Comitati Consolari, Coemit, Comites. CCIE. e CGIE. La difficile rappresentanza dell’emigrazione italiana

  1. L’evoluzione della rappresentanza

I Comitati consolari e il CCIE (Comitato consultivo degli italiani all’estero) costituiscono i primi organismi consultivi di cui si dota la politica dell’emigrazione nel nostro dopoguerra. Si trattava all’inizio di organismi i cui componenti venivano nominati, il primo dai consoli (ed aveva validità sul territorio della circoscrizione consolare) e il secondo dal Ministero degli Affari Esteri. La nomina, in entrambi i casi avveniva a seguito di una consultazione con le realtà sociali locali o nazionali più significative.

Ma in entrambi i casi, la titolarità ultima della nomina era a capo delle autorità amministrative e la discrezionalità delle nomine in cui esse potevano incorrere, diede adito nel corso degli anni ad accese polemiche in occasione di ogni rinnovo. Anche se, per entrambi gli organismi le consultazioni a livello circoscrizionale (Comitati consolari) o ministeriale (CCIE) erano partecipate da associazioni locali, circoli e federazioni nazionali di associazioni, le fluide alleanze tra di esse e l’intervento attivo di chi aveva potere di nomina rischiava di escludere alcune realtà e favorirne altre senza che vi fosse un dispositivo di certificazione oggettiva del peso reale in termini di rappresentanza delle varie entità candidate a far parte di questi organismi. La polarizzazione anche ideologica degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso ha giocato anche in questo ambito un ruolo importante.

Troviamo un eco di queste dinamiche nella definizione del CCIE data nel 1972, quando, all’atto del rinnovo dell’organismo, durante l’Assemblea che si svolge in Germania per definire i componenti esteri da quel paese, uno schieramento associativo di centro destra tenta di emarginare le Acli e la Filef. I fatti vengono descritti in una nota pubblica inviata ad Aldo Moro, allora Ministro degli Esteri[1].

La composizione del CCIE in quello stesso anno (1972) prevedeva una serie di esperti in materia migratoria riconducibili alle maggiori realtà associative e dei patronati (9 membri), i rappresentanti dei maggiori sindacati (3 membri), i rappresentanti della stampa italiana all’estero (2 membri) ed infine i rappresentanti dei nominati nelle assemblee dei maggiori paesi di emigrazione (36 membri dall’estero). Ad essi si aggiungevano i rappresentanti della Presidenza del Consiglio, del Ministero degli Esteri, dell’Interno, del Bilancio, del Tesoro, della Pubblica Istruzione e del Previdenza Sociale[2].

Il riferimento legislativo della ricomposizione del CCIE è la Legge del 15 dicembre 1971, n. 1221, con a quale veniva “istituito ed affiancato all’Amministrazione degli affari esteri il Comitato Consultivo degli Italiani all’Estero (C.C.I.E.) ai fini di una migliore conoscenza dei problemi che interessano le collettività italiane all’estero e della predisposizione di opportune forme di tutela e di assistenza delle stesse”.

Come si vede, salvo il numero complessivo, la tipologia delle presenze ricalcava le categorie presenti nell’attuale organismo (CGIE), a parte la rappresentanza dei Partiti politici (4) e quella dei lavoratori frontalieri (1), introdotte con la riforma promulgata il 6 novembre del 1989 che porterà appunto alla nascita del CGIE. Ma la natura dell’organismo è chiara: non si tratta di effettiva rappresentanza, bensì di esperti e di nominati dall’estero che “affiancano” l’azione dell’Amministrazione.

Sul piano della loro composizione, la differenza sostanziale tra CCIE e CGIE è il metodo e la prassi per la definizione della componente estera: allora tutta di nomina, mentre oggi, definita – sia pure solo in parte ‒ in elezioni di secondo livello, paese per paese, cui partecipano gli eletti nelle elezioni a suffragio universale dei Comites (50%) e i nominati dai consoli in rappresentanza delle maggiori realtà associative all’estero (per il restante 50%).

Tuttavia il CCIE previsto dalla Legge del 1971 è il primo risultato delle richieste dell’emigrazione organizzata protrattesi nel corso degli anni 1950-1970. Nello stesso periodo e poi durante il decennio successivo si infittiscono le richieste di parte associativa e sindacale per realizzare la Prima Conferenza nazionale dell’emigrazione, un evento che doveva fare il punto sulle nostre comunità all’estero, riassumerne la condizione, i problemi e gli impegni spingendo le istituzioni a trovare soluzioni adeguate. Uno dei punti centrali era proprio il superamento del criterio di nomina discrezionale sia per i Comitati consolari che per il CCIE, che invece si chiedeva potessero avvenire a seguito di normali elezioni da realizzarsi a livello di circoscrizione consolare e che, in seconda istanza, potesse determinare la composizione estera del CCIE. L’altro è quello che il passaggio ad una più effettiva rappresentatività certificata da elezioni, implica la definizione di poteri che non siano meramente consultivi, ma che, in un limitato campo di materie, abbiano la natura di pareri più o meno vincolanti.

La conferenza, promessa dal 1971, si tenne solo dal 24 febbraio al 1° marzo 1975. Molto significativa – e pienamente sottoscrivibile a distanza di quasi 50 anni ‒ la relazione introduttiva del Sottosegretario del Ministero degli Esteri, Luigi Granelli, che così esordisce:

Tocca a me, in qualità di Presidente del Comitato Organizzatore, il dovere di ricordare il valore, unico nella nostra storia nazionale, di una Conferenza che affronta al massimo livello il grande e irrisolto problema dell’emigrazione italiana. L’intervento delle più alte cariche dello Stato, gli impegnativi discorsi del Presidente del Consiglio e del Ministro degli Esteri, la presenza di Autorità internazionali e di osservatori di molti Paesi, conferiscono alla Conferenza Nazionale dell’Emigrazione un rilievo evidente, ma tale rilievo diventa ancor più significativo se si pensa che per la prima volta ad oltre cento anni dall’unità d’Italia, si trovano a confronto i rappresentanti diretti delle nostre collettività all’estero e gli esponenti di tutte le forze sociali, sindacali e politiche del Paese.

Il valore profondamente democratico di questo confronto non ha bisogno di particolari illustrazioni. L’Italia democratica si interroga con franchezza autocritica, con volontà operativa, con la partecipazione diretta degli italiani che hanno pagato di più, sui problemi connessi al perdurare sia pure in forme attenuate di una emigrazione forzata che è stata, in periodi diversi, una costante dolorosa della nostra storia nazionale. Un’altra Italia si è formata al di là delle nostre frontiere, sparsa nelle varie parti del Mondo, e basterebbe questa constatazione per giustificare, ora che non siamo più un Paese prevalentemente agricolo o artificiosamente protetto da un fossato di autarchia, un nostro serio esame di coscienza per rimediare ad una pesante eredità.
Abbiamo detto più volte, e lo ripetiamo anche in questa sede solenne, che la Conferenza Nazionale dell’Emigrazione non è una occasione di studio, un incontro moralmente significativo, ma è soprattutto una occasione politica per avviare con maggiore organicità che nel passato una azione decisa, coraggiosa, a tutela dei nostri connazionali e dei loro diritti. Negli ultimi anni si è fatta strada, in Italia, la coscienza sempre più viva che la questione dell’emigrazione, dell’esodo obbligato di milioni di connazionali, è una questione nazionale che coinvolge sia le strutture economiche e sociali del nostro Paese sia la nostra politica internazionale[3].

Il discorso introduttivo di Luigi Granelli alla Prima Conferenza, che è interessante leggere nella sua interezza, è un condensato di argomentazioni e analisi che rappresentano l’approdo comune di molti diversi soggetti sociali e politici dell’epoca impegnati sul versante dell’emigrazione. Carlo Levi e Paolo Cinanni (Filef), padre Giovanni Battista Sacchetti (Cser), gli esponenti delle Acli, dell’Ucemi, dell’Unaie, tutti convengono su alcuni punti precisi: no all’emigrazione forzata, contenimento dei flussi emigratori attraverso politiche di riequilibrio sociale e territoriale, intervento pubblico per la tutela e l’assistenza a chi emigra, accordi per la piena integrazione lavorativa e sociale nei paesi ospitanti, riconoscimento dei diritti civili e sociali, politiche di reinserimento per chi rientra, uso delle rimesse per il rilancio delle regioni di esodo, ecc. Accanto ad esse c’è il prontuario degli interventi che lo Stato italiano dovrebbe garantire alle proprie comunità emigrate: mantenimento dell’identità culturale, quindi sostegno all’insegnamento della lingua e della cultura italiana, formazione professionale, attenzione specifica alla condizione femminile e dei figli, accordi di sicurezza sociale tra Italia e paesi di accoglienza, ecc.

Gli elementi di riferimento sono quindi l’intervento pubblico dello Stato in senso perequativo, la negoziazione a livello europeo tra paesi erogatori e accettori di emigrazione ed accordi bilaterali di sicurezza sociale con quelli extraeuropei, il riconoscimento e l’applicazione dei concreti diritti delle persone che sono costrette ad espatriare: un keynesismo economico-sociale che si allarga oltre le frontiere e che tenta un proprio aggiornamento dignitoso dentro i processi di internazionalizzazione del dopoguerra e quelli incipienti della terza globalizzazione di fine Novecento-inizio nuovo secolo.

L’attuazione, in quegli anni, del decentramento amministrativo con la nascita delle Regioni, dà ulteriore forza a queste indicazioni, trasferendo a questi enti locali numerosi adempimenti in fatto di emigrazione: è di questa prima parte degli anni Settanta la nascita delle Consulte o Consigli regionali dell’emigrazione e l’emanazione delle Leggi Regionali che prevedono attenzione e interventi in favore dei corregionali all’estero.

Nella seconda parte della relazione introduttiva, Granelli indica la necessità di riforma degli organismi di rappresentanza: “Per questo il Governo si è impegnato, di fronte al Parlamento, alla discussione delle varie proposte di legge presentate per la costituzione dei Comitati Consolari di designazione democratica ed è disponibile, sulla base delle indicazioni che scaturiranno dal dibattito ad una riforma organica dell’attuale Comitato Consultivo degli italiani all’estero per allargarne la rappresentatività, precisarne poteri, favorirne il collegamento operativo con il Parlamento, il Governo, le Regioni”.

Questi due obiettivi, così precisamente e sinteticamente delineati dal sottosegretario, costituiscono la traccia di tutte le successive riforme dei due istituti che, però, arriveranno a distanza di 10-15 anni da quell’evento: dai Comitati Consolari si passerà ai COEMIT (Legge dell’8/5/1985), eletti per la prima volta nel novembre 1986 (solo in alcuni paesi) e successivamente ai COMITES (Legge del 5/7/1990, n. 172, riformata successivamente con la Legge del 28/10/2003). Dal Comitato Consultivo Italiani all’Estero si passerà al CGIE (Consiglio Generale degli Italiani all’Estero) con l’approvazione della Legge del 6 novembre 1989 n. 368.

Si tratta dunque di un progressivo tentativo di avvicinamento all’attuazione dei principi di rappresentanza democratica di comunità italiane fuori d’Italia nel loro rapporto con le stesse istituzioni italiane. Un tentativo difficile perché in un ambito extraterritoriale entrano in gioco variabili non presenti dentro i confini: chi rappresenta questa italianità dispersa e diffusa? La rappresentano i consolati e basta, come avamposti dello Stato italiano, o le collettività hanno la possibilità di rappresentarsi almeno parzialmente in modo autonomo rispetto sia all’Italia, sia ai paesi di accoglienza?

È un quesito difficile a risolvere sul piano del diritto che diventa ancora più ostico in un percorso storico che porta verso una progressiva integrazione nei paesi ospiti e che, però, allo stesso tempo manifesta tutta una casistica di diritti individuali i quali continuano ad essere esigibili sul versante italiano, almeno finché non si opti definitivamente per la naturalizzazione.

In questo spazio o pertugio della storia delle mobilità, ogni persona in movimento si trova continuamente confrontata con questa doppia appartenenza e con la doppia necessità di riconoscimento. Ed è su questo crinale che si definiscono gli organismi di rappresentanza degli italiani all’estero, in una permanente tensione tra poteri dello Stato all’estero (consolati, Ministero Affari Esteri, ecc.) e le rivendicazioni democratiche di chi all’estero vive e lavora, ma è ancora legato all’Italia non solo sentimentalmente, ma in quanto cittadino italiano.

Le altre tappe significative di questo percorso sono certamente la Seconda Conferenza Nazionale dell’Emigrazione (1988) che precisa ulteriormente il complesso delle richieste storiche ancora disattese dell’emigrazione italiana del dopoguerra, reclamando il proprio protagonismo nella costruzione del processo di unificazione europeo e lanciando un forte richiamo alla risorsa economico-sociale rappresentato nel mondo dell’interdipendenza, e la prima (ed ultima) Conferenza degli Italiani nel mondo (2000), che tenta il salto dentro lo scenario della globalizzazione individuando nelle comunità all’estero un potenziale fattore di internazionalizzazione e di cooperazione economica. Entrambe le conferenze mettono in cima alle rivendicazioni, l’istituzione del voto politico esercitato dall’estero, visto come elemento decisivo per far emergere dall’oblio politico ed istituzionale la dimensione migratoria italiana.

Uno dei risultati della seconda Conferenza dell’Emigrazione è la trasformazione dei Comites e la nascita del CGIE. Ciò che si deve tener presente in tali riforme è che si tratta essenzialmente di aggiustamenti che vengono parzialmente incontro a richieste riferibili alla concreta agibilità degli organismi (soprattutto per i Comites), mentre per il CGIE si tratta di un passaggio importante della sua composizione che prevede ora, per la componente estera dell’organismo, l’elezione di secondo grado a partire da Assemblee/Paese elette precedentemente a suffragio universale durante il rinnovo dei Comites e partecipate dalle maggiori associazioni presenti negli stessi paesi.

È importante tener presente che il contesto emigratorio di questi anni è caratterizzato da un’emigrazione che si è progressivamente stanzializzata e integrata nei paesi di residenza. La sua entità si aggira intorno ai 3 milioni di persone, cioè la metà di quella che era negli anni Sessanta. Forse è anche questa natura declinante dei flussi che consente l’approvazione della Legge sull’esercizio di voto dall’estero (cioè per corrispondenza, senza la necessità di dover rientrare in Italia) e l’Istituzione della Circoscrizione Estero con l’elezione limitata a 12 deputati e 6 senatori (Legge del 27 dicembre 2001, n. 459) grazie alla modifica degli articoli 48, 56 e 57 della Costituzione.

L’introduzione del voto all’estero sposta radicalmente il quadro di riferimento della rappresentanza delle comunità emigrate, facendo perdere peso agli organismi intermedi (Comites e Cgie), ri-orientandone strumentalmente le funzioni verso un approdo politico-partitico e concentrando gran parte delle energie della componente organizzata dell’emigrazione, sia essa associativa, sociale o politica, sulla rappresentanza parlamentare. Tuttavia la nuova configurazione “trilaterale” della rappresentanza (Comites, Cgie, Circoscrizione Estero) conserva un suo equilibrio fino a che nel 2007-2008 la grande crisi economica globale fa ripartire dall’Italia consistenti flussi emigratori che nel corso di un decennio riportano all’estero diversi milioni di persone. Nel 2021 la componente emigrata della popolazione italiana raggiunge così i circa 6,5 milioni, vale a dire più o meno l’entità registratasi all’inizio degli anni Sessanta, quando si ebbe l’apice dei flussi del dopoguerra.

In questo contesto, acuito dagli esiti del referendum sul taglio del Parlamento (che riduce la presenza parlamentare dell’estero del 30%), la discussione sulla riforma degli organismi di rappresentanza si riapre e scompiglia il panorama che si era stabilizzato nel primo decennio degli anni 2000, durante il quale, per inciso, vi è solo un rinnovo degli organismi (2004) e un incredibile protrarsi della loro durata fino al 2014 (il doppio di quanto previsto dalla legge) a causa di necessità di contenimento della spesa (spending review e politiche di austerity determinate dalla crisi del 2011) definita da molti esponenti dell’emigrazione come una sospensione dei diritti democratici degli italiani all’estero (DL del 30/6/2012). Infatti, sempre per ragioni di risparmio, la composizione complessiva del futuro CGIE (attualmente in carica) viene ridotta a 63 componenti dagli iniziali 90, con il DL 24 aprile 2014, n.66, convertito con modificazioni, dalla Legge 23 giugno 2014, n.89.

Ed arriviamo agli ultimi anni, tenendo presente che la richiesta di maggiori poteri e rispetto della funzione dei Comites e del CGIE costituiscono i due punti iniziali, mai attuati, del documento finale dell’ultima Conferenza Nazionale, quella del 2000, in cui tra l’altro, si propone l’elezione diretta dei componenti del CGIE. Come si è accennato, piuttosto che di avanzamento, si può parlare a ragione in questo ultimo scorcio temporale, di una forte regressione rispetto alle politiche dell’emigrazione e di riduzione della portata degli organismi di rappresentanza.

  1. Crisi economica e demografica, liquidità politico-istituzionale, nuova mobilità

Nel novembre 2017 il CGIE conclude un lungo e complesso lavoro di consultazione interna e di tutti i Comites del mondo per addivenire ad una proposta di articolato di riforma dei due organi basilari della rappresentanza dell’emigrazione italiana. I passaggi di questo lavoro sono anche concordati con l’allora sottosegretario del MAECI, Vincenzo Amendola, che ne aveva sollecitato la realizzazione e assicurato la successiva presentazione a Governo e Parlamento.

Nel documento di accompagnamento dell’articolato di riforma delle due Leggi istitutive dei Comites e del Cgie si legge che essa si rende necessaria poiché “negli ultimi dieci anni è profondamente cambiata la composizione delle comunità degli italiani all’estero che stanno vivendo un massiccio afflusso di esponenti della nuova mobilità insieme a rinnovate fasce di espatriati per ragioni tradizionali”. Inoltre si cita la recente “approvazione della nuova legge elettorale (Rosatellum bis) che introduce la possibilità per residenti in Italia di candidarsi all’estero, superando il mandato territoriale di rappresentanza diretta definito dalla legge 459 del 27 dicembre 2001 che sanciva all’art. 8, comma 1b), che i candidati devono essere residenti ed elettori nella relativa ripartizione” (vale a dire una delle 4 ripartizioni della Circoscrizione Estero).

Queste due novità, la prima oggettivamente rilevabile dai dati Istat e delle anagrafi consolari, che mostrano il raddoppio delle collettività italiane all’estero nell’arco dell’ultimo quindicennio, e la seconda, di natura legislativa, che consente la candidatura di italiani in Italia nei collegi elettorali esteri, indicano, secondo il CGIE, la necessità di un potenziamento dei poteri e della funzione di rappresentanza sia dei Comites (a livello di singola circoscrizione consolare) sia dello stesso Cgie (a livello dei diversi paesi e della globalità dell’emigrazione italiana).

Le proposte di modifica delle funzioni dei due organismi tendono quindi a dettagliare le possibili specifiche funzioni e dunque i concreti poteri esercitabili dai due istituti rispetto ai testi legislativi in vigore che, pur coprendo un ampio spettro di potenziale intervento propositivo e consultivo, risultano interpretabili in modo controverso dai diversi attori istituzionali o amministrativi che sono interlocutori o dei Comites (consolati, ambasciate, enti vari presenti all’estero, ecc.) o del Cgie (governo, ministeri, amministrazione del MAECI, Regioni e altri enti locali in Italia).

Questo sforzo di precisare alcune funzioni e poteri ha dato luogo ad una proposta forse moderata e solo parzialmente innovativa, ancorché contrastata attivamente dall’amministrazione del MAESI in particolare riguardo a presunte sovrapposizioni funzionali con i consoli riguardo a chi rappresenta lo Stato Italiano all’estero (nel caso dei Comites, in particolare rispetto alla possibile funzione di “Ombudsman” presente nella proposta di riforma) e, per quanto riguarda il CGIE, riguardo alla reclamata funzione di Organo consultivo dello Stato di possibile futura dignità costituzionale (analogamente al CNEL, come ipotizzato fin dal 1988 dall’allora ministro degli Esteri Giulio Andreotti), di Organismo di Consulenza per altre istituzioni centrali e regionali (attribuzioni che qualcuno interpreta in sovrapposizione ‒ indebita ‒ con funzioni già ricoperte da altri pezzi dell’amministrazione dello Stato, in particolare dal MAECI).

Nei due articolati proposti sono specificati alcuni nuovi ambiti di necessario coinvolgimento dei Comites (in particolare nella definizione dei Piani-Paese per l’internazionalizzazione ai diversi livelli, culturale, sociale ed economico-commerciale, ecc.) e di potenziamento, se così si può riassumere, della funzione di controllo sull’operato consolare in alcune materie. Mentre per il CGIE, oltre ad una attualizzazione nominalistica del testo attualmente in vigore e ad un ampliamento dei soggetti istituzionali interlocutori dello stesso, si sottolineava la natura di soggetto ausiliario ‒ consultivo e propositivo ‒ di Governo, Regioni, Parlamento.

I due articolati, ai cui testi integrali si rimanda per una più puntuale analisi, vengono dunque approvati nell’ultima Assemblea Plenaria del CGIE del novembre 2017. Ad un anno di distanza, nel novembre del 2018, il CGIE lamenta che “la proposta di riforma Comites e CGIE e il documento di accompagnamento approvati dall’Assemblea Plenaria di novembre 2017 è ancora bloccata. Ne sollecita la trasmissione urgente al Parlamento e al governo e impegna il Presidente (Il Ministro degli Esteri) a farsene carico per presentarla prioritariamente al Consiglio dei Ministri. Chiede con urgenza che queste proposte di riforma vengano inviate agli organismi politici affinché possano seguire l’iter necessario per trovare uno spazio parlamentare di discussione e una conseguente trasposizione in leggi attuative, che tengano in considerazione i principi indicati dal CGIE”.

In mezzo c’è ovviamente lo spartiacque del voto di marzo 2018 con il cambio radicale del quadro politico e del parlamento nel quale tuttavia, sono eletti i nuovi 18 parlamentari dell’estero (di cui una, al Senato, per la verità residente in Italia). E, per la prima volta in assoluto, è nominato come sottosegretario MAECI con delega agli Italiani all’Estero, Ricardo Merlo eletto all’estero, , mentre ministro degli Esteri è Enzo Moavero Milanesi, un “non politico” di ascendenza ministeriale, ex ambasciatore.

Tuttavia, nel corso del 2019 la richiesta di trasmissione di quegli atti prosegue inascoltata. Anche dopo la conferma del sottosegretario Merlo nel governo Conte II, insediatosi a settembre, che vede Luigi Di Maio quale ministro degli Esteri. Poi, ad inizio 2020, scoppia la pandemia e si può riconoscere che la materia non rientrasse nelle priorità emergenziali, anche se centinaia di migliaia di italiani sono coinvolti direttamente nelle difficili situazioni di rientro in Italia e in milioni vivono, come tutti, gli effetti drammatici sanitari e sociali e le dure restrizioni imposte ovunque. Una situazione che resta molto difficile nei continenti del sud (America Latina e Africa in particolare.

Con l’avvento del Governo Draghi (febbraio 2021), salta il sottosegretario Merlo, che era stato tessitore di una trattativa con una decina di senatori (Maie/Europeisti/Centro Democratico) per garantire la maggioranza del precedente esecutivo, tentativo che non sortisce l’esito sperato. Il 14 aprile del 2021, libero da responsabilità e forse anche da pressioni, ma anche senza più alcuna responsabilità di governo, Merlo comunica che ha depositato in Senato la propria proposta di legge per la riforma di Comites e CGIE, spiegando che “l’articolato, rispetta al 100% la volontà del CGIE, ed è stato prodotto e approvato dalla plenaria del Consiglio generale degli italiani all’estero, dopo un’istruttoria durata parecchi mesi, se non anni. Come MAIE, abbiamo fatto nostro quel testo e lo abbiamo depositato in Parlamento”. “Ci auguriamo – aggiunge – che alla nostra proposta di riforma, che è quella ufficiale del CGIE, aderiscano – e si impegnino a portarla avanti – tutti i 18 eletti all’estero, che sensibilizzino ogni capogruppo perché il contenuto è trasversale ed è fondamentale per affrontare le prossime elezioni. Questo affinché si possa arrivare prima possibile a una nuova legge, che sia la condizione per innovare e promuovere le elezioni per il rinnovo dei Comites e del CGIE”. “Con la legge attuale – sottolinea in conclusione – ci sono difficoltà che dobbiamo assolutamente risolvere, superare. A causa della pandemia è cambiato il mondo, l’occasione elettorale ci permetterà di ricostruire la rete della rappresentanza a tutti i livelli, a cominciare dagli organismi intermedi quali sono appunto Comites e Consiglio generale degli italiani all’estero”.

Sono dunque trascorsi tre anni e 5 mesi dalla presentazione della proposta da parte del CGIE. Per la verità qualche altra proposta di riforma parzialmente in accordo con il testo del CGIE era già stato presentato da altri parlamentari della Circoscrizione Estero, ma neanche quelli avevano iniziato il tragitto di discussione. Con il Governo Draghi, che vede sottosegretario Benedetto Della Vedova, i richiami del CGIE a una discussione delle proposte di riforma si sono succeduti fino al mese di settembre 2021; nel frattempo, contro il parere del CGIE (che per legge esprime pareri sulle materie riguardanti gli Italiani all’Estero) il quale aveva richiesto un rinvio all’inizio del 2022 delle Elezioni dei Comites a causa della permanenza della pandemia in molti paesi, il 3 dicembre si svolgeranno le elezioni dei Comites le cui prerogative e poteri, resteranno quindi quelle attuali per tutto il prossimo quinquennio. Analogamente accadrà per il CGIE, che sarà rinnovato entro marzo 2022.

Alle prossime elezioni Comites e CGIE (nel 2027) è probabile che avremo una nuova legge, ma, come si può immaginare, non è del tutto certo. Nel frattempo, l’articolato di riforma approvato dall’Assemblea Plenaria nel novembre del 2017, risulta superato da un altro decisivo evento dell’autunno 2020: il referendum sul taglio dei parlamentari che ha ridotto del 30% Camera e Senato e con essi anche la Circoscrizione Estero, passata da 18 a 12 parlamentari: 8 deputati e 4 senatori da eleggere, cosa che complicherà non poco la determinazione dei nuovi collegi. Nella Legge elettorale, che occorrerà varare per il prossimo voto politico del 2023, si rischia inevitabilmente di cancellare la presenza in parlamento di qualche senatore delle ripartizioni minori (Nord America e Oceania), oppure di far pesare il voto al Senato di un italiano in Australia o nel Nord America n-volte più del voto di un italiano in Europa o in America Latina, visto che il numero di elettori di queste comunità è completamente diverso: in Europa ci sono quasi 20 volte più elettori che in Australia e 10 volte più elettori che in Nord-Centro America.

Ma la cosa più grave è che il taglio è avvenuto in un momento in cui i flussi di nuova emigrazione hanno fatto lievitare l’entità degli italiani all’estero oltre il doppio di quanti ve ne fossero al momento del varo della Legge sul voto all’estero. Cosa ripetuta nelle diverse audizioni del CGIE alla Camera e al Senato e inviata a tutto l’orbe parlamentare, senza registrare la minima reazione o curiosità, salvo l’accordo di alcuni di coloro che avevano promosso il referendum.

In termini di proporzionalità della rappresentanza, quindi gli italiani all’estero dal 2023 varranno meno della metà di quanto ne valevano prima. Come se ne esce?

Difficile dirlo, ma se si fosse in un contesto istituzionale serio, rappresentanza parlamentare, modalità di voto, natura e funzioni di Comites e CGIE dovrebbero essere completamente ridefiniti, ben oltre la misurata proposta fatta nel 2017 dal CGIE e presentata al Senato da Merlo nell’aprile 2021. Partendo dall’assunto che, se diminuisce la cosiddetta rappresentanza apicale, dovrebbero aumentare in poteri ed efficacia, quindi anche in risorse, autonomia decisionale e capacità di indirizzo, quella di base (Comites) e quella intermedia (CGIE) che dovrebbe configurarsi come qualcosa di analogo ad un consiglio regionale. Tenendo conto che in questo caso gli italiani all’estero formerebbero i termini di popolazione la seconda regione italiana dopo la Lombardia. Ma anche l’istituto della Circoscrizione Estero che delimita e configura il voto politico all’estero mostra scricchiolii evidenti e appare in un certo senso superata dai fatti e dagli eventi.

Il taglio del Parlamento, peraltro, è stato apprezzato più all’estero che in Italia e questo indica quale sia ormai il gradimento dell’emigrazione per la compagine che ha eletto e forse se ne può dedurre anche un giudizio sulla funzionalità degli altri organi di rappresentanza. Ne avremo una conferma, o meno, il 3 dicembre di quest’anno, quando sapremo quale sarà la percentuale dei votanti per i Comites che all’ultima elezione si fermò intorno al 3,5%, complice la norma della inversione dell’opzione (una sorta di mossa palesemente incostituzionale già sperimentata con risultati esiziali) che prevede la preiscrizione nei registri elettorali ‒ anch’essa riconfermata (contro il parere del CGIE) pure in questa occasione ‒ e giustificata con l’eccessivo costo di elezioni a suffragio universale per questi organismi ritenuti secondari e marginali (ovvero con la tardiva riproposizione di esigenze di risparmio). Oggi, però, a differenza che nel 2011-2012, l’ansia di modernizzazione pervade la macchina pubblica e la classe politica del paese si preoccupa di capire come si farà a spendere le salvifiche risorse del PNRR, che, guarda caso, si esauriranno nel 2027, cioè alla scadenza dei prossimi Comites e Cgie.

Questo provvisorio riassunto di ciò che è accaduto negli ultimi 5 anni riguardo alla riforma degli organismi di rappresentanza dell’emigrazione (cui si potrebbero aggiungere una lunga catena di antefatti del precedente decennio e una parallela ricognizione della scarsissima considerazione politica e istituzionale delle tante analisi e proposte presentate su molte questioni sia dal CGIE che dal mondo sociale e associativo), riconferma l’antica e strutturale disattenzione del Paese alle sorti di questa componente della popolazione, che rappresenta il 12% del totale.

La lunga stagione di lotte unitarie della componente organizzata dell’emigrazione che aveva portato all’istituzione dei Coemit nel lontano 1985 (successivamente Comites) superando i precedenti organismi di emanazione e nomina consolare senza prerogative di autonomia; che aveva superato l’antico CCIE (Comitato Consultivo degli Italiani all’Estero) di nomina ministeriale e governativa, con l’Istituzione del CGIE nel 1989 che si insediò per la prima volta nel 1991 (ricorrono a dicembre di quest’anno i 30 anni), sembra essere giunta ad un momento decisivo.

Cento anni ed oltre di storia di impegno civile e sociale per il riconoscimento dei diritti di quelli che se ne sono andati e che continuano ad andarsene dal Paese, in grande maggioranza costretti dalle “avversità” sociali, economiche, territoriali, ecc., rischia di naufragare in un dimenticatoio generalizzato e contro un potente muro di gomma su cui tutto sembra rimbalzare.

La società liquida, nel contesto italo-estero, è stata precorsa abbondantemente da una liquidità politica, amministrativa, istituzionale che si è esercitata per decenni verso questa componente della società italiana intestarditasi a concepirsi come “italiana” pur fuori del suolo patrio. Non si tratta di assolvere gli epigoni di questa storia dalle proprie responsabilità, addebitando al suo esterno le cause del cupio dissolvi della rappresentanza dell’emigrazione, ma è piuttosto necessario dirsi le cose come stanno senza ritrosie di sorta. E magari provare a immaginare un nuovo disegno, una nuova progettazione dell’articolazione della rappresentanza dei cittadini italiani emigrati e che emigrano non sottoposta alle infinite mediazioni richieste dall’interlocutore politico che, anche a detta di chi ha frequentato assiduamente le sale parlamentari e dei partiti, vive generalmente come fastidio la domanda di attenzione di questo mondo. Non (solo) perché la politica si è svilita o squalificata in questo scorcio di secolo, ma perché semplicemente ignora, come ha sempre fatto d’altronde, che questo popolo è strutturalmente un popolo migrante; che l’Italia, dalla sua unità ad oggi, ha fatto dell’emigrazione un intelligente dispositivo per evitare di essere posta di fronte alle sue concrete e storiche contraddizioni.

Ripartire da questo dato, forse può consentire di provare a ricostruire qualcosa di decente e gli attori di questa ricostruzione sono gioco-forza quelli che oggi ripercorrono in modi simili o diversi i tragitti di coloro che li hanno preceduti: la cosiddetta nuova emigrazione. Nel n. 3 del mensile “Emigrazione” del marzo 1969, Ferruccio Parri, uno dei fondatori della Filef, si esprimeva in questo modo:

Mi sono domandato spesso anch’io perché frequentemente, normalmente direi, il problema della emigrazione venga trascurato nelle rassegne dei grandi problemi economici e sociali della nazione, o vi ottenga menzioni fuggevoli, quasi per memoria, prive di serie indicazioni impegnative. Così è stato anche, se non ricordo male, in tutte le esposizioni programmatiche dei governi recenti, sedicenti avanzati sul piano della politica sociale. Mi è parso di trovare la spiegazione nella condizione degli emigrati come categoria pressoché priva di capacità di autodifesa; in questi tempi in cui la crescente competizione sociale ed economica spinge tutti i gruppi a cercare la difesa dei propri interessi nella organizzazione, la pressione dei più avanzati e dei più forti respinge o rende più difficile la condizione degli “indifesi”. […]

Sarebbe veramente ingiusto dire che la solidarietà di classe abbia dimenticato questi compagni obbligati a cercar lavoro fuori dei confini. Alla pressione dei sindacati si deve quel poco che lo Stato italiano ha fatto; ed anche i partiti che hanno larga rappresentanza di lavoratori non hanno mancato di preoccuparsi e di agire per la difesa contrattuale e legale dei lavoratori italiani.

Non ho certo io elementi per dire che sindacati e partiti non abbiano fatto quanto era in loro potere. Ma è ben chiaro che molto resta da fare. Lo accertano le indagini che si compiono nei vari settori e paesi verso i quali esportiamo il nostro lavoro allo stato bruto, sino all’ultimo, organico ed istruttivo rapporto presentato sullo scorcio della legislatura passata dalla Commissione presieduta dal senatore Gronchi […]

Si è detto spesso che manca nel quadro delle attività sociali istituzionali dello stato italiano, una politica della emigrazione. Ed è vero. Mi sembra per altro necessario ancora insistere che questa politica ha due facce. Una riguarda le condizioni del lavoro italiano all’estero; l’altra quella della piena occupazione che deve proporsi di assorbire nell’attività economica interna quella quota di emigrazione che deve considerarsi forzata, e ne è la massima parte.

Ed occorre a mio parere veder chiaro che, trattandosi di emigrazione dissanguatrice delle regioni sottosviluppate, specialmente meridionali, partiti e sindacati devono impegnare opera attenta per rovesciare gli indirizzi attuali della politica economica ed occupazionale che non riescono ad impiegare i capitali interni disponibili per gli investimenti, sono legati ad obiettivi produttivistici alieni da un’ottica veramente occupazionale e diffusiva […]

I partiti sanno, i partiti hanno dovuto constatare quale impoverimento dal punto di vista sociale ed umano abbia rappresentato e rappresenti nelle regioni più depresse, il salasso di queste energie giovanili: i partiti di sinistra lo hanno dovuto constatare anche nei risultati elettorali, Trattenerle, applicarle alla rinascita delle regioni di cui sono figlie, vorrà dire contribuire ad un nuovo equilibrio sociale e nazionale. Il problema è ampio, poiché riguarda anche le migrazioni interne dalle regioni povere verso il Nord industriale. All’una ed alle altre deve applicarsi la stessa visuale.

Ed è naturalmente un problema di lungo respiro. Le prospettive che è possibile formulare anche a medio termine indicano la permanenza ancora per lungo tempo di una forte quota di emigrazione esterna.

Ed è dunque sia nella condizione attuale, sia per le prospettive più lontane, sempre più importante, sempre più necessario creare in questi lavoratori la consapevolezza della solidarietà per una comune difesa, un legame che dia loro la coscienza della partecipazione alla comunità dei lavoratori italiani. E tolga dagli occhi dei giovani che partono e ritornano, curvi sotto il peso delle loro robe, il rimprovero per una società indifferente alla loro sorte. […]

Fatte salve le grandi differenze di scenario di 50 anni or sono, il nucleo delle argomentazioni di Parri potrebbe essere stato scritto oggi. Forse però, rispetto ad allora, vi è qualcosa di ulteriormente preoccupante in questa generale indifferenza alle questioni dell’emigrazione (che fin dalla conferenza del 2000, si chiama più asetticamente “gli italiani all’estero”, gli expat, ecc.). All’epoca in cui scriveva Parri, l’Italia aveva uno dei tassi di crescita demografica più alti d’Europa. Oggi invece è uno dei più bassi.

Nelle ultime settimane di settembre, in diversi incontri ed interventi sul bilancio demografico dell’Istat, il suo presidente, Gianfranco Blangiardo, ha fatto una proiezione a lungo termine di un’Italia da 30 milioni di abitanti, a fronte degli attuali 59 (di cui, 6,5 all’estero), composta, per oltre la metà, di ultra 65enni. Il calo di Pil rispetto all’attuale si avvicinerebbe al 20%. Oltre a nuove politiche di sostegno alle famiglie, ha quindi indicato nel contenimento dei flussi di emigrazione e in positive politiche di accoglienza e di integrazione degli immigrati, le uniche possibilità di contrastare un calo annuale di popolazione di circa 300mila persone.

Se questo è lo scenario che abbiamo di fronte, ascoltare e dare voce all’emigrazione (e all’immigrazione) diventano questioni strategiche per tutto il Paese. Sarebbe dunque ora ‒ e di interesse nazionale ‒ che i muri di gomma si sgonfino, che le rappresentanze dell’emigrazione assumano piena coscienza del loro potenziale ruolo e si attrezzino di conseguenza concentrandosi sulle questioni prioritarie; che l’Italia superi le sue deficienze strutturali e i suoi squilibri sociali territoriali; che la sua classe politica, istituzionale ed imprenditoriale diventi più adulta e responsabile.


[1]           Vedi “Emigrazione”, n. 5 del maggio 1972. Il mensile, fondato da Carlo Levi ed edito dalla Filef (1969-2001), è ora integralmente consultabile all’indirizzo https://filef.net/.

[2]           Vedi “Emigrazione”, n. 10 del settembre/ottobre 1972.

[3]           Vedi il testo a http://www.luigigranelli.it/index.php/le-attivita/attivita-ministeriale/688-sottosegretario-agli-esteri-dal-1973-al-1976/1978-conferenza-nazionale-dell-emigrazione-introduzione-di-granelli-marzo-1976.