Gli immigrati italiani nel cinema canadese. Un’intervista a Bruno Ramirez

Oltre venti anni fa molti studiosi dell’emigrazione italiana in Canada furono folgorati da un’opera a metà strada fra il documentario e la docu-fiction: Caffé Italia, Montréal (Montréal, ACPAV, 1985 ; regia di Paul Tana; scenggiatura di Paul Tana e Bruno Ramirez). In poco meno di un’ora e mezza (ma una delle versioni circolanti raggiungeva appena i 57’) lo spettatore si trovava immerso nella comunità e soprattutto nella quotidianeità “italiana” della metropoli quebecchese.
In particolare spiazzavano i primi minuti. Un cantante atticciato si scatenava sul palco nell’allora tipica atmosfera heavy metal. Alla fine del pezzo rientrava nei camerini, dove chiacchierava in inglese con due bionde groupies, ma veniva interrotto da una televisione locale. E qui scattava la prima sorpresa: l’intervista era in francese, perché aveva luogo a Montréal nel Québec, e il cantante rispondeva con il pesante accento locale.
Tutto sembrava finalmente chiarito: eravamo di fronte a un tipico caso di “americanitudine” della scena montrealese, dove alla progressiva recisione dei legami con il Canada anglofono poteva (e può) corrispondere una forte imitazione della cultura statunitense. Ma invece le sorprese non erano finite. Entrava infatti un signore anziano e il cantante lo abbracciava e iniziava a parlargli in italiano. Il nostro eroe non era infatti un clone quebecchese dei rocker statunitensi, ma Aldo Nova, alias Aldo Caporuscio, nato nel 1956 a Montréal da emigrati italiani, allora cantante e chitarrista, poi tastierista e produttore, oggi principalmente paroliere (per chi è interessato se ne trova un ritratto sulla versione inglese di wikipedia, mentre è in circolazione il suo ultimo cd: Under the Gun… A Portrait of Aldo Nova).
Nova/Caporuscio è trilingue per non aver abbandonato la lingua dei propri genitori, aver frequentato le scuole del Québec e aver sempre lavorato in inglese a mezza strada fra Canada e Stati Uniti: ha infatti prodotto Céline Dion e cantato con Jon Bon Jovi. La sua apparizione era un modo inatteso per rendere la complessità della situazione italo-montrealese, la sua multi-reattività a influenze diverse, la sua storia breve e complicata. Proprio per evidenziare quest’ultima Caffè Italia proseguiva tornando indietro nel tempo e ricostruendo in color seppia la nomina a re dei lavoratori immigrati del boss Antonio Cordasco (la parte più di docu-fiction), mostrando scene dei documentari sulla trasvolata atlantica di Italo Balbo, accostando interviste sul successo del made in Italy negli anni Ottanta e sugli internamenti di immigrati durante la seconda guerra mondiale.
La pellicola procedeva dunque con un continuo va e vieni fra passato e presente, fra realtà e ricordo della realtà, fra documentario classico e fiction. Nasceva infatti dalla collaborazione particolare fra Paul Tana, emigrato a undici anni a Montréal nel 1958 con la sua famiglia anconetana e divenuto un apprezzato regista, e Bruno Ramirez, nato ad Asmara nell’Eritrea italiana e spostatosi in Canada per studiare e poi insegnare la storia degli Stati Uniti e quella dei rapporti fra le nazioni nordamericane (When Workers Fight: The Politics of Industrial Relations in the Progressive Era, l898-l9l6, Westport CN, Greenwood Press, l978, tradotto come Capitale e sindacato nell’America progressista, Milano,  Angeli, l985; La vida social en angloamerica, Caracas, Instituto Panamericano de Geografia e Historia, 1988; On the Move: French-Canadian and Italian Migrants in the North Atlantic Economy, 1861-1914, Toronto, McClelland and Stewart Publishing Co., 1991; con la collaborazione di Yves Otis, Crossing the 49th Parallel: Emigration from Canada to the USA, 1900-1930, Ithaca, Cornell University Press, 2001).
Regista e co-scenneggiatore hanno formato negli anni successivi  una coppia attenta ad esplorare la storia della comunità di origine italiana, cui per altro Tana aveva già dedicato un breve bozzetto nell’ambito di Les contes de la rue Berri (1977), una raccolta di corti, mentre Ramirez aveva dedicato un libro pionieristico, Les premiers Italiens de Montreal: l’origine de la Petite Italie du Québec (Montréal, Boréal Express, l984). Dalla loro cooperazione sono nati, grazie anche alla collaborazione recitativa e drammaturgica di Tony Nardi, due film di fiction assai interessanti: La Sarrasine (1992) e La déroute (1998). Il primo in particolare ha avuto molto successo di critica e la sua sceneggiatura, firmata a quattro mani, è stata pubblicata sia in francese (Montréal; les Éditions du Boréal, 1992), sia in inglese (Toronto, Guernica, 1996). Nelle due opere gli espatriati italiani sono confrontati alle altre componenti della realtà d’oltreoceano: franco-canadese nella Sarrasine, di recente immigrazione nella Déroute. L’effetto è sostanzialmente più secco nella prima pellicola, mentre sfiora eccessivamente il melodramma nella seconda.
Infine nel 2004 Bruno Ramirez ha scritto da solo la sceneggiatura di The Canadian Duce/Il duce canadese (CBC e Les Productions Télé-Action), miniserie televisiva in quattro episodi di  circa 45’ l’uno, diretta da Giles Walker e andata in onda nel 2004. Al centro di questo lavoro, presentato da Ramirez stesso per i nostri lettori (vedi il sito di ASEI: https://www.asei.eu/index.php?option=com_content&task=view&id=44&Itemid=1), vi è un duplice interplay, quello fra il consolato fascista e la comunità immigrata, che i funzionari italiani cercano di conquistare, e quello fra quest’ultima e il governo canadese, che vede i nuovi arrivati come possibili nemici e presto lì farà  rinchiudere in veri e propri campi di concentramento. Anche in questo caso i molti premi ricevuti (Chicago International Film, New York Festivals, Columbus International Film Festival, Houston International Film Festival) e l’importanza della sceneggiatura ne ha favorito la pubblicazione in inglese (Toronto, Guernica Editions, 2006), mentre l’intera serie è disponibile anche in dvd (Action Production).
La produzione cinematografica di Bruno Ramirez è dunque notevole ed è accompagnata dalla continua riflessione sulla possibilità di sfruttare il cinema peri narrare la storia. Vedi, per esempio alcuni suoi interventi a convegni e dibattiti su riviste: History, Immigration and Cinema: The Case of Montréal’s Italians, in The Columbus People: Perspectives in Italian Immigration to the Americas and Australia, a cura di Lydio F. Tomasi, New York, CMS, 1994, pp. 381-390, Clio in Words and in Motion: Practices of Narrating the Past, “Journal of American History”, 86, 1999, pp. 987-1014). Nel frattempo il cinema quebecchese e quello canadese hanno visto apparire altri lavori di un certo spessore legati alla presenza italiana. In alcuni casi, come Cube (1997) oppure Cypher (2002) di Vincenzo Natali tale aspetto è dovuto semplicemente alle origini del regista e d’altronde in questi film di fantascienza lo stesso côté canadese è limitato ai capitali o ai luoghi di produzione della pellicola. In altri la comunità immigrata gioca un ruolo maggiore: dall’ironia sulla mafia in The Kiss of Debt (2002, regia di Derek Diorio) con Ernest Borgnine, icona italo-statunitense, a quella sui problemi di un gay italo-montrealese in Mambo italiano (2003, regia di Émile Gaudreault dalla commedia di Steve Galluccio).
Possiamo dunque approfittare della cortesia, dell’esperienza e dell’expertise di Bruno Ramirez per tracciare un quadro della presenza italiana nella cinematografia canadese e quebecchese. Iniziamo dunque chiedendogli quando e come è cominciata a emergere la peculiarità italiana nel cinema canadese e in quello quebecchese?
Non c’é dubbio che il contesto politico e culturale nel Canada degli anni 70 e 80 del Novecento – caratterizzato dall’impegno multiculturale – ha favorito un atteggiamento di apertura dell’industria cinematografica e televisiva nei confronti della presenza degli immigrati nella società canadese. E ciò, da un lato ha incoraggiato giovani autori italo-canadesi a considerare il cinema come facente parte del loro orizzonte di impegno artistico e professionale; dall’altro, ha spinto autori canadesi, anche se timidamente, a includere personaggi italiani nei loro lavori proprio perché ci si rese conto dell’importanza della presenza italiana nel paesaggio urbano canadese. Più che “peculiarità italiana”, io direi “inclusione” progressiva degli italiani nell’universo cinematografico canadese.

Che ruolo hanno giocato i registi immigrati in questa progressiva affermazione?
Nonostante il clima di apertura a cui ho appena fatto cenno, il ruolo di registi e produttori italiani é stato indispensabile. Si trattava, infatti, di bussare alla porta di enti statali e delle varie direzioni televisive presentando progetti che potessero esser reputati validi non solo per il loro contenuto etno-culturale ma anche sul piano artistico e tecnico. Quindi, che si pensi a Paul Tana e Nicola Zavaglia nel Quebec, o a Jerry Ciccoritti nell’Ontario, il lavoro di ricerca e di concezione (attingendo dalle nuove conoscenze sulla realtà degli immigrati italiani) é stato un sine qua non per potere arrivare a delle proposte di film reputate valide e degne di finanziamento.

Quanto hanno contato i programmi statali di sostegno alla produzione cinematografica e quanto ha giocato l’interesse della televisione, quando questa è divenuta una finanziatrice di registi, scrittori ed attori attraverso le sue serie?
In retrospettiva, Caffé Italia, Montréal si é avverato essere un film “storico” nel senso che – oltre alle sue qualità intrinseche – è servito da test circa l’interesse e la disponibilità degli enti statali a fornire il sostegno finanziario necessario per la produzione e la telediffusione di un’opera interamente dedicata a una minoranza immigrata. Fu anche grazie al suo successo di critica che Tana e il suo produttore (Marc Daigle) riuscirono ad ottenere l’appoggio di tali enti per la produzione dei due lungometraggi successivi (La Sarrasine e La Déroute).
Questa esperienza, che fece di Paul Tana e dei suoi film un punto di riferimento importante nel paesaggio cinematografico quebecchese, non ha avuto un corrispettivo nel Canada anglofono. Tra i pochi registi italo-canadesi e anglofoni, spicca il caso di Jerry Ciccoritti per la sua commedia Boy Meets Girl (1999), e più recentemente per lo sceneggiato televisivo Lives of the Saints (2004), basato sull’omonimo romanzo di grande successo scritto da Nino Ricci. Ma se si considera l’intera opera di Ciccoritti – in gran parte dedicata a sceneggiati televisivi su una grande varietà di temi –  i suoi due lavori summenzionati costituiscono più una parentesi che il risultato di un reale impegno sul tema degli italiani in Canada.

Quali ti sembrano oggi i caratteri principali della raffigurazione canadese e quebecchese degli emigrati italiani? E c’è una significativa differenza in tale raffigurazione tra pellicole di cineasti d’origine italiana e quelle di cineasti provenienti da altri gruppi?
La produzione filmistica (o anche televisiva) rimane limitata e troppo varia per permettere di osservare una tendenza precisa. Ma in linea di massima, é lecito asserire che in quei casi in cui il film é stato concepito da autori e produttori italiani, c’è stato uno sforzo serio di raffigurare le esperienze storiche e le dinamiche identitarie attingendo a tutte le conoscenze storiche e sociologiche a disposizione. E naturalmente, la sensibilità culturale degli autori è stata fondamentale.
Chiaramente, la trilogia di Paul Tana, e lo sceneggiato televisivo Il Duce Canadese (prodotto da Claudio Luca), rientrano in questa categoria: e aggiungerei, anche se con qualche riserva, i due lungometraggi di Jerry Ciccoritti menzionati in precedenza.
D’altra parte, e fin dagli anni 80, sono stati sempre più numerosi i film di autori canadesi che contengono personaggi secondari italiani, o – come in Léolo di Jean-Claude Lauzon – un’Italia mitica al centro della trama. E questo si é verificato soprattutto nel Quebec. Senza volere enumerare questi film (al proposito si può vedere un mio saggio di prossima uscita su “Studi Emigrazione”) direi che la raffigurazione degli italiani che ne risulta varia da un caso all’altro, in funzione della sensibilità degli autori e, a volte, dell’apporto degli attori coinvolti. E ciò spiega perché, a fianco a dei tentativi che io considero “seri” (cfr. 2 Seconds, 1998, di Manon Briand), ci sono quelli in cui ci si lascia ricadere nei clichés e negli stereotipi, senza escludere l’appeal che il tema della mafia continua e senz’altro continuerà ad esercitare su registi e produttori, soprattutto per motivi commerciali.