Tre volumi su gli immigrati italiani

Jennifer Guglielmo e Salvatore Salerno (eds.), Are Italians White? How Race is Made in America, with an afterword by David R. Roediger, New York: Routledge, 2003, pp. 328.

Thomas A. Guglielmo, White on Arrival. Italians, Race, Color, and Power in Chicago, 1890-1945, New York: Oxford University Press, 2003, pp. 280.

Christopher M. Sterba, Good Americans. Italian and Jewish Immigrants during the First World War, New York: Oxford University Press, 2003, pp. 271
stori
La storia del complesso rapporto degli immigrati italiani con le questioni di “razza” e “colore” nella società nordamericana è al centro della raccolta di Jennifer Guglielmo e Salvatore Salerno, e del lavoro di Thomas A. Guglielmo (che contribuisce anche alla raccolta con un saggio). Il volume rappresenta un importante contributo tanto allo studio della comunità italo-americana quanto alla riflessione sul problema del razzismo negli Stati Uniti. Prendendo le mosse dalla contemporanea identificazione degli italo-americani con la classe lavoratrice bianca, di destra e conservatrice, e da una serie di recenti episodi di violenza razziale che hanno visto coinvolti italo-americani e afro-americani, i sedici saggi esaminano come, quando e perché gli immigrati italiani, arrivati negli Stati Uniti senza alcuna chiara percezione del significato di “razza” e “colore”, abbiano, nel corso degli anni e delle generazioni, fatto proprio il messaggio dei fautori della supremazia “bianca”. Gli italiani d’America non sono sempre stati “bianchi”, ci ricordano i curatori, e la perdita di tale memoria rappresenta una delle tragedie del razzismo in America.
La raccolta si presenta come eminentemente interdisciplinare, con contributi di storici, sociologi, studiosi di folklore, registi, musicisti, attivisti politici e critici letterari, e risulta divisa in tre parti. Nella prima sezione, “Learning the U.S. Color Line”, Louise De Salvo, Thomas A. Guglielmo, Donna R. Gabaccia e Vincenza Scarpaci analizzano l’ambigua posizione degli immigrati italiani nella gerarchia razziale americana tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo, che distinguendo fra razza, colore e carnagione, registrava gli italiani come “del nord” o “del sud” dal punto di vista della razza, “bianchi” per il colore e “scuri” in riferimento alla carnagione (anche quando quest’ultima fosse in verità chiara). In quanto “bianchi”, gli italiani godevano di privilegi – quali il diritto alla cittadinanza – negati a gruppi “di colore” come africani, asiatici, e messicani. Questo, però, non li metteva al riparo da forme di discriminazione espresse nelle due categorie di razza e “carnagione”, derivate, come spiega Donna Gabaccia, dalla particolare forma del darwinismo sociale negli Stati Uniti, che enfatizzando la superiorità della razza anglosassone fra i vari gruppi di “bianchi”, creava diverse classi di cittadini, più o meno graditi. Il bel saggio della Scarpaci esamina la complessa e contraddittoria esperienza degli immigrati italiani in Louisiana e il loro passaggio da esperienze di collaborazione con i lavoratori afro-americani e messicani (come nel caso degli scioperi del 1912 e 1913) all’acquisizione degli atteggiamenti di discriminazione caratteristici dei bianchi del Sud.
La seconda parte, “Radicalism and Race”, analizza l’atteggiamento degli immigrati italiani nei confronti delle questioni di razza in ambiti politicamente e culturalmente “radicali”, come anarchismo, socialismo, surrealismo e hip-hop. I saggi di Caroline Waldron Merithew, Michael Miller Topp e Salvatore Salerno sottolineano come gli immigrati italiani non seguirono un lineare percorso di assimilazione da “non bianchi” a “bianchi”, ma piuttosto risposero al mix di privilegi e discriminazione cui erano soggetti in modi che di volta in volta confermarono, sfidarono, idolatrarono e sovvertirono la concezione dell’essere “bianco”. Franklin Rosemont e Manifest esplorano l’immaginario radicale degli italo-americani attraverso storie di collaborazione con artisti e attivisti della diaspora africana.
I saggi della terza sezione, “Whiteness, Violence, and the Urban Crisis”, scritti da Gerald Meyer, Stefano Luconi e Joseph Sciorra, si concentrano sul periodo dopo la seconda guerra mondiale quando gli italiani iniziarono ad organizzarsi più consapevolmente come “bianchi”. Le iniziative del governo americano che garantivano speciali protezioni e diritti ai lavoratori industriali bianchi, diedero a gruppi come gli italiani e gli Ebrei dell’Europa Orientale forti motivazioni a identificarsi e a definirsi come “bianchi”.
Nell’ultima sezione, “Toward a Black Italian Imaginary”, Kym Ragusa, Edvige Giunta, John Gennari, Ronnie Mae Painter e Rosette Capotorto esaminano l’incontro/scontro di cultura e razza nelle vite di coloro che sono allo stesso tempo italo-americani e afro-americani, e che vivono in uno spazio che “è allo stesso tempo non riconosciuto dalla cultura dominante e giudicato illegittimo dal proprio gruppo etnico”.
White on Arrival di Thomas A. Guglielmo ha ricevuto il premio Frederick Jackson Turner dall’“Organization of American Historians” per il 2004. Nel libro Guglielmo esplora il posizionamento degli immigrati italiani nell’ordinamento razziale di Chicago fra il 1890 e il 1945, e l’influenza di tali classificazioni razziali sulle possibilità di ascesa degli immigrati nella società americana. Distinguendo fra “razza” e “colore”, Guglielmo contesta l’opinione comune che gli immigrati dell’Europa del sud e dell’est dovettero lottare per essere accettati come bianchi. Gli immigrati italiani erano normalmente riconosciuti come bianchi dal governo americano, dai tribunali, dai sindacati e nel mercato immobiliare, e per questa ragione goderono di vantaggi negati, per esempio, agli immigrati asiatici. Gli italiani potevano infatti presentare domanda per la cittadinanza americana, sposare persone appartenenti ad altri gruppi etnici, e trasferirsi in quartieri abitati da “nativi” bianchi. È indubbio che forme di discriminazione razziale nei confronti degli italiani, specialmente del sud, esistessero nella società americana: rifiutati in alcuni quartieri, ostacolati in certe professioni, rappresentati come criminali, discriminati dalle Quota Laws degli anni venti del novecento. Tuttavia, il loro essere “bianchi” non venne mai messo in discussione, e questo fece un’enorme differenza nella loro esperienza a Chicago, nonostante nella maggior parte dei casi gli italo-americani non fossero consapevoli dei vantaggi che l’appartenenza al colore “bianco” garantisse loro. Guglielmo è infatti attento nel precisare come, all’arrivo negli Stati Uniti, gli immigrati italiani si definissero principalmente in termini di “italianità”, al di fuori perciò delle categorie di colore e razza della società americana. In occasione del Color Riot del 1919, per esempio, gli italiani si divisero fra coloro che vi presero parte associandosi al gruppo dei “bianchi” e altri che invece si astennero o appoggiarono apertamente gli afro-americani. Fu solo negli anni trenta, secondo l’autore, che gli italiani iniziarono a sviluppare una chiara consapevolezza della “color line”. L’emergere di questa consapevolezza, associata allo status legale di “bianchi” di cui gli immigrati italiani godevano sin dal loro arrivo negli Stati Uniti, fu la chiave di volta per la loro integrazione dopo la seconda guerra mondiale.
Lo studio di Sterba esamina le reazioni e la partecipazione degli italo-americani e degli ebrei americani alla prima guerra mondiale, sia “a casa” (New Haven per gli italiani e New York per gli ebrei) sia al fronte. Mentre gli italo-americani appoggiarono in maniera pressoché assoluta l’intervento americano, visto come un’opportunità per sostenere la madrepatria italiana, gli immigrati ebrei, provenienti principalmente dall’Europa dell’est, si distinsero per una più marcata opposizione alla prima mobilitazione nazionale americana del 1917. Italiani e ebrei rappresentavano le comunità più numerose nelle rispettive città, e contribuirono alla creazione di due delle più irresistibili unità militari dell’esercito americano, una compagnia di mitragliatori composta esclusivamente da italo-americani, e la settantasettesima divisione, ribattezzata la “Melting-Pot Division”. Secondo Sterba, il contributo degli immigrati europei allo sforzo bellico americano rappresentò un momento di cruciale importanza per il loro coinvolgimento nella vita pubblica americana.
L’analisi dell’emigrazione italiana negli Stati Uniti, che negli anni settanta e ottanta aveva conosciuto la sua “stagione d’oro” con la pubblicazione di moltissimi importanti contributi, sembra, negli ultimi anni, stare attraversando un periodo di declino, sostituita dall’interesse di storici e studiosi dell’emigrazione per lo studio di gruppi etnici di più recente immigrazione (coreani, vietnamiti, etc.) o comunque considerati di più “attuale” interesse (messicani e cinesi in primis) per gli Stati Uniti. Alcuni mesi fa, ad un seminario tenutosi al Center for Comparative Immigration Studies della University of California at San Diego, uno stimato collega che si occupa principalmente di immigrazione messicana, dopo una discussione sulla mia presente ricerca che si incentra sull’emigrazione italiana nel secondo dopoguerra, ha commentato “what’s up with these Italians?”, – rappresentando una diffusa percezione che lo studio della vicenda migratoria italiana negli Stati Uniti (ma non solo) sia in un certo qual modo old-fashioned e che poco ci sia da aggiungere a quanto già scritto. I lavori di J. Guglielmo e Salerno, T. Guglielmo, e Sterba dimostrano come questo non sia il caso, quanto ci sia ancora da fare e da dire specialmente riguardo al processo di inserimento degli immigrati italiani nella vita pubblica e nella società americana. Un importante contributo di questi tre volumi è infatti il tentativo, ben riuscito, di inserire la vicenda dell’immigrazione italiana nel contesto della storia più generale degli Stati Uniti, sia questa quella delle divisioni razziali o dell’impatto della prima guerra mondiale sulla società americana.