La transizione: dal bracciantato italiano alle presenze straniere nelle campagne meridionali

Trasformazioni economiche e sociali dell’agricoltura meridionale negli anni del boom

A partire dalla metà degli anni Cinquanta del Novecento l’agricoltura del Mezzogiorno fu interessata da processi di trasformazione che nel giro di pochi anni ne avrebbero ridisegnato la geografia produttiva e modificato scelte e tecniche colturali, ma soprattutto avrebbero creato forti squilibri territoriali con pesanti ripercussioni sul piano sociale. Ad innescarli furono la riforma agraria e in misura ancora più determinante l’azione della Cassa per il Mezzogiorno nel corso della sua prima fase, quella definita di preindustrializzazione[1]. Gli interventi di miglioramento fondiario, di bonifica e l’estensione della superficie irrigua determinarono uno scenario nuovo caratterizzato dalla centralità economica di zone prima in posizione secondaria a causa del carattere estensivo degli ordinamenti in esse prevalenti. Il vecchio assetto cerealicolo-pastorale, basato su un equilibrio povero e precario, entrò definitivamente in crisi. Le trasformazioni più profonde toccarono proprio le zone del vecchio latifondo estensivo, che ancora alla vigilia della riforma interessavano la maggior parte delle pianure meridionali. La rottura del latifondo determinò uno squilibrio dei rapporti tra prezzi e costi sui quali si reggeva la convenienza dell’ordinamento estensivo e aprì la strada per la penetrazione di colture e tecniche nuove[2]. Ma le trasformazioni non interessarono solo le pianure. Processi di profondo cambiamento travolsero l’agricoltura collinare e di montagna, segnandone negativamente i possibili sviluppi. Due fattori giocarono un ruolo determinante in tal senso. Il primo fu la meccanizzazione del settore agricolo, resa possibile grazie ai fondi erogati dalla Cassa per il Mezzogiorno. Le zone di alta collina e di montagna e più in generale tutte le zone caratterizzate da forti pendenze registrarono maggiori difficoltà rispetto alle pianure nell’inserimento di macchine agricole nel processo produttivo. A ciò si unì il fortissimo esodo migratorio che caratterizzò le aree interne del Mezzogiorno proprio a partire dagli anni Sessanta e che a causa della sua connotazione prevalentemente maschile[3] generò un processo di destrutturazione sociale delle aree di partenza[4]. Il venir meno dell’abbondanza di forza lavoro, storicamente ricadente nell’area della sottoccupazione agricola, e l’impossibilità di sostituirla con l’introduzione delle macchine, determinò la fine di un sistema agricolo basato sull’alta intensità di lavoro e sulla bassa produttività dello stesso[5]. Si determinò, quindi, un forte squilibrio tra le aree di pianura, in pieno sviluppo agricolo, e le aree montane e collinari, dove i processi di spopolamento determinarono la femminilizzazione del settore, relegandolo a una dimensione di autoconsumo.

Il principale effetto delle trasformazioni che riguardarono l’agricoltura meridionale nel suo complesso fu un nuovo rapporto di interdipendenza economica e sociale tra le pianure irrigue e le aree collinari e montane circostanti. In seguito all’introduzione di nuove colture ortive, in alcuni periodi dell’anno, nei quali maggiore era il carico di lavoro, dalle prime veniva una richiesta di manodopera bracciantile che il mercato locale di piazza non riusciva più a soddisfare. Nelle aree interne, invece, cresceva un’offerta di lavoro tutta al femminile. Giovani, molto spesso giovanissimi[6], e donne provenienti dalle aree interne del Mezzogiorno, che rappresentavano senza dubbio il segmento più debole del mercato del lavoro meridionale, trovarono nei campi delle piane irrigue la porta di ingresso nel mondo del lavoro e l’unico modo di prendere parte alla crescita economica degli anni del boom. Come scrive Enrico Pugliese, per favorire l’incrocio tra l’offerta di lavoro delle aree interne e la domanda delle pianure, si sviluppò, anche grazie al notevole miglioramento delle vie di comunicazione, un fenomeno di pendolarismo bracciantile su distanze notevolmente maggiori di quelle tradizionali[7]. Si trattò di un fenomeno che coinvolse tutte le regioni centromeridionali, con un movimento quotidiano che in alcuni casi travalicava i loro stessi confini. Dalle zone interne della Puglia i braccianti si dirigevano verso le aree agricole del Brindisino, ma anche in Basilicata, nella Piana di Metaponto e nei campi del Vulture Melfese, mentre dal tarantino si spostavano in provincia di Bari; nella Piana del Sele, in provincia di Salerno, confluivano le braccianti provenienti dalle colline dell’Avellinese, del Cilento e dalla montagna potentina; dai monti del Pollino le braccianti si recavano a lavoro nei campi della Piana di Sibari; nella Piana di Lamezia arrivavano le donne provenienti dal Reggino e dal Vibonese, mentre l’Agro Pontino raccoglieva la manodopera proveniente dai comuni collinari circostanti. Questo ingente e quotidiano spostamento di manodopera, dalla stima difficile data la sua natura, ma che secondo quanto dichiarato dal deputato comunista Giuseppe Amarante di fronte al Parlamento coinvolgeva in tutta Italia circa 600.000 donne, di cui 400.000 nel Mezzogiorno[8], fu possibile grazie alla rinnovata centralità del caporalato, fenomeno storicamente radicato nelle campagne meridionali[9]. La mancanza dei servizi di trasporto pubblico favorì l’intraprendenza di una nuova figura sociale e professionale: l’autotrasportatore. Si trattava di una figura socialmente eterogenea, di estrazione solitamente non agricola, accomunata dal possesso di uno o più mezzi di trasporto. Al pari dei caporali tradizionali, con cui venivano comunemente identificati anche dalla stampa, fungevano attività di mediazione tra le aziende agricole e le donne in cerca di occupazione. Assicuravano alle prime la manodopera di cui necessitavano più velocemente e più a costi più bassi rispetto ai canali del collocamento pubblico e alle seconde il trasporto e la possibilità di una paga giornaliera. A differenza dei caporali tradizionali, tuttavia, non esercitavano funzioni di controllo della manodopera, la loro attività si esauriva nel reclutamento delle braccianti e nel loro trasporto, da cui traevano guadagno. Come descritto in un’inchiesta del quotidiano comunista “l’Unità”, nei mesi primaverili, prima dell’inizio della stagione della raccolta, che richiedeva maggiore intensità di lavoro, si recavano nei paesi delle aree interne e con l’aiuto di un basista locale reclutavano le braccianti[10]. L’intero meccanismo si basava sulla creazione di una rete locale di persone, che integrate nel sistema creato dagli autotrasportatori, a vari livelli svolgevano funzioni di mediazione, traendone vantaggi solitamente non economici: primo fra tutti il raggiungimento di un numero di giornate lavorative utili ad ottenere il sussidio di disoccupazione. Proprio queste reti garantivano il diffondersi di un veloce passaparola nelle comunità locali basato su reti amicali e parentali e alimentato dalla possibilità di un guadagno giornaliero.

Come sarebbe più tardi avvenuto per i braccianti stranieri, il fenomeno inizialmente poco considerato dalla stampa, dalle forze politiche e dalle istituzioni, salì agli onori della cronaca e divenne oggetto di attenzioni dei sindacati e dei partiti politici di sinistra, in seguito al verificarsi di tragici incidenti nel corso del trasporto delle braccianti. Queste percorrevano centinaia di chilometri su autobus in cattive condizioni e di norma sovraccarichi, in viaggi che mediamente duravano tre ore, con partenza alle quattro del mattino e arrivo sui campi intorno alle ore sette. In tali condizioni gli incidenti erano particolarmente frequenti e con bilanci spesso tragici. Nel 1963, quando il fenomeno era da poco iniziato, il ribaltamento di un autobus di braccianti diretto verso la Piana del Sele costò la vita a quattro donne. Si scatenò una campagna di denuncia sulla stampa, con richiesta di interventi da parte delle forze dell’ordine e delle istituzioni finalizzate a contrastare il fenomeno[11]. Tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta, “un’agghiacciante catena di incidenti”[12], non pochi dei quali mortali, riaccese l’attenzione sul fenomeno da parte delle forze sindacali e politiche. Nel novembre del 1979 Giuseppe Amarante, deputato comunista con un passato da sindacalista nella Piana del Sele, nel corso di un’interrogazione parlamentare affermava che il trasporto dei caporali aveva prodotto negli ultimi anni «decine di morti, migliaia di feriti e di mutilati» e chiedeva conto al Governo rispetto alle misure di contrato messe in campo[13]. Ma solo pochi mesi dopo, nel maggio del 1980, in seguito al ribaltamento di un pulmino nel comune di Colliano perse la vita Angela Scalcione, bracciante nella Piana del Sele. Il tragico bilancio del mese di maggio del 1980 si sarebbe, inoltre, aggravato. Il 15 maggio una bracciante del palermitano perse la vita in un incidente stradale e quattro giorni dopo a Grottaglie un pulmino Ford Transit che trasportava sedici braccianti, anche se omologato per otto passeggeri, si schiantò contro un camion causando la morte di tre donne, due delle quali minorenni. Il pulmino era partito da Ceglie Messapica, in provincia di Brindisi, ed era diretto verso i campi di fragole di Scanzano, nella piana di Metaponto, a 120 chilometri di distanza[14]. Da subito i sindacati cominciarono le mobilitazioni, chiedendo un incontro con il Governo. Il 22 maggio le categorie bracciantili di CGIL, CISL e UIL incontrarono il ministro del Lavoro Franco Foschi presentandogli un programma di misure per sbloccare una situazione definita “ormai intollerabile”. Le proposte avanzate ruotavano intorno alla questione del collocamento pubblico e del trasporto delle lavoratrici. Per combattere il fenomeno della trasmigrazione giornaliera, spesso a carattere interprovinciale, occorreva predisporre più ordini di intervento: da un lato, il potenziamento degli organi di collocamento, accompagnato da una razionalizzazione specifica della loro attività; dall’altro, l’approntamento di un sistema di trasporti pubblici[15]. Come denunciava Amarante, proprio nelle zone nelle quali si esercitava il caporalato le sezioni di collocamento risultano spesso prive di titolare; gli sportelli, inoltre, aprivano quando i lavoratori erano già in viaggio o addirittura al lavoro e mancavano di attrezzature adeguate[16]. Per tale ragione sindacati e Pci ritenevano necessario predisporre misure di rafforzamento dell’organico e al tempo stesso la costituzione di strutture di zona e comprensoriali di collocamento nei bacini di traffico della mano d’opera. Nei mesi successivi il Governo dispose l’istituzione di liste di prenotazione di lavoratori disposti a prestare la propria attività in comuni e province diversi da quelli di residenza presso tutte le sezioni locali di collocamento in agricoltura. Ma un intervento più corposo si ebbe in merito alla questione del trasporto. Da un lato si dispose l’aumento dei controlli da parte delle forze dell’ordine, dall’altro si spinsero gli enti regionali, che dal 1972 avevano competenza in materia, a predisporre sistemi di trasporto pubblico. Proprio la Puglia divenne il terreno più avanzato di sperimentazione. Sul piano della repressione, nella sola stagione di raccolta del 1980 vennero comminate 8.302 contravvenzioni agli autotrasportatori e registrato il trasporto di 35.743 lavoratori[17]. I controlli riguardarono anche le aziende. Nel 1981 nella Piana di Metaponto, dove affluivano moltissime lavoratrici pugliesi, oltre che lucane, l’Ispettorato del Lavoro controllò 386 aziende, comminando 442 contravvenzioni per infrazioni alla disciplina del collocamento[18]. Sul piano dei trasporti la regione Puglia istituì 5 linee pubbliche per il trasferimento di mano d’opera agricola, due che dal Brindisino si dirigevano verso il sud Barese, due nella provincia di Foggia e due nella provincia di Bari. L’assenza di linee interregionali mostra, tuttavia, lo scarso coordinamento con la Regione Basilicata, nonostante l’istituzione da parte di quest’ultima di tesserini per il riconoscimento dei braccianti provenienti da fuori regione[19].

Nei paesi di partenza delle braccianti gli incidenti erano seguiti da mobilitazioni, inizialmente a carattere spontaneo, poi guidate dai sindacati. Tali mobilitazioni, tuttavia, si scontravano con una diffusa percezione negativa del lavoro bracciantile femminile. Le testimonianze delle donne che si recavano a lavorare nei campi del Mezzogiorno sono accomunate dal ricordo di un pregiudizio nei loro riguardi da parte dell’opinione pubblica dei paesi di partenza. Come ricorda Caterina Pietragalla, bracciante lucana, poi divenuta sindacalista, o le donne di Rocchetta Sant’Antonio che si recavano a lavorare nei campi del Vulture, le raccoglitrici di pomodoro erano comunemente considerate “donne poco serie” in quanto preferivano il lavoro e la possibilità di accedere a nuovi consumi che questo garantiva alla cura dei figli e della famiglia[20]. Secondo Gabriella Gribaudi, che ha studiato il caporalato e il lavoro bracciantile nella Piana del Sele, considerazioni simili condizionarono inizialmente anche il sindacato, determinando un ritardo nell’affrontare il fenomeno. Inoltre, il fatto che la maggior parte delle donne considerava il lavoro bracciantile occasionale, in attesa di opportunità migliori o finalizzato al raggiungimento di specifici obbiettivi economici, faceva prevalere un atteggiamento culturale che impediva di fatto il formarsi di rivendicazioni di natura sindacale[21]. Nonostante le pesanti condizioni di sfruttamento, che si concretizzavano in giornate lavorative lunghe più di otto ore, nella totale assenza di meccanismi a tutela della salute sul posto di lavoro, nelle reiterate e moleste attenzioni di carattere sessuale che venivano rivolte alle braccianti da parte dei padroni[22], nella paga giornaliera che solitamente era un terzo di quella stabilita dai contratti provinciali, il sindacato si interessò relativamente tardi al fenomeno, focalizzando i suoi sforzi al problema del trasporto e del collocamento, ritenuti cardini del sistema. Ma tutto ciò non riuscì ad arrestare in alcun modo il fenomeno e le proposte dal carattere più innovativo, come quella di creare cooperative di raccoglitori, rimasero sulla carta[23]. Solo tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta si registrò un processo di ridimensionamento. Le cause furono da un lato la creazione dei cantieri forestali, che assorbirono molti braccianti, dall’altro e in misura maggiore gli effetti delle trasformazioni socioeconomiche che avevano migliorato sensibilmente la condizione e le aspirazioni professionali delle donne meridionali. In gran parte del Mezzogiorno le donne abbandonarono il lavoro agricolo, riuscendo a trovare nel terziario migliori opportunità. Tutto ciò avvenne parallelamente all’ingresso nel mercato del lavoro agricolo meridionale di manodopera di provenienza straniera. Come era già avvenuto alla fine degli anni Cinquanta, quando la manodopera bracciantile maschile aveva trovato migliori opportunità nei processi migratori o in misura minore negli stabilimenti industriali insediati nel Mezzogiorno con i fondi della Cassa, trasformandosi in metalmezzadri[24], un segmento debole del mercato del lavoro meridionale lasciava spazio ad uno ancora più debole.

2.       Gli immigrati stranieri in agricoltura: le prime presenze nei diversi contesti regionali meridionali

I primi considerevoli ingressi di manodopera straniera nel mercato del lavoro italiano si verificarono a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta. Numerose e varie furono le dinamiche che, in quella particolare fase storica, condussero molti lavoratori immigrati a trovare occupazione in Italia, così come differenti furono i settori occupazionali e i territori raggiunti dai primi flussi di immigrazione “lavorativa”[25]. Il bracciantato agricolo, in particolare nelle campagne del Mezzogiorno, tuttavia, fu uno dei segmenti del mercato del lavoro italiano originariamente interessati da una consistente presenza straniera. Come ha osservato Enrico Pugliese, tra “le occupazioni principali” dei “primi” immigrati, vi era quella “agricola concentrata in primo luogo nelle regioni meridionali (occupazione […] a larga prevalenza maschile)”[26]. L’ingresso numeroso di lavoratori tunisini nell’agricoltura siciliana tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, ad esempio, fu uno dei primi flussi “da lavoro” nella fase originaria della storia dell’immigrazione straniera in Italia[27]. Si trattava dell’arrivo di coloro che Giovanni Mottura, nel qualificare come i “primi” immigrati in Italia, ha definito “braccianti avventizi, in decisiva prevalenza tunisini, impiegati stagionalmente in operazioni di raccolta nell’agricoltura siciliana”[28]. In termini qualitativi, l’ingresso nel mercato del lavoro agricolo siciliano, e in particolare del trapanese, dei braccianti provenienti dalla Tunisia si configurò come il primo caso di una dinamica migratoria che negli anni successivi sarebbe diventata consueta relativamente all’arrivo di lavoratori immigrati, anche di altre provenienze, in Italia. Nello specifico, i tunisini giunsero in Sicilia alla fine degli anni Sessanta, in larga parte sprovvisti delle autorizzazioni al lavoro previste dalla normativa in vigore all’epoca, per essere gradualmente assorbiti dal settore della pesca, in una prima fase, e, successivamente, dall’agricoltura della provincia di Trapani che scontava anche una grande emorragia di manodopera locale come conseguenza del terremoto del Belice del 1968[29].

Con gli anni Ottanta, la presenza straniera in Italia si avviò verso una crescita quantitativa sempre più consistente e una evoluzione qualitativa che avrebbe proiettato il fenomeno per la prima volta al centro dello spazio pubblico[30]. Anche l’ingresso di lavoratori immigrati in agricoltura raggiunse, dalla Sicilia, altri territori del Mezzogiorno.

In Campania, ad esempio, proprio negli anni Ottanta, iniziava a divenire significativa “un’immigrazione africana, per lo più maschile, concentrata tra le province di Napoli e Caserta, soprattutto nelle zone agricole e nei centri di piccole dimensioni”[31]. Di frequente si trattava di stranieri, “studenti o migranti economici”, che finivano “per diventare braccianti agricoli, inseguendo le raccolte di ortaggi e frutta, una domanda di lavoro stagionale, in attività precarie o mal pagate che non trovava più disponibile la forza lavoro locale”[32]. In località del casertano come Villa Literno, si contavano “da giugno a settembre almeno 4.000 braccianti africani; a Castel Volturno, invece […] un migliaio” erano “gli immigrati stabili”, i quali diventavano “5.000 d’estate”[33]. Anche in provincia di Salerno, nel distretto ortofrutticolo della piana del Sele, il primo arrivo considerevole dei braccianti stranieri, prevalentemente di nazionalità marocchina, si ebbe tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta[34].

In Calabria, invece, tracce di ingressi di braccianti stranieri nell’agricoltura locale si registrarono nella seconda metà degli anni Ottanta[35]. Si trattava, inizialmente, di tunisini e, più in generale, nordafricani, in transito dalla Sicilia verso le regioni italiane settentrionali, ma, in particolare alla fine degli anni Novanta, le provenienze dei braccianti stranieri impiegati nell’agricoltura calabrese sono aumentate, arricchendosi di presenze stabili come quella degli immigrati provenienti dall’Europa dell’est e, successivamente, dall’Africa sub-sahariana[36]. In termini di distribuzione sul territorio, gli insediamenti più consistenti di manodopera straniera nel settore agricolo si sono storicamente segnalati nelle piane di Sibari, Gioia Tauro, Lamezia e della Bassa Jonica, dove i braccianti immigrati hanno presidiato, in maniera crescente, il settore agrumicolo, ma anche l’olivicoltura e la viticoltura[37].

In Puglia e in Basilicata, infine, le presenze di lavoratori stranieri in agricoltura che si manifestarono consistentemente a partire dalla metà degli anni Ottanta furono, di fatto, tra le prime testimonianze storicamente accertate dell’immigrazione nei due diversi contesti regionali[38]. In aree a tradizionale vocazione agricola come la Capitanata e il Tavoliere, tra il foggiano e l’andriese, o il Vulture-Alto Bradano, in territorio lucano, i primi braccianti immigrati, prevalentemente di provenienza nordafricana a sub-sahariana, furono impiegati in settori tipici come il cerealicolo e la viticoltura o in produzioni in ascesa come quella del pomodoro[39]. Anche nei comparti agricoli del leccese del brindisino, in particolare per le mansioni di raccolta nell’orticoltura e nell’olivicoltura, la seconda metà degli anni Ottanta fu il periodo dell’ingresso consistente di lavoratori stranieri nel mercato della manodopera locale[40].

In termini quantitativi, la manodopera straniera risultava difficile da stimare. La sussistenza di rapporti di lavoro irregolare, che riguardavano la gran parte dei braccianti immigrati impiegati nei principali comparti agricoli meridionali rendeva particolarmente ostico il tentativo di quantificare le presenze reali. L’analisi di alcuni particolari contesti restituiva, tuttavia, già alla fine degli anni Ottanta, la dimensione di un fenomeno ampio e strutturato. Una ricerca sul casertano, condotta dalla FLAI Cgil nel 1989, presentava una stima di più di 5.000 presenze nel periodo estivo, posizionando la gran parte dei braccianti immigrati in “mansioni e ruoli ormai abbandonati dalla forza lavoro locale”[41], ammetteva, seppure in maniera implicita, come l’incidenza della manodopera straniera sul totale degli addetti, almeno in segmenti generici del processo produttivo come le operazioni di raccolta del pomodoro, fosse già elevata. Un altro documento, sempre a cura del sindacato degli addetti all’agro-industria della Cgil, parlava, nello stesso periodo, di “decine di migliaia di lavoratori extracomunitari impiegati in Italia nella raccolta dei prodotti ortofrutticoli un po’ ovunque nel paese, con punte massime nei mesi estivi e nel Mezzogiorno”[42]. La stessa fonte, inoltre, descrivendo come il mercato del lavoro agricolo portasse “gli stessi lavoratori extracomunitari da una regione all’altra al seguito delle campagne di raccolta”[43], individuava già una certa circolarità del bracciantato straniero in agricoltura e indicava, tra l’altro, anche come il ricambio non fosse un processo automatico tra le fila della “nuova” manodopera.

3.       Dagli italiani agli stranieri: le principali ragioni e le dinamiche di una transizione

Nei diversi contesti locali meridionali interessati da un massiccio ingresso di manodopera straniera in processi di produzione agricola storicamente consolidati, l’arrivo dei braccianti immigrati è coinciso, di frequente, con una graduale ma inesorabile uscita dei lavoratori italiani, soprattutto di quelli impegnati in mansioni usuranti e tradizionalmente esposte allo sfruttamento del lavoro, dal settore primario. Tale transizione è avvenuta in maniera graduale e non automatica, verificandosi in momenti diversi a seconda delle caratteristiche strutturali dell’agricoltura e del mercato del lavoro nei territori interessati. Alcune dinamiche riguardanti l’integrazione e, talvolta, il quasi totale avvicendamento tra braccianti italiani e stranieri hanno rappresentato un tratto di congiunzione tra i diversi comparti agricoli meridionali, soprattutto perché si sono configurate, di frequente, in corrispondenza di cambiamenti importanti che hanno investito in maniera uniforme le campagne del Mezzogiorno.

Nel settembre del 1989, pochi giorni dopo un avvenimento epocale per la storia dell’immigrazione in Italia come l’assassinio del rifugiato politico sudafricano Jerry Essan Masslo nelle campagne del casertano[44], ad esempio, Enrico Pugliese e Francesco Calvanese, elaborando considerazioni a partire dalla realtà di Villa Literno estendibili ad altre realtà rurali meridionali, riflettevano su come il reclutamento massiccio di braccianti stranieri in agricoltura in territori caratterizzati da elevati tassi di disoccupazione rispondesse, oltre che a dinamiche economiche, anche a un generale mutamento delle aspettative di vita delle persone e nella società:

un’altra considerazione riguarda la contraddizione tra l’esistenza di disoccupazione locale e la crescente immigrazione di stranieri. Le occasioni di lavoro offerte dall’agricoltura in questa zona, a parte il loro carattere “nero”, sono comunque temporanee, non capaci di ridurre la disoccupazione in maniera significativa. Il lavoro di raccolta per il bracciante è un declassamento, come si è detto, ma è l’unica possibilità offerta a fasce marginali. Esso non basta a soddisfare l’aspirazione a un lavoro che presenti requisiti, almeno minimi, di stabilità. È ovvio che un bracciante può non accettare che suo figlio diventi anch’egli bracciante a questa condizione: si tratterebbe di accettare una vita di precarietà e sotto-occupazione, per altro in un quadro lavorativo che peggiora. Perché un’agricoltura di questo genere funzioni, è necessario poter attingere a serbatoi di marginalità economica e sociale. Se questi serbatoi sono reperibili in loco, va bene. Altrimenti, come manna dal cielo, arrivano gli immigrati[45].

Una lettura del genere lasciava intendere, tra l’altro, come, ancora alla fine degli anni Ottanta, l’agricoltura continuasse a rappresentare per i lavoratori stranieri, soprattutto per coloro che erano appena giunti in Italia, una porta d’ingresso nel mondo del lavoro, seppure in condizioni precarie e di grave sfruttamento, così come era avvenuto un ventennio prima per i tunisini in Sicilia o per la manodopera femminile in altri frangenti[46]. Il subentro dei braccianti immigrati nei sistemi di produzione agricola meridionali, nei gradini più bassi della scala sociale delle mansioni lavorative, sembrava già noto a cavallo tra gli anni ottanta e novanta al sindacato, il quale, tuttavia, ne connetteva il funzionamento alle anche alle trasformazioni produttive e strutturali delle aree rurali interessate e a dinamiche di specializzazione professionale. In una ricerca condotta dalla Flai-Cgil nelle campagne domizie, nel 1989, si rilevava:

Nel momento in cui l’agricoltura casertana ha conosciuto un nuovo incremento – in concomitanza anche di eventi quali la chiusura dello zuccherificio di Capua, che ha liberato ettari ed ettari per la coltivazione del pomodoro, l’insediamento delle industrie di trasformazione del settore conserviero – sono cambiate le forme e i tempi di utilizzazione della manodopera agricola locale. In particolare, sono risultati di molto allungati i tempi di impiego degli operai qualificati e specializzati, che oggi non hanno più bisogno di svolgere mansioni di tipo generico, ma che ruotano con continuità, da un’azienda all’altra utilizzando la professionalità acquisita. Tali cambiamenti di impiego hanno anche interessato le donne, tradizionali raccoglitrici del pomodoro, che oggi sono passate a svolgere mansioni di raccolta più qualificate (fragole e asparagi) o che trovano occupazione presso le stesse industrie di trasformazione, che, oltretutto, hanno il pregio di essere localizzate nei luoghi di tradizionale residenza della manodopera femminile, consentendo a quest’ultima di lavorare senza più affrontare difficoltà di spostamento per raggiungere le aziende di lavoro. Come si vede, la forza lavoro agricola locale ha liberato la posizione occupata nelle operazioni di livello inferiore e più dequalificato[47].

In tal senso, l’insediamento sempre crescente di manodopera straniera in alcuni comparti agricoli del Mezzogiorno è stato possibile anche grazie a una trasformazione produttiva dei contesti rurali. Emblematico è stato il caso delle coltivazioni di pomodoro. Negli anni Ottanta, ad esempio, la produzione dell’“oro rosso” in Campania si è svolta attraverso una “completa trasformazione della produzione”, con un incremento della lavorazione del prodotto in strutture agro-industriali sempre più prossimi alle “grandi estensioni pianeggianti”[48] in cui si realizzava la raccolta. Mutamenti di questo tipo erano connessi principalmente alla crescita dei ricavi relativi, alla coltivazione e alla trasformazione del pomodoro che portarono, tra l’altro, alla “crisi di sovrapproduzione del 1984 (56 milioni di q.li di prodotto trasformato)”, in seguito a cui la Comunità Europea aveva fissato “un plafond di produzione, successivamente prorogato fino al 1989”[49]. Nelle campagne del casertano, la “scoperta” della “crescente redditività della produzione del pomodoro”, unita a trasformazioni strutturali e socio-lavorativa dell’intero comparto agricolo, aveva condotto “nei mesi estivi della raccolta” all’addensarsi di “migliaia di migranti, [spesso] senza alcuna corrispondenza con il fabbisogno reale di forza-lavoro”[50].

Dinamiche simili rientravano nella casistica delle generale “trasformazione in senso capitalistico dell’agricoltura”[51], soprattutto in termini di differenziazione della filiera agricola, con aziende sempre più proiettate a una “competizione” su scala internazionale, e una decisa standardizzazione della produzione e dei prodotti. Come era avvenuto in passato in corrispondenza di altri mutamenti di sistema, il caporalato si impose come sistema di reclutamento di braccianti dequalificati, vulnerabili e, dunque, sfruttabili[52]. I più rispondenti a un profilo del genere, in particolare a partire dagli anni ottanta, erano i lavoratori immigrati, che progressivamente sarebbero subentrati alla manodopera locale anche nella sperimentazione di meccanismi di grave sfruttamento lavorativo consolidati nel tempo.

Attraverso orizzonti temporali differenti a seconda dello sviluppo socio-economico legato ai territori, tracce di tali dinamiche sono state rinvenibili in tutti i principali comparti agricoli e agro-industriali del Mezzogiorno. La corsa ai profitti realizzati con la coltivazione e la raccolta del pomodoro ha coinvolto numerose aree rurali meridionali, come la Capitanata e il Vulture-Alto Bradano, in Puglia e in Basilicata, dove il cerealicolo è stato progressivamente rimpiazzato dall’“oro rosso”. Anche altre tipologie di trasformazioni produttive, nel quadro di una generale ristrutturazione del settore agricolo, tuttavia, hanno notevolmente influito nel determinare una saldatura tra immigrazione e sfruttamento lavorativo in Italia e nelle campagne meridionali[53]. Si pensi, ad esempio, alla crescita della “serricoltura e di avanzate dotazioni tecnologiche” legate alla produzione di verdure di quarta gamma nella piana del Sele[54] o alla connessione tra lo sfruttamento della manodopera straniera e la produzione agrumicola della piana di Gioia Tauro o la diffusione intensiva della serricoltura nelle piane calabresi del lametino e della sibaritide[55] e nel ragusano[56].

4. Conclusioni

Il settore agricolo meridionale è stato storicamente un’opportunità occupazionale di ripiego. Le condizioni particolarmente dure di lavoro, le paghe basse, e in molti casi la persistenza di radicati e distorti rapporti sociali, ne hanno fatto il settore occupazionale dei segmenti più deboli del mercato del lavoro meridionale. Non è un caso che sul finire degli anni ottanta e nella prima metà degli anni novanta si alternarono alle donne meridionali, di estrazione sociale medio bassa, i lavoratori stranieri. Il passaggio fu fotografato, quasi involontariamente, dai lavori della Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno del cosiddetto “caporalato” istituita nel settembre 1994. Leggendo i resoconti delle audizioni si percepisce chiaramente come i lavori fossero incentrati ancora sul fenomeno dell’intermediazione illegale di manodopera delle braccianti italiane, ma nel corso di alcune di esse emerse la crescente presenza di stranieri nelle campagne del Mezzogiorno. Emblematico e anticipatore del peggioramento delle condizioni di lavoro che avrebbero caratterizzato il settore con il passaggio ai braccianti stranieri è quanto dichiarò monsignor Armando Franco, presidente della Caritas: la presenza di braccianti immigrati era forte in Campania e nel foggiano; questi “erano trattati peggio delle donne”, anche se ad essi si concedeva un alloggio, “sia pure indegno dell’uomo”, dove “le più elementari norme igieniche venivano calpestate”. Le condizioni di lavoro degli immigrati erano tali da far aggiungere a Franco: “gli extracomunitari soggetti minori non sono, sono persone come le altre, hanno diverso colore della pelle, hanno diverse abitudini di vita, però sono persone e come tali dovrebbero essere trattate”[57].

Di segno opposto, invece, quanto dichiarato dal Questore di Caserta Mastrolitto, che dopo aver ridimensionato la presenza di braccianti extracomunitari nel casertano, dichiarando che la maggior parte degli extracomunitari presenti in provincia di Caserta si dedicavano ad attività illecite, soprattutto la prostituzione, affermava in merito all’omicidio Masslo: “se sono stati uccisi extracomunitari è perché sono entrati in conflitto con gli interessi della camorra che, comunque, non sono nel settore agricolo”[58].

Appare già del tutto evidente che il passaggio dalle braccianti italiane ai braccianti stranieri avrebbe determinato un peggioramento delle condizioni di lavoro, peraltro già caratterizzate da rapporti di pesante sfruttamento. Pratiche profondamente radicate nel tessuto sociale meridionale, come il caporalato, si sarebbero trasformate, assumendo connotati etnici, e si sarebbero caricate di una dose di violenza prima quasi del tutto assente. Inoltre, la compattezza, almeno formale, delle forze politiche e sociali nel condannare il fenomeno del caporalato ai danni delle donne italiane sarebbe venuta meno sotto una crescente dose di distinguo.

Proprio uno studio più approfondito della trasformazione del fenomeno nel passaggio dal bracciantato italiano a quello straniero, qui solo accennata, rappresenta un possibile itinerario di ricerca futuro, anche in considerazione delle evoluzioni dello stesso lavoro degli immigrati nelle campagne, transitato, nell’ultimo ventennio, attraverso passaggi e strettoie che ne hanno ulteriormente modificato le caratteristiche[59]. Il presente articolo, pur delineando le principali linee evolutive del fenomeno e il quadro storico e geografico nel quale si consuma, non ne esaurisce la complessità. È necessario indagare più a fondo le posizioni delle forze politiche, sindacali e datoriali, e la loro evoluzione nel tempo, anche in rapporto all’ingresso nel settore di lavoratori stranieri; una ricostruzione dettagliata e inserita nelle dinamiche del mercato del lavoro delle politiche pubbliche relative al collocamento, al trasporto e al rapporto con il welfare italiano. Uno sguardo più ampio, inoltre, richiederebbe considerare il ruolo del mercato e soprattutto della filiera agricola, che con la sua evoluzione ha progressivamente compresso lo spazio economico delle aziende produttrici, scaricando i costi sociali dell’intera filiera sull’anello più debole della catena, la manodopera addetta alla raccolta.


[1]           Sul ruolo della Cassa per il Mezzogiorno e della riforma agraria nello sviluppo delle regioni meridionali si veda Gino Masullo, La Cassa e la Riforma Agraria, in Radici storiche ed esperienza dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno, a cura di Leandra D’Antone, Roma, Bibliopolis, 1996.

[2]           Marcello Gorgoni, Produzioni e mercati alimentari dal dopoguerra ad oggi, “Meridiana”, 1 (1987), p. 116.

[3]           Sui caratteri dell’emigrazione meridionale negli anni del boom economico si veda Federico Romero, L’emigrazione operaia in Europa (1948-1973), in Storia dell’emigrazione italiana, I, Partenze, a cura di Piero Bevilacqua, Andreina De Clementi ed Emilio Franzina, Roma, Donzelli, 2001, pp. 397-414.

[4]           Francesco Barbagallo, Lavoro ed esodo nel sud 1861-1971, Napoli, Guida, 1973, p. 111.

[5]           M. Gorgoni, Produzioni e mercati alimentari, cit., p. 117.

[6]           Nel corso dei controlli effettuati sugli autobus che trasportavano le braccianti, le forze di polizia riscontrarono la consistente presenza di minori al di sotto dei 14 anni.

[7]           Enrico Pugliese, I braccianti agricoli in Italia. Tra mercato del lavoro e assistenza, Milano, Franco Angeli, 1984, p. 40.

[8]           Interpellanza del deputato comunista Giuseppe Amarante, in Atti Parlamentari – Camera dei Deputati, VII Legislatura – Discussioni – Seduta del 2 ottobre 1978, pp. 21.737.

[9]           Per una panoramica sul fenomeno del caporalato si rimanda a Domenico Perrotta, Vecchi e nuovi mediatori. Storia, geografia ed etnografia del caporalato in agricoltura, “Mediana”, 79 (2014), pp: 193-220.

[10]          Arturo Giglio, Ci prendono al mattino e via in Campania per sei mila lire al giorno, “l’Unità”, 5 aprile 1978.

[11]          Precipita il pullman: quattro morti e Sessantotto feriti, “l’Unità”, 22 giugno 1963; Antonio Di Mauro, Scioperi e proteste per le vittime del pullman, “l’Unità”, 23 giugno 1963.

[12]          Un’agghiacciante catena di incidenti, “l’Unità”, 25 maggio 1980.

[13]          Interpellanza del deputato comunista Giuseppe Amarante, in Atti Parlamentari – Camera dei Deputati, VIII Legislatura – Discussioni – Seduta del 12 novembre 1979, pp. 3952 sgg.

[14]          Giuseppe Iuorio, Tre braccianti uccise in uno scontro nel pulmino del caporale, “l’Unità”, 20 maggio 1980.

[15]          “Caporalato”: incontro ministro-sindacati, “l’Unità”, 23 maggio 1980.

[16]          Interpellanza di Amarante, cit.

[17]          Interpellanza del deputato comunista Michele Graduata, in Atti Parlamentari – Camera dei Deputati, VIII Legislatura – Discussioni – Seduta del 14 settembre 1981, p. 32.617.

[18]          Interpellanza di Amarante, cit.

[19]          Proposta per il progetto Regionale. “Piano per il Lavoro”, dicembre 1982, p. 6, in Archivio Storico Cgil Basilicata, Potenza, Federbraccianti, b. 15, f. 1.

[20]          Caterina Pietragalla, Il riscatto di una donna, in Ricordi di Lotte. Lavoratori e sindacato nelle campagne di Potenza, a cura di Michele Chiesena, Roma, Ediesse, 2006, p. 128. Nel 1978 la Rai realizzò un servizio televisivo sulle raccoglitrici di Rocchetta Sant’Antonio. https://www.youtube.com/watch?v=j4XhI9sDbDI (verificato in data 15/11/2019).

[21]          Gabriella Gribaudi, A Eboli: il mondo meridionale in cent’anni di trasformazioni, Venezia, Marsilio, 1990, pp. 262-263.

[22]          Caterina Pietragalla iniziò la sua attività sindacale dopo avere rifiutato le attenzioni di un padrone.

[23]          La proposta di costituire cooperative di raccolta per contrastare il fenomeno del caporalato nel Metapontino fu avanzata dalla Cgil Basilicata: Proposta per il progetto Regionale. “Piano per il Lavoro”, dicembre 1982, cit., pp. 5-10.

[24]          L’espressione è del giornalista Walter Tobagi. Nel 1979 Tobagi si recò a Taranto come inviato speciale del “Corriere della Sera”, per una serie di interviste a sindacalisti e addetti ai lavori sulla realtà socio-economica jonica. Nel corso dell’inchiesta osservò come molti operai dell’Italsinder di Taranto non avevano abbandonato completamente le attività agricole, relegandole ad attività secondarie. Cfr. Walter Tobagi, Il “metalmezzadro” protagonista dell’economia sommersa al Sud, “Corriere della Sera”, 15 ottobre 1979.

[25]          Per una ricognizione storica sulle dinamiche socio-economiche relative alla “prima” immigrazione in Italia si veda in particolare Michele Colucci, Storia dell’immigrazione in Italia. Dal 1945 ai nostri giorni, Roma, Carocci, 2018, pp. 29-47. Per riferimenti di taglio più sociologico, si vedano, tra gli altri, Maria Immacolata Macioti ed Enrico Pugliese, L’esperienza migratoria. Immigrati e rifugiati in Italia, Roma-Bari, Laterza, 2003, pp. 30-35; Asher Colombo e Giuseppe Sciortino, Gli immigrati in Italia. Assimilati o esclusi: gli immigrati, gli italiani, le politiche, Bologna, il Mulino, 2004, pp. 16-20.

[26]          Enrico Pugliese, Il lavoro degli immigrati, in Storia d’Italia. Migrazioni, a cura di Paola Corti e Matteo Sanfilippo, Torino, Einaudi, 2009, p. 581.

[27]          M. Colucci, Storia dell’immigrazione straniera, cit., pp. 39-42.

[28]          Giovanni Mottura, Introduzione, in L’Arcipelago Immigrazione. Caratteristiche e modelli migratori dei lavoratori stranieri in Italia, a cura di Id., Roma, Ediesse, 1992, p. 19.

[29]          Per una ricostruzione della vicenda si veda, in particolare, Antonino Cusumano, Il ritorno infelice: i tunisini in Sicilia, Palermo, Sellerio, 1976, pp. 23-27.

[30]          A tal proposito, sia consentito un rimando a Donato Di Sanzo, Braccia e persone. Storia dell’immigrazione in Italia ai tempi di Jerry Masslo (1980-1990), Torino, Claudiana (in corso di stampa).

[31]          Salvatore Strozza e Giuseppe Gabrielli, Gli stranieri in Campania: dimensioni e caratteristiche di un collettivo in evoluzione, in Lavoratori stranieri in agricoltura in Campania. Una ricerca sui fenomeni discriminatori, a cura di Giovanni Carlo Bruno, Roma, Cnr Edizioni, 2018, p. 10.

[32]          Ibid.

[33]          Francesco Dandolo, L’immigrazione in Campania negli ultimi decenni, “Meridione. Sud e Nord nel Mondo”, 17, 2-3 (2017), p. 280.

[34]          Giovanni Ferrarese, Fenomeni migratori e trasformazioni del bracciantato nella piana del Sele, relazione al convegno Immigrazioni. Migrazioni internazionali e lavoro dagli anni Settanta a oggi. Una prospettiva storica, Università degli studi di Salerno, Issm-Cnr di Napoli, Salerno-Napoli, 22-23 maggio 2019.

[35]          Francesco Carchedi e Isabella Saraceni, Il lavoro sfruttato e gravemente sfruttato. I percorsi migratori. L’insediamento e le condizioni occupazionali. Il caso della Calabria, in Lavoro indecente. I braccianti stranieri nella piana lametina, a cura di Francesco Carchedi, Marina Galati e Isabella Saraceni, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2017, p. 21.

[36]          Francesco Carchedi, Marina Galati e Lorenzo Paolo Di Chiara, Lo sfruttamento dei braccianti agricoli nelle Piane calabresi, in Persone annullate. Lo sfruttamento sessuale e lavorativo in Calabria. Le politiche sociali, le caratteristiche e le aree di maggior presenza delle vittime, a cura di Francesco Carchedi e Marina Galati, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2019, pp. 191-198.

[37]          Ibid., pp. 200-216.

[38]          Luigi Di Comite, L’immigrazione straniera in Puglia, “Affari Sociali Internazionali”, 3 (1985), pp. 159-200.

[39]          Mirella Giannini e Daniele Petrosino, Il processo adattivo dell’immigrato nel mercato del lavoro e nella società ospite: il caso della Puglia nel quadro delle regioni italiane, in La presenza straniera in Italia. Il caso della Puglia, a cura di Angelo Dell’Atti, Milano, Franco Angeli, 1990, p. 115.

[40]          Ibid., p. 129.

[41]          Patrizia Consiglio, I lavoratori extracomunitari nel casertano. Rapporto di ricerca, ottobre 1989, p. 34, in Archivio Federazione Lavoratori dell’Agro-Industria – Cgil (d’ora in poi Flai-Cgil), Roma, serie Politica e iniziativa sindacale, fasc. 9, b. 1.

[42]          Matilde Raspini, Il lavoro degli extracomunitari in agricoltura. Documento presentato alla conferenza sull’immigrazione della FLAI Cgil del 6 ottobre 1989, p. 2, in Archivio Flai-Cgil, Roma, serie Politica e iniziativa sindacale, fasc. 9, b. 1.

[43]          Ibid., p. 6.

[44]          Sulla vicenda e sulla portata dirompente che ebbe sulla storia dell’immigrazione in Italia, si veda M. Colucci, Storia dell’immigrazione straniera, cit., pp. 79-86. Per una ricostruzione di taglio più divulgativo, si veda Giulio Di Luzio, A un passo dal sogno. Gli avvenimenti che hanno cambiato la storia dell’immigrazione in Italia, Nardò, Besa Editrice, 2016.

[45]          Enrico Pugliese e Francesco Calvanese, Villa Literno, in California. Perché l’agricoltura ha bisogno degli immigrati, “Il Manifesto”, 1 settembre 1989, p. 2.

[46]          Per un riferimento sul ruolo delle donne nel bracciantato agricolo, si vedano gli atti del convegno promosso a Ravenna dall’Istituto Alcide Cervi l’1 e il 2 giugno 1990, intitolato Le donne nelle campagne nella storia sociale d’Italia 1860-1960, di cui vi è un resoconto in Gianfranca Ranisio, Le donne delle campagne, “La Ricerca Folklorica”, 23 (1991), pp. 129-131. Gli atti, a cura di Paola Corti, sono apparsi negli “Annali dell’Istituto Alcide Cervi”, 12 (1990) e 13 (1991).

[47]          P. Consiglio, I lavoratori extracomunitari nel casertano cit., p. 31, in Archivio Flai-Cgil, Roma, serie Politica e iniziativa sindacale, fasc. 9, b. 1.

[48]          Domenico Perrotta, Produrre la qualità. I pomodori pelati tra industria, tradizione e conflitti, “Meridiana”, 93 (2018), p. 80.

[49]          Documento finale relativo alla riunione delle strutture FLAI Cgil interessate al comparto del pomodoro (produzione agricola e trasformazione), 11 aprile 1989, in Archivio Flai-Cgil, Roma, serie Ortofrutta e pomodoro, fasc. 9, b. 1.

[50]          Francesco Caruso, La politica dei subalterni. Organizzazione e lotte del bracciantato migrante nel Sud Europa, Roma, DeriveApprodi, 2015, p. 58.

[51]          D. Perrotta, Vecchi e nuovi mediatori, cit., p. 193.

[52]          Francesco Carchedi, Il lavoro gravemente sfruttato. Il caso dei lavoratori immigrati in agricoltura, “Italian Journal of Social Policy”, 2-3 (2015), pp. 65-86.

[53]          Alessandra Corrado, Migrazioni e lavoro agricolo in Italia: le ragioni di una relazione problematica, Firenze, Open Society Foundation-European University Institute, 2018, p. 2.

[54]          Gennaro Avallone e Daouda Niang, La linea del colore. Agricoltura campana e lavoro migrante, in Lavoratori stranieri in agricoltura, cit., pp. 59-76.

[55]          F. Carchedi, M. Galati e L.P. Di Chiara, Lo sfruttamento dei braccianti, cit., pp. 191-198.

[56]          Su cui si veda Alessandra Corrado e Domenico Perrotta, Migranti che contano. Percorsi di mobilità nell’agricoltura del Sud Italia, “Mondi Migranti”, 3 (2012), pp. 103-128.

[57]          Resoconto stenografico audizione del Presidente della Caritas, 27 giugno 1995, in Senato della Repubblica – XII Legislatura, Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno del cosiddetto “caporalato”, p. 217 (http://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/DF/149457.pdf).

[58]          Resoconto stenografico del sopralluogo effettuato a Caserta, 14 luglio 1995, ivi, pp. 421-422 (http://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/DF/149498.pdf).

[59]          Sul punto si veda l’introduzione a Immigrazione e diritti violati. I lavoratori immigrati nell’agricoltura del Mezzogiorno, a cura di Enrico Pugliese, Roma, Ediesse, 2013.

[60]           Sul punto si veda l’introduzione a Immigrazione e diritti violati. I lavoratori immigrati nell’agricoltura del Mezzogiorno, a cura di Enrico Pugliese, Roma, Ediesse, 2013.