Braccianti stranieri nell’agricoltura italiana: un profilo storico nel periodo repubblicano

Devi aggiungere un widget, una riga o un layout precostruito per poter vedere qualcosa qui. 🙂

1.       Introduzione

In diverse occasioni opere di inchiesta giornalistica e di ricerca scientifica hanno utilizzato il termine “rivoluzione” per definire le modalità e le forme di inserimento dei lavoratori e delle lavoratrici di origine straniera nel mercato del lavoro agricolo italiano. Nel 2008 Alessandro Leogrande sottolineava il ritardo con cui la società italiana aveva compreso l’importanza di tale rivoluzione: “È stata una rivoluzione lenta: la si è percepita come tale quando si era già compiuta. S’era già fatta realtà sociale e culturale”, scriveva nel suo Uomini e caporali[1]. Nel 2018 Lucio Pisacane si soffermava sulle caratteristiche quantitative e qualitative della “rivoluzione”:

La “rivoluzione” ha trasformato il lavoro agricolo da Nord a Sud portando, nel giro di poco più di un quindicennio, i braccianti stranieri da poche decine di migliaia a rappresentare quote maggioritarie rispetto ai lavoratori italiani in alcune mansioni (raccolta degli ortaggi, allevamento, serricoltura) e in alcune lavorazioni colturali (fragole, pomodori in serra e in campo aperto, angurie, ortaggi)[2].

Più in generale, la diffusione della componente immigrata dall’estero all’interno del mercato del lavoro italiano rappresenta una delle novità più dirompenti nella storia economica e sociale degli ultimi 50 anni. Tale presenza cresce nel tempo in misura straordinaria, fino a raggiungere nel 2018 la cifra di 2.422.864 occupati stranieri, il 10,5% del totale degli occupati in Italia. Rispetto all’agricoltura, i dati disponibili più recenti, relativi al 2017, indicano in 364.385 gli operai agricoli di nazionalità straniera impiegati in Italia, il 34,3% del totale. Come sappiamo questa diffusione ha avuto conseguenze importanti non solo a livello economico e sociale ma anche a livello politico.

Obiettivo di questo contributo è la ricostruzione dello sviluppo storico della presenza di lavoratori stranieri nell’agricoltura italiana, con particolare attenzione al periodo compreso tra la metà degli anni Sessanta e i giorni nostri. Ci soffermeremo sugli ultimi 50 anni, poiché è in questa fase che la presenza del lavoro straniero in agricoltura assume caratteristiche di massa e perde progressivamente le caratteristiche di un fenomeno di nicchia. Fino agli anni Sessanta era infatti diffusa in modo solo puntiforme nel territorio e si presentava come sostanzialmente marginale dal punto di vista quantitativo.

Naturalmente prima di avviare questo breve resoconto non possiamo non segnalare quella che probabilmente rappresenta la prima grande evidenza del legame tra la storia dell’Italia repubblicana e lo sviluppo dell’immigrazione straniera nei contesti rurali: tale sviluppo si manifesta infatti proprio nel periodo in cui l’Italia perde progressivamente la centralità del settore primario a favore del secondario e del terziario. In seguito alle conseguenze del “miracolo economico” l’Italia conosce una rapida transizione, che porta il settore agricolo a ridurre in modo progressivo il numero di addetti.

Descritti spesso come anni caratterizzati dalla semplice “fuga dalle campagne”, i decenni successivi agli anni Sessanta sono anni segnati anche da altri fenomeni, che cambiano la fisionomia del mondo rurale. Tra questi è importante ricordare la meccanizzazione, con il suo portato di innovazioni molto legate al mercato del lavoro, e il processo di integrazione europea, che tende a incidere notevolmente sui processi produttivi. Parallelamente, diventa sempre più importante la tendenza all’internazionalizzazione della forza lavoro, con l’arrivo nelle campagne di lavoratori e lavoratrici provenienti dall’estero. L’inserimento della componente di origine straniera va quindi contestualizzato all’interno di un insieme di trasformazioni, che hanno complessivamente modificato in modo decisivo l’intero comparto agricolo.

2.       La fase iniziale

È nel corso degli anni Sessanta che si moltiplicano le tracce di una diffusione progressiva dell’immigrazione straniera in Italia. Negli anni compresi tra la fine della seconda guerra mondiale e i primi anni Sessanta la presenza straniera all’interno del mercato del lavoro è riconducibile prevalentemente al settore domestico, mentre già alla metà degli anni Sessanta si affacciano lavoratori stranieri in ambito industriale, nei servizi e in agricoltura. Durante il decennio inizia a manifestarsi effettivamente un movimento nuovo, destinato a cambiare lo scenario migratorio italiano: lavoratori e lavoratrici iniziano a muoversi verso l’Italia con lo scopo di trovare un’occupazione. Si tratta di movimenti che non sono più riconducibili alle conseguenze della seconda guerra mondiale o ai processi di decolonizzazione ma che risultano legati alle trasformazioni del “miracolo economico” e all’impatto che hanno sull’intero territorio nazionale[3].

Nel 1963 il Ministero del lavoro emana la circolare n. 51, che rappresenta il primo documento governativo in cui viene abbozzata una procedura per il reclutamento di lavoratori e lavoratrici straniere. Tale documento era pensato in quella fase soprattutto per il settore domestico, ma verrà applicato immediatamente all’intero mondo dell’immigrazione straniera e fino al 1986 resterà l’unico punto di riferimento in materia. Elaborata evidentemente a partire dai primi tentativi di accreditamento sul mercato del lavoro italiano da parte di cittadini stranieri, la circolare dispone la necessità per gli stranieri che desiderano entrare nel territorio nazionale di una autorizzazione al lavoro rilasciata dagli uffici provinciali del lavoro e indispensabile per ottenere il permesso di soggiorno da parte delle questure competenti. Tale autorizzazione può, però, essere rilasciata solo dopo che gli uffici del lavoro hanno chiarito che per quel posto, richiesto da un certo datore, non ci sia un cittadino italiano disponibile. Ecco quindi profilarsi non solo la cosiddetta “preferenza nazionale” (che apparirà e scomparirà nella legislazione fino a essere riproposta con la legge Bossi-Fini del 2002) ma anche l’assunzione dall’estero, prevista successivamente in molti altri provvedimenti[4].

Entrando più nello specifico, sono due le regioni in cui tale presenza diventa maggiormente visibile e non a caso sono regioni “di confine”: il Friuli Venezia Giulia e la Sicilia. L’inserimento del lavoro degli immigrati stranieri in entrambe le regioni non inizia a partire dall’agricoltura e questa rappresenta una caratteristica importante delle forme di penetrazione della manodopera immigrata all’interno del caso italiano.

Nei paesi dell’Europa continentale che fino ad allora avevano accolto copiosi flussi di manodopera straniera (Germania, Svizzera, Francia) e anche in Gran Bretagna gli arrivi dall’estero avevano riguardato fin dall’inizio anche il settore agricolo. Se confrontiamo la situazione italiana negli anni a cavallo tra i Sessanta e i Settanta con gli altri contesti nazionali dove i flussi di immigrazione si erano diffusi in modo robusto nel ventennio precedente balza agli occhi una notevole differenza. In Germania federale, in Svizzera, in Francia, in Gran Bretagna i governi nel ventennio 1945-1965 avevano stretto ripetuti e frequenti accordi con diversi paesi dell’Europa meridionale e non solo che prevedevano l’inserimento degli immigrati soprattutto nelle industrie ma anche in agricoltura. Italiani, turchi, maghrebini, jugoslavi, spagnoli, portoghesi nel quadro di questi accordi erano stati reclutati per recarsi a lavorare nelle campagne europee con contratti stagionali o con incarichi a più lungo termine[5]. L’emigrazione contadina, organizzata all’interno di una cornice istituzionale, aveva rappresentato un canale robusto e non marginale (anche se sui numeri meno significativo) rispetto a quella operaia. D’altra parte durante la ricostruzione e le fasi successive i paesi dell’Europa centrale avevano conosciuto uno sviluppo del settore rurale, legato all’espansione dei consumi, e allo stesso tempo avevano assistito a uno spostamento importante di manodopera dal settore agricolo (che rimaneva quindi parzialmente scoperto) a quello industriale.

Le prime regioni italiane dove arrivano lavoratori immigrati dall’estero invece assorbono in primis manodopera in precisi ambiti piuttosto circoscritti del mercato del lavoro, estranei al settore agricolo: l’esempio più lampante in questo senso è quello della pesca, che rappresenta il primo comparto in cui si inseriscono le migliaia di tunisini che già nella seconda metà degli anni Sessanta si recano a Mazara del Vallo, in provincia di Trapani.

I lavoratori tunisini vengono appositamente selezionati e reclutati dagli armatori del porto siciliano con lo scopo di andare a rimpolpare la manodopera imbarcata sui pescherecci. Molto rapidamente però i tunisini cominciano a spostarsi anche all’interno della provincia di Trapani e tendono o ad affiancare il lavoro nella pesca con quello agricolo o ad abbandonare del tutto il lavoro sui pescherecci per recarsi a lavorare nelle frequenti operazioni di raccolta del circondario.

Ricca soprattutto di uva e di olive, la provincia di Trapani offre in alcune parti dell’anno notevoli opportunità di lavoro agricolo stagionale. Il problema è che al contrario del reclutamento per i pescherecci, inserito in una cornice legale e istituzionale, il lavoro nelle campagne assume immediatamente i contorni di un lavoro “di rimbalzo”, non previsto inizialmente, incentivato non solo da una domanda diffusa da parte dei tunisini ma anche da una offerta particolarmente aggressiva da parte degli agrari siciliani, decisamente soddisfatti di poter contare su una forza lavoro molto disponibile e poco sindacalizzata. Soprattutto, l’impiego dei tunisini nelle campagne viene messo in pratica prevalentemente senza un regolare contratto di lavoro, con condizioni e ingaggi decisamente peggiorativi rispetto a quelli normalmente in vigore. Sono proprio i conflitti nelle campagne a scatenare la prima grande polemica sull’immigrazione, che prende corpo tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta nel Trapanese.

Questo il quadro che propone l’antropologo Antonino Cusumano, uno dei più attenti osservatori dell’epoca:

Per via di un efficace passaparola e di un effettivo bisogno di manodopera andato radicalizzandosi nel corso degli anni – non solo nel settore della pesca, ma anche in quello agricolo – il numero di lavoratori tunisini presenti nell’area andò crescendo rapidamente e regolarmente. Tra l’altro, all’espansione delle presenze straniere sul territorio non erano estranee le politiche migratorie e l’assenza di visti e permessi di soggiorno, erano infatti anni di “apertura” e scarsa custodia dei confini[6].

Cusumano sottolinea al riguardo l’irresponsabilità dei diversi soggetti coinvolti: imprese, istituzioni, sindacati.

I proprietari terrieri hanno assunto sottobanco gli immigrati, preferendo l’impiego di quelle braccia straniere che si presentavano per dei salari da fame piuttosto che quello dei lavoratori siciliani iscritti nelle liste di collocamento […]. Lontane dal promuovere una seria definizione del problema e un accordo specifico tra le forze del lavoro, le autorità competenti hanno nel frattempo provocato, con una politica di lassismo e indugi, il deterioramento della situazione, specie nei rapporti tra gli immigrati e la popolazione locale. La cieca e provocatoria campagna di denunce e di opposizione sostenuta dalle confederazioni sindacali della provincia esplicitamente e unicamente diretta contro i lavoratori tunisini ha favorito l’accendersi e il maturare di un clima di intolleranza e di tensione fra i braccianti, gli operai e la cittadinanza tutta, da una parte, e gli immigrati stranieri, dall’altra[7].

Le testimonianze relative a questa prima fase concordano sulla notevole diffusione di irregolarità e abusi nel reclutamento e nel collocamento della manodopera straniera all’interno dell’agricoltura. Tale situazione suscita già negli anni Sessanta particolare allarme e inquietudine poiché fin dalla fine della seconda guerra mondiale (e anche da molto prima volendo allargare lo sguardo) il tema era stato al centro di conflitti e proteste durissime, che avevano saputo ottenere a duro prezzo una cornice legislativa capace di impedire lo strapotere degli interessi delle proprietà e dei mediatori irregolari nel settore, interessi che però alla lunga non erano stati mai davvero limitati efficacemente. Se infatti sul piano della regolamentazione e dell’istituzionalizzazione del mercato del lavoro erano stati fatti indubbi passi avanti, altrettanto non si poteva dire sull’eliminazione del mercato di piazza, che soprattutto in alcune zone rappresentava il luogo decisivo in cui si incontravano domanda e offerta di lavoro, nonostante le disposizioni governative. La mancanza di rapporti di forza favorevoli a livello sociale per i braccianti, la fine del ciclo di massa delle mobilitazioni, lo sfaldamento del tessuto organizzativo causato dall’emigrazione e dal riflusso determinarono un contesto non favorevole alle lotte dei braccianti, esaurita la fase delle mobilitazioni immediatamente successiva alla guerra[8].

La ripresa delle lotte alla fine degli anni Sessanta si intrecciò con i movimenti studenteschi ed operai e uno scenario del tutto nuovo si presentò di fronte alle organizzazioni bracciantili. Complici i drammatici fatti di Avola del 1968, le campagne tornarono alla ribalta del conflitto politico e sociale e non mancarono spazi e occasioni di intervento anche a livello legislativo.

L’immigrazione straniera, soprattutto in Sicilia, si inserì in questo contesto così delicato e la sua comparsa avvenne parallelamente ad alcune importanti modifiche nel quadro legislativo. Nel 1970 venne approvata la legge n. 83 sul collocamento agricolo, che va inquadrata nel più generale intervento legislativo nel settore del lavoro esemplificato dall’approvazione nello stesso anno della legge n. 300, che introduce lo Statuto dei lavoratori. La legge intendeva rendere meno burocratica e più sostanziale la dinamica della mediazione pubblica e statale nel collocamento agricolo. Non erano più gli uffici del lavoro i protagonisti di questa mediazione ma le commissioni regionali, provinciali e comunali che avevano il compito non solo di coordinare le procedure di collocamento ma anche di stabilire a seconda delle previsioni e delle esigenze produttive dove e come allocare maggiore manodopera. In queste commissioni un ruolo importante era rivestito dai sindacati. Inoltre la legge introduce l’obbligo per le imprese di comunicare annualmente alla commissione regionale il piano colturale aziendale, in modo che la commissione possa predisporre con anticipo la dislocazione della manodopera necessaria. Infine, tra le novità più importanti ricordiamo le sanzioni previste non solo a livello pecuniario per le imprese inadempienti ma anche a livello di esclusione dai finanziamenti pubblici, che nel frattempo erano diventati una voce significativa di entrata per gli imprenditori agricoli. Nonostante il contenuto avanzato, la riforma del 1970 rappresentò un provvedimento dalla complicata applicazione, anche perché il mercato agricolo negli anni successivi conobbe importanti e veloci trasformazioni che ne modificarono molto rapidamente gli assetti, anche in termini di manodopera[9]. Anziché rendere meno burocratica la mediazione istituzionale tra domanda e offerta, la legge allungò i tempi di intervento e ciò favorì il ricorso all’utilizzo di manodopera reclutata fuori dalle regole soprattutto nelle fasi di grande fabbisogno, quali la raccolta stagionale. Gli immigrati stranieri – come citato nel caso di Trapani – iniziarono a essere reclutati proprio in queste fasi, al di fuori delle regole ufficiali.

Il tema delle politiche e dell’ingaggio irregolare non riguarda solo questa prima fase e soprattutto non è una prerogativa esclusiva del caso italiano. Proprio le modalità di inserimento degli stranieri nel comparto agricolo fin dalla prima stagione di sviluppo dei flussi rappresentano un orizzonte comune in tutti quei contesti che gli studiosi hanno accomunato all’interno del cosiddetto “modello mediterraneo di migrazione”. Secondo Giovanna Campani:

L’immigrazione non è stata una conseguenza della richiesta di manodopera da parte del settore industriale che, assieme a quello della costruzione, aveva assorbito l’immigrazione diretta verso l’Europa del nord. In Europa del sud, in assenza di legislazioni specifiche e in presenza di un mercato del lavoro caratterizzato dall’importanza dell’economia informale, il fattore d’attrazione è stato rappresentato, inizialmente, da specifiche “nicchie” del mercato del lavoro – occupazione domestica, pesca, agricoltura stagionale, vendita ambulante, servizi di basso livello – disertate dalla manodopera autoctona[10].

A questo proposito Devi Sacchetto ha affermato che non è casuale che gli immigrati abbiano trovato una collocazione dove era possibile assumerli con retribuzioni basse e condizioni di lavoro penalizzanti, proprio nei settori dove le conquiste legate ai cicli di lotte della seconda metà degli anni Sessanta erano penetrate in modo meno omogeneo e meno dirompente: il lavoro domestico, la pesca, l’agricoltura[11].

In Italia e negli altri paesi mediterranei gli esempi di reclutamento all’estero organizzato su base istituzionale di manodopera diretta verso le campagne sono rarissimi fino agli anni Novanta e continueranno a rappresentare una quota estremamente minoritaria dei volumi di lavoro migrante.

3.       Il consolidamento

Nel corso degli anni Settanta possiamo individuare il superamento della fase iniziale dei flussi, che iniziano a essere diretti non più solo verso precise aree geografiche ma in maniera piuttosto articolata sull’intero territorio nazionale. Se nella prima fase le tracce della presenza straniera in agricoltura erano individuabili sostanzialmente solo in quelle regioni quali Sicilia e Friuli Venezia Giulia dove si erano indirizzati la maggior parte dei flussi in ingresso, in questa fase le tracce di lavoratori stranieri sono individuabili in molti altri contesti.

Una testimonianza relativa all’Emilia Romagna (pubblicata sul “Bollettino diocesano” di Parma) nel 1977 mette in evidenza come l’inserimento degli stranieri fosse legato alla parallela ripartenza degli emigranti provenienti dall’Italia meridionale. Proprio in riferimento all’agricoltura, viene suggerita un’ipotesi che lascerebbe pensare a un vero e proprio avvicendamento migratorio: gli stranieri sarebbero arrivati a seguito della partenza di “quei sardi e meridionali che erano venuti ultimamente a rimpiazzare i vuoti lasciati liberi e che ora, o a causa dei disagi provocati dalla mancanza di infrastrutture e di servizi adeguati reperibili sul posto o, in altri casi, per il ritorno alla terra di origine una volta racimolato il gruzzoletto necessario, non sono più sufficienti a coprire l’offerta di lavoro agricolo in regione”[12].

Ma l’Emilia Romagna non è la sola regione dove vengono segnalate presenze nuove nel mercato del lavoro agricolo. Lombardia, Piemonte, Umbria, Lazio, Campania, Puglia, Toscana, Sardegna: l’allargamento è notevole e diffuso al nord come al centro e al sud. In Sardegna ad esempio nel 1972 emerge a seguito di una indagine della magistratura l’impiego irregolare di lavoratori nelle campagne del Campidano, come racconta un articolo tratto da “l’Unità”.

Un gigantesco commercio di tipo praticamente schiavista sta per venire alla luce in Sardegna. Già da tempo si avevano notizie di emigrati tunisini che sbarcavano nell’lsola per essere assunti, in cambio del vitto e dell’alloggio, presso aziende agricole del Sarrabus, del Campidano e di altre zone della provincia. Ora la polizia di frontiera ha impedito lo sbarco di quattro braccianti di Tunisi. I giovani — che si dichiaravano “turisti” pur non avendo dei mezzi di sostentamento — non hanno ottenuto il visto dl Ingresso in Italia e sono stati fatti proseguire, a bordo della motonave Calabria, per Genova. Con la stessa nave nei prossimi giorni torneranno a Cagliari, per essere rispediti in Tunisia. II commissario Canessa, il primo appuntato Piras e l’agente Bono già da qualche settimana nutrivano dei sospetti sul “traffico di braccia” dai paesi arabi alla Sardegna. “Ogni mercoledi — sostengono gli inquirenti — arrivavano a Cagliari dei lavoratori stranieri provenienti dalla Tunisia e venivano avviati nelle zone interne, ingaggiati per lavorare nel campi in cambio di un piatto di minestra e di qualche migliaio di lire». Siamo, come si vede, di fronte ad una tratta di lavoratori” in grande stile. Ma da chi viene organizzata e perché le autorità di polizia hanno scoperto soltanto adesso il commercio di uomini? In questura rispondono che sono in corso indagini per stabilire quale fosse la destinazione dei giovani tunisini e scoprire la dislocazione di eventuali “campi di lavoro” dove si sfrutta la mano d’opera araba. Mentre la disoccupazione cresce quotidianamente in Sardegna, vi sono evidentemente degli imprenditori che assumono — si dice addirittura senza salario — questi lavoratori stranieri, ai quali probabilmente si fa intravedere il miraggio di un posto retribuito per poi metterli di fronte al “prendere o lasciare”. La tratta dei tunisini ha avuto inizio alcuni anni fa, quando si sono insediati in Sardegna i coloni italiani cacciati dal Medio Oriente e dall’Africa[13].

L’articolo dell’Unità apre numerose possibilità agli studiosi che oggi si interessano al susseguirsi della storia delle migrazioni, poiché rivela la profonda interconnessione tra movimenti diversi tra loro, quali il rientro dei coloni e il reclutamento di braccianti stranieri. Si può anche ipotizzare che la funzione di richiamo verso i lavoratori stranieri svolta dagli ex coloni di ritorno non rappresenti una prerogativa solo sarda ma sia avvenuta anche in altri contesti, quali quello siciliano.

Il documento più ricco di stimoli per descrivere questa fase è il Rapporto sui lavoratori stranieri in Italia redatto dal Censis nel 1978[14]. Gli estensori del Rapporto sottolineano come l’agricoltura rappresenti un settore molto difficile da indagare poiché l’impiego di manodopera è accompagnato da fenomeni di elusione delle regole. I dati sui singoli permessi di soggiorno mettono in evidenza la notevole sottorappresentazione del lavoro agricolo. Il Rapporto stima complessivamente la presenza straniera in Italia al 1978 attorno ai 400.000 lavoratori e lavoratrici, ma i dati sui permessi di soggiorno aggiornati al 1976 segnalano solo 557 lavoratori avviati nel settore agricolo. Una sproporzione così evidente era probabilmente il frutto della presenza di lavoro sommerso, non regolare.

La sezione del Rapporto dedicata alle indagini di campo si concentra sull’agricoltura soprattutto per quanto riguarda il Friuli Venezia Giulia e la Sicilia. In Friuli vengono segnalati circa un migliaio di lavoratori, soprattutto nel Carso, prevalentemente di origine jugoslava. Sono persone che svolgono attività stagionali sia di raccolta sia di impiego nell’allevamento. L’indagine descrive anche la presenza di immigrati jugoslavi che dopo aver acquistato terreno situati nelle zone di confine hanno avviato attività agricole come piccoli proprietari. In Sicilia il Rapporto si sofferma sulla provincia di Trapani, segnalando il “boom” nel settore agricolo cui abbiamo già accennato in precedenza.

Nel corso degli anni Ottanta si moltiplicano le inchieste e le analisi sul ruolo dell’immigrazione nel mercato del lavoro agricolo. Nel 1984 e nel 1985 Francesco Calvanese ed Enrico Pugliese si concentrano sulla specificità meridionale e iniziano a soffermarsi sul fenomeno che più di ogni altro alla metà del decennio suscita l’interesse degli studiosi: il coinvolgimento dei braccianti stranieri nelle stagioni di raccolta dell’agricoltura intensiva[15]. Pugliese analizzando proprio il settore rurale propone di fare un passo in avanti nella lettura che fino a quel momento aveva dominato lo sguardo sull’immigrazione: il paradigma sostitutivo. Non basta sostenere che gli stranieri svolgono lavori che “gli italiani non vogliono più fare” ma occorre penetrare più a fondo nella questione. A suo avviso, è anche il settore agricolo a dimostrare che gli stranieri “non tanto occupano posti di lavoro rifiutati dai lavoratori nazionali, quanto accettano condizioni di lavoro che questi ultimi tentano di evitare, perché collocate al di sotto del livello di garanzia, di sicurezza, di reddito e di protezione considerato accettabile nell’attuale fase di sviluppo sociale”.

Nel 1989 la morte di Jerry Masslo nelle campagne del Casertano contribuisce a rafforzare il percorso di visibilità del lavoro migrante nei contesti agricoli. La questione entra prepotentemente e drammaticamente nel dibattito pubblico.

Gli studiosi di storia contemporanea hanno recentemente approfondito questo momento di svolta. La morte di Masslo, le sue cause e le sue conseguenze si possono considerare come il primo nodo che la storiografia ha affrontato a proposito del rapporto tra immigrazione e lavoro agricolo[16]. Esule sudafricano, viene ucciso il 24 agosto 1989 durante un tentativo di rapina a Vico Gallinelle, una delle strade dove si affollavano all’interno di alloggi precari centinaia e centinaia di immigrati stranieri. Un gruppetto di giovani provenienti dal paese lo finisce a colpi di pistola, nel tentativo di impadronirsi dei soldi che gli immigrati tenevano con loro dopo essere stati pagati sui campi[17]. La reazione all’omicidio è fortissima: la fine degli anni Ottanta segna in modo definitivo l’ingresso del bracciantato migrante nel dibattito politico nazionale. L’intenso ciclo di mobilitazioni del 1989-1990 porta all’approvazione della legge Martelli, la prima legge organica sull’immigrazione. I braccianti di origine africana, amici e compagni di Masslo, sono tra i protagonisti di queste mobilitazioni. Le loro iniziative, sostenute dal nascente movimento antirazzista, hanno un effetto dirompente, a partire dalla Campania. Questo il testo del volantino che distribuiscono a un mese dall’omicidio, quando il primo sciopero di braccianti stranieri paralizza per un giorno la raccolta agricola della zona.

Noi immigrati clandestini siamo venuti in questo paese non solo spinti dalla miseria ma anche dal desiderio di vivere in un luogo dove i diritti umani e del lavoro siano rispettati. Purtroppo, in questa terra, la lentezza dei poteri pubblici ha reso difficile la realizzazione dì questo sogno. L’incomprensione, l’atteggiamento di alcuni nei nostri confronti, ha reso difficile la nostra permanenza qui, in questo paese di emigranti che adesso ci accoglie, sempre più spesso con ostilità se non con odio, anche per il colore della nostra pelle. La nostra condizione di clandestini permette a datori di lavoro disonesti e alla criminalità organizzata di usarci per mettere in pericolo i diritti che, voi lavoratori italiani, avete saputo conquistare sin dalla Resistenza. Sappiamo che l’ostilità che ci è stata a volte dimostrata è dettata dalla paura e non dalla malvagità. Noi, immigrati clandestini, non siamo perciò disposti ad essere strumento per far arretrare i vostri diritti. Per questi motivi oggi scendiamo in sciopero. Chiediamo di appoggiarci in questa lotta[18].

Dobbiamo tuttavia segnalare che l’approccio privilegiato per affrontare questa vicenda ha generalmente evitato di contestualizzare storicamente il tema del reclutamento, del collocamento e del lavoro migrante in agricoltura, concentrandosi più che altro sui limiti della legislazione italiana in tema di diritto di asilo (Masslo pur proveniente dal Sudafrica dell’apartheid non aveva i requisiti per richiedere lo status di rifugiato), sul razzismo e sullo sfruttamento intensivo di manodopera. Proprio la zona di Villa Literno – luogo in cui Masslo lavorava e in cui venne ucciso – si presta a una rilettura in chiave storica delle continuità e delle rotture nelle modalità di reclutamento e avviamento al lavoro del bracciantato, modalità dominate almeno in tutta l’età contemporanea dallo strapotere dei mediatori illegittimi di manodopera: i cosiddetti “caporali”.

Fino agli anni Ottanta la manodopera che affluiva a Villa Literno era formata prevalentemente da lavoratori e lavoratrici italiane, provenienti generalmente dai paesi del circondario[19]. La svolta degli anni Ottanta ha un carattere duplice: cambia rapidamente la filiera produttiva e arrivano i lavoratori stranieri. Nel giro di pochi anni alla coltivazione di alberi da frutta si sostituisce il pomodoro, aiutato dai finanziamenti europei e governativi. Nei mesi estivi la produzione di pomodoro conosce un picco eccezionale di bisogno di manodopera, soddisfatto da lavoratori che giungono dall’Africa settentrionale e meridionale. La letteratura scientifica ha inizialmente sottovalutato il nesso tra trasformazioni produttive e cambiamenti migratori. Solo negli ultimi 15 anni tale legame è stato svelato e approfondito. Gli studi rivelano che la dinamica non riguarda solo il Mezzogiorno ma è estesa a tutto il territorio nazionale. Non sono solo le attività di raccolta nelle aree intensive a conoscere il lavoro straniero ma anche le attività di sistemazione, potatura, semina, manutenzione, pulizia. Inoltre, a fianco al settore agricolo diventa sempre più importante anche il coinvolgimento nell’allevamento. Due esempi al riguardo possono esemplificare il percorso.

Il primo è una lunga e documentata inchiesta giornalistica, in cui Giulio Di Luzio ha descritto nel dettaglio le trasformazioni sociali ed economiche della provincia di Caserta[20], concentrandosi in particolare sull’intreccio tra agricoltura e immigrazione, ma guardando anche al ruolo giocato dalle organizzazioni criminali. Il secondo è il volume La globalizzazione delle campagne, dove una serie di indagini sociologiche hanno svelato la profondità del rapporto tra l’internazionalizzazione economica delle filiere produttive agricole e la formazione di un mercato del lavoro dominato dal bracciantato di origine straniera[21].

Tornando alla fase post-1989, possiamo notare che nel corso degli anni Novanta il tema del lavoro agricolo degli immigrati suscita molta attenzione e si moltiplicano gli studi che cercano di mapparne consistenza e caratteristiche. In estrema sintesi, possiamo riassumere attorno a tre orizzonti le analisi che emergono.

Il primo è relativo alla dimensione territoriale. Le statistiche del 1997 ad esempio segnalano che la regione in cui gli uffici del lavoro hanno autorizzato maggiormente l’impiego di stranieri in agricoltura è il Veneto (6.388), seguito da Sicilia (6.275), Emilia Romagna (4.889), Toscana (3.442), Trentino Alto Adige (2.581), Lazio (2.257)[22]. Sicuramente sulle statistiche pesano le elusioni e le irregolarità molto diffuse in alcune regioni meridionali, ma la presenza di numeri così alti al centro-nord rappresenta una indicazione molto chiara rispetto alla diffusione nazionale.

Il secondo orizzonte è quello relativo alla irregolarità. La letteratura scientifica degli anni Novanta e le successive ricostruzioni storiche hanno sottolineato come i contesti rurali abbiano in qualche modo rappresentato il terreno di verifica più evidente di tutte le anomalie e le contraddizioni delle politiche migratorie italiane. Nonostante le quote annuali di lavoro stagionale e nonostante le periodiche regolarizzazioni, la quantità di persone reclutate e avviate al lavoro in agricoltura al di fuori dei canali previsti dalla legge rimane sempre molto alta[23].

Il terzo orizzonte è quello relativo al rapporto col sindacato. Le analisi e gli studi mettono in evidenza già negli anni Novanta le difficoltà, i problemi, le incomprensioni tra il mondo sindacale impegnato nei contesti rurali e l’immigrazione straniera[24].

4.       La “rivoluzione”

La fase del consolidamento porta dunque tra gli anni Settanta e gli anni Novanta non solo alla crescita progressiva degli addetti ma anche alla complessiva strutturazione di un dibattito politico e scientifico attorno al lavoro degli stranieri nell’agricoltura italiana. Un tema come abbiamo visto di portata nazionale, che si collega a numerosi altri nodi centrali della storia dei territori interessati: le trasformazioni produttive, l’utilizzo in forme irregolari del lavoro, le problematiche legate all’approccio sindacale, i cambiamenti nella composizione sociale dei luoghi, i nuovi confini tra città e campagna, la riorganizzazione delle filiere, il conflitto sociale.

Nel corso degli anni compresi tra il 2000 e il 2010 maturano nuove e decisive accelerazioni, innanzitutto nel generale inserimento degli immigrati nel mercato del lavoro.

Tra il 2001 e il 2010 le forze di lavoro straniere stimate dall’Istat sono triplicate: da 724.000 unità a 2,3 milioni di unità. Nello stesso periodo gli occupati stranieri sono passati da 636.000 a 2,1 milioni. Se nel 2005 la percentuale di stranieri occupati era di poco superiore al 5% sul totale degli occupati, nel 2011 tale percentuale era di fatto raddoppiata, raggiungendo il 10,2%. Prendendo come punti di osservazione il 2005 (ormai lontano dalla regolarizzazione del 2002) e il 2008, prima dell’esplosione della crisi, l’aumento è ancora più significativo: in soli 3 anni la manodopera straniera in Italia è aumentata del 14,4%, mentre quella italiana solo dello 0,4%. Nel 2008 l’Italia ha una percentuale di occupati stranieri sul totale degli occupati superiore alla media della neonata Unione Europea a 27 Stati: il 7,5% contro il 6,7% della media europea. Una percentuale stabilmente superiore a paesi di più antica tradizione migratoria quali la Francia, dove la percentuale si attestava al 5,2%. Si tratta di dati che testimoniano una trasformazione epocale nel mercato del lavoro, con ricadute molto importanti a più livelli[25].

L’impatto sull’agricoltura è molto forte, ma rispetto ai dati statistici possiamo notare che è leggermente più spostato in avanti nel tempo. Gli anni che segnano una impennata senza precedenti sono quelli tra il 2008 e il 2017. Analizzando i dati forniti dall’Inps solo a proposito della categoria degli “operai agricoli” notiamo un notevole mutamento. Se nel 2008 gli operai agricoli stranieri erano 268.273, nel 2017 erano saliti a 364.385. Tra loro, erano però aumentati enormemente i reclutati con contratti a termine (da 245.773 a 343.977) ed erano diminuiti i titolari a tempo indeterminato (da 26.559 a 23.222). Nello stesso periodo è calata l’incidenza degli operai agricoli italiani, che nel 2008 erano il 74,13% mentre nel 2017 erano scesi al 65,62%[26].

L’aumento complessivo degli addetti stranieri non ha modificato in questi anni più recenti le prime nove nazionalità di origine. Nel 2017 i più rappresentati sono i lavoratori di nazionalità rumena, seguiti da marocchini, indiani, albanesi, polacchi, tunisini, bulgari, senegalesi, cinesi. Sia nel 2008 sia nel 2017 la componente rumena è di gran lunga quella maggioritaria (nel 2017 110.525 operai su 364.385). Partendo da questo dato possiamo delineare sinteticamente le origini e le interpretazioni di questa grande trasformazione, accennando soltanto a due punti.

La prima questione che dobbiamo evidenziare è legata all’allargamento a est dell’Unione europea, con l’inserimento nel 2007 di Romania e Bulgaria. Tale processo ha naturalmente favorito i flussi migratori – soprattutto stagionali – provenienti da questi paesi, contribuendo a una progressiva europeizzazione del lavoro migrante in agricoltura, fenomeno iniziato in realtà piuttosto tardi. È infatti solo nel corso degli anni Novanta che prendono corpo movimenti significativi provenienti dall’Europa dell’est verso il settore, dove fino a quel momento l’immagine del lavoratore straniero predominante era quella dell’operaio nordafricano o subsahariano.

Un’altra questione importante è legata agli effetti della crisi economica internazionale iniziata proprio nel 2008. La letteratura scientifica che ha approfondito questo legame ha evidenziato come negli anni della crisi si sia verificato uno spostamento di manodopera di origine straniera dal settore industriale verso il settore agricolo.

Gli anni della “rivoluzione” non sono solo anni in cui possiamo registrare statisticamente l’aumento degli addetti ma sono anche anni in cui il mondo delle campagne conosce fenomeni sempre più significativi di conflittualità sociale a partire proprio dalla componente di origine straniera. Più in generale, sono anni in cui il tema del lavoro nelle campagne si intreccia sempre di più all’immigrazione straniera ed entra in modo strutturale nel dibattito pubblico. L’evento centrale per capire questa dinamica è la rivolta di Rosarno del 2010.

Ai margini e all’interno della città vivevano migliaia di lavoratori immigrati impegnati in agricoltura come braccianti e reclutati per la raccolta nei numerosi agrumeti della zona. Le loro condizioni di vita e di lavoro sono particolarmente critiche: vivono in tendopoli e in alloggiamenti spontanei, vengono impiegati frequentemente senza contratto di lavoro, hanno difficoltà ad accedere a diritti fondamentali quali la sanità, la casa, l’acqua corrente, l’elettricità. Già prima del 2010 i braccianti si erano organizzati per protestare e portare la loro condizione di fronte alle istituzioni. Nel 2010 la protesta scaturisce da una serie di aggressioni fisiche subite dai braccianti africani e culminate nel ferimento di tre di loro, colpiti il 7 gennaio con un’arma ad aria compressa durante il rientro dal lavoro. Le successive manifestazioni di protesta organizzate dai lavoratori immigrati vengono duramente attaccate sia dalle forze dell’ordine sia da una parte della popolazione locale: per tre giorni si susseguono spedizioni punitive, gambizzazioni, aggressioni che colpiscono prevalentemente gli immigrati[27]. La pacificazione nella città viene raggiunta solo grazie all’allontanamento coatto della maggior parte degli immigrati: alcuni vengono rinchiusi nei Cie, molti altri vengono di fatto costretti a partire e ad allontanarsi dalla Calabria. Successivamente, soprattutto a Roma, i lavoratori reduci dall’esperienza di Rosarno continueranno a organizzare iniziative per rivendicare i propri diritti e denunciare la condizione di sfruttamento particolarmente pesante in ambito agricolo. Questo un passaggio tratto dal documento di costituzione dell’Assemblea dei lavoratori africani di Rosarno a Roma:

Ci siamo fatti vedere, siamo scesi per strada per gridare la nostra esistenza. La gente non voleva vederci. Come può manifestare qualcuno che non esiste? Le autorità e le forze dell’ordine sono arrivate e ci hanno deportati dalla città perché non eravamo più al sicuro. Gli abitanti di Rosarno si sono messi a darci la caccia, a linciarci, questa volta organizzati in vere e proprie squadre di caccia all’uomo. Siamo stati rinchiusi nei centri di detenzione per immigrati. Molti di noi ci sono ancora, altri sono tornati in Africa, altri sono sparpagliati nelle città del Sud. Noi siamo a Roma. Oggi ci ritroviamo senza lavoro, senza un posto dove dormire, senza i nostri bagagli e con i salari ancora non pagati nelle mani dei nostri sfruttatori. Noi diciamo di essere degli attori della vita economica di questo paese, le cui autorità non vogliono né vederci né ascoltarci. I mandarini, le olive, le arance non cadono dal cielo. Sono delle mani che li raccolgono. Eravamo riusciti a trovare un lavoro che abbiamo perduto semplicemente perché abbiamo domandato di essere trattati come esseri umani. Non siamo venuti in Italia per fare i turisti. Il nostro lavoro e il nostro sudore servono all’Italia come serve alle nostre famiglie che hanno riposto in noi molte speranze. Domandiamo alle autorità di questo paese di incontrarci e di ascoltare le nostre richieste: domandiamo che il permesso di soggiorno concesso per motive umanitari agli 11 africani feriti a Rosarno, sia accordato anche a tutti noi, vittime dello sfruttamento e della nostra condizione irregolare che ci ha lasciato senza lavoro, abbandonati e dimenticati per strada; vogliamo che il governo di questo paese si assuma le sue responsabilità e ci garantisca la possibilità di lavorare con dignità[28].

La vicenda di Rosarno ha contribuito a stimolare ulteriormente il dibattito scientifico, insieme naturalmente al tema già richiamato dell’espansione della presenza straniera nel settore. Volendo sintetizzare in modo molto riassuntivo le principali tendenze di tale dibattito, possiamo isolare sei questioni, con lo scopo di restituire le forme e i modi con cui gli studiosi hanno analizzato questa fase più recente.

Innanzitutto, la territorializzazione della questione. Gli studi hanno iniziato a proporre una ricostruzione sistematica delle aree – al sud come al centro-nord – in cui si manifestano situazioni di insediamento dell’immigrazione straniera a partire dalla disponibilità di lavoro agricolo in alcune parti dell’anno[29]. Partiti dal focus sull’agricoltura, inevitabilmente si sono estesi ad altri contesti di mercato del lavoro e anche al di fuori del tema del lavoro. Gli insediamenti si presentano con caratteristiche simili solo apparentemente, in generale possiamo parlare di alcuni tratti comuni quali la precarietà alloggiativa, lo sfruttamento lavorativo, la mediazione irregolare di manodopera. Dal punto di vista storico il nodo della territorializzazione presenta eccezionali potenzialità di conoscenza, poiché le aree coinvolte sono in alcuni casi le stesse dove il bracciantato migrante era presente da molto tempo, addirittura dall’età moderna.

In secondo luogo, la “profughizzazione” del lavoro agricolo. Negli anni successivi alla crisi economica del 2008 ci troviamo di fronte a numerose trasformazioni dei movimenti di popolazione, che si intrecciano alle conseguenze dei nuovi conflitti in Medio Oriente. Il nuovo contesto migratorio rende, soprattutto nel caso italiano, molto più diffusa del passato la figura del richiedente asilo, del rifugiato, del profugo politico non riconosciuto, del soggetto tutelato da protezione umanitaria[30]. Molte di queste figure hanno iniziato a rivolgersi sistematicamente al mercato del lavoro agricolo per affrontare le esigenze di sostentamento, soprattutto in presenza di un meccanismo inesorabile di chiusura delle politiche migratorie, culminato nei decreti Minniti (2017) e Salvini (2018). L’intreccio tra la disponibilità sempre maggiore di manodopera impossibilitata ad accedere ai canali regolari di reclutamento e la parallela restrizione delle politiche legate ai flussi stagionali ha aumentato ulteriormente la pressione sulle aree agricole interessate al lavoro stagionale. Un ruolo importante in questo senso è stato svolto anche dalla collocazione di grandi centri di accoglienza in prossimità di aree a forte vocazione agricola, citiamo ad esempio i casi di Borgo Mezzanone (Foggia) e Mineo (Catania)[31].

In terzo luogo, la crisi complessiva del sistema di collocamento pubblico del lavoro e del sistema ispettivo. Il contesto del lavoro agricolo si può leggere come uno dei laboratori più avanzati del processo di precarizzazione del lavoro e della dilagante ritirata degli attori pubblici nella gestione di tutto il comparto. Già una quindicina di anni fa Stefano Musso aveva opportunamente descritto l’inesorabile parabola discendente del collocamento pubblico, sempre più incapace di garantire la mediazione tra domanda e offerta di lavoro[32]. Successivamente, l’equilibrio si è ulteriormente spostato a favore di soggetti privati autorizzati (agenzie, cooperative, società) o proprio a favore di soggetti che agiscono del tutto al di fuori dei canali regolari. Allo stesso tempo la funzione e la capacità di intervento degli ispettorati del lavoro ha perso terreno, sia in termini di organizzazione (a causa dei numerosi tagli alla spesa) sia come efficacia: nelle campagne gli effetti di questi processi sono stati particolarmente dirompenti, in particolare sulla forza lavoro di origine straniera. Ma anche il bracciantato italiano ha subito queste trasformazioni: la morte nelle campagne pugliesi di Paola Clemente nel 2015 e Giuseppina Spagnoletti nel 2017 ha attirato l’attenzione del dibattito pubblico, rendendola generalizzata al di fuori del discorso sull’immigrazione.

In quarto luogo, la determinazione politica dei lavoratori e delle lavoratrici di origine straniera. Il caso di Masslo e dei suoi compagni, come pure la vicenda di Rosarno, non sono eccezioni. Negli ultimi trent’anni il mondo delle campagne ha conosciuto numerose mobilitazioni scaturite a partire dalle condizioni di lavoro e di alloggio dei cittadini stranieri. In alcuni casi queste iniziative hanno trovato sostegno da parte dei sindacati (sia confederali sia di base) o da parte di associazioni, mentre in altri casi hanno proseguito in modo autonomo. Una cesura importante in queste mobilitazioni è lo sciopero di Nardò (Lecce) dell’agosto 2011, quando i braccianti impegnati nella raccolta delle angurie e del pomodoro decidono di incrociare le braccia in massa per due settimane: una mobilitazione di circa 400 persone che mette in crisi il modello produttivo basato sul caporalato[33]. Il tema della determinazione politica non è solo declinabile attraverso il susseguirsi delle manifestazioni e delle proteste. Dobbiamo infatti ricordare che molte inchieste giudiziarie che hanno svelato situazioni di grave sfruttamento sono nate da denunce presentate da cittadini stranieri.

In quinto luogo, lo slittamento verso la lettura “umanitaria” del fenomeno. L’attenzione sulle condizioni pesantissime di sfruttamento e di alloggio, la formazione e la moltiplicazione dei ghetti, il coinvolgimento sempre più diffuso delle organizzazioni umanitarie hanno finito – secondo alcuni osservatori – per favorire una visione dell’immigrazione straniera nei contesti agricoli che non ha più al centro il tema del lavoro. Tale visione è invece basata sul disagio dei soggetti, senza la necessaria consapevolezza delle origini di tale disagio, che evidentemente gettano le basi su una particolare articolazione sui territori del mercato del lavoro agricolo[34].

In sesto luogo, la crescente importanza della riflessione sulle filiere. Il tema del lavoro rurale è stato associato in modo sempre più frequente alla dinamica di sviluppo di alcune filiere, che partono dai prodotti agricoli ma che poi organizzano la distribuzione e la vendita coinvolgendo una grande pluralità di attori: la logistica, la conservazione, la trasformazione, la vendita[35]. Ricomporre a partire dalla filiera il tema del lavoro agricolo significa effettivamente costruire nessi e legami che permettono di andare oltre alla dimensione locale dei mercati del lavoro. Si tratta di legami che assumono spesso una dimensione che va ben oltre quella dei distretti agricoli ma assume un respiro nazionale e internazionale.

5.       Conclusioni

Rileggere la storia dell’Italia repubblicana e la storia dell’agricoltura italiana alla luce della centralità sempre maggiore dell’immigrazione straniera è oggi quantomai importante. Mantenere questi due piani separati ci impedirebbe di comprendere dentro tutta la vicenda il ruolo crescente del bracciantato di origine straniera. Con maggiori sforzi in termini di organizzazione e condivisione dei percorsi di ricerca, l’interazione tra studi storici e scienze sociali potrà garantire un avanzamento notevole delle conoscenze, indispensabile per favorire ancora di più la comprensione di un segmento sociale ed economico decisamente non marginale nella storia dell’Italia contemporanea.


[1]           Alessandro Leogrande, Uomini e caporali. Viaggio tra i nuovi schiavi nelle campagne del sud, Milano, Mondadori, 2008, p. 22.

[2]           Lucio Pisacane, Lavoratori immigrati nell’agricoltura italiana: numeri e sfide verso una prospettiva di integrazione, in Migrazioni e integrazioni nell’Italia di oggi, a cura di Corrado Bonifazi, Roma, Irpps-Cnr, p. 159.

[3]           Per uno sguardo più approfondito mi permetto di rinviare a Michele Colucci, Storia dell’immigrazione straniera in Italia. Dal 1945 ai nostri giorni, Roma, Carocci, 2018.

[4]           Sergio Bontempelli, Il governo dell’immigrazione in Italia: il caso dei “decreti flussi”, in Tutela dei diritti dei migranti, a cura di Pierluigi Consorti, Pisa, Plus, pp. 115-136.

[5]           Sarah Collinson, Le migrazioni internazionali e l’Europa, Bologna, Il Mulino, 1994.

[6]           Antonino Cusumano, Il ritorno infelice: i tunisini in Sicilia, Palermo, Sellerio, 1976, p. 6.

[7]           Ibid., p. 26.

[8]           Stefano Musso, Le regole e l’elusione. Il governo del mercato del lavoro nell’industrializzazione italiana, 1888-2003, Torino, Rosenberg & Sellier, 2012; Michele Colucci – Stefano Gallo, Agricoltura, conflitto e collocamento: 1950-2003, in Agromafie e caporalato. Quarto rapporto, a cura di Osservatorio Placido Rizzotto, Roma, Bibliotheka edizioni, 2018, pp. 69-79.

[9]           Massimiliano D’Alessio, Evoluzione del collocamento e del mercato del lavoro in agricoltura, “Mercato del lavoro e agricoltura”, 12 (2012), p. 13.

[10]          Giovanna Campani, Dalle minoranze agli immigrati. La questione del pluralismo culturale e religioso in Italia, Milano, Unicopli, 2008, p. 182.

[11]          Devi Sacchetto, Migrazioni e lavoro nella sociologia italiana, in Movimenti indisciplinati. Migrazioni, migranti e discipline scientifiche, a cura di Sandro Mezzadra – Maurizio Ricciardi, Verona, Ombre Corte, 2013, pp. 50-67.

[12]          Carlo Casella, Nonostante tutto importiamo operai stranieri, “Dossier Europa emigrazione”, 12 (1977), pp. 7-9.

[13]          Ignobile racket di lavoratori tunisini, “l’Unità”, 6 ottobre 1972, p. 5.

[14]          Censis, I lavoratori stranieri in Italia: studio elaborato dal Censis nel 1978, Roma, Istituto poligrafico e Zecca dello Stato, 1979.

[15]          Francesco Calvanese, Gli immigrati in Campania, Roma, Filef, 1983; Enrico Pugliese, Quale lavoro per gli stranieri in Italia?, “Politica ed economia”, 9 (1985), pp. 69-76.

[16]          Si vedano: Valerio De Cesaris, Il grande sbarco. L’Italia e la scoperta dell’immigrazione, Milano, Guerini e Associati, 2018; Roberto Bianchi, Piazza Senegal, Firenze 1990. Uno sciopero della fame tra storia e memoria, “Italia contemporanea”, 288 (2019), pp. 209-235; M. Colucci, Storia dell’immigrazione straniera, cit; Luca Einaudi, Le politiche dell’immigrazione in Italia dall’Unità a oggi, Roma-Bari, Laterza, 2017.

[17]          Per approfondire tutta la vicenda si veda Giulio Di Luzio, A un passo dal sogno. Gli avvenimenti che hanno cambiato la storia dell’immigrazione in Italia, Nardò, Besa, 2006.

[18]          Appello ai lavoratori bianchi, “l’Unità”, 21 settembre 1989, p. 11.

[19]          Per una definizione precisa e una prospettiva critica anche in chiave storica si veda Mimmo Perrotta, Vecchi e nuovi mediatori. Storia, geografia ed etnografia del nuovo caporalato in agricoltura, “Meridiana”, 79 (2014), pp. 193-220.

[20]          Giulio Di Luzio, A una passo dal sogno, cit.

[21]          La globalizzazione delle campagne. Migranti e società rurali nel Sud Italia, a cura di Alessandra Corrado, Carlo Colloca, Mimmo Perrotta, Milano, Franco Angeli, 2013.

[22]          Fondazione Ismu, Quarto rapporto sulle migrazioni, Milano, Franco Angeli, 1998, p. 94.

[23]          Franco Pittau, Carla Alessandrelli, Paolo Bocchini, La regolarizzazione dei lavoratori extracomunitari ex decreto-legge 489/1995 nel panorama delle migrazioni in Italia, “Studi Emigrazione”, 126 (1997), pp. 269-283; Giovanna Campani, Francesco Carchedi e Giovanni Mottura, Flessibilità e regolarizzazione. Aspetti e problemi del lavoro stagionale degli immigrati in Italia, “Studi Emigrazione”, 122 (1996), pp. 199-222.

[24]          Cnel, Immigrazione e tessuto delle rappresentanze, Roma, Cnel, 1993; Stefano Allievi, Immigrazione e sindacato: un rapporto incompiuto, “Sociologia del lavoro”, 64 (1996), pp. 153-169; Giovanni Mottura e Pietro Pinto, Immigrazione e cambiamento sociale. Strategie sindacali e lavoro straniero in Italia, Roma, Ediesse, 1996.

[25]          Ministero del lavoro e delle politiche sociali, Direzione generale immigrazione e politiche di integrazione, Secondo rapporto annuale sul mercato del lavoro degli immigrati, Roma, Ministero del lavoro e delle politiche sociali, 2012.

[26]          CREA, Il contributo dei lavoratori stranieri all’agricoltura italiana, a cura di Maria Carmela Macrì, Roma, Centro di ricerca Politiche e Bio-economia, 2019, disponibile on line: https://www.bancheimprese.it/images/crea_1.pdf.

[27]          Antonello Mangano, Gli africani salveranno l’Italia, Milano, Rizzoli, 2010.

[28]          Si veda: http://www.meltingpot.org/Comunicato-dei-lavoratori-immigrati-di-Rosarno.html#.WuGf9Je-msw.

[29]          Per un riepilogo delle situazioni a livello nazionale si vedano le quattro edizioni del Rapporto Agromafie e caporalato pubblicate dall’Osservatorio Placido Rizzotto.

[30]          Nick Dines ed Enrica Rigo, Postcolonial Citizenships and the “Refugeeization” of the Workforce: Migrant Agricultural Labor in the Italian Mezzogiorno, in Postcolonial Transitions in Europe: Contexts, Practices and Politics, a cura di Sandra Ponzanesi – Gianmaria Colpani, London, Rowman and Littlefield, 2015, pp. 151-172.

[31]          Per una panoramica sul tema dell’accoglienza si veda: Il sistema di accoglienza in Italia. Esperienze, resistenze, segregazione, a cura di Gennaro Avallone, Nocera Inferiore, Othotes, 2018.

[32]          S. Musso, Le regole e l’elusione cit.

[33]          Brigate di solidarietà attiva ed altri, Sulla pelle viva. Nardò, la lotta autorganizzata dei braccianti immigrati, Roma, Derive Approdi, 2012.

[34]          Enrica Rigo, Introduzione. Lo sfruttamento come modo di produzione, in Leggi, migranti e caporali. Prospettive critiche di ricerca sullo sfruttamento del lavoro in agricoltura, a cura di Ead., Pisa, Pacini, 2015, pp. 5-14; Nick Dines, Humanitarian reason and the representation and management of migrant agricultural labour, “Theomai”, 38 (2018), disponibile on line: https://www.redalyc.org/jatsRepo/124/12455418004/html/index.html.

[35]          Il frutto più maturo di questo filone di ricerca è il fascicolo 93 (2018) della rivista “Meridiana”, Agricolture e cibo, a cura di Alessandra Corrado, Martina Lo Cascio e Mimmo Perrotta.