Indianapolis Italians

James J. Divita, Indianapolis Italians, Charleston, SC, Arcadia, 2006, 127 pp.

Indianapolis, il centro principale nella contea di Marion e la capitale dello stato dell’Indiana, non ha mai rappresentato uno degli insediamenti italiani più consistenti negli Stati Uniti. Nel 1900, gli immigrati italiani che vivevano in questa città erano appena 1.137, ovvero meno dello 0,7% degli abitanti complessivi, e un secolo più tardi, nel 2000, la popolazione di ascendenza italiana in tutta la contea di Marion ammontava a soli 17.442 individui, cioè al 2,2% circa del totale dei residenti.
La scarsa consistenza numerica dei propri membri, sia in valore assoluto sia in percentuale, ha contribuito a fare in modo che la Little Italy di Indianapolis non abbia suscitato particolare interesse tra gli storici delle vicende italo-americane negli Stati Uniti. A colmare in parte tale lacuna giunge il testo di James J. Divita, già autore di alcuni saggi sull’esperienza religiosa degli immigrati italiani nell’Indiana e in particolare a Indianapolis. Si tratta di una storia fotografica, un genere in cui è specializzato l’editore Arcadia, che – sia pure senza pretesa di esaustività per ammissione stessa del suo autore (p. 123) – getta nondimeno luce su molteplici aspetti della vita italo-americana in questa città tra la fine dell’Ottocento e i nostri giorni: la centralità della famiglia, il mondo del lavoro, il cattolicesimo, la partecipazione politica a livello locale, i rapporti con la madrepatria e perfino le attività sportive (con l’immancabile menzione del pilota automobilistico Mario Andretti, vincitore della 500 miglia di Indianapolis nel 1969, sebbene non abbia mai risieduto in questa città). In particolare, attento agli sviluppi più recenti dell’antropologia visuale negli studi sugli italo-americani [cfr., per esempio, Jerome Krase, Italian American Urban Landscapes. Images of Social and Cultural Capital, “Italian Americana”, 22, 1 (2004), pp. 17-44], Divita dedica un capitolo alle manifestazioni di cultura materiale nell’occupazione dello spazio urbano quali la presenza di monumenti celebrativi e di luoghi di culto cattolici.
Nonostante il testo sia costituito in larga parte da didascalie di accompagnamento alle immagini, sono comunque ben delineati alcuni elementi che consentono di tracciare lo sviluppo storico della comunità italo-americana. Attratti dalle opportunità createsi in una città in rapida crescita per la sua rilevanza quale nodo ferroviario nel mid west, gli immigrati italiani giunsero a Indianapolis in prevalenza tra la fine della guerra civile e lo scoppio del primo conflitto mondiale. La componente più consistente di questo flusso era originaria della Sicilia, in particolare di Termini Imerese, e si dedicò soprattutto al commercio di frutta, verdura e altri generi alimentari. A costoro si aggiunse un nucleo di artigiani friulani della provincia di Pordenone, specializzati nel settore del terrazzo e del mosaico, che arrivarono a Indianapolis in due ondate, la prima negli anni Venti e la successiva nel secondo dopoguerra. Quest’ultimo periodo vide anche l’inserimento stabile dei figli degli immigrati nel campo delle libere professioni, in cui avevano già iniziato a introdursi negli anni tra i due conflitti mondiali.
Sorprende, invece, un po’ l’assenza di una documentazione fotografica sull’impiego degli italo-americani nel settore delle costruzioni, in considerazione del fatto che la città rappresentò a lungo un importante centro ferroviario e intraprese un rapido processo di suburbanizzazione, con conseguente edificazione di nuovi quartieri residenziali in periferia, già nel corso della prima metà del Novecento. Dalla presentazione di Divita sembra addirittura che, a esclusione di terrazzieri e mosaicisti, il campo d’impiego degli italo-americani fosse confinato quasi esclusivamente al terziario, nonostante la città avesse sperimentato una forte crescita nel campo della produzione di autovetture e dello sfruttamento del gas naturale nel primo ventennio del Novecento, proprio negli anni in cui culminò l’immigrazione italiana.
Nel sottolineare la graduale integrazione degli italo-americani e la loro progressiva ascesa sociale nel paese adottivo, il libro di Divita denota una certa tendenza celebrativa. Tale orientamento di fondo, però, non impedisce all’autore di fare un cenno fugace alle forme di pregiudizio che colpirono gli italiani nonostante la loro lealtà nei confronti della terra d’acquisizione. L’aver combattuto nell’esercito statunitense nel corso della prima guerra mondiale, per esempio, non impedì agli italo-americani di diventare un bersaglio del Ku Klux Klan, l’organizzazione nativista che proprio in questa città ebbe la sezione più influente nella prima metà degli anni Venti dopo la propria rifondazione nel 1915 con un programma di ostilità nei confronti non soltanto degli afro-americani ma anche di ebrei, cattolici e immigrati in genere.
La storiografia più recente – soprattutto nel campo dell’americanistica – ha espresso con sempre maggior forza la necessità di leggere le immagini fotografiche in maniera critica e come costruzioni socio-culturali anziché come rappresentazioni obiettive della realtà. In tale modo le fotografie divengono mezzi per aiutare l’analisi di singole situazioni piuttosto che meri apparati per illustrare particolari eventi [cfr., ad esempio, James Curtis, Mind’s Eye, Mind’s Truth. FSA Photography Reconsidered, Philadelphia, Temple University Press, 1989; Louis Masur, “Pictures Have Now Become a Necessity”. The Use of Images in American History Textbooks, “Journal of American History”, 84, 4 (1998), pp. 1409-1424]. Tale sofisticazione metodologica non traspare dall’uso delle immagini da parte di Divita. Ma sarebbe ingeneroso aspettarsi un tale approccio alle fonti visuali da parte di un volume che si propone finalità essenzialmente divulgative. In quanto tale, malgrado un certo protagonismo dell’autore, che non riesce a resistere alla tentazione di pubblicare foto in cui egli stesso appare, il libro di Divita raggiunge il proprio obiettivo e rappresenta un primo passo verso la ricostruzione dell’esperienza italo-americana a Indianapolis.