Il voto degli italiani all’estero e il Canada

Grazie al voto all’estero, Romano Prodi e l’Unione hanno vinto le elezioni del 9-10 aprile 2006. Quattro dei sei seggi per il Senato destinati agli italiani d’oltre mare sono andati ai loro candidati assicurando una misuratissima maggioranza. Senza l’apporto di oltre oceano il margine di 25.000 voti sulla Casa delle Libertà si sarebbe infatti dissolto più rapidamente della neve al sole.
Non c’è nulla di particolare nel fenomeno del voto italiano oltre oceano. In Canada molti individui con la doppia nazionalità votano nelle elezioni del paese di origine. Ma nelle ultime elezioni italiane i votanti d’oltre Atlantico hanno scelto direttamente i propri rappresentanti nel Parlamento. Venti parlamentari, dodici deputati e otto senatori, sono stati scelti per rappresentare i loro elettori suddivisi in quattro enormi collegi su scala mondiale. Per esempio, quello comprendente l’America settentrionale e centrale si estende su sei fusi orari e circa venti nazioni. Viene quindi da chiedersi come gli eletti possano effettivamente rappresentare i propri elettori.
L’idea di coinvolgere gli immigrati italiani nella vita politica della lontana madrepatria è nata nel periodo fascista. Mussolini ha utilizzato l’immagine delle colonie all’estero, raffigurate come repliche moderne delle colonie greche nell’antichità classica, per mobilitare le sparse comunità di emigranti a sostegno degli interessi italiani. Questa strategia ha costituito un’importante rottura rispetto a quella dei precedenti governi, che avevano sostanzialmente ignorato coloro che per ragioni economiche avevano dovuto abbandonare la Penisola, ma i suoi tragici effetti possono essere desunti dalla sorte di quelle decine di migliaia di emigranti che durante la seconda guerra mondiale sono stati internati o dispersi perché gli Alleati sospettavano della loro lealtà.
Il nuovo meccanismo elettorale è opera di Mirko Tremaglia, già giovanissimo combattente della Repubblica di Salò, dirigente storico del Movimento Sociale Italiano e infine ministro per gli Italiani all’estero (2001-2006). Per moltissimi anni Tremaglia ha tenacemente lottato per estendere i diritti elettorali agli emigrati. Alla fine il suo impegno ha convinto un vasto fronte parlamentare, coinvolgendo persino alcuni deputati del centro-sinistro. D’altronde i candidati dell’Unione hanno ripetuto più volte durante la recente campagna elettorale che il diritto di votare avrebbe reso i funzionari consolari più sensibili ai bisogni degli emigranti e quindi più disposti ad aiutarli. In effetti è indiscutibile che oggi il corpo diplomatico italiano tratti con condiscendenza, se non proprio con arroganza gli immigranti, tradizionalmente di origini contadine e meridionali. Ciò nondimeno ci si deve chiedere se le misure volute da Tremaglia siano le migliori per risolvere questo complicato problema.
La risposta si può trovare nelle errate premesse sulle quali si basa la nuova legge elettorale. Gli immigranti non sono semplicemente italiani che vivono all’estero alla stregua dei greci che fondarono Siracusa, Sibari o Napoli e imposero la loro cultura su lontane sponde del Mediterraneo. Gli italiani sono immigrati in società già organizzate, alle quali si sono adattati con successo e, almeno nel caso nordamericano, si sono inseriti nonostante le discriminazioni subite sino a quaranta anni fa. L’osservatore distratto forse non nota nella prima generazione lo stesso livello d’integrazione della seconda, tuttavia tale fenomeno è assai concreto. Di conseguenza, a meno che non si parli di un ricco emigrato in grado di risiedere in entrambi i paesi, è molto difficile che qualcuno sia completamente di casa nella nazione di origine e in quella di adozione. Perciò è del tutto priva di senso la nozione di “italiano all’estero”, con la sua visione di una cultura trapiantata in una terra straniera e trasmessa intatta alle successive generazioni, e questo è vero persino adesso quando sofisticatissimi mezzi di comunicazione (e-mail, internet, televisioni satellitari) permettono o permetterebbero di tenersi comunque in contatto con la Penisola. Per esempio, tra i 1.270.000 canadesi di origine italiana elencati dal Censimento del 2001, soltanto 469.000 (il 37%) utilizzano l’italiano come lingua prima e soltanto 371.000 (il 30%) lo parlano regolarmente. La perdita linguistica è stata significativa nonostante la facilità di ottenere l’insegnamento scolastico dell’italiano e nonostante che l’immigrazione italiana dati sostanzialmente agli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso.
Conosco votanti nelle elezioni di aprile 2006 che, pur avendo il passaporto italiano, non parlano la lingua dei loro avi, né conoscono il dibattito politico italiano. Con la morte della generazione più anziana, questa diverrà la norma piuttosto che l’eccezione. Se aggiungiamo la già citata questione di quanto i deputati e i senatori possano interrogare un collegio elettorale che spesso copre un intero continente, abbiamo già gli elementi necessari per un peggioramento delle istituzioni democratiche. Non sarebbe stato meglio un intervento congiunto dei CoMiTes, per altro già eletti direttamente dagli italiani all’estero, e della Farnesina per risolvere il problema della rudezza e dell’arroganza del personale diplomatico? Inoltre i cittadini italiani all’estero non potrebbero godere degli stessi diritti dei cittadini di altri paesi votando presso i loro consolati e senza eleggere direttamente propri rappresentanti al Parlamento?