Sul pluralismo spaziale di età moderna. Migranti stagionali e poteri territoriali nella Puglia cerea

Questo scritto propone, sulla base della storiografia disponibile e di una documentazione diretta assai parziale 1, alcune riflessioni sull’ambiente istituzionale in cui si colloca la mobilità stagionale. Il caso osservato è quello di una delle due grandi aree italiane di lunghissima tradizione e “vocazione” cerealicolo-pastorale: il Tavoliere di Puglia. L’altra, la Campagna Romana, condivide con il Tavoliere alcune delle zone di provenienza dei migranti.
In età moderna il Tavoliere – la più vasta pianura dell’Italia meridionale – è, da un lato, una delle più importanti zone di produzione del grano che circola sulle rotte mediterranee brevi e lunghe, dall’altro offre pascolo invernale a milioni di pecore pregiate che risalgono d’estate verso i pascoli alti dell’Appennino, in particolare quello abruzzese. I beni prodotti sono – per adoperare il linguaggio dei contemporanei – “politici”: il grano pugliese è fondamentale per i bisogni annonari del Regno e di Napoli ed produce, quando se ne permette l’esportazione, vistosi introiti doganali; dalla transumanza ovina proviene circa un decimo delle entrate complessive del fisco del Regno di Napoli. Non è certo sorprendente che il Tavoliere presenti, in età moderna, un’alta densità istituzionale e che costituisca un punto di osservazione privilegiato per rileggere le migrazioni stagionali nel quadro della dialettica dei poteri.

1. Mobili o stanziali?
Viste da questo studio di caso, le migrazioni stagionali – un fenomeno vistoso, spesso posto sotto osservazione ma altrettanto spesso banalizzato – presentano problemi di concettualizzazione di non poco conto. Parto da qualche nota di carattere storiografico.
Nel corso del lungo dominio del “paradigma della sedentarietà”, un problema centrale è stato ovviamente quello di depotenziare il ruolo delle migrazioni in generale. In questa prospettiva le migrazioni stagionali sono state interpretate – semplifico – in due modi diversi. In primo luogo, ad esempio da parte degli studiosi raccolti attorno alle “Annales de démographie historique”, si è negata la legittimità della loro collocazione nella categoria delle migrazioni. Una volta caratterizzate queste ultime dall’elemento della rupture nei confronti di un contesto territoriale puntuale (un villaggio o una città) e dall’ingresso dell’emigrato in un diverso contesto puntuale, i movimenti stagionali rientrano nella vasta categoria dei “mouvements browniens” a cui Marc Bloch pensava che la società medievale fosse condannata, ma che finivano per confermare e sostenere il quadro generale di maintien, di ancoraggio al suolo riconquistato faticosamente dalla società rurale europea nel corso di quella che sarebbe stata chiamata la “mutazione feudale” fra XI e XII secolo. La stessa ripetitività degli itinerari li confinerebbe dentro spazi strettamente familiari, dominati da forze descrivibili con metafore di natura meccanica: le migrazioni stagionali sarebbero sottoposte alla logica della “pente”, della forza di gravità che dalle montagne le attira verso le pianure immediatamente sottostanti insieme ai fiumi ed ai torrenti 2; o, addirittura, esse si collocherebbero su una sorta di “rail”, un va e vieni lungo itinerari rigidamente segnati fra i luoghi di radicamento ed inquadramento istituzionale, che sono anche quelli che forniscono alla famiglia contadina la gran parte delle risorse, ed i luoghi dai quali si estraggono risorse integrative 3 . In ogni caso, i migranti stagionali sarebbero sempre ben pronti a scambiare la loro mobilità con una forma qualsiasi di integrazione del reddito da estrarre nei loro luoghi di radicamento – ad esempio con un lavoro protoindustriale.
Lo stesso presupposto – quello della sedentarietà puntuale come forma “normale” di relazione con lo spazio – ha sostenuto una interpretazione rovesciata: invece che ingranaggio del meccanismo oleato della produzione agricola stanziale, le migrazioni stagionali sono state espulse dai circuiti della normalità e confinate nell’ambito della marginalità. Dal momento che il contadino colloca la sedentarietà in cima alla propria scala di valori, chi si rassegna ad erogare lavoro lontano per una parte dell’anno fa parte della società degli outcasts. Per gli insediati, la società dei marginali non costituisce solo una minaccia ed una ragione di incertezza, ma permette anche di rendere più flessibile la produzione, dato che offre manodopera a basso costo e basso livello di formalizzazione, assunta ed espulsa facilmente lungo i violenti mutamenti di intensità e qualità della domanda di lavoro nel calendario agricolo. In ogni caso si tratterebbe di una società nettamente separata da quella normale, dotata di riti e codici suoi propri. I profili personali di coloro che la popolano sono tanti – il migrante stagionale sta al fianco del mendicante, del bandito, dell’evaso, del folle, dello storpio, del mercante ambulante – ma sfumerebbero impercettibilmente l’uno nell’altro o caratterizzerebbero ciclicamente la vita di uno stesso individuo, collocandosi in maniera incerta fra lecito ed illecito. Essendo un tema che ha goduto di ampia fortuna, gli esempi possono essere innumerevoli, e non pochi sono gli storici di peso che lo hanno alimentato – dal Lefebvre della “grande peur” a Geremek, a Vovelle, alla Olwen Hufton 4.
Nella “rivoluzione scientifica” che va rovesciando il paradigma della stanzialità nello studio delle migrazioni, questa contiguità delle migrazioni stagionali con le mille altre forme di mobilità nello spazio viene riproposta con segno mutato. Migrare stagionalmente diventa il risultato o il presupposto di altre migrazioni; il lavoro erogato a qualche giorno di cammino dalle porte di casa può diventare un apprendistato al movimento lungo, uno stadio iniziale che può portare per passaggi successivi o laterali al lavoro erogato in un continente diverso; dal muoversi dentro un quadro di legittimità si può facilmente scivolare nel circuito dell’illecito. Nelle pagine sulla mobilità mediterranea di Peregrine Horden e Nicholas Purcell 5, la locuzione blochiana di mouvement brownien viene ripresa e riempita dei contenuti i più vari – dal commercio alla pirateria alle migrazioni per lavoro stagionale o definitive. Ma il suo significato viene rovesciato: esso non ha più la funzione gregaria di supporto alla stanzialità, ma costituisce il solo modo possibile di occupazione sociale dello spazio, determinato dalla frantumazione microecologica del paesaggio mediterraneo e dalla impossibilità di ciascuna nicchia ecologica di rispondere ai bisogni di quanti vorrebbero viverci. D’altro canto questa, o qualunque altra spiegazione contestuale, rischia di essere troppo specifica, dato che la “rivoluzione scientifica” della mobilità non tocca solo le sponde del Mediterraneo, ma investe spazi ampi e tempi lunghissimi, come dimostrano i numerosi libri di bilancio sui “moving Europeans” 6 o, più in generale, sui “Menschen in Bewegung” 7.
È inutile in questo contesto lodare i risultati conseguiti lungo questa linea. Mi sembra d’altronde che essa presenti qualche rischio. Dilatata a forma unica di relazione con lo spazio, la nozione di mobilità rischia di diventare generica, di disfarsi come oggetto di indagine e concetto operativo. In particolare – è quello che mi interessa in questa sede – esso rischia di ostacolare l’analisi dei contesti, delle specificità, delle differenze radicali fra i fenomeni di dislocazione nello spazio e delle forme della territorialità, che pure, a suo modo, il paradigma della sedentarietà aveva sottolineato 8. Nel caso della Puglia piana, si intrecciano negli stessi luoghi, negli stessi tempi, per scopi uguali, forme di migrazioni stagionali radicalmente diverse oltre che per logiche, reti attivate, rappresentazioni ed identità, anche per i modi di occupazione dello spazio di cui esse sono espressione, per i loro effetti sulla costruzione del territorio, per il loro livello di istituzionalizzazione. Presentarle tutte come il prodotto di una comune “cultura della mobilità” 9, significa semplicemente non capirle.

2. Forme di lavoro “libero” nella grande azienda cerealicola
Il Tavoliere è la parte pianeggiante di una provincia del Regno di Napoli – la Capitanata – che, lungo la sua storia, produce immagini forti. Agli occhi di un osservatore cinquecentesco dallo sguardo acuto, essa è “assai giovevole alle altre del regno”: “produce … grano, orzo, et altre biade in tanta quantità che veramente si può chiamare il granaio non solo di Napoli e del Regno, ma di molte città d’Italia”; al tempo stesso, “nutrisce la maggior parte del bestiame … che da’ luoghi montuosi e freddi discende al piano”. D’altro canto, “in quanto a sé”, è la provincia “la più inutile che vi sia”, dato che è “di non buona aria, priva di alberi e di legna, poverissima di acqua”, “infettata” d’estate “da grandissimi caldi et innumerabili mosche e gran copia di serpi”; e, soprattutto, “è malissimo abitata”, sia per il numero che per la qualità dei suoi “uomini, inetti alle armi et alle fatiche” 10. La proverbiale capacità della provincia di nutrire abbondantemente popoli ed animali non suoi deve così fare i conti con la scarsezza delle sue braccia utili. Una parte assai consistente della mano d’opera necessaria alla sua economia rustica – varie decine di migliaia di cerealicoltori e pastori – deve provenire da lontano, ma solo una minoranza di essa vi si insedia a causa della discontinuità del lavoro disponibile e dell’infelicità dei luoghi.
Si tratta di uno dei paesaggi rurali, non infrequenti nell’Europa e sul contorno mediterraneo di età moderna, segnati da una forte specializzazione e mercantilizzazione, e, di conseguenza, da un calendario agricolo fortemente diseguale nella domanda di lavoro. L’insediamento ne risulta, in una misura varia a seconda delle circostanze, destabilizzato. In corrispondenza del Tavoliere, la trama relativamente continua del popolamento meridionale si lacera: poche e grandi città contadine, sparse nella campagna malarica e priva quasi del tutto di abitazioni rurali, ospitano una popolazione complessivamente scarsa, di molto inferiore a quella delle zone rustiche “normali” per unità di superficie; ed il suo radicamento locale è indebolito dal fatto che essa risulta sovrabbondante rispetto alle occasioni di lavoro relativamente scarse delle fasi “vuote” del calendario agricolo, e al tempo stesso del tutto insufficiente nelle fasi in cui la domanda di lavoro si fa spasmodica. Forse ha ragione Jan Lucassen a dire che solo un sistema servile come quello che all’inizio dell’età moderna si struttura in Polonia riesce a fissare i lavoratori agricoli al suolo, a tenere contigue funzioni abitative e funzioni lavorative per tutte le braccia necessarie al momento in cui la domanda di lavoro giunge al suo culmine nelle aree cerealicole specializzate di antico regime: la mietitura 11. Ma non è questo il caso del Mezzogiorno d’Italia, la cui “rifeudalizzazione”, contemporanea a quella polacca, non mette in discussione la “libertà” del lavoro conquistata già da secoli. Per di più, a differenza di quelle dei settlement acts inglesi, che fanno riferimento a settlement rights ben definiti 12, le maglie delle numerose prammatiche napoletane de vagabundis seu erronibus sono larghe, poggiano su diritti di civitas relativamente poveri di contenuti e risorse, e comunque non interferiscono in alcun modo con chi si muove in cerca di lavoro. Intorno alle aree rurali specializzate, la normale vicenda georgica produce flussi massicci di manodopera che è fatta oggetto di compravendita e sembra muoversi in uno spazio “liscio”, percorre in lungo ed in largo, senza aver bisogno di salvacondotti e passaporti, un territorio in cui pure si aggrovigliano e si sovrappongono confini e giurisdizioni. Il lavoro rustico sembrerebbe dunque definire una sfera speciale, uno spazio fisico ed ideale di libero mercato che ignora l’ambiente istituzionale denso nel quale si muove e risponde alle necessità imperiose dell’ambiente fisico ed economico, alle vocazioni naturali di queste aree ed alla loro spesso millenaria collocazione nel mercato internazionale. Solo con l’emergere della domanda di conoscenza demografica degli stati settecenteschi e delle pratiche del listing dei sudditi per luoghi, e, soprattutto, con gli stati amministrativi ottocenteschi, “pastori e braccianti” abituati “a spostarsi a seconda delle stagioni e delle opportunità, come facevano da secoli”, a ricavare il proprio concetto di confine “dall’energia residua delle gambe e dal conseguimento della meta agognata, ovvero un’opportunità di lavoro transitorio”, imparano a muoversi nello spazio “a meta e tempo definito”, lungo i tracciati di mappe disegnate e regolamentate dai nuovi apparati pubblici centralizzati 13.
Proviamo a verificare queste immagini storiografiche collocando lo sguardo sulla cellula fondamentale della produzione cerealicola specializzata pugliese, la “masseria di campo”, in una di quelle fasi di espansione delle superfici a grano in età moderna – il secondo Cinquecento o il secondo Settecento – che rendono più acuti e visibili i fenomeni della mobilità stagionale. Di proprietà di feudatari, enti ecclesiastici o di privati, a volte appartenente al demanio regio, la masseria di campo (un organismo costituito da edifici abitativi e rustici, terre a pascolo per gli animali da lavoro ed alcune centinaia di ettari coltivati a cereali) funziona a prima vista come una grande azienda agricola proiettata sul mercato e retta da una sorta di imprenditore (il “massaro”) che paga un fitto al proprietario e assume manodopera salariata per suo conto, o che agisce in quanto agente di un proprietario che conduce la masseria in economia. In realtà il ventaglio delle opzioni sui modi di combinare i fattori della produzione disponibili al massaro ed allo stesso proprietario è assai ristretto. L’“uso di Puglia”, un insieme di regole minute di gestione, di rotazione delle colture, di calendario dei lavori, di ingaggio ed utilizzo della mano d’opera, vigente, nella rappresentazione collettiva, ab immemorabili, è formalizzato ed imposto dal grande apparato pubblico che sovrintende alla transumanza ovina, la Dogana della Mena delle Pecore di Foggia, a tutte le numerose masserie collocate nell’amplissimo territorio di sua pertinenza, e si ripropone per secoli, in forme leggermente variate, anche nei contratti riguardanti masserie non doganali, con l’elencazione puntigliosa delle penali per il massaro che non le rispetti. Il banale caveat sull’eccedenza dei comportamenti e delle scelte degli individui rispetto ai vincoli vale ovviamente anche in questo caso, ma non mi pare che possa essere adoperato, come a volte si tende a fare, per svuotare di significato e di efficacia concreta i vincoli stessi. Il nostro massaro-fittuario agisce nella stessa maniera del massaro-agente, e del resto gli stessi individui svolgono, di volta in volta, l’una o l’altra mansione applicando saperi che escludono una figura canonica dell’attività imprenditoriale: l’innovazione.
In particolare per ciò che qui ci interessa, la domanda di lavoro prodotta dalla masseria si articola per profili fortemente tipizzati e per mansioni ben definite nel tempo e nelle pratiche. Nulla si dice invece, nei contratti e nelle regole dell’“uso di Puglia”, sull’iscrizione spaziale del lavoro domandato dalla masseria. Ma il silenzio normativo non produce uno spazio migratorio aleatorio: regolarità e permanenze sono ben visibili anche da questo lato, sostenute da processi di istituzionalizzazione ben lontani dall’ortodossia amministrativa ottocentesca ma non per questo inefficaci.
Un carattere assai evidente dello spazio migratorio centrato sulla masseria, delle pratiche e degli attori che lo alimentano, è la sua segmentazione. In Capitanata “un popolo ara e semina, un popolo diverso miete, ed un altro trebbia” 14; e, per ciascuna delle funzioni previste nel canone agronomico, vengono assunti lavoratori tramite contratti diversificati secondo una gerarchia elaborata e, soprattutto, secondo tempi differenti di erogazione del lavoro: oltre ai giornalieri, troviamo mesaroli (lavoratori assunti per un mese) e annaroli (lavoratori assunti su base annua). Sembrerebbe ovvio distribuire questa forza lavoro secondo una graduatoria della mobilità inversamente proporzionale alla qualità ed alla stabilità del rapporto di lavoro. I giornalieri possono somigliare ai vaganti di Lefebvre: in una certa misura, il loro impegno nella masseria può configurarsi come l’interruzione momentanea del loro vagare. “La povertà delle braccia è tale e tanta – scrive ancora Natale Cimaglia – che approssimandosi l’ottobre ciascun massaio spedisce sopra le publiche strade i suoi capi d’officio, per condurre all’aratro qualunque povero uomo s’incontri vagando, per chiedere da vivere, sia egli di mestiere ciabattino, ferraio, falegname, carpentiere, o altrimenti. Si giunge fino a far bandire la promessa di una doppia mercede, per invitare ignoti operai al servigio della semina” 15. A volte si impiegano ragazzi e donne, presentate da una letteratura abbondante e ripetitiva come “oziose”, in particolare per i lavori primaverili; e del resto squadre di donne al di fuori di qualsiasi rapporto lavorativo si formano per la spigola dopo la mietitura e la ventilatura, sotto la copertura delle consuetudini che considerano “aperti” i campi dopo la raccolta. Ma sarebbe sbagliato irrigidire il nesso fra mobilità e precarietà o inconsistenza del rapporto di lavoro. Nella zona inferiore della gerarchia degli annaroli 16 – che prevede, a partire dall’alto, un curatolo, un sottocuratolo, un buttaro, un capogualano e vari gualani, lavoratori, e scapoli – ed in particolare fra quanti sono denominati significativamente scapoli, troviamo situazioni simili a quelle dei servants-in-husbandry inglesi, che vivono sotto il tetto dei loro datori di lavoro e cambiano residenza di anno in anno fino a quando trovano moglie e si stabilizzano sotto il profilo abitativo e lavorativo, acquisendo i diritti connessi alla residenza in una parrocchia. Ma non è detto che gli scapoli che riescono a salire nella gerarchia degli annaroli, trovino forme meno difettose di inserimento territoriale. Le catene migratorie ben disegnate che conducono gli artigiani verso le città contadine della pianura sottopopolata e ricca di occasioni di guadagno a partire da luoghi ben precisi – i commercianti di formaggio da Corato in Terra di Bari, i “basilari” dalla penisola sorrentina, i negozianti di lane dal Principato Citra, i panettieri e gli scarpari dall’Abruzzo aquilano 17 – sembrano disfarsi alle soglie della masseria. I contratti di lavoro configurano una condizione in una qualche misura servile, una sorta di rinuncia nelle mani del massaro del controllo sulla propria persona per tutto il periodo dell’ingaggio. In particolare l’obbligo di residenza nella masseria, spesso lontana molte miglia dai centri abitati, indebolisce la partecipazione all’universo delle relazioni e dei diritti, che, in un mondo di agrotowns come questo, è localizzato esclusivamente nelle piazze dei grandi borghi. Solo una minoranza degli “obbligati” in masseria sono titolari di uno dei gradi dell’appartenenza allo spazio civico; e quando questo avviene, tramite l’iscrizione a “stati d’anime” ed a ruoli fiscali come “forestieri abitanti”, membri di “fuochi acquisiti” o di famiglie di cives a pieno titolo, non ne deriva sempre la rinunzia alla vagatio ed il definitivo insediamento puntuale. Molti fra questi cerealicoltori si collocano nell’amplissima zona fluida che caratterizza la società di tutti i centri del Tavoliere: essi possono essere inquadrati in “fuochi” che ospitano una sola persona, o, per dirla con Laslett, famiglie “senza struttura”, o famiglie nucleari i cui partner hanno diversa origine geografica; continuano a spostarsi di masseria in masseria; sono protagonisti sia nella rapida crescita demografica dei borghi nelle fasi di espansione delle colture, sia nelle crisi demografiche catastrofiche in coincidenza con le crisi della produzione granaria. Insomma le qualifiche più stabili fra quelle dei cerealicoltori possono nascondere storie di disponibilità a muoversi, a tornare sui propri passi, a cercare altre occasioni in ambiti diversi e, ai loro occhi, non gerarchizzati in forme precise per appartenenza ed identità: strategie di tâtonnement spaziale che possono distendersi per tutta una vita e trasmettersi, con i loro saperi e le loro pratiche, ai discendenti, o finire per alimentare la robusta zona di “forestieri” presenti nei borghi cerealicoli che volgono le spalle ai centri di origine restando a lungo ai margini della società di “accoglienza”.
Viceversa, le qualifiche precarie – quelle di mesarolo e giornaliero – possono risultare da scelte individuali o familiari volte a mantenere il controllo su tempi e spazi del lavoro nel quadro di una inserzione territoriale robusta, anche se non puntuale e non coincidente con la città contadina più vicina alla masseria. Non è fra costoro che vanno cercati i “forestieri” dimoranti nei borghi del Tavoliere. Lasciamo per ora da parte il gruppo più vistoso di giornalieri, quello dei mietitori. Al momento dell’arrivo di questi ultimi nella masseria, sono tornati da poco ai paesi d’origine altri giornalieri e mesaroli, protagonisti dei lavori “invernali”: i montanari abruzzesi, che erano scesi massicciamente in pianura poco prima della discesa dei pastori e delle greggi transumanti dei loro stessi borghi, e sono risaliti poco dopo la risalita degli stessi pastori e delle greggi, per trascorrere l’estate in una montagna piena di risorse, di gente e di occasioni di lavoro. Per quel che gli studi e la documentazione ci lasciano intravedere, la relazione con lo spazio dei cerealicoltori di montagna si presenta più strutturata che per i cerealicoltori stagionali provenienti, ad esempio, dalla collina e dalla bassa montagna più vicine, in particolare dal subappennino dauno: la formalizzazione dei contratti è più frequente, le destinazioni più ripetitive, le reti più efficaci ed organizzate per “nazioni”, ossia per gruppi provenienti dallo stesso luogo. Gli abruzzesi vagano in senso fisico più di altri stagionali e sfuggono all’inquadramento istituzionale locale, ma presentano un quadro strutturato di riferimenti territoriali. Occorrerebbe studiare meglio i rapporti parentali, affaristici, lavorativi dei cerealicoltori stagionali abruzzesi con i loro conterranei dei mestieri artigiani connessi alla pastorizia, e, soprattutto, con i pastori della transumanza istituzionalizzata. Un’ipotesi non peregrina è che essi siano in qualche modo inseriti in quella appropriazione robusta degli spazi di pianura occupati stagionalmente, che rende duplice lo spazio di riferimento dei pastori inquadrati nella Dogana: da un lato il loro centro montano, luogo di identità e relazioni dense, e dall’altro la “posta” loro assegnata in pianura anno dopo anno in cui trascorrono la gran parte del loro tempo di lavoro, collocata dentro una topografia familiare di panetterie, magazzini, taverne, botteghe artigiane, chiesette, ambiti di privilegio fiscale, la quale ospita a volte una doppia serie di toponimi: quelli “pugliesi” e quelli “abruzzesi”.
Inseriti in società che dal movimento ritmico dei loro maschi adulti traggono le loro risorse fondamentali, questi cerealicoltori stagionali sembrano muoversi lungo i sentieri legittimati e protetti che la potente universitas dei pastori e le universitates delle singole comunità appenniniche hanno negoziato, formalizzato e difeso strenuamente nei confronti degli altri poteri.

3. I mietitori
Il nesso fra forme diverse della mobiltà stagionale e il diverso peso e qualità delle iscrizioni spaziali delle comunità di provenienza è particolarmente chiaro nel caso dei flussi imponenti prodotti dalla mietitura. Si tratta del momento cruciale dell’annata agricola, quello della realizzazione dell’intero investimento annuale. Pur nell’ambito dei vincoli dell’“uso di Puglia”, esso dà luogo a giochi tesi fra gli attori, centrati sulle forme diverse di mobilità prodotte dalla masseria di campo e sul loro diverso livello di istituzionalizzazione. Richiamo per chiarezza solo le due alternative estreme di un continuum di situazioni intermedie che emergono nella documentazione.
Una possibilità praticata dai massari è quella di affidarsi al fatto che, in coincidenza con i grandi lavori agricoli, le strade si affollano di uomini che offrono le proprie braccia. A volte queste braccia si danno una strutturazione debole che sembra realizzarsi nello contesto stesso della strada, cioè che non dà luogo a continuità e non sembra fondata su logiche di gruppo precise: la caratteristica fondamentale di questa strutturazione è la dimensione, il numero degli uomini che compongono i singoli gruppi, corrispondente alla domanda di lavoro espressa da una singola masseria media. Si tratta delle “compagnie volanti” 18, che presentano, agli occhi dei massari, il vantaggio della flessibilità e di un costo relativamente basso soprattutto perché non impegnano anticipazioni. Ma anche svantaggi evidenti. In primo luogo sul piano della certezza della mietitura, dal momento che quelle stesse strade, nello stesso momento, sono piene di agenti di altri massari che domandano braccia. I margini di manovra al momento mietitura consentiti al massaro si fondano sul fatto che il canone agricolo prevede un certo numero di giornate di lavoro per unità di superficie ed un tempo complessivo per la mietitura fra i 20 ed i 35 giorni, a partire dai primi di giugno in pianura, dove le messi maturano prima, e man mano più avanti nell’anno in rapporto all’altimetria del campo da mietere. La conversione delle giornate in mietitori in carne ed ossa genera una qualche flessibilità: se si è costretti ad ingaggiare un numero relativamente basso di uomini, si può allungare il tempo della mietitura, ma certo non indefinitamente. Insomma il rischio di non avere braccia sufficienti a disposizione è alto, ed impone a volte di porsi sul piano difficile e pericoloso del ricorso controllato alla illegalità ed alla violenza giustificata dallo “stato d’eccezione”: ad esempio quello di organizzare la fuga dei propri garzoni e mietitori quando, come capita, essi vengono inquadrati d’autorità nelle squadre che lottano contro l’invasione delle cavallette 19, fino al rapimento dei mietitori altrui. Il gioco non è del tutto sregolato, gode esso pure di una qualche definizione giuridica: come una città affamata ha diritto alla cattura della nave granaria che passa nelle sue acque, in un regno affamato si possono adottare mezzi estremi per assicurare che il grano sia raccolto; ma è un affare pericoloso, e le probabilità di successo o di impunità sono legate in maniera diretta al rango ed alla influenza politica dei partecipanti. D’altro canto, una volta che il massaro si è assicurato il lavoro di una “compagnia volante” adeguato sotto il profilo numerico, pagandola di solito a cottimo, resta il problema della qualità del lavoro erogato – la quantità delle spighe piegate e non mietute, che è lecito spigolare da chiunque, risulta alta; e poi ci sono i danni provocati all’attrezzatura della masseria. L’immagine che di questo modo di far mietitura offrono gli osservatori – in particolare quelli tardo-settecenteschi, inutile dire nel quadro di schemi di lettura della realtà ben precisi che non è qui il caso di richiamare – è a tinte fosche: da episodio georgico la mietitura diventa festa crudele, i cui protagonisti, “fuggitivi delle più lontane provincie del Regno o per ragione di debito o di delitto … uccidono i buoi, rubano la caparra e la sementa, appiccano il fuoco alle mete ed esercitano … la infame arte di grassatori” 20. Non a caso, nella trattatistica e nella corrispondenza fra massari e proprietari, il massaro accorto deve cercare a tutti i costi di uscire da questo gioco assicurandosi la mano d’opera per la mietitura ben in anticipo e dentro un quadro di garanzie giuridiche ed istituzionali che le “compagnie volanti” non possono offrire.
Non si tratta affatto di una aspirazione, ma di pratiche ampiamente attestate dalle fonti, le quali, dal momento che non riguardano fenomeni di marginalità, sono relativamente abbondanti e dirette; in particolare gli atti notarili 21. La compagnia di mietitori ingaggiata dal massaro può avere caratteristiche radicalmente diverse da quelle della “compagnia volante”: essa può presentarsi alla masseria esattamente nel numero prefissato e nel momento deciso dal massaro sulla base del livello di maturazione delle spighe ed annunciato un paio di giorni prima ai mietitori; può essersi organizzata nella piazza di uno stesso borgo ed essere formata da uomini che parlano lo stesso dialetto e che si conoscono reciprocamente da lungo tempo; l’itinerario dei singoli mietitori, invece di essere un groviglio di percorsi individuali disordinati che si incrociano nelle piazze dei centri cerealicoli, può coincidere con la linea più breve e diretta – due tre o giorni di cammino in gruppo ordinato di solito bastano – fra la piazza del centro di provenienza e l’azienda; il gruppo può avere una gerarchia interna indiscussa ed una strutturazione precisa: per ogni 4 falci un “ligante”, collocato su un livello gerarchico e retributivo inferiore, più a volte una squadra di “ragazzi” per la spigolatura, prestazione di pregio ancora più basso. Questo gruppo strutturato di migranti si costituisce tramite una serie di atti contrattuali fra privati garantiti dalla figura semipubblica del notaio e inquadrati in una legislazione di livello statale che, oltre a permette ai lavoratori stagionali di attraversare immuni uno spazio irto di poteri e di norme particolari, fissa limiti alla libera determinazione delle retribuzioni e prevede pesanti penalità per chi infrange questo tipo di contratto. La stessa normativa pubblica, poggiandosi sulle consuetudini, impone la designazione ufficiale, da parte degli organi di governo delle comunità locali di origine dei mietitori, di figure affidabili, sia sul piano morale che della solvibilità, gli “antenieri” – un atto che si intreccia idealmente ad un altro momento fondamentale della vita di questi borghi, spesso segnati da bisogni impellenti e strutturali di grano: l’organizzazione da parte dei governanti locali dei “partiti” che devono assicurare al borgo stesso il rifornimento di cereali spesso dalle stesse zone in cui i loro contadini mietono abitualmente. L’anteniere somiglia poco al classico mediatore, al “caporale” ed al “locatore d’opere” che troviamo, ad esempio, nella Campagna Romana ed in situazioni in cui la scarsa formalizzazione ed istituzionalizzazione dei rapporti di lavoro fra attori dislocati in spazi non puntuali offre occasioni per forme di micro-imprenditoria “spontanea”, individuale, diffusa. Egli è un “contadino giornaliero” che partecipa direttamente alla mietitura e si muove in un universo in cui i rapporti di lavoro sono incatenati “all’uso di Puglia”, le retribuzioni sono fissate dalle prammatiche, le reti “molli” di conoscenza, parentela, fiducia, reciprocità sono sepolte sotto una massa di hard contracting 22. La garanzia offertagli dall’atto pubblico della sua universitas non lo rende di per sé degno di fiducia agli occhi del massaro; lo rende semplicemente partner affidabile di un contratto segnato esso pure dai crismi della ufficialità. Con un atto notarile stipulato fra novembre e dicembre, a volte da un notaio rogante nel borgo dell’anteniere, a volte da un notaio del borgo più vicino alla massaria, l’anteniere garantisce di condurre alla masseria stessa, in un giorno del giugno seguente che il massaro gli comunicherà per lettera o a voce, un numero definito di mietitori sani, adulti ma di età non avanzata, deferenti, che non hanno commesso delitti; in cambio egli riceve una anticipazione proporzionale al numero dei mietitori promessi ed un’“anteneria” fra il 5 ed il 10% circa della retribuzione complessiva dei mietitori. A questo punto l’anteniere costruisce la squadra ridistribuendo la caparra fra “bracciali” del suo borgo che egli conosce bene ma che obbliga a sua volta con un nuovo, massiccio intervento del notaio. Questi, dopo il contratto fra massaro ed anteniere, roga 20, 30, 50, a volte 100 contratti fra l’anteniere ed i singoli mietitori della squadra in via di formazione, volti a ridurre il rischio che questi ultimi soccombano alla tentazione di impegnarsi con più di un anteniere e quindi di ricevere più di una anticipazione: a volte si giunge ad ipotecare i beni immobili dei bracciali a favore dell’anteniere. Prima della mietitura, a maggio, c’è un terzo intervento del notaio: una nuova serie di contratti fra chi, per impedimenti vari non può rispettare gli impegni presi con l’anteniere, e chi non ha trovato al tempo giusto un ingaggio, magari perché troppo giovane o troppo vecchio, e si offre come sostituto.
Così rigidamente inquadrata da atti a cavallo fra pubblico e privato, ci si può aspettare che la squadra dei migranti stagionali porterà a buon fine la mietitura.

4. Spazi, paesaggi, poteri: nella quadrettatura territoriale di età moderna
Per leggere queste forme di strutturazione delle migrazioni stagionali occorre sottrarsi, in qualche misura, sia al fascino della prepotenza ed evidenza dei quadri naturali, delle vocazioni determinate da una geografia che sembra mettere “naturalmente” in relazione le risorse potenziali delle terre quaternarie in pianura con quelle della montagna 23, sia alla suggestione delle relazioni sociali fra i migranti e fra questi ultimi e gli “insediati”, ai quali ci richiamano a ragione i sociologi delle reti. In carattere normativo di queste pratiche non si definisce solo dal lato della “società”, ma emerge dentro una dialettica di poteri che l’altissimo valore “politico” delle aree delle grandi migrazioni stagionali – interlocutrici privilegiate delle annone e del fisco – rende serrata ed incisiva. E, naturalmente, risente delle particolari vicende delle formazioni politiche in cui queste aree sono situate.
Nel caso del Regno di Napoli 24 la “rifeudalizzazione”, a differenza che nell’Europa centro-orientale, non è alternativa ai processi di territorializzazione statali; e a sua volta la dimensione statale del territorio si rafforza senza disconoscere i diritti dispositivi sul suolo di altri soggetti – signorie feudali, enti ecclesiastici che la Controriforma ha a loro volta dotato di più incisive pretese territoriali, comunità locali, privati. Fra Cinque e Seicento le giurisdizioni godute a titolo feudale aumentano decisamente fino ad assegnare in qualche misura ai feudatari provinciali le funzioni di regii officiales, ma al contempo i vasti “stati feudali” quattrocenteschi vengono smembrati non solo in minuti ritagli territoriali, ma anche in singoli corpi di giurisdizione, che convivono e si intrecciano su uno stesso spazio, sovrapponendosi alle prerogative di enti ed apparati ecclesiastici e laici sempre più robusti e penetranti, e finiscono per evocare la figura, destinata a trionfare nell’Ottocento, di uno spazio distinto dalla giurisdizione. A sua volta, l’istituto dell’universitas continua ad essere ambìto dalle comunità locali, si tenta di metterlo al riparo dal “dispotismo” regio, feudale ed ecclesiastico tramite la solenne esibizione, nei libri rossi e magni commissionati dalle élite dei borghi, di privilegi ed immunità accumulatesi in secoli di pattuizioni e dichiarazioni di fedeltà condizionata, ma va a collocarsi in una posizione minore nell’ordinamento del Regno, è quasi sempre in concorrenza con un feudo dotato del suo stesso spazio di riferimento, è svuotato di funzioni propriamente giurisdizionali. Tutto questo non include le società locali dentro i confini ristretti dei borghi rurali e delle loro pertinenze, né le esclude del tutto dalla redistribuzione delle risorse. Le articolazioni periferiche dei poteri sovralocali, spesso venali, si immergono nell’orizzonte fazionario dei luoghi, concorrono alla costruzione di arene dotate di risorse reali e simboliche non previste dagli ordinamenti, provocano dialettiche trasversali – quelle ad esempio fra capitoli cattedrali ed ordinari diocesani, fra giudici e castellani, fra doganieri e percettori, fra erari e feudatari; insomma configurano spazi politici multipli, di scala variegata.
Nel Tavoliere questa quadrettatura minuta e confusa dello spazio politico-giurisdizionale deve presto fare i conti con la quadrettatura minuta dello spazio fisico promossa dalla Dogana della Mena delle Pecore, fondata a metà Quattrocento per costruire le condizioni, a vantaggio del fisco regio, della difficile coesistenza di grano e pecore: un grande apparato pubblico ma in rapporti spesso apertamente conflittuale con altri apparati statali, oltre che con gli altri poteri territoriali. A metà Cinquecento, la Dogana fa una scelta di enorme rilievo: decide di tentare di mettere ordine nel groviglio delle pretese e dei diritti trasferendo la parte essenziale della sua attività di normazione e controllo, dagli uomini, dagli animali e dai prodotti e dalle pratiche, al suolo. Tramite le procedure negoziali e consensuali tipiche del processo decisionale pubblico dell’epoca, viene avviata una titanica operazione di conoscenza, descrizione, cartografazione e geometrizzazione del vasto territorio di pertinenza della Dogana, iscritta sul terreno tramite l’apposizione di limiti e segni, e registrato nel “libro della reintegra”, la quale provoca a sua volta risposte sullo stesso piano da parte degli altri attori ed istituzioni. In particolare gli spazi e gli usi delle masserie cerealicole vengono minutamente definiti in maniera da non intaccare le risorse destinate alle pecore transumanti. Inutile dire che questa proiezione sul suolo delle pretese e dei diritti non immobilizza il paesaggio: il suo effetto immediatamente percepibile è quello di inventare figure nuove di controllo – i “compassatori” in primo luogo – e un nuovo linguaggio dei conflitti, che si accendono ormai in maniera preminente sulle modifiche del disegno dello spazio. Le manomissioni dei “vaghi scacchieri” e delle “armoniche proporzioni” fra le componenti del paesaggio costruite dalla “reintegra” di metà Cinquecento sono frequenti 25. Soprattutto nelle fasi di crescita demografica, il grano invade le terre destinate ufficialmente al pascolo, provocando vivacissime proteste da parte delle universitates dei pastori, risposte vigorose dell’universitas dei massari e delle lobbies connesse all’annona napoletana, nuove mediazioni e riformulazioni del disegno spaziale. Tutto questo ha ripercussioni dirette sulla qualità ed il livello delle migrazioni stagionali pastorali e cerealicole. In particolare quando l’espansione della cerealicoltura è vigorosa, la gestione delle fasi stagionali acute della domanda di lavoro diventa estremamente difficile, e tende a coinvolgere soggetti sociali ed istituzionali presenti non solo nelle aree di destinazione, ma anche in quelle più importanti di provenienza delle braccia; in particolare nelle aree che hanno incorporato nelle loro logiche di funzionamento i rifornimenti annonari ed i redditi da lavoro offerti dalla grande pianura malarica.
Proviamo a spostare lo sguardo dalle masserie dove essi mietono alle piazze in cui si erano costruite le squadre dei mietitori nell’autunno precedente. Una parte significativa delle migrazioni stagionali più strutturate non ha origine sulla collina o sulla montagna; esportatrice di braccia verso il Tavoliere è, ad esempio, la stretta fascia olivicola affacciata sul mare Adriatico nella Puglia centrale. A prima vista – e nelle descrizioni di osservatori e viaggiatori – si tratta di un ambiente del tutto opposto a quello del Tavoliere: di contro ai grandi spazi nudi di alberi e disabitati, coltivati da manodopera salariata in grandi aziende, questo è un mondo di pochissima terra e moltissimi uomini, di microaziende in cui si “cava frutto dai sassi medesimi”, e gli spazi del grano e delle pecore devono essere cercati in fazzoletti di terra all’ombra degli olivi; un mondo di borghi fitti, collocati ad una manciata di chilometri gli uni dagli altri, e che, al contrario di quelli cerealicolo-pastorali, presentano indici bassissimi di mobilità di lungo periodo, un numero ristretto di cognomi, una forte capacità di suscitare appartenenza. Ma gli elementi di somiglianza fra queste due Puglie sono altrettanto importanti. In particolare le accomuna l’estraneità della loro costituzione sociale ed istituzionale ai modelli delle comunità contadine. L’habitat non poggia sulla dicotomia classica fra i molti villaggi rustici e le poche città mercantili-manifatturiere, ma su gigantesche agrotowns in cui le attività rurali, fortemente specializzate, monetizzate, proiettate su mercati vicini e lontani, convivono con le attività che sovrintendono alla circolazione dei prodotti. Dal punto di vista qui adottato, le conseguenze principali di questa configurazione sono duplici: da un lato, l’esposizione di questi grandi centri di produzione agricola al rischio alimentare, contrastato da un interventismo annonario continuo e proiettato su spazi ampi; dall’altro la rilevanza relativamente scarsa, per la società locale, dei suoli di prossimità, delle pertinenze rurali dei borghi. Il circuito delle mura che serra le case, agglomerate in forme parossistiche, simbolizza, più che l’autonomia giurisdizionale del centro, una sorta di estraneità dei cives nei confronti della campagna deserta che le circonda. La ristrettezza del contorno rurale del borgo ed il fatto che esso sia in buona parte appropriato, a titolo feudale o allodiale, da enti e soggetti individuali spesso estranei al borgo stesso, rompe il nesso fra abitare, possedere e lavorare che fonda la cittadinanza rustica di antico regime riferita ad un luogo elementare istituzionalizzato. E del resto, quando il lavoratore rurale conquista un frammento di proprietà fuori le mura, non gli attribuisce gli elementi simbolici che inducono il contadino “normale” a difenderlo ad ogni costo: troppo piccolo per soddisfare i bisogni della sua famiglia, il lopin appropriato viene usato nella stessa maniera di quello preso in fitto, viene venduto e riacquistato quando se ne presenta l’occasione, trasmesso lungo le linee femminili privo del nesso col cognome. Protagonista di questa economia è il “bracciale”: una figura che somma le funzioni del produttore diretto di beni destinati immediatamente al mercato a quelle di erogatore di lavoro per conto terzi; che è titolare di una famiglia nucleare neolocale formata a giovane età ed immersa in reti di relazione povere degli strong ties 26 della parentela e della solidarietà; che deve misurarsi con la pervasività del contratto e, soprattutto, con la necessità di cercare contraenti in spazi che nulla hanno a che fare con quelli inclusi nelle pertinenze dell’universitas di cui gode i diritti di cittadinanza. Strutturalmente incompleti sul piano delle risorse incorporate nella terra, gli spazi della costa olivicola funzionano cercando integrazioni con altri spazi strutturalmente incompleti in particolare sotto il profilo della disponibilità di braccia. Le stesse universitates olivicole, in larga parte espropriate, oltre che di competenze giurisdizionali, di capacità di controllo sulle proprie pertinenze rurali, offrono risorse preziose alla massa dei propri cives collocati nelle zone basse della stratificazione sociale ed esclusi dalla sfera formale del governo locale, diventando operatori spaziali non puntuali; e cioè intervenendo in arene lontane tramite l’istituzionalizzazione dei gesti, degli itinerari, delle procedure dell’approvvigionamento annonario e delle migrazioni stagionali. Cercando di controllare, non sempre con successo, il rischio connesso alle scelte economiche che cresce man mano che ci si avventura in ambienti geograficamente e giurisdizionalmente lontani, i poteri locali concorrono alla costruzione di spazi irregolari, non previsti negli ordinamenti e nella toponomastica, ma dotati di forme di legittimità compatibili con il repertorio complicato di forme istituzionali costruitosi nel passaggio fra tardo medioevo e prima età moderna. Questi spazi non puntuali, dei quali le migrazioni stagionali istituzionalizzate sono l’elemento essenziale di vertebrazione e di demarcazione, costituiscono l’ambiente familiare, il normale ambito vitale di generazioni di contadini pugliesi di età moderna.

5. Dinamiche deboli e governo dello spazio
Inutile insistere sulla ricchezza di dettaglio che, avvicinando lo sguardo, emerge all’interno di questo quadro. In particolare nelle fasi di espansione, l’apparato pubblico e privato di regolazione dei migranti stagionali può rivelarsi non solo inefficace ma controproducente, e la strutturazione dei flussi migratori, invece di garantire la mietitura, può diventare una condizione per impedirla. Nel 1574, dopo anni di dissodamenti leciti ed illeciti, i mietitori inquadrati nelle compagnie sotto la direzione dei loro antenieri danno vita ad uno sciopero di grande estensione con l’obbiettivo dell’aumento della retribuzione, che viene immediatamente represso con l’arresto di 42 antenieri. La risposta di ampio respiro delle istituzioni, a partire dalle prammatiche del 1585 e 1588, è rappresentata da una ulteriore regolamentazione dell’anteneria, dei rapporti di lavoro, del salario, fissato al livello “giusto” e “solito” 27; ma le tensioni ed i conflitti si ripetono in continuazione, vedono come protagonisti, oltre che i mietitori “accaparrati”, quelli “sciolti” 28, suscitano progetti di inquadramento sempre più ferreo della mobilità stagionale 29. Il punto è che tutto questo non può essere preso per un segno di inconsistenza dell’agire istituzionale. Il modo di essere dei territori nella lunga fase di costruzione della “stato moderno”, i vincoli formali posti alle pratiche e all’utilizzazione dei suoli, il sovrapporsi di territorialità legittime ma in vario modo difettose, il groviglio delle norme, delle pretese, dei conflitti che si aprono in continuazione, finiscono per inceppare le dinamiche spaziali, determinano inerzie, producono effetti imprevisti di auto-organizzazione, di controllo, in un certo senso di governo dello spazio e dei suoi usi. La masseria cerealicola, spesso presentata come un organismo adattato all’ambiente ed alle sue risorse, diventa la pietrificazione di un delicato sistema di compatibilità fra una folla di soggetti e pretese. La componente strutturata e inquadrata delle migrazioni stagionali pugliesi è parte non secondaria di questo sistema di compatibilità, e, sia pure tra tensioni e conflitti, funziona fino a quando funziona la forma barocca e plurale di interventismo spaziale messa in atto nel Regno di Napoli come in molte altre formazioni politiche di antico regime.
Lo spazio legicentrico ottocentesco, rifondato attraverso le attività di listing, di cartografazione geometrica e di controllo poliziesco ed amministrativo, presenta l’insanabile contraddizione di voler governare gli uomini in movimento nel mentre si rinunzia al governo delle pratiche imprenditoriali e degli usi economici della terra, si lascia che “usi di Puglia” e “vaghi scacchieri” vengano travolti dalla collocazione dei suoli e delle loro risorse in una dimensione privatistica. A dispetto della massiccia produzione di relazioni, elenchi, vincoli, permessi e norme ben ordinate, lo scompaginamento e la deistituzionalizzazione del secolare ordine migratorio e dei suoi spazi diventa inevitabile.

Note

1 Fra gli scritti da tener presente segnalo: Alfonso La Cava, La demografia di un comune pugliese nell’età moderna, “Archivio storico per le province napoletane”, LXIV (1939), pp. 25-66; Salvatore Fedele, Strutture e movimento della popolazione in una parrocchia della Capitanata 1711-1750, “Quaderni storici”, 17 (1971), pp. 447-484; Aurelio Lepre, Feudi e masserie. Problemi della società meridionale nel ‘600 e nel ‘700, Napoli, Guida, 1973; F. Farinelli, Per lo studio delle migrazioni degli operai campestri abruzzesi nei secoli passati: un approccio geografico, “Rivista abruzzese”, 1973, nn. 3-4; Gérard Delille, Agricoltura e demografia nel regno di Napoli nei secoli XVIII e XIX, Napoli, Guida, 1977; John Davis, Antropologia delle società mediterranee. Un’analisi comparata, Torino, Rosenberg & Sellier, 1980, in particolare pp. 40-51; Giovanna Da Molin, La mobilità dei contadini pugliesi tra fine ‘600 e primo ‘800, in SIDES, La popolazione italiana nel Settecento, Bologna, CLUEB, 1980, pp. 435-75; Silvio Zotta, Rapporti di produzione e cicli produttivi in regime di autoconsumo e di produzione speculativa. Le vicende agrarie dello “stato” di Melfi nel lungo periodo (1530-1730), in Problemi di storia delle campagne meridionali nell’età moderna e contemporanea, a cura di Angelo Massafra, Bari, Dedalo, 1981, pp. 221-89; Gérard Delille, Famiglia e proprietà nel Regno di Napoli, Torino, Einaudi, 1988; Biagio Salvemini, Prima della Puglia. Terra di Bari e il sistema regionale in età moderna, in Storia d’Italia, La Puglia, a cura di Luigi Masella e Biagio Salvemini, Torino, Einaudi, 1989, pp. 3-218; Giuseppe Poli, Manodopera bracciantile e migrazioni stagionali nella Daunia del Cinquecento, in Atti del 11° Convegno nazionale sulla preistoria, protostoria, storia della Daunia, a cura di Armando Gravina, San Severo, Archeoclub d’Italia, 1990, pp. 291-306; John A. Marino, L’economia pastorale nel Regno di Napoli, Napoli, Guida, 1992; Angiola De Matteis, “Terra di mandre, di pastori ed emigranti”. L’economia dell’Aquilano nell’Ottocento, Napoli, Giannini, 1993; Saverio Russo, Immigrazioni di contadini nella “Puglia piana” tra Sette e Ottocento, in Ricerche di storia moderna IV, a cura di Giuliana Biagioli, Pisa, Pacini, 1995, pp. 249-269; Id., Immigrazioni nel Tavoliere nel Seicento. Alcune ipotesi di ricerca, in SIDES, La popolazione italiana nel Seicento, Bologna, CLUEB, 1999, pp. 207-223; Id., Montagne e pianura. Nel Mezzogiorno adriatico (XVII-XIX sec.), in La montagna mediterranea: una fabbrica d’uomini? Mobilità e migrazioni in una prospettiva comparata (secoli XV-XX), a cura di Dionigi Albera e Paola Corti, Cavallermaggiore, Gribaudo, 2000, pp. 133-40. Una buona rassegna degli studi in Agnese Sinisi, Migrazioni interne e società rurale in Italia meridionale (secoli XVI-XIX), “Bollettino di demografia storica”, 19 (1994), pp. 41-69.

2 Alain Collomp, La maison du père. Famille et village en Haute-Provence aux XVIIe et XVIIIe siècles, Paris, PUF, 1983, p. 217

3 Abel Poitrineau, Remues d’hommes. Les migrations montagnardes en France 17e-18e siècles, Paris, Aubier Montaigne, 1983, p. 82-3

4 Olwen Hufton, The Poor in Eighteenth-Century France 1750-1789, Oxford, OUP, 1974.

5 Peregrine Horden e Nicholas Purcell, The Corrupting Sea. A Study of Mediterranean History, Oxford, Blackwell, 2000, ad es. pp. 377 ss.

6 Ad esempio Leslie Page Moch, Moving Europeans. Migration in Western Europe since 1650, Bloomington, Indiana UP, 1992; Klaus Bade, L’Europa in movimento. Le migrazioni dal Settecento ad oggi, Roma-Bari, Laterza, 2001.

7 Faccio riferimento a Harald Kleinschmidt, Menschen in Bewegung. Inhalte und Ziele historisches Migrationforschung, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 2002.

8 Fra ciò che ho letto della immensa letteratura recente sulla mobilità geografica di ogni tipo, trovo atteggiamenti interpretativi che in varia misura condivido in particolare in Laurence Fontaine, Histoire du colportage en Europe, XVe-XIXe siècles, Paris, Albin Michel, 1993; Paul-André Rosental, Les sentiers invisibles. Espaces, familles et migrations dans la France du 19e siècle, Paris, EHESS, 1999; Matteo Sanfilippo, Problemi di storiografia dell’emigrazione italiana, Viterbo, Sette Città, 2005; L’Italia delle migrazioni interne. Donne, uomini e mobilità in età moderna e contemporanea, a cura di Angiolina Arru e Franco Ramella, Roma, Donzelli, 2004.

9 Il riferimento è al titolo dell’ultimo capitolo di David S. Reher, Town and Country in Pre-industrial Spain: Cuenca, 1550-1870, Cambridge, CUP, 1990.

10 Camillo Porzio, Relazione del Regno di Napoli al Marchese di Mondesciar Vicerè di Napoli tra il 1577 e il 1579, in Id., La congiura dei baroni del Regno di Napoli contro il Re Ferdinando Primo e gli altri scritti, a cura di Ernesto Pontieri, Napoli, ESI, 1964, p. 326.

11 Jan Lucassen, Migrant Labour in Europe 1600-1900. The Drift to the North Sea, London, Routledge, 1987, in particolare p. 126.

12 Si veda, ad esempio, Peter Clark, Migration in England during the Late Seventeenth and Early Eighteenth Centuries, “Past and Present”, 83 (1979), pp. 57-90.

13 Marco Meriggi, Sui confini dell’Italia preunitaria, in Confini. Costruzioni, attraversamenti, rappresentazioni, a cura di Silvia Salvatici, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2005, pp. 44 e 46. Meriggi utilizza fra l’altro l’importante lavoro di Andrea Geselle, Bewegung und ihre Kontrolle in Lombardo-Venetien, in Grenze und Staat. Passenwese, Staatbuergerschaft, Heimatsrecht und Fremdengesetzgebung in der oesterreichischen Monarchie 1750-1867, a cura di Waltraud Heindl e Edith Saurer, Wien, Böhlau, 2000, pp. 347-515.

14 Natale Maria Cimaglia, Della natura e sorte della coltura delle biade, Napoli, presso Filippo Raimondi, 1790, p. 8.

15 Ibid., p. 29.

16 Saverio Russo, La “Puglia piana” dei salariati, “Istituto Alcide Cervi. Annali”, 11 (1989), p. 293. Sugli annaroli cfr. in particolare Id., Immigrazioni contadine , cit., pp. 256-261.

17 Id., Immigrazioni nel Tavoliere cit., p. 217.

18 Cfr., ad esempio, Francesco Nicola De Dominicis, Lo stato politico ed economico della Dogana della Mena delle Pecore di Puglia, tomo III, Napoli, presso V. Flauto, 1781, p. 236.

19 Franco Mercurio, Uomini, cavallette, pecore e grano: una calamità di parte, “Società e storia”, 30 (1985), p. 788.

20 Michelangelo Manicone, La fisica appula, II, Napoli, presso Domenico Sangiacomo1807, pp. 143-144.

21 Per le indicazioni archivistiche degli atti notarili da me utilizzati si veda B. Salvemini, Terra di Bari, cit., p. 49, nota, e pp. 170-171, nota.

22 Faccio allusione ad una categoria ampiamente adoperata nell’economia neo-istituzionalista: ad esempio in Oliver E. Williamson, Markets and Hierarchies. Analysis and Anti-trust Implications, New York, Free Press, 1975.

23 “Due climi di natura differenti gli unisce indissolubilmente il loro interesse”, scrive a fine Settecento Francesco Longano, Viaggio per la Capitanata, Campobasso, Rufus, 1981, p. 105. Si vedano, in proposito, i molti ed efficaci lavori di Luigi Piccioni.

24 Indicazioni importanti (e riferimenti bibliografici) su questi temi sono contenute nei saggi raccolti in Citta e contado nel Mezzogiorno tra medioevo ed età moderna, a cura di Giovanni Vitolo, Salerno, Laveglia, 2005.

25 Sull’ideologie di quanti difendono il disegno doganale di metà Cinquecento cfr. Biagio Salvemini, L’allevamento, in Storia dell’agricoltura italiana, vol. II, Il medioevo e l’età moderna, a cura di Giuliano Pinto, Carlo Poni, Ugo Tucci, Firenze, Accademia dei Georgofili-Polistampa, 2002, pp. 255-320.

26 Il riferimento è a Mark S. Granovetter, The Strength of Weak Ties, “American Journal of Sociology”, 78, 6 (1973), pp. 1360-1380.

27 Cfr. Aurelio Lepre, Le campagne pugliesi nell’età moderna, in Civiltà e culture in Puglia, III, La Puglia tra medioevo ed età moderna. Città e campagna, a cura di Cosimo Damiano Fonseca, Milano, Electa, 1981, pp. 327-328.

28 S. Russo, Immigrazioni di contadini, cit., p. 263.

29 Cfr. Domenico Grimaldi, Piano per impiegare utilmente i forzati, e col loro travaglio assicurare ed accrescere le raccolte del grano nella Puglia, e nelle altre provincie del Regno, Napoli, a spese di Giuseppe-Maria Porcelli, 1781.