L’OPERA BONOMELLI E I PROFUGHI DELLA GRANDE GUERRA

1. LA NASCITA E LE STAGIONI DELL’OPERA BONOMELLI
Fin dal suo nascere, nel gennaio 1900, l’Opera di assistenza degli operai emigrati in Europa e nel Levante – denominata dal 1910 Opera Bonomelli, dal nome del vescovo fondatore, Geremia Bonomelli (1839-1914) – indicava tra i suoi compiti statutari l’assistenza “con opere di religione e di educazione, previdenza, cooperazione e carità” . Commentando, poi, la bozza di statuto, il vescovo Bonomelli spiegava che “centro della nostra azione dovrà essere il missionario e potendo anche la suora, e l’uno e l’altra italiani…unita alla Chiesa la scuola per i fanciulli…unito alla Chiesa e alla scuola il segretariato del popolo: unita l’assistenza agli infermi, la protezione dell’infanzia, le istituzioni di previdenza, di mutuo soccorso e tutte quelle opere di eminente e illuminata conservazione sociale che il Vangelo inculca e l’umana prudenza e l’esperienza consigliano” . L’Opera, che si dedicò alla cosiddetta ‘migrazione temporanea’ in Europa e nel Levante, caratterizzata da 200.000/300.000 partenze ogni anno, si diffuse subito in Svizzera, con l’epicentro prima a Friburgo, con la collaborazione del domenicano P. Fej , e poi a Basilea; nella Lorena e in Germania, con la collaborazione di Werthmann ;
Durante il primo periodo (1900-1908), il Segretariato generale vedeva la responsabilità del prof. Ernesto Schiapparelli , con sede a Torino, mentre il vescovo Bonomelli seguiva la direzione generale e dei sacerdoti, con una Consulta ecclesiastica presieduta dal card. Richelmy di Torino e diretta dal sacerdote Pietro Pisani . Successivamente l’attività dell’Associazione, nel 1908, da Torino passò a Milano, alla carica di segretario generale fu eletto l’avv. Antonio Baslini , mentre la presidenza della Consulta ecclesiastica fu assunta dal card. Ferrari e la direzione prima da Mons. Carlo Brera, poi da mons. Pietro Gorla e infine da mons. Felice Ferrario. Nel secondo periodo (1908-1914), l’Associazione si estese in diverse città d’Europa, producendo anche diverso materiale informativo. I sacerdoti dell’Associazione crebbero e raggiunsero il numero di circa 40, provenienti soprattutto dal Nord Italia, in particolare dal Piemonte. Per segnalare la maggiore autonomia e l’ispirazione dell’associazione, nel 1910 fu approvato il nuovo Statuto e l’Associazione prese il nome di Opera Bonomelli di assistenza agli emigranti in Europa, eretta in ente morale con decreto del 2 agosto 1914 e con approvazione dello Statuto con il R. Decreto del 15 aprile 1915 . Per fare il punto sulla situazione del lavoro pastorale e sociale dell’Opera, fu realizzato il primo Congresso italiano dell’assistenza alla emigrazione continentale, promosso a Milano nel 1913. Con il riconoscimento in ente morale e la morte del vescovo Bonomelli (agosto 1914) e la presidenza del vescovo di Vicenza, mons. Ferdinando Rodolfi , l’Opera Bonomelli entra nella terza fase (1915-1920), fortemente caratterizzata da un impegno durante la prima guerra mondiale nei confronti dei profughi, degli emigranti rimpatriati, delle loro famiglie, degli orfani di guerra, dell’assistenza ai prigionieri, senza trascurare inizialmente il sostegno politico alla linea del non interventisti. L’ultima fase dell’Opera Bonomelli (1920-1927) è caratterizzata dalla rinuncia del vescovo Rodolfi a presiedere ancora l’Opera Bonomelli, dall’istituzione da parte della Congregazione Concistoriale, del “Prelato per l’emigrazione italiana”, con decreto del 23 ottobre 1920, e della nascita del Pontificio Collegio per l’emigrazione (26 maggio 1921). L’Opera Bonomelli in questa nuovo impegno ecclesiale a favore degli emigranti trovò un nuovo sviluppo con la presidenza del sen. Emanuele Greppi e del sen. Antonio Baslini e la segreteria dell’on. Stefano Jacini .
Il fascismo, però, anche per un progetto di avvio di una rappresentanza degli italiani all’estero presso il Ministero degli esteri, vide sempre di più come un impedimento il lavoro dell’Opera Bonomelli e la libertà di azione religiosa e sociale dei missionari. Si arriva così, nel 1928, al decreto di scioglimento del corpo dei missionari dell’Opera Bonomelli, a cui seguì l’autoscioglimento dell’Opera stessa.

2. LO SCOPPIO DELLA PRIMA GUERRA MONDIALE E GLI EMIGRANTI, NEL DIARIO DI DON PRIMO MAZZOLARI
Il 3 agosto 1914 moriva il vescovo Geremia Bonomelli, fondatore dell’Opera di Assistenza degli emigranti in Europa. La morte del vescovo di Cremona incrocia lo scoppio della prima guerra mondiale. Infatti, il 28 luglio 1914, l’Impero Austro-Ungarico, con l’appoggio della Germania, dichiara ufficialmente guerra alla Serbia. A seguito di questa dichiarazione di guerra, anche le altre potenze europee intervennero nel conflitto, ognuna determinata a difendere i propri interessi e le proprie alleanze e innescando una serie di reazioni a catena: la Russia, che era vicina alla Serbia per ragioni religiose e di controllo geopolitico dell’area slava, si schierò immediatamente al fianco dello stato balcanico. Questa reazione spinse la Germania ad assumere posizioni sempre più nette e aggressive: i tedeschi, infatti, imposero ai russi di ritirare immediatamente i propri eserciti e ai francesi di dichiarare la loro neutralità nel conflitto, avvertendoli che in caso contrario si sarebbero sentiti aggrediti e avrebbero reagito di conseguenza. Entrambe le nazioni risposero negativamente alle richieste tedesche, portando la Germania a dichiarare guerra alla Russia (1 agosto 1914) e poi alla Francia (3 agosto 1914), procedendo poi a invadere il Belgio (4 agosto 1914), che si era invece dichiarato neutrale come la Svizzera e, inizialmente, l’Italia.
Attraverso le pagine del Diario di don Primo Mazzolari (1890-1959), una delle figure più significative del clero italiano del Novecento, possiamo seguire la situazione degli emigranti allo scoppio della prima guerra mondiale . Nel corso dell’estate del 1914 don Mazzolari è ad Arbon, paese sul lago di Costanza in Svizzera, per assistere gli emigranti italiani, raccogliendo forse l’invito anche di mons. Tranquillo Guarneri, rettore del seminario, e di don Emilio Lombardi, già segretario di mons. Bonomelli e parroco di S. Agostino a Cremona. Don Mazzolari si trova a vivere con gli emigranti italiani il dramma dell’espulsione dalla Svizzera, allo scoppio della prima guerra mondiale. Alcune pagine del suo Diario, sono una testimonianza straordinaria di questo drammatico momento della storia dell’emigrazione italiana, che incrocia anche la morte di mons. Geremia Bonomelli, apostolo degli emigranti italiani in Europa. Di seguito alcuni stralci.

31 luglio 1914. Venerdì
Improvvisamente sono partito per Arbon dove vado a sostituire don Chiodelli. Non ho avuto neppur tempo di far una corsa a casa e prendere commiato. Ho scritto una lettera: ma è troppo poco per mamma. Alle 10, 30 scendo a Chiasso e mi presento all’ospizio Bonomelliano. Rigurgita di emigrati. C’è un’inquietudine strana, un’ansia, un’incertezza che si sfoga, italianamente, facendo del chiasso. Ma le notizie sono cattive. È la dichiarazione di guerra tra Germania e Russia. La Germania ha chiuso i confini. La Svizzera mobilita per salvare la sua neutralità.
D. Rossi − una simpatica figura di missionario instancabile − sale su di una panca e arringa gli operai, mostrando la gravità della situazione e persuadendo al ritorno. V’è chi accetta le sue ragioni e sono i più assennati, quelli che vanno all’estero per necessità di lavoro; altri, i più giovani, i probabili richiamati di domani vogliono tentare l’ignoto ugualmente. Speriamo che la notte porti miglior consiglio.
Vado a riposare anch’io al vicino albergo della Croce Rossa, non troppo tranquillo e sicuro di partire. La mia passeggiata è in via di diventare interessante. Vedremo.
1 agosto 1914. Sabato
Alle sette ho già celebrato nella piccola cappella dell’ospizio. Scendo alla stazione, affollata di italiani in attesa di notizie. I giornali di Milano confermano quelle della sera e ne aggiungono di più gravi.
La notte sembra aver calmato gli animi e dischiuse le menti alla riflessione. Ora è possibile ragionare e farli persuasi. La maggior parte è disposta a ritornare; mentre io parto col diretto delle 8, 50 per Zurigo, essi attendono il treno che li deve ricondurre ai propri paesi. Sono le prime vittime della guerra.
Il viaggio diviene interessantissimo. La dichiarazione di guerra è caduta come un fulmine in questo pacifico e quasi sornione paese che attendeva al suo lavoro principale, lo sfruttamento del forestiero. Ora è un fuggi fuggi generale. Ad ogni stazione s’accalca la folla cosmopolita che ingombra il treno di valigie, di cappelli e di bionde bellezze. Lo spettro della guerra è su ogni volto, in ogni parola, vorrei dire su ogni cosa perché da mille finestre, ove fino a ieri sorrideva occhieggiando il geranio, spoltriscono al sole le loro muffe giubbe e pantaloni militari. Fasci di fucili e di baionette salgono pure sul treno nelle piccole stazioni e i richiamati intonano mestamente le prime canzoni. La guerra per la Svizzera è una necessità senza entusiasmo, senza onore. Anche la neutralità ha i suoi sacrifici.
Il paesaggio che attraverso è incantevole; il lago di Lugano, dei Quattro Cantoni, Zurigo. Ma chi ha tempo e volontà di badarci. Sembra aver perduto ogni attrattiva, assorbito anch’esso dal terribile dramma umano che si prepara.

2 agosto 1914. Domenica.
Celebro alle 6. Alle 7 è la messa degli italiani. All’Evangelo vado in pulpito. Ho una commozione nuova, porto il saluto della Patria lontana, le ultime parole del Vescovo morente, l’augurio della pace. Pace in terra agli uomini. Poveri fratelli! Mai ho vissuto meglio in comunione di patria e di fede. Più tardi, accompagnato dal parroco tedesco, fui a visitare l’asilo dove si raccolgono duecento giovani italiane che lavorano nei diversi laboratori di merletti. M’hanno accolto festosamente: uno dei soliti ricevimenti che le suore insegnano nei loro collegi – canto – poesia ecc. e che servono indistintamente per l’onomastico della superiora, come per la venuta del Vescovo. Ma erano sincere quelle voci italiane, quegli sguardi: affettuose tutte. Ho risposto nell’effusione più calda del mio cuore, trattenendo a fatica le lagrime. Domani, pensavo, che ne sarà di questo sciame allegro e buono di laboriosità italiana? Forse… e allontanavo il pensiero doloroso con uno sforzo che non riusciva però a togliermi di dosso una tristezza piena di presentimento. Alle tre, prima della benedizione, ho tenuto un altro piccolo discorso, su S. Francesco d’Assisi, essendo la festa del perdono. Ho goduto nel dire di questo santo così italiano e mi pareva, parlando di certi episodi, che ne sorridesse anche la navata di questa severa chiesa teutonica, che non conosce le dolci pazzie dello spirito francescano.

3 agosto 1914. Lunedì.
Quasi tutta la giornata in ufficio del segretariato, dove ho presa sommaria visione dei registri e delle pratiche da sbrigarsi. Le notizie sono di ora in ora più gravi. La dichiarazione di guerra tra Francia e Germania è già un fatto compiuto. Domani si chiudono quasi tutti gli stabilimenti. Molti operai che sono già da tempo senza lavoro sono venuti in ufficio per essere rimpatriati. Nell’incertezza, ho scritto al console di Zurigo perché mi mandi istruzioni.

4 agosto 1914. Martedì.
Non ho avuto tutt’oggi un momento libero. Sono stato bloccato in ufficio da una continua processione di operai che volevano notizie e schiarimenti sulla situazione che si oscura sempre più. La chiusura degli stabilimenti ha dato l’ultimo colpo, gettando negli animi un panico che i commenti insensati aggravano. Ho distribuito − in mancanza di meglio − una quantità di buone parole, calmando e mostrando come non vi possa essere nulla a temere per noi italiani, avendo l’Italia proclamato la neutralità nell’immane conflitto. Verso sera mi arriva un telegramma del console il quale mi dice di prendere accordi con le ferrovie svizzere per il pronto rimpatrio. Parlo col capo stazione e ci accordiamo per un treno speciale, a Giovedì sera.
I giornali portano la notizia della morte di Mons. Bonomelli avvenuta ieri. Quantunque temuta di ora in ora mi colpisce dolorosamente. Anche gli operai l’accolgono con un senso di visibile rincrescimento. Proprio un anno ed egli era qui in Arbon, di mezzo ai suoi figlioli che lo veneravano e rispettavano come un padre. E fu padre nella larga bontà del suo spirito che non conosceva confini e tutti abbracciava per tutti consolare. Povero Vescovo! Qualche cosa muore in me con la sua dipartita. Oramai egli era entrato nella mia vita spirituale come il sostegno migliore e mi bastava pensarlo nei momenti più inquieti perché subito, sotto quel venerando sguardo d’illuminata bontà, l’anima s’acchetasse riprendendo il suo ritmo normale. Ora egli è morto! Ma nell’anima memore il ricordo affettuoso non muore, e il suo esempio mi sarà di conforto nell’ore più dubbiose.

5 agosto 1914. Mercoledì.
Ho celebrato la Messa a suffragio di Monsignore. C’era un accoramento doloroso nella voce delle giovani italiane dell’asilo che per l’ultima volta assistono in comune al sacrificio Divino. Questa sera partiranno. L’incontro di queste due sventure non è senza significato. Sembra che una sovrumana pietà abbia voluto sottrarre il buon padre a questo spettacolo miserando di odio che travolge e fa piangere tanta umanità. Avrei parlato volentieri; ma sentivo che non avrei potuto trattenere le lagrime, aggravando così la pena dolorosa che già troppo ci attanaglia. C’è bisogno in questi momenti di fortezza per sostenere e incoraggiare. Domani piangeremo.
Il piccolo ufficio del segretariato ha veduto passare quasi tutta la colonia italiana. Chi domandava di partire, chi di restare, chi veniva per consiglio, chi per liberare il magro mobilio dalle unghie d’un creditore spietato. Ho dovuto improvvisarmi giudice di pace, fare da console e da diplomatico. Per l’occasione ho dovuto tirar fuori tutte le mie cognizioni, anche quelle che avevo appreso qua e là leggendo giornali e che avevo inconsciamente, quasi per abitudine, messo in un angolo della memoria, come stracci che non sarebbero mai occorsi. Erano cognizioni di procedura di diritto internazionale, di reclutamento militare, di politica. Sì anche di politica, perché tratto tratto dovevo intrattenermi coi più saputi e impersuasibili, fare un’esposizione dei vari raggruppamenti politici, del posto che ha l’Italia, dei suoi impegni, del significato della sua neutralità. È proprio vero che la necessità se non crea acuisce l’organo, che almeno nella necessità dà l’inaspettato. Non credevo di saper tanto e di poter tanto. Qualche volta mi meravigliavo di me medesimo. Non sapevo di possedere certe cognizioni e d’avere − io tanto timido − tanta audacia.
Parte l’asilo. Fui a salutare le giovani poco prima della partenza. Chi non piangeva aveva già pianto. Ho detto due parole d’addio sforzandomi d’essere lieto. Ma quando fui solo, in riva al lago, ho pianto lungamente.

6 agosto 1914. Giovedì.
Questa sera si parte. E piove, una pioggia spessa, insistente, e quei poveri stracci sembrano avere anche la collera del cielo… − Ma ecco che verso le cinque il cielo si rischiara su dai monti di Preghez e il più bel sole asciuga l’aria, i campi, le strade, dando un colore meno triste al lago. Alle sette il viale della stazione è pieno di italiani. Rinuncio a descrivere la scena così caratteristica e così dolorosamente italiana. Bauli colossali, involti di dove sogghigna la miseria, un riso stridulo di pianto come una maledizione alla guerra, la guerra che rigettava in patria senza pietà, senza sostegno, una turba di lavoratori che nel paese ospitale hanno portato o s’erano creati una famiglia, una casa, una discreta tranquillità d’esilio.
I più lieti, gli unici lieti, sono i bimbi, che non hanno mai visto l’Italia se non nella nostalgica parola dei genitori, e che vanno ora verso il dolce ignoto che li attrae, li avvince forse per una risonanza profonda che la patria esercita sulle anime ingenue. Ma le mamme piangono lagrime che sanno, nel presentimento misterioso della sensibilità materna, più l’angoscia dell’avvenire ignoto, angosciosamente ignoto, che il distacco presente. Vanno in patria. Tornano, forse, al piccolo paese dove tante volte sono venute col pensiero memore e affettuoso e dove sognarono poter ritornare un giorno, nella letizia d’una vita meno dura, di un pane più abbondante, d’una piccola casa, quella piccola casa, là, sul pendio, o in riva al fiume. Ma così − senza pane pel domani, senza casa, senza nulla oh! così non è un ritorno, è una fuga. È la guerra, la guerra!!! Maledetta la guerra! Ma nessuno impreca. Il momento è troppo solenne, quasi sacro, sacro a un dolore che non ha colpa di soffrire così, che dell’innocenza ha l’aureola simpatica e confortante. Ed entrano a gruppi di famiglie entro il recinto della stazione guardata da soldati con la baionetta innestata, come se queste povere vittime della guerra avessero spiriti bellicosi. Tutti sono d’una calma rassegnata, stanca, incapace di un qualsiasi movimento di ribellione… V’è un ubriaco che non vuol salire e deride la moglie che piange e lo scongiura. M’avvicino, gli parlo buono, egli mi ascolta. Sento nella mia anima tutto il dolore che vedo diffuso negli sguardi, che singhiozza negli addii, che si sfoga nei baci più lunghi e amorosi: e diventa un bisogno grande di bontà, affettuosa e tenera, quasi un desiderio di donazione completa. Vorrei poter baciare tutta quella sofferenza italiana e trasformarla in letizia. E dicono che la patria è una irrealtà, una finzione ideologica! La patria è qui nel cuore, qualche cosa di palpabile, di vero, di sacro, di eterno: è il prolungamento di un affetto che ha un nome, mamma; di una cosa, la casa. Son tutti in treno. Dico le ultime raccomandazioni, e passo di vagone in vagone per l’addio. Mani callose e adunche, mani tenere e sottili, delicate e forti, si allungano dai finestrini e mi stringono, così che sento passare nel mio sangue come una febbre d’affettuosità dolorosa che deve rilucere stranamente nello sguardo, perché vedo che tutti mi raccolgono nell’intimità del loro addio come un amico, come un fratello. E non li vedrò più. Il treno è pronto, un fischio, un cigolio secco come uno schianto e parte. Mille mani si protendono e fazzoletti umidi di lagrime s’agitano, vessilli di miseria e di dolore, un saluto forte della folla che guarda; poi silenzio”.

Don Mazzolari chiude le sue pagine di Diario da Arbon con una considerazione che già anticipa il suo cammino di “obiezione di coscienza alle armi”, maturata forse anche nel confronto con don Zaccaria Priori e don Giuseppe Rossi – due preti cremonesi impegnati nell’Opera Bonomelli che al loro rientro in Diocesi di Cremona subiranno un processo di antipatriottismo perché avevano con-dannato l’entrata in guerra dell’Italia –, oltre che con l’esperienza successiva come cappellano militare: “Il treno era già lontano; rimanevo col fazzoletto in mano, guardando ancora lungo le ghiaie la scia di quella grande miseria che la guerra rigettava senza misericordia, e ora piangevo”.

3. L’OPERA BONOMELLI E L’IMPEGNO SOCIALE DURANTE LA PRIMA GUERRA MONDIALE
Le pagine di Diario di don Mazzolari mostrano come da subito i sacerdotimissionari dell’Opera Bonomelli condivisero la grave situazione degli emigranti allo scoppio della Grande Guerra, inizialmente soprattutto negli Ospizi di confine. Un impegno che si intensificherà successivamente, con l’entrata in guerra dell’Italia (24 maggio 1915), indirizzandosi particolarmente al rimpatrio degli emigranti prima e poi all’assistenza all’estero delle famiglie degli emigranti richiamati alle armi, all’assistenza dei profughi nell’altipiano vicentino e dei quelli delle province invase del Veneto, del Friuli-Venezia Giulia e del Trentino, all’assistenza ai prigionieri di guerra e agli internati civili, alle pratiche per sussidi e pensioni di guerra, agli orfani di guerra. Per comprendere l’impegno dell’Opera Bonomelli durante la Grande Guerra, fondamentali sono due rapporti pubblicati dall’Opera stessa, nel 1915 e nel 1919 .
3.1. IL RIMPATRIO DEGLI EMIGRANTI, LA PRIMA ATTENZIONE AI PROFUGHI (1914-1915)
Un primo impegno considerevole del segretariato generale, dei sacerdoti e dei segretariati dell’Opera Bonomelli fu di accompagnare il rientro di oltre mezzo milione di operai italiani in Europa. Un impegno che caratterizzerà anzitutto i Segretariati dell’Opera all’estero, che nel Lussemburgo, in Lorena, nel Belgio, in Germania, in Austria favorirono la riscossione e l’invio agli operai, precipitosamente rimpatriati, dei salari maturati, delle rendite di infortunio, dei sussidi delle famiglie dei richiamati, l’ospitalità negli Ospizi dell’Opera, durante le tappe del loro viaggio degli operai rimpatriati dai diversi paesi europei in Italia, oltre che il reimpiego di oltre 10 mila operai emigrati italiani dispersi in Belgio e Lorena nelle industrie convertite per la fabbricazioni di armi da guerra, come pure di molte donne disoccupate a Parigi in un laboratorio per vestiti militari. I missionari bonomelliani scelsero fino all’ultimo giorno, prima dell’entrata dell’Italia in guerra, di rimanere accanto alle famiglie e agli operai italiani. Nella relazione sono specificate le attività dei diversi segretariati esteri in Lussemburgo (Esch s/Alzette), in Germania (Amburgo, Berlino, Bochum, Costanza, Metz, Monaco), in Austria (Bregenz, Innsbruk), in Francia (Lione, Marsiglia, Nizza, Tolone, Parigi), in Svizzera (Arbon, Basilea, Bellinzona, Berna, Buchs e San Gallo-Coira, Ginevra, Grenchen, Kreuzlingen, Losanna, Lucerna, Moutier, Naters, Olten, Rorschach, St. Moritz, Sciaffusa, Uster, Vallorbe, Villeneu-ve-Montreux). A Ginevra, dall’autunno del 1914 alla primavera del 1915, presterà la sua opera, a sostegno del missionario bonomelliano P. Dosio, anche P. Giovanni Semeria , prima di diventare cappellano militare durante la prima guerra mondiale. Esemplare fu anche la dedizione di due maestre cremonesi che ad Auboué, in Francia, non vollero fino all’ultimo lasciare i 14 bambini italiani e 38 bambini francesi del loro asilo infantile . Importante fu anche il lavoro, censito nel rapporto, nei Segretariati e Ospizi di confine. A Chiasso, dove operava il missionario bonomelliano don Giuseppe Rossi, in particolare, vennero assistiti 22 mila internati espulsi dall’Austria e 800 bambini figli di profughi, oltre che si iniziò la prima ricerca dei prigionieri di guerra. Nel segretariato di Domodossola si ospitarono e rimpatriarono molti emigranti giunti da diversi Paesi europei e sprovvisti di mezzi e si assistettero molti profughi allontanati dalle zone di guerra. Nel segretariato di Iselle, grazie a una sottoscrizione del quotidiano Corriere della sera, diede alloggio a molti operai profughi e a molti soldati. Nel Segretariato di Pontebba furono ospitati molti profughi, oltre che favorire il recupero dei bagagli e delle masserizie dei numerosi operai emigranti costretti a partire precipitosamente. Anche i Segretariati diocesani dell’Opera Bonomelli in Italia (Bologna, Brescia, Como, Cremona, Genova, Ivrea, Milano, Novara, Perugia, Torino, Varese, Verona, Venezia), dallo scoppio della Grande Guerra fino ai primi mesi dell’entrata in guerra, furono attivi nell’assistere gli emigranti rimpatriati o espulsi. Interessante notare che mons. Emilio Lombardi, già segretario di mons. Bonomelli e consigliere dell’Opera, a Cignone (provincia di Cremona), mise a disposizione la sua villa per ospitare 54 bambini profughi. Alla stazione di Genova, il segretariato locale assisterà emigranti, rimpatriati, profughi, soldati, prigionieri, con una particolare attenzione alle madri e alle mogli venute dall’estero per rivedere i propri mariti o figli, già sotto le armi o in procinto di partire o feriti: “scene tristissime – si legge nel rapporto – di donne esauste, di bimbi sfiniti, di vecchie cadenti, che la sezione ha provveduto e provvede a ristorare e confortare” . Dal novembre del 1914 al novembre 1915, il segretariato dell’Opera Bonomelli di Genova aveva assistito 385 famiglie, 615 bambini, 1.389 emigranti profughi, 5.955 soldati ammalati, 175 marinai italiani, 58 marinai francesi, 40 marinai russi, 105 prigionieri austriaci. A Milano, il segretariato centrale dell’Opera Bonomelli, fece un grande lavoro di assistenza ai rimpatriati e profughi, in particolare a favore degli espulsi, dopo la dichiarazione della guerra dell’Italia all’Austria. Durante il 1915 transitarono presso l’Ospizio di Milano oltre 12 mila persone rimpatriate, delle 32 mila provenienti da Chiasso. A Perugia, la locale sezione ospitò soprattutto bambini profughi di Gradisca. Il segretariato di Verona s’impegnò soprattutto nella ricerca del lavoro a tutte le donne rimpatriate: un impegno che poi si estese anche alle famiglie dei profughi, dei militari e dei richiamati, dando occupazione a oltre 1000 donne.

3.2 L’IMPEGNO PER I PROFUGHI, PER LE FAMIGLIE DEI SOLDATI, PER GLI ORFANI (1916-1918)
I tempi inaspettatamente non brevi della Grande Guerra moltiplicarono gli impegni dell’Opera Bonomelli soprattutto negli anni 1916-1918. Il secondo Rapporto dell’Opera Bonomelli, sempre curato dal segretario Pestalozza, descrive la grande attività dell’Opera Bonomelli soprattutto a favore dei 25 mila connazionali rimasti in Germania e in Lussemburgo, dei profughi, dei militari e delle loro famiglie, degli orfani.
L’attività dell’Opera, a livello del segretariato centrale in questi anni si divise in varie sezioni. Anzitutto un ufficio corrispondenza tenne le relazioni con oltre 150.000 italiani rimasti in Germania e nel Lussemburgo, internati in Austria con le loro famiglie in Italia, ma anche con persone che scrivevano dalla Francia, dall’Austria, dall’Ungheria, dalla Bulgaria, dalla Turchia e dall’America. Importante fu anche il lavoro dell’ufficio ricerche, che si occupava della ricerca di persone civili, di internati e di militari in Austria e Germania: un prezioso lavoro che riguardò oltre 10 mila persone, reso possibile anche da uno zelante sacerdote di Gorizia, don Clemente Corsig, l’unico rimasto in Austria. L’ufficio, fino a che fu proibito l’invio di denaro tra i paesi belligeranti, favorì anche le rimesse di denaro alle famiglie italiane, i cui parenti si trovavano in Germania e in Lussemburgo, ai prigionieri e agli internati. Al tempo stesso, l’ufficio aiutò gli emigranti al ritiro dei risparmi che avevano lasciato presso le banche all’estero. Un servizio che l’Opera Bonomelli fece negli anni 1916 e 1917 fu l’invio di pacchi (con cioccolata, latte, sigari, vestiario…) e di pane ai nostri prigionieri in Austria: un servizio che cessò per mancanza di derrate alimentari.
Dopo la disfatta di Caporetto e la ritirata delle armate italiane (24 ottobre – 12 novembre 1917), importante fu il lavoro dei segretariati dell’Opera Bonomelli a favore dei profughi e dei prigionieri. Il segretariato dell’Opera Bonomelli di Basilea si occupò delle ricerche dei profughi dai paesi occupati, i cui parenti risiedevano nella Svizzera, oltre che dei nostri prigionieri. Su iniziativa del segretariato dell’Opera Bonomelli di Berna, il padre benedettino De Courten poté visitare i campi di concentramento dove erano reclusi in Austria i prigionieri italiani e denunciare la situazione drammatica in cui vivevano, contro ogni direttiva internazionale. In Francia, a Parigi, l’Opera Bonomelli, in seguito ai continui bombardamenti che seminavano paura e vittime fra la popolazione operaia italiana, provvedevano a far giungere il sussidio alle famiglie e a mettere al sicuro i bambini nelle città di provincia. A Lione fu grande l’opera del sacerdote bonomelliano don Stefano Ravera a favore degli italiani che lavoravano nelle officine di guerra, istituendo il Foyer del soldato italiano; come interessante fu la documentazione per la celebrazione di oltre 320 matrimoni per procura dei nostri soldati al fronte, legittimando così 258 bambini a Lione e oltre un centinaio a Marsiglia . Delicata era la situazione in Germania, dove il missionario bonomelliano a Berlino don Arnolfo Luera, veniva internato nel campo di Konisberg e successivamente destinato al campo di concentramento di Ha-verberg, dove rimase dal maggio del 1917 a ad ottobre 1918, per poi essere trasferito nel convento dei frati francescani di Salmunster fino al 4 dicembre del 1918, quando fu liberato. Al confine della Svizzera, dal 1916 al 1918, l’attività dell’Opera Bonomelli fu intensa, anche per la condizione di neutralità del Paese. In particolare, fu significativa a Chiasso l’opera del sacerdote bonomelliano don Luigi Rossi a favore di 24.000 donne, anziani e bambini provenienti dai campi di concentramento d austriaci di Linz, Katzenau. Sempre a Chiasso don Giuseppe Rossi accolse i deputati trentini al parlamento di Vienna Enrico Conci (1866-1960), Alcide De Gasperi (1881-1954) e Valeriano Malfatti (1850-1931), reduci dagli stessi campi di concentramento. Intensa continuò l’attività anche del segretariato di Domodossola e di Iselle a favore delle famiglie dei richiamati e dei profughi dalle zone di guerra. In Italia, l’attività dei segretariati dell’Opera Bonomelli, negli anni 1916-1918, si concentrò particolarmente sull’accoglienza dei profughi. A Milano, l’Ospizio della stazione centrale, fu costretto, soprattutto dopo Caporetto, a rafforzare le accoglienze, con la disponibilità anche dei locali della parrocchia e dell’oratorio di S. Gioachino, arrivando, nel 1917, al numero di 24.825 e nel 1918 al numero di 36.416 fra profughi, rimpatriati, parenti di soldati feriti e ricoverati in città.
“Giungevano dal Friuli invaso e dalle venete terre – si legge nella relazione – i profughi percossi, atterriti, a migliaia, come onde accavallantesi: i treni si succedevano ai treni, di giorno come di notte, e riversavano in piazza Miani le torme di fuggiaschi coi loro miseri bagagli, mal coperte, affamate, piangenti la perdita, lungo la via dolorosa, di membri della loro famiglia, con negli occhi ancora le immagini delle scene di spavento e di desolazione, che avevano accompagnato il loro tristissimo esilio” . Un lavoro importante fu quello del “Bollettino dei profughi”, un bisettimanale che costituiva una sorta di censimento di tutte le persone accolte, con i luoghi di provenienza e di destinazione, per permettere di individuare facilmente le persone e le rispettive famiglie. Si arrivò, tra il 1917 e il 1918, a censire oltre 600 mila nomi di profughi, diventando il più importante schedario italiano. Anche nelle altre città dove operavano segretariati sociali dell’Opera si attivò l’accoglienza dei profughi: nell’ospizio di Bergamo furono ospitati 200 profughi; a Brescia come a Como, a Genova, a Firenze fu imponente il lavoro a favore dei profughi che transitavano dalle stazioni ferroviarie, in collaborazione con la Croce Rossa italiana e americana, soprattutto dopo la disfatta di Caporetto. L’Opera Bonomelli di Genova fu chiamata, poi, al termine del conflitto mondiale, ad accogliere 170 mila soldati feriti che rientravano dai campi di prigionia austriaci. Il segretariato sociale dell’Opera Bonomelli di Perugia nel 1916 fu impegnato nell’accoglienza dei profughi di Gradisca, successivamente dei profughi delle terre venete, come anche i segretariati di Pinerolo, Ivrea, Torino, Vercelli. Intensa fu l’attività del segretariato dell’Opera Bonomelli di Vicenza e del patronato dei profughi vicentini, soprattutto in riferimento all’accoglienza di 80 mila persone, ma anche per l’accoglienza dei numerosi profughi a Treviso, dove operarono P. Giovanni Semeria e P. Giovanni Minozzi . I profughi furono accolti alle quattro porte della città, registrati, assistiti e poi inviati a Chioggia e da lì a Ferrara e Bologna. L’Opera Bonomelli negli anni 1917 e 1918, grazie agli aiuti inviati dalla Colonia italiana di Buenos Aires, non mancò anche di sostenere i profughi sparsi in tutta Italia: ad Avellino, a Benevento, a Campobasso, a Teramo, ad Aquila, come anche nelle altre diverse città delle Marche, del Lazio e della Sicilia.

3.3. LE CASE DELL’OPERAIO
Un’interessante iniziativa, durante gli anni della Grande Guerra, fu quella promossa dall’Opera Bonomelli a favore di oltre 65 mila operai militarizzati, provenienti in particolare dal Sud, dislocati in prevalenza tra l’Adige e il Brenta, nelle zone della prima e della terza Armata, e successivamente anche della quarta, per realizzare le opere di difesa. Si tratta delle Case dell’operaio, nate per un’adeguata assistenza morale e materiale dei numerosi operai attraverso un segretariato sociale. Complessivamente furono 17 le case realizzate: a Vicenza, Verona, Schio, Rovereto, S. Caterina di Tretto, Recoaro, Fongara, Polegge, Bertesina, S. Agostino, S. Giovanni Ilarione, Selva di Progno, S. Pietro di Lavagno, Valstagna, Cervignano, Villa Vicentina, Sagrado.

4. CONCLUSIONE
Come testimoniano le relazioni, l’Opera Bonomelli durante la Grande Guerra fu protagonista di una grande azione, nei segretariati sociali in Italia e in Europa, a favore degli emigranti rientrati per il servizio di leva, le loro famiglie, gli orfani, gli internati nei campi, i profughi, soprattutto dopo la disfatta di Caporetto. Di oltre un milione di profughi, soprattutto dopo la disfatta di caporetto, almeno la metà troveranno un’attenzione diretta dei Segretariati sociali dell’Opera Bonomelli nelle stazioni e nelle città italiane, con l’attenzione anche all’accoglienza dei profughi, soprattutto nelle città del Centro e del Sud Italia. Un’azione ordinata, intelligente, attenta anche a non disperdere un patrimonio importante di relazioni e di azioni sociali anche in terra di emigrazione, con il contributo straordinario dei suoi 40 missionari. Con il suo impegno sociale durante la Grande Guerra, l’Opera Bonomelli da una parte avvicinò di fatto la Chiesa e lo Stato, ancora distanti per il perdurare della Questione romana, ma anche del Non expedit. Al tempo stesso l’Opera Bonomelli, consapevole del dramma degli emigranti espulsi dai Paesi belligeranti, ritornati alla povertà dopo anni di lavoro, inizialmente favorì la corrente non interventista e, dall’altra, un lavoro di tutela dei diritti degli emigranti, che fu un patrimonio sociale, giuridico e sindacale importante alla fine della Guerra e alla ripresa delle migrazioni italiane.