John Fante. Storie di un italoamericano

Storie di un italoamericano – La babele americana

Gianni Paoletti, John Fante. Storie di un italoamericano, Foligno, Editoriale Umbra, 2004, 195 pp.

Sara Antonelli, Anna Scacchi, Anna Scannavini, , a cura di Anna Scacchi, Roma, Donzelli, 2005, 280 pp.

John Fante. Storie di un italoamericano
La babele americana. Lingue e identità negli Stati Uniti d’oggi

Per quanto l’insediamento italo-statunitense sia ormai di vecchia data, alcuni recenti studi offrono importanti elementi per comprendere la questione della sua integrazione. La riflessione di Antonelli, Scacchi e Scannavini sviscera il problema della lingua (gli Stati Uniti sono un paese anglofono o plurilingue e che spazio vi hanno e vi hanno avuto gli idiomi degli immigrati). Al proposito Scacchi ricorda nel primo capitolo come Henry Louis Mencken, innocentista nell’affaire Sacco e Vanzetti e autore di uno dei primi voluminosi trattati sull’anglo-americano, abbia scritto che i due anarchici erano stati condannati soltanto perché parlavano male l’inglese: in caso contrario, qualsiasi giudice avrebbe immediatamente capito l’assurdità delle accuse rivolte loro. Paoletti ricostruisce invece un caso di studio letterario nel sesto quaderno del Museo Regionale dell’Emigrazione di Gualdo Tadino: le difficoltà incontrate da John Fante nel venire a patti con la sua nuova patria e con la famiglia e il gruppo d’immigrati nel quale era cresciuto.

Entrambi i volumi rifiutano le tesi troppo facili. Scacchi non accetta l’ipotesi di Mencken e mette in luce quanto la condanna di Sacco e Vanzetti debba alla paura e alla ripulsa nei riguardi degli anarchici e degli immigrati: il “broken English” dei due accusati avrebbe quindi giocato un ruolo assolutamente secondario. Paoletti evidenzia più volte come quella di Fante sia una storia di successo dal punto di vista pratico e quindi quanto il faticoso inserimento del nostro autore fosse di ordine psicologico. L’italoamericanità elaborata da Fante fu infatti un processo che, caso del resto non unico, lo allontanava al contempo dalla tradizione reinventata oltreoceano dal suo gruppo di origine senza renderlo completamente permeabile né al fascino del mainstream statunitense, né a quello dell’Italia. In particolare quest’ultima, conosciuta assai tardi, assurse a oscuro oggetto del desiderio, vicino al quale lo scrittore non si sentiva del tutto sicuro delle proprie capacità artistiche e del proprio equilibrio sentimentale: si vedano in particolare le pagine sul perché alla fine non visitò mai il villaggio paterno.
Tutti e due questi i lavori qui presi in esame fanno risaltare l’importanza dell’assimilazione negli Stati Uniti, o meglio i pesi che debbono sopportare e i prezzi che devono pagare coloro che lasciano comunque sospettare di essere, o che semplicemente si sentono, non del tutto assimilati. I saggi di Scacchi sull’evoluzione dell’inglese americano, quelli di Antonnelli e Scannavini rispettivamente sul “black English” e sullo “Spanglish”, le riflessioni di Paoletti sull’epistolario di Fante e sulle sue spiegazioni del perché abbia voluto scrivere i suoi romanzi e racconti mostrano tutta la complessità dell’adattamento nella cultura e nella società statunitense.