrazione comunale decise di adibire a dormitori l’asilo infantile Camploy, dove furono allestiti 80 posti letto, e il fabbricato del Collegio Artigianelli . Per dare un’idea dello sforzo assistenziale promosso dai volontari che iniziarono ad operare a Porta Vescovo basti dire che dall’8 al 12 agosto furono distribuiti altri 43 quintali di pane e, complessivamente, 30.000 minestre e 7 ettolitri di latte .
Il 9 agosto, finalmente, il principale foglio cittadino diede notizia che per “iniziativa della Deputazione provinciale” si erano riuniti il sindaco di Verona, il presidente della camera di commercio e un rappresentante del segretariato all’emigrazione “allo scopo di costituire un comitato di soccorso degli emigranti che ritornano in questi dolorosi momenti”. Il nuovo importante organismo che avrebbe dovuto coordinare la complessa macchina degli aiuti umanitari fu ospitato nello stabile della camera di commercio in piazza delle Erbe, dove dal 1904 aveva la propria sede il segretariato all’emigrazione del quale peraltro finì per costituire una sorta di braccio operativo . Il segretariato veronese era stato tra i primi a nascere in Italia e aveva svolto un’opera “prevalentemente a pro’ della emigrazione continentale”, istituendo anche, nel 1913, un corso magistrale per emigranti grazie all’opera di 137 maestri elementari .
Il nuovo comitato, dunque, iniziò ad operare con un fondo di 1.500 lire messo a disposizione della provincia e dalla camera di commercio, ma allo stesso tempo si appellò direttamente alla generosità della popolazione veronese. Uno dei suoi primi interventi fu l’istituzione di un ufficio di cambio presso la stazione di Porta Vescovo per evitare ciò che era accaduto un po’ ovunque, al confine così come “in varie città”, e cioè il cambio di banconote da parte di malintenzionati a prezzi “irrisori” . L’impressione, suffragata da alcune notizie di cronaca, è che i numerosi appelli al patriottismo e alla solidarietà nazionale non fecero certo breccia nei cuori di tutti veronesi. Non pochi furono gli “esercenti e i negozianti di generi di prima necessità”, soprattutto dell’area attigua alla stazione, che specularono alzando senza ritegno i prezzi, “per carpire denaro ai poveri profughi”. E così per mettere fine all’imbarazzante fenomeno dovette intervenire il questore il quale, “impressionato dal dilagare della bieca speculazione”, diede “severissime disposizioni” istituendo anche “una squadra di agenti” incaricata “di girare per la città e di sorprendere tutti” i malintenzionati anche quegli “affittaletti” che sfruttano “la stanchezza dei poveri profughi, affittando i miseri giacigli per solo qualche ora al prezzo di una nottata” . Nei giorni successivi intervenne anche la giunta comunale socialista attivando un’azione di calmieraggio sui prezzi dei prodotti di prima necessità e istituendo un’apposita “commissione per il listino”, le cui decisioni però, ancora una volta, non dovettero essere rispettate da tutti se “Verona del popolo” criticò apertamente quei “bottegai” che, “malgrado il calmiere municipale”, facevano “pagare di più di quanto nei bollettini è fissato” .
Se il numero e le condizioni dei primi arrivi avevano impressionato la tranquilla società veronese, sorpresa per la verità come buona parte della classe dirigente nazionale, ben presto divenne evidente che il controesodo non sarebbe terminato tanto in fretta e che i numeri erano destinati a lievitare. Il 10 agosto, dopo soli sei giorni dall’inizio dei rientri, furono diffusi i primi dati che parlavano di un passaggio di circa 32.000 persone sulla sola linea della Val d’Adige. Il giorno successivo i giornali parlarono di 100.000 persone transitate da Verona “provenienti dalle linee di Ala, Chiasso e Modane” . L’ultimo dato a nostra disposizione, fornito dai giornali il 29 agosto, registrò il passaggio da Porta Vescovo di “oltre duecentomila” emigranti . Molti di questi, già lo si è detto, si trovarono costretti a sostare a Verona in attesa di una coincidenza, nel tentativo di trovare il modo di acquistare un nuovo biglietto o anche soltanto per ricongiungersi con il resto della famiglia. In breve si creò una situazione del tutto particolare negli spazi interni ed esterni alla stazione di Porta Vescovo con la formazione di un piccolo “campo profughi” , di cui è possibile farsi un’idea seguendo il reportage pubblicato da “Arena” il 13 agosto. Esternamente, scrisse il giornale, la stazione non presentava particolari caratteri di novità: continuava il via vai dei normali viaggiatori e degli eleganti uomini d’affari. Sotto l’atrio, però, vi era “un primo accampamento in piena regola” con fagotti sparsi qua e là, donne e bambini che riposavano come potevano afflitti dalla calura estiva.

Ma il grosso dell’esercito dei profughi è accampato sotto la tettoia. È uno spettacolo nuovo e pittoresco nel complesso. Soltanto quando ci si ferma ad osservare i particolari, soltanto allora si prova una stretta al cuore. Lungo tutte le grandi banchine è un susseguirsi di fagotti e valigie ammonticchiate alla rinfusa. E intorno ad ogni mucchio è radunata una famiglia, come i soldati intorno ai loro fucili, durante il bivacco. Ma come è triste il silenzio che domina su tutta quella gente misera! Sono centinaia, migliaia di persone, e tutti tacciono. I bambini sono muti e quieti anch’essi. […] Sembra che dopo la lunga fatica del viaggio questa gente stanca, faccia un enorme sforzo per dire qualchecosa. Se si domanda loro qualcosa rispondono appena il necessario e guardano con certi occhi che vogliono dire: per carità ci lasci stare.

Gli emigranti di Porta Vescovo rientravano “dal Lussemburgo, dalla Prussia, dal Tirolo, dalla Svizzera, dalla Francia” costretti a viaggiare spesso per “giorni e notti attraverso paesi in guerra”. Avevano “patito la fame e il sonno”. Il servizio giornalistico terminava descrivendo l’arrivo “in diretta” dell’ennesimo treno di emigranti nell’indifferenza assoluta di chi aveva già conquistato il suolo scaligero: “gli altri guardano e non si muovono non è affar loro l’arrivo di questi nuovi compagni di sventura” .

4. DIFFICOLTÀ ORGANIZZATIVE, DIFFICOLTÀ ECONOMICHE E DISOCCUPAZIONE
A pochi giorni dall’avvio delle proprie attività il comitato pro emigranti diede già i primi segnali di affanno. Gli aiuti impartiti dalla benemerita associazione assistenziale , infatti, non erano in grado di soddisfare i bisogni delle centinaia di migliaia di emigranti e si rendeva più che mai necessaria “l’opera di carità” della popolazione tutta. C’era bisogno non soltanto di denaro, che peraltro non era stato donato in grande quantità, ma soprattutto di “oggetti”: “tela da pagliericci, biancheria personale, lenzuola, coperte, letti usati di qualsiasi genere”. Sarebbero poi stati utili della paglia o del crine di cavallo per confezionare materassi e possibilmente dei locali vuoti “da affittare a prezzi minimi”. Anche perché vi erano “famiglie intere” costrette ad accamparsi “all’aperto sotto gli alberi gettate sopra un po’ di paglia fornita da qualche pietoso vicino” .
Sebbene il comitato fosse coadiuvano informalmente dai volontari dell’Opera Bonomelli e della Umanitaria guidata dal socialista Gino Baglioni, che si occupavano prevalentemente del primo soccorso in stazione, l’impressione è che la spinta propulsiva della generosità veronese fosse ormai giunta al termine . Nei giorni successivi vennero diffusi vari appelli in particolare ai commercianti affinché donassero pettini, saponi, bottoni e tutto quello che avrebbe potuto essere utile alle “numerosissime famiglie […] tornate dai paesi della guerra abbandonando colà tutte le loro masserizie” . I redattori di “Arena”, evidentemente con il beneplacito dei vertici del comitato, decisero di uscire definitivamente allo scoperto il 7 settembre pubblicando un durissimo j’accuse contro i propri lettori che non si erano ancora fatti “un’idea abbastanza chiara della situazione odierna tutt’altro che lieta e rassicurante”.

Pochissimi avvertono il pericolo che può presentare la pressione della massa disoccupata in Italia la quale fortunatamente è ancora estranea alla conflagrazione europea. Un indice chiaro di questa deplorevole indifferenza e di questo incosciente scetticismo è nell’esigua somma raccolta pro emigranti rimpatriati, malgrado l’interessamento vivo e tenace dei benemeriti comitati cittadini.

Il fatto era che le prime avvisaglie del disagio sociale degli emigranti veronesi costretti senza un lavoro a sbarcare il lunario con enorme difficoltà avevano già iniziato a manifestarsi. Alcuni, ad esempio, inscenarono “dimostrazioni ostili sotto le case” di cittadini “facoltosi”; altri scrissero delle lettere direttamente al comitato “dove in termini violenti” si rilevava “il poco o nessuno slancio generoso di coloro che avrebbero dovuto e potuto aiutare”.

Che cosa rappresentano mai per una città come Verona, che vanta una numerosa classe di abbienti, poco più di tremila lire […] raccolte fino ad ora pro rimpatriati? Non useremo le parole grosse contenute nelle proteste che abbiamo sul tavolo, che se non sottoscriviamo per la forma dobbiamo però in coscienza riconoscere la verità di quanto affermano; diremo soltanto che cifra suddetta non può né deve considerarsi espressione del patriottismo veronese.

E ancora:

A Verona vivono e prosperano individui che malgrado la notoria ricchezza non si sono fatti MAI vivi in una qualsiasi occasione, né i loro nomi sono apparsi MAI negli elenchi delle sottoscrizioni. Ora tutto questo è semplicemente deplorevole.

Si tratta di frasi che hanno un’enorme rilevanza politica perché arrivarono da un giornale allineato politicamente alle persone che ora accusava rimproverandogli scarsi sentimenti di solidarietà nazionale. Il foglio di ispirazione liberale si spinse addirittura oltre giungendo a chiedere una misura drastica come quella ipotizzata dalla amministrazione di Milano e cioè una sovraimposta “volontaria” a favore degli emigranti rimpatriati .
A partire dalla seconda metà di agosto il comitato di soccorso provò ad attivare anche un servizio di collocamento per gli emigranti veronesi rientrati. A dire il vero già in precedenza la presidenza aveva cercato di sollecitare i comuni della provincia “a dare aiuto ai lavoratori rimpatriati ed a promuovere lavori per dar pane ed occupazione” . I risultati, però, furono piuttosto scarsi. Ad ogni modo, consapevole che accanto all’assistenza umanitaria dei tanti che transitavano da Verona si dovesse attivare anche una politica di reinserimento nel mondo del lavoro dei veronesi rimpatriati, i vertici del comitato tornarono a richiedere in termini più espliciti un maggior coinvolgimento da parte di chiunque fosse in grado di fornire una occupazione il 20 agosto poiché vi erano

bravi e volenterosi giovani provetti nel loro mestiere che non domandano altro che lavoro. Essi sono stati costretti dalle tristissime necessità della guerra ad abbandonare occupazioni assai proficue, padroni dai quali erano ben voluti e stimati. Dare un pane a tanti nostri connazionali è opera solamente utile e buona .

Se gli appelli del comitato si indirizzarono prevalentemente ai privati nel tentativo di spronarli ad assumere un certo numero di lavoratori, i socialisti e la camera del lavoro puntarono decisamente sulla richiesta di attivazione di lavori pubblici già da tempo messi in cantiere. Una istanza di forte impegno economico alle amministrazioni pubbliche di stato, provincie e, in parte, anche dei Comuni, arrivò dal convegno sulla disoccupazione promosso a Rovigo dalla Federazione nazionale dei lavoratori della terra che vide la partecipazione di tutte le organizzazioni economiche veronesi, rodigine e padovane. L’obiettivo dell’assise era di “prospettare un piano dei lavori pubblici” al fine di “provvedere con la massima sollecitudine a mitigare, almeno in parte, l’enorme disoccupazione di queste ultime settimane” acuitasi “per il dolorante ritorno di migliaia e migliaia di emigranti” cacciati dai territori dove si combatteva “l’orrenda guerra fratricida” . Di lavori pubblici, della loro necessaria attivazione e, soprattutto, delle scarse possibilità offerte dalle finanze pubbliche, si continuerà a parlare a vari livelli anche nelle settimane successive in un dibattito animato soprattutto dai socialisti, ma in definitiva reso sterile dagli affanni di un’economia non in grado di assorbire tutta la forza lavoro disponibile . Il segretario della camera del lavoro Domenico Maitilasso tentò per tempo di dare un’organizzazione alla massa informe degli emigranti rimpatriati nel Veronese convocando una riunione alla quale parteciparono 400 “disoccupati, quasi tutti emigranti ritornati dalla Germania, dalla Francia e dalla Svizzera, qualche decina anche dal Trentino e da Trieste”. In quell’occasione Maitilasso spronò i lavoratori ad eleggere una commissione ristretta che potesse interloquire facilmente con i vertici delle istituzioni provinciali .
Negli stessi giorni si tenne anche un’“imponente” adunanza nella sala del consiglio provinciale “per discutere sull’angustiante e premente tema della disoccupazione” alla presenza della amministrazione provinciale, di alcuni membri del consiglio, di 90 sindaci della provincia, e di alcuni deputati. L’establishment politico scaligero prese definitivamente atto che all’opera di assistenza umanitaria fornita alle migliaia di persone transitate da Porta Vescovo doveva ora seguire un serio e approfondito programma di rinserimento nel mondo del lavoro di una parte consistente almeno degli oltre 10.000 rimpatriati veronesi . Fu in questa occasione che si decise di istituire un comitato provinciale contro la disoccupazione il cui gruppo direttivo fu composto dal presidente della Provincia Giulio Pontedera, dal sindaco di Verona Tullio Zanella, dal direttore della società Umanitaria Gino Baglioni, dai sindaci di Grezzana e Colognola ai Colli e dal legnaghese Bruno Ferrari. Nella sua prima riunione il comitato dopo aver stilato un elenco dei lavori pubblici da attivare decise di “premere sullo Stato” affinché finanzi le casse dei comuni rurali, di interessare la Banca d’Italia per facilitare il finanziamento delle cooperative e di spronare gli istituti di credito a prestare denaro ai comuni .
5. CONCLUSIONI
L’8 settembre 1914 sulla rubrica quotidiana di “Arena” dedicata alle notizie riguardanti il comitato apparve l’annuncio shock con cui si informava dell’impossibilità a “continuare l’opera” di assistenza “per la mancanza di fondi” poiché i contributi messi a disposizione dagli enti pubblici e le poche offerte dei privati cittadini erano ormai terminati e più nulla si poteva fare “di fronte all’enorme affluenza di emigranti rimpatriati e ancora disoccupati”. Il comitato si era quindi trovato nella dolorosa necessità di sospendere i sussidi per gli affitti alle famiglie in difficoltà, di sopprimere ogni distribuzione di indumenti e di ridurre le porzioni dei pasti offerti; in pratica la sua opera era ormai ridotta “solamente alla distribuzione di buoni delle cucine popolari” .
A dispetto dell’annuncio di cui si è dato conto, nelle settimane successive il comitato continuò ad operare fondendosi con la commissione creata per combattere la disoccupazione e creando una sorta di centro di coordinamento unico anche perché, dopo la metà di settembre, i rientri degli emigranti cominciarono a diminuire e il problema più rilevante divenne il collocamento dei numerosi disoccupati, rimpatriati e non. Non caso, già il 5 settembre, la camera del lavoro aveva diffuso un comunicato con il quale da un lato si compiaceva dello sforzo profuso dall’amministrazione comunale di Verona, la quale aveva annunciato l’attivazione di alcuni lavori di pubblica utilità, ma dall’altro accusava apertamente provincia e governo di non voler fare la propria parte continuando così una politica oppressiva nei confronti dei lavoratori. E minacciava:

in questi tempi di grandi calamità sociali, la sobillatrice vera e terribile è soltanto la fame e quando la stampa borghese, assai corta di vista, parla di elementi della teppa che si sono infiltrati nelle dimostrazioni, non si fa onore se non vuol sapere che quei teppisti altri non sono che i più affamati e i più laceri. Predicare il buon ordine è soprattutto compito di civiltà; ma una predicazione assume carattere antipatico ed odioso quando disconosce l’affamamento generale e pretende che si chiudano nella passiva rassegnazione i corpi sofferenti e vacillanti .

In effetti, soprattutto nel distretto amministrativo di Verona, e nel capoluogo in particolare, il problema della disoccupazione, alla fine del 1914, non era più sottovalutabile. Nel comune di Grezzana, ad esempio, e più in generale in tutta l’area collinare della Valpantena, all’inizio di settembre i disoccupati erano già in numero “stragrande” e i lavori, ripetutamente annunciati, per la realizzazione della linea del nuovo tram elettrico stentavano a partire . Complessivamente, secondo le statistiche ufficiali compilate dal Ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio, nell’intero distretto veronese, diviso a metà tra la pianura e l’area pedemontana, tra il 1° agosto e il 15 settembre 1914 erano rientrate 2.512 persone; di queste 627 rimasero disoccupate (il 25% del totale dei rimpatri) . Qualche mese più tardi, dopo la seconda ondata di rientri in seguito all’entrata in guerra dell’Italia, la Prefettura scaligera compilò un secondo censimento degli “emigranti bisognosi rimpatriati” per “causa di guerra” unito a quello “dei disoccupati per cause estranee al rimpatrio”. I dati lievitarono sensibilmente: 3.832 furono i rimpatriati ai quali si sommarono 1.591 disoccupati; complessivamente dunque il 3, 3% della popolazione (registrata dal censimento del 1911) presentava seri problemi di sussistenza.
La piaga della disoccupazione riguardava anche, e forse soprattutto, porzioni consistenti della provincia, specie la zona collinare e montana, quella del Lago di Garda e dell’est veronese. Particolarmente in sofferenza era il distretto di San Pietro Incariano che si estendeva su un comprensorio prevalentemente collinare interessando buona parte della Valpolicella dove molto diffusa era la lavorazione del marmo. Questa circoscrizione aveva dovuto sopportare tra la metà di agosto e quella di settembre il rientro repentino di 1.406 persone delle quali 900 (il 64% del totale dei rimpatri) rimasero disoccupate . Il numero dei rimpatriati salì ulteriormente a 1.791 in seguito alla seconda ondata di rientri ai quali si dovevano sommare i “disoccupati per cause estranee al rimpatrio” che nell’intero distretto erano 910.Complessivamente, dunque, l’8, 4% della popolazione soffriva la mancanza di occupazione.
Seguiva poi il distretto “misto” di San Bonifacio, diviso a metà circa tra pianura e collina, con 1.171 rimpatri alla fine del 1914 e 410 disoccupati (il 35% del totale dei rimpatri); dopo la metà del 1915 il numero dei rimpatriati “bisognosi” salì a 2.353 ai quali si aggiungevano altri 530 disoccupati. Nell’intero distretto il 6, 7% della popolazione poteva quindi essere classificata come bisognosa. Anche l’est veronese pianeggiante presentava alla fine del 1914 una situazione generale piuttosto complicata con 1.006 rimpatri e 418 disoccupati (il 41, 5% del totale dei rimpatri) registrati all’interno dei confini del distretto di Cologna Veneta. Alla fine del 1915 i rimpatri salirono a 1.828 ai quali andavano aggiunti 440 disoccupati: ben il 9, 6% della popolazione totale.
Infine si potrebbe analizzare il caso del distretto di Legnago, dislocato nel sud della provincia, un’area ad economia prevalentemente agricola, dove molto diffusa era la grande proprietà terriera. Nel comune capoluogo fin dal 22 agosto 1914 l’amministrazione aveva introdotto un calmiere sui prezzi dei generi di prima necessità , anche per porre un freno alle continue richieste di sussidi da parte degli emigranti rientrati, ai quali la giunta aveva comunque riservato i lavori di “«sterro o l’allargamento della cinta fortificatrice di Porto”, frazione posta alla sinistra dell’Adige . Complessivamente nell’intero distretto i rimpatriati, alla fine dell’anno, furono 732 e circa 300 (il 40, 9% del totale dei rimpatriati) coloro che non trovarono un’occupazione . Dopo l’ultima ondata di rientri il numero dei rimpatri salì a 1365 ai quali si sommavano altri 989 disoccupati per un numero complessivo di indigenti che toccò il 4, 8% della popolazione totale.
Dopo la prima fase del controesodo, la più tumultuosa, avvenuta tra agosto e settembre 1914, le difficilissime condizioni del mercato del lavoro veronese afflitto da tare strutturali, prima fra tutte l’incapacità di assorbire in agricoltura o in industria tutta la forza lavoro, indussero “non pochi” operai residenti nei paesi “attigui alla frontiera” a tentare di ripassare il confine “per farsi impiegare nei lavori di difesa” che l’Austria aveva iniziato “in corrispondenza del nostro confine”. Lavoratori trattati né più né meno come dei mercenari da parte del Ministero dell’Interno che parlò senza mezze misure di “senso di disgusto” nel “vedere cittadini dello stato che per ingordigia di guadagno vanno a prestare la loro opera in lavori che sanno benissimo essere rivolti contro di noi” . La circolare ministeriale invitò il prefetto ad adoperarsi per bloccare questo imbarazzante fenomeno che con ogni evidenza assunse un carattere nient’affatto sporadico se anche la Federazione nazione dei lavoratori della terra, naturalmente con ben altre motivazioni rispetto a quelle del Ministero dell’Interno, decise di intervenire nel dicembre 1914 chiedendo ai propri affiliati di non emigrare. All’invito si associarono anche i socialisti veronesi che chiesero ai lavoratori di evitare le partenze “non per la patria, ma per voi, per la vostra classe” e per non ritrovarsi a lavorare per altri padroni dopotutto nient’affatto diversi da quelli italiani .
Nel frattempo alcuni indicatori economici cominciarono a peggiorare aggravando ulteriormente le condizioni economiche di chi già viveva in una condizione di indigenza. Aumentò sensibilmente il prezzo del grano, passato da 35 a 40 lire al quintale, che peraltro nella provincia di Verona veniva prodotto in quantità inferiore al fabbisogno .La conseguenza naturale fu l’aumento del prezzo del pane e della pasta: indicando con 100 il prezzo medio fatto a Verona per un chilo di pane alla metà del 1914 esso lievitò a 112.50 nel dicembre dello stesso anno e a 125 nel dicembre 1915. Su un paniere di sette “generi di consumo” di prima necessità (farina di frumento, pane di frumento, pasta per minestra, carne bovina, lardo, olio d’oliva e latte) fatto 100 il costo all’inizio della guerra, nell’agosto 1914, esso lievitò a 124, 40 nell’agosto dell’anno successivo e a 132, 11 nel dicembre . Non a caso nella primavera 1915 non furono poche le proteste contro il caroviveri. Oltre a tutto questo bisognerebbe tener presente che con lo scoppio della guerra erano entrati in una fase di sofferenza i cotonifici scaligeri che accentuarono “di molto la crisi che attraversavano da qualche tempo” trovandosi costretti a ridurre il lavoro “a tre giorni per settimana”. Nell’inverno 1914-1915 si moltiplicarono dunque le manifestazioni di disoccupati che riguardarono il piccolo comune di Belfiore, dove vi fu però un tentativo di assalto al municipio, di Cazzano di Tramigna, di Castagnaro e di Colognola ai Colli. Nella primavera 1915 si registrarono a Trevenzuolo, Nogarole Rocca e poi nella zona del Colognese quelle che furono probabilmente le ultime vere agitazioni salariali contadine prima dell’ingresso in guerra dell’Italia quando la provincia di Verona, assieme a buona parte del Veneto, venne dichiarata “zona di guerra” e sottoposta ad una nuova legislazione speciale .