Migrazioni in area ticinese, tra pratiche transnazionali e geometrie identitarie (XVI – inizio XX secolo)

2. Le migrazioni in area ticinese: specializzazioni e geografia di mestiere

In epoca moderna, l’emigrazione dall’area ticinese costituisce uno dei numerosi tasselli che compongono il sistema migratorio dello spazio alpino e subalpino italiano. Lo suggerisce la stessa identificazione dei migranti “ticinesi” nei luoghi di lavoro; solitamente assimilati ai lombardi – o, più specificatamente, ai comaschi la cui diocesi comprendeva buona parte delle terre ticinesi – essi riescono a valorizzare questa circostanza per ottimizzare le loro opportunità sui vari mercati lavorativi. Difatti, l’appartenenza politica al corpo elvetico (che nel 1648 ottiene il riconoscimento della sua neutralità da parte delle potenze europee) e le profonde affinità con il mondo lombardo offrono ai “ticinesi” diversi vantaggi nella corsa all’acquisizione di spazi di mercato. Ne sono un esempio i privilegi che si assicurano i lavoratori edili del baliaggio di Lugano e dei territori lombardi della Valsolda e della Val d’Intelvi nel ducato di Savoia a seguito dell’alleanza firmata tra quest’ultimo e i cantoni svizzeri all’inizio del XVI secolo[12], o il monopolio dell’attività di facchinaggio che i “locarnesi” ottengono presso le Dogane di Firenze e Livorno[13].

La diluizione dell’emigrazione ticinese nei flussi dell’emigrazione alpina e subalpina italiana è confermata anche dalle innumerevoli somiglianze degli spazi di mestiere che caratterizzano queste terre. Oltre gli svariati mestieri del settore edile che segnano il volto di numerose comunità della sua parte meridionale (fornaciai, muratori, stuccatori, tagliapietre, lapicidi, marmorini, pittori, capomastri, architetti, …), l’area ticinese è punteggiata da una miriade di specializzazioni che si estendono dal piccolo artigianato ambulante (vetrai, fumisti, spazzacamini, arrotini, stagnini, ombrellai, …), alle attività di servizio (facchini, domestici, osti, stallieri) e alle attività commerciali, da quelle più modeste (marronai, cioccolatai, venditori di frutta, colporteur), a quelle di più ampio respiro (mercanti all’ingrosso, negozianti)[14].

Questa frammentata geografia rimane pressoché immutata anche nella seconda metà dell’Ottocento. Le aree meridionali (in particolare i distretti di Lugano e Mendrisio) continuano ad essere caratterizzate da una prevalente vocazione migratoria legata al settore edile che in quell’epoca conosce una considerevole espansione a seguito della crescita degli investimenti pubblici e dell’aumento della domanda abitativa privata che accompagna l’espansione urbana[15]. Nelle aree settentrionali, nonostante la scomparsa di molte attività di servizio legate al possesso di privative e monopoli e il declino di alcune branche del piccolo artigianato, ormai sopraffatte dalla produzione industriale, rimangono vive alcune attività tradizionali proprie dell’emigrazione periodica, ad esempio quella dei marronai e dei cioccolatai, quella degli spazzacamini, e quella degli arrotini e dei venditori di coltelli, ancora numerosi nelle città italiane e francesi dell’Ottocento. I mutamenti dei mercati lavorativi internazionali spingono tuttavia molti emigranti a reindirizzare le loro attività verso il settore edile e quello agricolo, in particolare quando intraprendono il viaggio verso il continente americano dove la rapida crescita urbana e la colonizzazione dei nuovi territori offre a molti emigranti ampie possibilità di lavoro proprio in questi settori[16].

Non è inutile ribadire che, come in gran parte della realtà italiana[17], anche in Ticino le destinazioni oltremare rimangono quantitativamente minoritarie rispetto a quelle interne e continentali. D’altra parte, l’apertura delle rotte transatlantiche non porta a una modifica sostanziale delle logiche migratorie “tradizionali”. Anche l’emigrazione oltremare continua ad essere concepita come un distacco temporaneo durante il quale chi parte affida alle donne la gestione dell’economia domestica e la cura dei membri della famiglia, mantenendo, nel contempo, i principi della cooperazione della famiglia allargata attraverso la gestione indivisa dei beni e delle risorse[18].

Apparentemente immutabile nelle sue regole, l’emigrazione ticinese conosce tuttavia una trasformazione sul piano degli atteggiamenti individuali nei confronti della scelta migratoria. L’alternativa tra l’emigrazione interna e continentale e quella americana spinge gli emigranti a comparare i rispettivi rapporti tra costi (e rischi) e benefici[19]. Così, dopo un’esperienza in California e il rientro in Europa, un emigrante valmaggese scrive al fratello (rimasto in California) per comunicargli la sua speranza di poter “ritornare qui [in Califonia] a guadagnare [piuttosto] che di stare a casa ad avere tanti figli e venire poveri”[20]. Un altro emigrante, partito per l’Argentina, scrivendo alla moglie osserva invece: “[…] calcula un poco cuanti denari avete ricevuto, se stava li a emigrare tutte le primavere, avrei io potuto forsi socorervi con tanto?”[21]. E poco tempo dopo ribadisce: “Io non capisco come che a mio figlio non ci sia entrato nella idea di venire qui a lavorare con mè senza essere col penziere dandare a cercare lavoro avendono io qui anche di troppo”[22]. In breve, se per gli emigranti ticinesi della seconda metà dell’Ottocento e dei primi del Novecento la diversificazione delle scelte migratorie non sembra alterare le motivazioni della partenza, essa contribuisce a riformulare il progetto migratorio e, di riflesso, a modificare le pratiche transnazionali che, come cercheremo di mostrare, si esplicano attraverso un atteggiamento più attivo nei confronti del percorso personale e delle scelte riguardanti il proprio itinerario migratorio.

3. Emigrazione, genere e scelte matrimoniali

Molte sono le pratiche che traducono il transnazionalismo delle esperienze migratorie: da quelle riguardanti la sfera economica (rimesse, investimenti fondiari e immobiliari, …) a quelle che toccano gli aspetti più propriamente politici (orientamenti ideologici, scelte partitiche o confessionali) e culturali (pratiche linguistiche[23], abitudini alimentari[24], modelli di vita, …). Direttamente connesse alla costruzione degli itinerari migratori, esse ne subiscono anche le trasformazioni. In tal senso, diversi indizi sembrano suggerire una certa differenziazione delle pratiche transnazionali a dipendenza del tipo di migrazione (periodica e continentale o intercontinentale). Il primo di questi riguarda la partecipazione delle donne all’emigrazione. È noto che nelle migrazioni periodiche “tradizionali” dell’area ticinese esse ne sono quasi totalmente escluse e raramente intraprendono la via dell’espatrio – generalmente solo assieme a famigliari[25] –. Alla fine dell’Ottocento tuttavia, complice il drammatico squilibrio del mercato matrimoniale di molte aree del cantone, esse si inseriscono nei flussi migratori, in particolare in quelli transoceanici[26]. Tra coloro che affrontano l’emigrazione oltremare si trovano mogli che accompagnano i loro mariti, ma anche donne che raggiungono famigliari o futuri sposi, o mosse dalla speranza di una vita più libera e indipendente. Benché il loro numero rimanga minoritario rispetto a quello degli uomini[27], la loro presenza suggerisce una progettualità migratoria che, pur se ancorata alla realtà ticinese, offre maggior spazio alle scelte individuali e di coppia tra cui quella di un’installazione definitiva nel nuovo mondo qualora le circostanze lo richiedano o lo permettano[28]. La costituzione di nuclei familiari è d’altronde un importante fattore di radicamento e favorisce la costruzione di un campo sociale più propizio a forme di “transnazionalismo identitario” o all’assimilazione. È quanto si intuisce, dalla lettera di un emigrante valmaggese in California che scrivendo a uno zio dopo 22 anni di assenza dalla patria annota: “Mi rincresce di dirvelo, i miei portamenti, il mio sistema di vivere, persino la lingua è americana, solo quando parlo col padre, parla la lingua nativa del resto tutto è inglese i miei figli temo che mai sapranno parlare l’italiano, forse!”[29]. In queste circostanze, non è raro che la tutela del legame con la terra d’origine sia affidato ai figli attraverso la loro scolarizzazione in patria. Infatti, non pochi emigranti nel continente americano fanno rimpatriare i loro figli in modo che possano frequentare i vari ordini scolastici in lingua italiana, ribadendo attraverso di loro, il progetto del rientro in patria e il mantenimento dei vincoli con la comunità di origine.

Anche le scelte matrimoniali dei migranti contribuiscono alla costruzione di un campo sociale le cui pratiche rinviano al transnazionalismo. La regola endogamica – prevalente tra i migranti di antico regime – appare come la miglior garanzia del rispetto delle regole della solidarietà famigliare, ancorando lo sposo alla sua comunità di origine. Tra i migranti della seconda metà dell’Ottocento e dell’inizio del Novecento (soprattutto tra quelli che scelgono l’emigrazione nel Nuovo mondo) si delineano comportamenti più aperti, favoriti anche dalle caratteristiche del mercato matrimoniale locale. In generale, il matrimonio in patria con una ticinese al momento del rientro rimane l’opzione favorita. In parecchi casi tuttavia, la difficoltà (o la non opportunità) del rientro in patria impone una modifica del progetto stesso, magari con un matrimonio all’estero, pur se con una ticinese. Così, dopo aver risparmiato un piccolo capitale, un emigrante valmaggese in California, scrive al padre per chiedergli di mandargli “una giovina di Lodano che io potrò maritare, allora renterò un rancio […] io ho bisogno di una donna di buon carattere e di buona voglia di lavorare, cioè una donna di buona corporatura e in gamba. Riguardo alla bellezza non sarò critico di contentarmi”[30]. Un altro emigrante, comunica dalla California la sua intenzione di sposarsi ma “non con una di questi paesi pero che me la manderete voialtri perche i 26 anni ci sono appresso molto e per mettere principio a qualche cosa è ormai tempo e si terrebbe la testa un po più a casa nei suoi affari”[31]. Il definitiva, con tale scelta, gli emigranti e le loro famiglie cercano di prolungare i legami con la terra d’origine, anche a costo di una scelta che favorisce l’insediamento definitivo nel luogo di destinazione. Il matrimonio esogamico rimane invece una scelta esposta all’incomprensione e alla critica della famiglia in quanto accresce i rischi di rottura del progetto migratorio e allontana lo sposo dai suoi “doveri” nei confronti dei famigliari rimasti in patria. Pur tuttavia, sono numerosi coloro che scelgono questa soluzione. Così, un emigrante scrivendo ai genitori del suo matrimonio con un’argentina li rassicura sostenendo che da quando si è sposato gode “sempre d’una perfetta salute e sono sempre più ritirato”[32], mentre un altro prega il padre in Ticino di intraprendere i passi necessari presso l’amministrazione comunale per far registrare il suo matrimonio con un’immigrata tedesca “perché quando venerò a venire a casa e se veneremo a avere figli non amerei che mia moglie e figli pasasseri per forestieri”[33].

4. Rimesse: tra materialità e immaterialità

Come sottolineato in precedenza, è soprattutto attraverso le rimesse che si concretizza il transnazionalismo di molte esperienze migratorie. Ribaltando uno dei numerosi luoghi comuni riguardanti l’economia delle montagne, R. Merzario aveva sottolineato come queste ultime fossero i veri forzieri delle pianure e delle città. L’economia migratoria ticinese (come quella delle valli alpine italiane) è quindi all’origine di un doppio flusso: quello degli uomini che dalle montagne scendono verso le pianure, e quello del denaro che dalle pianure risale verso le valli alimentando la vita economica locale[34]. Un flusso, quest’ultimo, generato dal lavoro e dai risparmi dei migranti ma anche dalle rendite garantite attraverso vere e proprie strategie transnazionali basate sull’investimento fondiario e immobiliare nei luoghi di emigrazione o sulle pensioni versate da enti pubblici agli emigranti (militari, funzionari, architetti di corte, …) per i servizi resi durante la loro vita attiva”[35]. E se i guadagni e i proventi, talvolta significativi, sono perlopiù taciuti per non suscitare le gelosie dei compaesani[36] (e magari le brame delle autorità fiscali), esse offrono l’opportunità di alimentare l’identificazione delle comunità locali con il lavoro dei loro migranti. L’offerta, da parte di corporazioni o confraternite di migranti, di somme di denaro per la realizzazione di lavori edilizi, affreschi o decorazioni nella chiesa del paese o il dono di oggetti d’arte e paramenti liturgici destinati ad arricchire l’arredo sacro delle chiese, non sono solo il segno dell’attaccamento dei loro membri alle loro comunità, ma anche il modo attraverso cui celebrare l’intimo legame tra queste ultime e i luoghi di emigrazione[37]. Non va poi dimenticato che parte delle rimesse dei migranti permette di finanziare iniziative volte a mantenere e acquisire gli spazi dei mercati lavorativi legati all’emigrazione. È in questa prospettiva che va letto il finanziamento di numerose scuole cappellaniche da parte dei migranti ticinesi[38]: esse sono lo strumento per la trasmissione dei rudimenti necessari a chi emigra, vale a dire il saper leggere, scrive e far di conto.

Queste osservazioni, riferite perlopiù all’emigrazione di antico regime e dei primi dell’Ottocento, sono in buona parte valide anche per quelle della seconda metà dell’Ottocento e dei primi decenni del Novecento. Anche in questo caso, i risparmi inviati a casa servono innanzi tutto a saldare debiti, ad acquistare terre e case e, se ve ne è la possibilità, a far studiare i figli. Inoltre, iniziative a supporto e promozione dell’emigrazione si prolungano in forme quasi invariate anche nel corso dell’Ottocento e dei primi del Novecento. La creazione di scuole di disegno e la formalizzazione della formazione di alcune professioni attraverso l’istituzione di veri e propri apprendistati[39] sono il segno del tentativo di preservare competenze e spazi di mercato acquisiti nel corso del tempo[40]. Nel contempo, esse prolungano un atteggiamento che vede nell’emigrazione un elemento centrale per l’economia del cantone visto che le rimesse contribuiscono in modo determinante al finanziamento dell’economia cantonale.

Non mancano anche nuove sensibilità e nuovi atteggiamenti che si concretizzano, ad esempio nell’accresciuta ostentazione dell’agiatezza conquistata grazie all’emigrazione e che trova sfoggio, ad esempio, nell’edificazione di dimore il cui sfarzo celebra l’ascesa sociale dei loro proprietari[41]. Essa si affianca a iniziative imprenditoriali che riconfigurano lo spazio delle pratiche transnazionali. Gli investimenti nell’ambito della promozione economica regionale (opere stradali, linee ferroviarie, servizi pubblici, …) e le diverse iniziative imprenditoriali che traggono origine direttamente da esperienze migratorie[42], e non solo nell’ambito industriale, sono il segno di un nuovo rapporto con l’economia migratoria, vista – per parafrasare un’espressione di P. Audenino[43] – come la mano invisibile del capitalismo ticinese. Ne è un esempio l’attività di Giuseppe Soldati, un emigrante della regione luganese che dopo aver fatto fortuna in Argentina rientra in Ticino dove acquista diverse proprietà agricole e numerose parcelle di terreno incolto alfine di trasformarle in superfici adatte a uno sfruttamento agricolo di tipo capitalista. Il progetto del Soldati, che trae spunto dalla sua esperienza argentina, si basa sulla combinazione di grandi estensioni fondiarie con il sistema colonico, in alternativa quindi al paese di piccoli proprietari fondiari proprio della storia rurale del cantone. L’auspicata razionalizzazione del settore agricolo ticinese, con il confluire delle esperienze della “periferia” (l’Argentina) nel “centro” (il Ticino) è l’altra faccia di una transculturazione complessa segnata dallo scambio vicendevole di esperienze e pratiche. Così, da una parte numerosi ticinesi danno un contributo non indifferente allo sviluppo del settore vitivinicolo e enologico californiano trasformando terreni agricoli in vigneti; dall’altra, dalle terre del Nuovo mondo – una realtà più avanzata dal punto di vista dei rapporti economici di tipo capitalista – giungono soluzioni che, traslate alla realtà ticinese, tentano di innestare nuovi modelli produttivi e di organizzazione sociale.

5. Associazionismo, vita politica e identità

Sebbene nessuna ricerca abbia finora stimato quanti ticinesi abbiano optato per un’emigrazione definitiva, a partire dalla metà dell’Ottocento, le testimonianze epistolari e i dati sulla presenza di ticinesi al di fuori dei confini cantonali sembrano indicare una crescita dell’emigrazione definitiva, sia tra coloro che hanno scelto l’espatrio nel Nuovo mondo che tra coloro che hanno optato per una destinazione europea o interna alla Svizzera. Così, tra i fornaciai del Luganese, da secoli dediti a un’emigrazione stagionale nel nord Italia, il passaggio a un’attività di tipo industriale (quindi meno soggetta alle oscillazioni stagionali della produzione) favorisce, tra alcuni di loro, la scelta dell’insediamento definitivo nei luoghi di lavoro[44]. Analogamente, per molti ticinesi lo spostamento temporaneo alla ricerca di lavoro nei cantoni svizzeri d’oltralpe si trasforma progressivamente, soprattutto dopo la Prima guerra mondiale, nell’insediamento definitivo, favorito soprattutto dalla chiusura dei mercati lavorativi esteri e dalle restrizioni riguardanti le mobilità di mestiere di natura periodica.

Queste scelte svolgono un ruolo non secondario sull’evoluzione della pratiche transnazionali dell’emigrazione ticinese nel corso dell’Ottocento. L’emigrazione “tradizionale”, nelle sue svariate forme e periodicità, non dà luogo a vere e proprie diaspore “ticinesi” nella misura in cui – se si eccettuano i casi specifici propri ad alcune famiglie di mercanti[45] – essa non consente il consolidamento di una loro presenza stabile nei luoghi di emigrazione. Molti artigiani e buona parte delle maestranze edili, ad esempio, svolgono generalmente un’attività itinerante, spostandosi da una città o un cantiere all’altro secondo la domanda e le opportunità di lavoro. Così, da una lettera di uno stuccatore di Meride (un villaggio del Mendrisiotto) si apprende che “Qua si va da una città a l’altra, i lavori sono una stanza qua e l’altra là”[46], mentre da un altro stuccatore attivo a Heidelberg si scopre che “Dopo aver lavorato per 2 o tre mesi in un luogo bisogna partirsene come cani bastonati […]”[47]. Certo, si creano delle comunità di migranti, in cui, la comune provenienza (e la parentela) si interseca talvolta con l’organizzazione corporativa dei gruppi di mestiere[48] dando luogo a catene migratorie che si appoggiano su diffuse pratiche transnazionali centrate sull’economia delle rimesse. Consolidate solidarietà di gruppo sorgono inoltre attorno ai mercati lavorativi (ad esempio a Roma nel Cinque e Seicento, a S. Pietroburgo e a Mosca tra il Settecento e la metà dell’Ottocento[49], a Londra e Parigi[50] nella seconda metà dell’Ottocento), ma in linea generale gli emigranti non formano comunità sufficientemente stabili e organiche in grado di generare una coscienza di gruppo mantenuta nel corso del tempo. Anche il forte spirito identitario focalizzato sulle comunità di origine impedisce, fino a Ottocento inoltrato, la formazione di un sentimento di identificazione che coinvolga uno spazio regionale più ampio[51]. Ancora una volta, le lettere delle maestranze edili del Sei e del Settecento attive nelle città tedesche ce ne hanno vari indizi: pur se attive in città ove sono insediati diversi migranti provenienti da altri baliaggi italiani in Svizzera (ad esempio le varie famiglie di commercianti della Valmaggia) i contatti con questi ultimi appaiono sporadici e generalmente limitati alla funzione di recapito postale dei loro empori e dei loro negozi[52], senza che traspaia una più precisa relazione o una più profonda identità di matrice etnico-culturale.

Nel 1803, la creazione del cantone Ticino voluta dalla Mediazione napoleonica non elimina le barriere regionalistiche che segmentano il cantone e che vengono traslate anche tra le comunità di emigranti. È solo nella seconda metà dell’Ottocento che, sulla scia di una più stabile presenza dei ticinesi nei luoghi di emigrazione, si assiste alla nascita di forme associative le quali, oltre ad assicurare assistenza ai loro membri in caso di malattia o di indigenza, o incoraggiare attività di natura filantropica e patriottica, promuovono un sentimento identitario comune e il ricordo dei legami con la patria di origine. Associazioni quali le Pro Ticino e le società di mutuo soccorso sorgono in varie città europee (ad esempio a Parigi e a Londra[53]), ma anche in California e in Argentina[54]. Il rafforzamento di una coscienza identitaria avviene tuttavia attraverso un percorso sinuoso e incerto, influenzato, a partire da fine secolo, dall’intenso dibattito sull’identità culturale ticinese, costantemente in bilico tra “italianità” e “elvetismo”. Così, in Argentina, se da una parte l’invenzione della “nazionalità” permette ai ticinesi (presenti nel paese fin dalla metà del XIX secolo) di esercitare una considerevole influenza sulla comunità degli immigrati svizzeri giunti a fine secolo, dall’altra tale supremazia consente loro di conservare una relazione aperta e fluida con l’associazionismo italiano[55]; un’apertura e una fluidità che si esplica, ad esempio, nell’appartenenza simultanea di molti ticinesi ad associazioni italiane e svizzere[56]. Il crescente nazionalismo di inizio Novecento porterà tuttavia a lacerare questi legami, spingendo le associazioni ticinesi di emigranti ad assumere contenuti patriottici viepiù spiccati e una maggiore autonomia nei confronti dell’italianità[57]. Anche nei cantoni elvetici si palesa un’evoluzione della costruzione identitaria dei migranti ticinesi segnata dal rapporto ambivalente tra Svizzera e Italia. Alla fine dell’Ottocento, i ticinesi continuano ad essere assimilati agli emigranti del nord Italia giunti numerosi nella Confederazione[58], non di rado subendo le stesse discriminazioni e le stesse manifestazioni xenofobe di cui quest’ultimi sono oggetto. Per questo motivo, la mobilitazione associativa dei ticinesi nei cantoni svizzeri prende corpo dal sentimento della loro specificità identitaria “etnico-culturale”, e non tanto dalla loro condizione di migranti. Proprio nel momento in cui le relazioni tra il Ticino e il resto della Svizzera si fanno più difficili, tanto da suscitare propositi irredentisti, le diverse Associazioni Pro Ticino presenti nei cantoni d’oltre Gottardo promuovono le loro attività all’insegna del miglioramento dell’integrazione dei ticinesi nella società svizzera e del mantenimento dei legami con il cantone di origine[59], allentando i legami con la matrice identitaria italiana.

Un ulteriore elemento che porta a una trasformazione delle pratiche transnazionali riguarda la sfera politica e più precisamente la nascita, negli anni 1830-40 dei partiti politici. In antico regime la porosità delle frontiere fa della plurilocalità dei migranti una risorsa che essi usano in modo elastico attraverso il cumulo di identità e di funzioni[60]. In più occasioni, il capitale sociale accumulato durante l’emigrazione può essere speso in patria attraverso l’assunzione di cariche pubbliche le quali, a loro volta, aprono spazi di intermediazione politica su scala internazionale. In tal senso, come recentemente rilevato, le pratiche transnazionali sono un fattore imprescindibile dell’esercizio e della riproduzione del potere. È il caso, ad esempio di diversi esponenti del ceto dirigente luganese che grazie a fortunate carriere all’estero (soprattutto in campo militare) ottengono dalle autorità locali degli importanti incarichi di natura diplomatica. I quali, a loro volta aprono loro la strada a ulteriori mandati da parte delle autorità dei cantoni sovrani elvetici presso i governi degli Stati in cui operano. Le attività svolte all’estero influenzano quindi l’esercizio e la riproduzione del potere a livello locale, ma nel contempo quest’ultimo torna utile all’estero, favorendo in particolare carriere nell’ambito della diplomazia[61].

La piena integrazione del Ticino quale cantone sovrano in seno alla Confederazione elvetica e la sua trasformazione, nel 1848, nel moderno Stato federale svizzero, tolgono tuttavia alle élite locali quegli spazi che avevano saputo sfruttare per imbastire le loro carriere attraverso la messa in opera di un transnazionalismo politico. Anche se per diversi emigranti il successo imprenditoriale apre loro le porte alla carriera diplomatica[62], essa è sempre meno il frutto di un transnazionalismo politico nutrito dall’economia dell’emigrazione. Le diaspore ticinesi alimentano invece la vita politica locale, partecipando da vicino alle lotte partitiche che scuotono il cantone durante gran parte dell’Ottocento e dei primi del Novecento. In California e in Argentina, ad esempio, gli emigranti seguono da vicino la vita politica del cantone, promuovendo una vita associativa dalle forti connotazioni partitiche. E anche in Europa, l’emigrazione alimenta la vita politica cantonale attraverso l’influenza esercitata da alcuni emigranti arricchiti e attivi all’estero[63]. In tale prospettiva, la partecipazione alla vita politica ticinese da parte di diversi emigranti non è solo il modo per conservare i legami con la patria, ma anche la soluzione attraverso la quale gli apparati partitici fanno proprie le reti clientelari di cui dispongono gli emigranti più facoltosi, dando così forma a un transnazionalismo politico che fa perno sulle ambizioni personali e sull’uso strumentale delle carriere migratorie.


6. Ritorni

Pur centrale nell’esperienza della maggior parte degli emigranti ticinesi, il ritorno appare ancora come un momento sfuggente e poco studiato nei suoi risvolti quantitativi come pure in quelli sociali e “psicologici”[64]. Eppure, in antico regime come nell’Ottocento, è attraverso la circolarità di gran parte dei percorsi migratori e gli elevati tassi di ritorno dei migranti (sia di quelli continentali che di quelli transcontinentali) che si manifestano con maggior evidenza i contenuti della progettualità dell’emigrazione ticinese e il transnazionalismo delle pratiche che essa esprime. È stato più volte sottolineato come tale progettualità, rimanga soggetta all’aleatorietà dei percorsi individuali; con il tempo, i progetti si trasformano in intenti man mano adattati in funzione delle contingenze personali, familiari, economiche, politiche, … Così, se talvolta è il buon esito dell’emigrazione che determina la rinuncia al ritorno, il più delle volte sono gli imprevisti della vita che determinano un susseguirsi di aggiustamenti del percorso migratorio. Imprevisti che prendono la forma della malattia, dell’infortunio, ma anche della guerra o dell’incertezza circa le possibilità di lavoro[65].

Per chi fa rientro in patria, il ritorno è innanzi tutto il momento delle verifiche e del confronto con coloro (famigliari e compaesani) che sono rimasti. Dovendo coronare il buon esito del progetto migratorio, esso si carica di aspettative e di ansie che l’emigrazione oltremare accentua proprio a causa degli elevati costi che essa implica per chi la affronta e per i famigliari. Difatti, se l’emigrazione periodica “tradizionale” è concepita e vissuta come una successione di tappe il cui bilancio è dato dall’esito economico complessivo dell’intera esperienza professionale, quella transoceanica è affrontata il più delle volte come un episodio temporaneo, delimitato dal rientro che deve sancire il conseguimento degli obiettivi del progetto migratorio. Per questo motivo, è soprattutto tra gli emigranti nel Nuovo mondo (più che tra gli emigranti periodici) che gli insuccessi e le difficoltà sembrano suscitare delusione e frustrazione. Così, in una sua lettera, un emigrante del luganese confida alla moglie la sua mortificazione poiché “Sono venuto in America per procaciare il sostentamento della famiglia, ma se la famiglia dovrebbe vivere dei miei soccorsi potrebbe morire”[66], mentre un altro confessa al fratello che“Per in quanto a mè ci sono venuto nella merica e bisogna che ci stia ma non do parere a nessuno di seguirmi viva berna e la svizzera patria libera accua buona e buonairaa”[67]. Un altro, infine, esclude di poter rientrare in quanto “A casa se non posso tener il capello su degli occhi in faccia a chisesia dei creditori non voglio venire […]”[68].

E anche quando si concretizza, il rientro non è privo di insidie. Nonostante la familiarità del confronto con esperienze di vita variegate, per le comunità locali il ritorno degli emigranti è il momento che evidenzia le differenze createsi tra costoro e coloro che sono rimasti. Se per taluni è il momento della riappropriazione della vita precedente[69], per altri, esso segna l’affermazione di una nuova identità. Lo suggerisce la lettera di Maria Marinelli che scrivendo al fratello in California gli confida che molti “Californiesi” rientrati in patria “paiono signori non si può guardare a dosso della superbia che anno”[70]. D’altronde, lungi dal riflettere un’ideale ed equilibrata bifocalità, il ritorno può celare tensioni, timori, legati al confronto con un mondo che, tutto sommato, si è fatto estraneo. Per un emigrante valmaggese rientrato in patria, il paese di origine gli appare “[…] tutto differente a dirlo con una bocca non si puo creder, pare che le montagne e le case che vengono a dosso […]”[71]. Mentre un’emigrante locarnese, scrivendo al marito dopo il suo rientro in valle, lo rassicura che tutti i vicini, gli amici e i parenti “mi venero a trovarmi e con piagenti del tempo che fui asenta di casa desiderandomi di nuovo la mia Compagnia in questi giorni o sempre ricevuto visita io non trovai nesun di nemico ma tutti amici tuti mi dimandano di voi quando sara il vostro arivo gli rispondo che sara presto […]”.[72]

7. Conclusione

Come in molti altri contesti contraddistinti da una prolungata e radicata tradizione migratoria, le logiche e le dinamiche che reggono le partenze (e i ritorni) dei migranti ticinesi travalicano in parte la varietà delle loro forme. La loro trasformazione nel corso del tempo non manca tuttavia di incidere sulle pratiche transnazionali dell’emigrazione le quali contribuiscono direttamente alla costruzione identitaria del cantone. Posto in questi termini, la diversificazione dei modelli migratori nel corso del XIX secolo può essere vista come elemento di trasformazione delle pratiche transnazionali della società ticinese.

A questo riguardo, diversi aspetti meritano particolare attenzione. In primo luogo, se le identità transnazionali favoriscono l’inserimento economico degli emigranti nelle realtà di accoglienza, esse non sono sufficienti a concretizzare il loro processo di integrazione che dipende anche dall’atteggiamento di queste ultime nei confronti dell’identità: plurale, in alcuni contesti univoca, in altre esclusiva[73]. In tal senso, l’emigrazione ticinese in America, a differenza di quella negli altri paesi europei, ha probabilmente agevolato la formazione di pratiche transazionali fondate su una doppia identità. Ciò proprio grazie ai tratti della cultura politica americana, meno sensibile, rispetto a quella europea, verso il principio di esclusività della cittadinanza. D’altra parte, va rilevato che se la secolare familiarità di gran parte degli emigranti ticinesi con il mondo urbano ha contribuito a formare in loro un’identità in cui convivono ruralità e urbanità, l’emigrazione oltremare, ricolloca sovente i suoi protagonisti all’interno di realtà rurali (basti pensare alle migliaia di ticinesi impiegati nei ranch californiani o nelle aree rurali argentine) dando al loro transnazionalismo dei contenuti specifici, per certi versi meno estranei alla realtà economica ticinese[74], ma che nel contempo agevolano la loro integrazione nel loro contesto di accoglienza. Infine occorre sottolineare l’impatto del progressivo inserimento delle donne nei flussi migratori ticinesi. Favorendo la formazione di nuclei familiari di emigranti, essa svolge un ruolo importante nella ridefinizione delle pratiche transnazionali degli emigranti e rimettendo in discussione le basi stesse del progetto migratorio; basti pensare alla scelta dell’invio a casa dei risparmi (meno facile per chi ha a carico una famiglia) o a quella riguardante gli investimenti fondiari, certamente più proficui nelle terre del Nuovo mondo[75]. Benché solo abbozzati, questi elementi suggeriscono la necessità di esaminare con maggiore attenzione rispetto a quanto fatto finora le molteplici e variegate ripercussioni delle pratiche migratorie sulla società ticinese e sullo sviluppo della sua identità, sempre in bilico tra apertura sul mondo e ripiegamento su se stessa.


[1] Le prime esemplificazioni del concetto si trovano in Nina Glick Schiller, Linda Basch, Cristina Szanton Blanc, Towards a transnationalization of migration: race, class, ethnicity and nationalism reconsidered, “The Annals of the New York Academy of Science”, 645 (1992), pp. 1-24; Id., Towards a transnational Perspective on Migration: Race, Class, Ethnicity and Nationalism Reconsidered, New York, New York Academy of Sciences, 1992.

[2] Cf. Brian McCook, Becoming Transnational : Continental and Transatlantic Polish Migration and Return Mirgation, 1870-1924, in European Mobility, Internal, International and Transatlantic Moves in the 19th and Early 20th Centuries, a cura di Annemarie Steidl, Josef Ehmer, Stan Nadel, Hermann Zeitlhofer, Göttingen, V&R unipress, 2009, pp. 151-173.

[3] Roger Waldinger, “Transnationalisme” des immigrants et présence du passé, “Revue européenne des migrations internationales”, 22, 2 (2006), pp.23-41.

[4] Paola Corti, Famiglie transnazionali, in Storia d’Italia. Annali 24. Migrazioni, a cura di Paola Corti, Matteo Sanfilippo, Torino, Einaudi, 2009, pp. 303-316 (315).

[5] Cf. in particolare Pier Paolo Viazzo, Comunità alpine. Ambiente, popolazione, struttura sociale nelle Alpi dal XVI a oggi, Bologna, il Mulino, 1990; Id., Migrazioni e mobilità in area alpina: scenari demografici e fattori socio-strutturali, “Histoire des Alpes – Storia delle Alpi, Geschichte der Alpen”, 3 (1998), pp. 37-48.

[6] Per l’area alpina italiana, tra i numerosi titoli, segnaliamo, Patrizia Audenino, Un mestiere per partire. Tradizione migratoria, lavoro e comunità in una vallata alpina, Milano, Franco Angeli, 1990; Alessio Fornasin, Ambulanti, artigiani e mercanti. L’emigrazione della Carnia in età moderna, Verona, Cierre ed., 1998; Luigi Lorenzetti, Raul Merzario, Il fuoco acceso. Famiglie e migrazioni alpine nell’Italia d’età moderna, Roma, Donzelli, 2005.

[7] Cf. ad esempio Patrizia Audenino, Le custodi della montagna: donne e migrazioni stagionali in una comunità alpina, “Annali Cervi”, XII (1990), pp. 265-287; Raul Merzario, Donne sole nelle valli e nelle montagne, in Il lavoro delle donne, a cura di Angela Groppi, Roma-Bari, Laterza, 1996, pp. 229-246 e i vari contributi nel volume Donne e lavoro. Prospettive per una storia delle montagne europee, XVIII-XX secc., a cura di Nelly Valsangiacomo, Luigi Lorenzetti, Milano, Franco Angeli, 2010.

[8] Sul tema del ritorno, cf. i vari contributi in “Histoire des Alpes – Storia delle Alpi – Geschichte der Alpen”, 14 (2009).

[9] Ci rifacciamo alla definizione data da Maurizio Ambrosini, La costruzione delle identità trasversali, in Storia d’Italia. Annali 24. Migrazioni, a cura di Paola Corti, Matteo Sanfilippo, Torino, Einaudi, 2009, pp. 673-690 (687-688).

[10] Paola Corti, Famiglie transnazionali, in Ibid, pp. 303-316 (312).

[11] Il rimando è ovviamente a Paul-André Rosental, Maintien / rupture: un nouveau couple pour l’analyse des migrations, “Annales E.S.C.”, 6 (1990), pp. 1403-1432.

[12] Cf. Dante Severin, Privilegi sabaudi agli architetti e mastri da muro luganesi (XVII sec.), Bellinzona, Arti grafiche Arturo Salvioni & Co., 1933; Antonio Gili, La compagnia di Sant’Anna a Torino: una congregazione di mastri d’arte luganesi nel capoluogo sabaudo con il titolo di università e un patronato di cappella, “Bollettino Storico della Svizzera italiana”, vol. 103, fasc. I-IV (1991), pp. 99-104.

[13] Chiara Orelli, I migranti nelle città d’Italia, in Storia della Svizzera italiana. Dal Cinquecento al Settecento, a cura di Raffaello Ceschi, Bellinzona, Edizioni dello Stato del Cantone Ticino, 2000, pp. 257-288 (270-274).

[14] Per una panoramica, cf. Raffaello Ceschi, Artigiani migranti della Svizzera italiana (secoli XVI-XVIII), “Itinera”, 14 (1993), pp. 21-31; Raul Merzario, Famiglie di emigranti ticinesi (secoli XVII-XVIII), “Società e Storia”, 71 (1996), pp. 39-55.

[15] Cf. Luigi Lorenzetti, La manodopera dell’industria edile. Migrazione, strutture professionali e mercati (secc. XVI-XIX), “Mélanges de l’Ecole française de Rome. Italie et Méditerranée MEFRIM”, L’économie de la construction dans l’Italie moderne, 119-2 (2007), pp. 275-283.

[16] Cf. Giorgio Cheda, L’emigrazione ticinese in California. I Ranceri, Pregassona, Fontana edizioni, 2005; Ivano Fosanelli, Verso l’Argentina. Emigrazione, insediamento, identità tra Otto e Novecento, Locarno, A. Dadò, 2000.

[17] Cf. Andreina De Clementi, Internal and Transatlantic Migration, in European Mobility, cit., pp. 123-133.

[18] Ci permettiamo di rimandare al nostro Economie et migration au XIXe siècle. Les stratégies de la reproduction familiale au XIXe siècle, Berne et al., Peter Lang, 1999, pp. 379-396.

[19] Cf. Leslie Page Moch et al., Family Strategy: A Dialogue “Historical Methods”, Vol. 20, n. 3 (1987), pp. 113-125.

[20] Giorgio Cheda, L’emigrazione ticinese in California. Epistolario, vol. II**, Locarno, A. Dadò, 1981, p. 564 (Marysville, 28 luglio 1867).

[21] I. Fosanelli, Verso l’Argentina, cit., p. 237 (Cordoba, 14 agosto 1925).

[22] Ibid., p. 238 (Cordoba, 18 agosto 1927).

[23] Su questo aspetto, cf. Sandro Bianconi, I due linguaggi. Storia linguistica della Lombardia svizzera dal ‘400 ai giorni nostri, Bellinzona, Ed. Casagrande, 1989.

[24] Per il caso ticinese, cf. ad esempio Stefania Bianchi, Nostalgia del gusto e gusto della memoria, “Histoire des Alpes – Storia delle Alpi – Geschichte der Alpen”, 13 (2008), pp. 43-61.

[25] Cf. ad esempio il caso dell’emigrazione bleniese a Milano dove è nota la partecipazione delle donne alla gestione delle attività commerciali (locande e ristoranti) dei mariti e dei genitori.

[26] Il fenomeno riguarda però anche i flussi interni. In questo caso si tratta in larghissima misura di flussi di manodopera (femminile) diretta verso le aziende tessili della Svizzera d’oltralpe. Cf. Femminile plurale: itinerari di storia della donna in Svizzera dall’Ottocento ad oggi, a cura di Yvonne Pesenti, Lugano, Fondazione Piero e Marco Pellegrini – Guglielmo Canevascini, 1992.

[27] Si stima che alla fine dell’Ottocento le donne rappresentino il 10-15% dell’emigrazione ticinese oltremare e la quota salirebbe al 20% circa dopo la Prima guerra mondiale.

[28] Cf. ad esempio la vicenda di Filomena Ferrari, un’imprenditrice luganese attiva in Piemonte nella produzione di laterizi, ricostruita da Donatella Ferrari, Filomena Ferrari: un caso di successo imprenditoriale al femminile tra fine Ottocento e inizio Novecento, in I padroni del fumo. Contributi per la storia dell’emigrazione dei fornaciai malcantonesi, a cura di Bernardino Croci Maspoli, Curio, Museo del Malcantone, 2010, pp. 163-203.

[29] G. Cheda, Epistolario, cit., Vol. II*, p. 316 (San Francisco, 14 marzo 1902).

[30] Citato da G. Cheda, I ranceri, Vol. I., cit., p. 111 (Crescne City, 7 settembre 1896).

[31] G. Cheda, Epistolario, cit., Vol. II*, p. 245 (Gonzales, 16 aprile 1885).

[32] I. Fosanelli, Verso l’Argentina, cit., p. 133 (Rosario, 12 aprile 1864).

[33] G. Cheda, Epistolario, cit., Vol. II*, p. 399 (Grizzly, novembre 1877).

[34] L. Lorenzetti, R. Merzario, Il fuoco acceso, cit., p. X.

[35] Cf. il caso di alcuni architetti ticinesi attivi in Russia durante la seconda metà del Settecento e i primi dell’Ottocento e che beneficiano di una pensione grazie alle posizioni di rilievo raggiunte in seno all’amministrazione zarista. Cf. le testimonianze epistolari pubblicate da Nicola Navone, Dalle rive della Neva. Epistolari di tre famiglie di costruttori nella Russia degli Zar, Mendrisio, Mendrisio Academy Press, 2009, pp. 47-53.

[36] Così, Francesco Antonio Giorgioli, un emigrante di Meride, scrive alla moglie consigliandola di “Non sonare la tromba per quello che riceve, come fa qualche altro, ma invece fare le vostre cose quiete […] perché non tuti ano gusto che si mandi denari in patria o pure perché loro non ne mandano”. Cf. Giuseppe Martinola, Lettere dai paesi transalpini degli artisti di Meride e dei villaggi vicini (XVII-XIX), Bellinzona, Edizioni dello Stato, 1963, p. 58 (Jesdova di Varsavia, 13 ottobre 1688).

[37] Su un contesto prossimo a quello ticinese, cf. Anna Maria Colombo, I tessuti di seta degli emigranti ossolani, “Histoire des Alpes – Storia delle Alpi – Geschichte der Alpen”, 11 (2006), pp. 103-112.

[38] Cf. Ivan Capelli, Claudia Manzoni, Dalla canonica all’aula. Scuole e alfabetizzazione da San Carlo a Franscini, Pavia, Università di Pavia, 1997.

[39] Cf. Carlo Agliati, Occasioni di formazione tra apprendistato e scuola, in Arte in Ticino 1803-2003, vol. I, La ricerca di un’appartenenza 1803-1870, catalogo della mostra (Lugano 2001-2002) a cura di Rudy Chiappini, Bellinzona, Salvioni, 2001, pp. 45-66.

[40] Nella stessa prospettiva, cf. P. Audenino, Un mestiere per partire, cit., pp. 54-68.

[41] Cf. Raffaello Ceschi, La “città” nelle montagne, “Histoire des Alpes – Storia delle Alpi – Geschichte der Alpen”, 5 (2000), pp. 189-204.

[42] Le più note sono la fabbrica di cioccolato di Torre (Val di Blenio) e le fabbriche di orologi di Arogno (Luganese). Cf. anche G. Cheda, I ranceri, cit., vol. I, p. 181

[43] Patrizia Audenino, L’Italia in movimento: protagonisti e percorsi fra Otto e Novecento, in Partire per il mondo. Emigranti ticinesi dalla metà dell’Ottocento, Lugano, 2007, pp. 11-29 (27).

[44] Cf. Giulia Pedrazzi, I “padroni del fumo”. Fornaciai malcantonesi tra emigrazione e imprenditorialità (XVII-XX secolo), in I padroni del fumo, cit., p. 19-21.

[45] Cf. ad esempio il caso della famiglia Pedrazzini e della sua presenza in varie città tedesche attraverso le loro attività commerciali. Cf. Francesca Chiesi Ermotti, Progettualità migratoria e conflitti intestini in un casato alpino. I Pedrazzini di Campo Vallemaggia (XVIII-XIX s.), “Percorsi di Ricerca. Working Papers LabiSAlp, 2 (2009), p. 1-11 (www.arc.usi.ch/index/ris_ist_labi_working_papers.htm). Cf. anche le osservazioni di Giovanni Pizzorusso, I movimenti migratori in Italia in antico regime, in Storia dell’emigrazione italiana. Partenze, a cura di Piero Bevilacqua, Andreina De Clementi, Emilio Franzina, Roma, Donzelli, 2001, pp. 3-16 (6).

[46] G. Martinola, Lettere, cit., p. 133 (Rotterdam, 21 ottobre 1715).

[47] Ibid., p. 114 (Heidelberg, 6 settembre 1715).

[48] Gli esempi sono numerosi. Cf. ad esempio le diverse compagnie di artigiani e lavoratori edili il cui scopo è quello di tener uniti all’estero gli emigranti originari di una stessa comunità o di gruppi di comunità e nel contempo di mantenere l’accesso al mercato lavorativo attraverso la costante e puntuale offerta di manodopera. Cf. R. Ceschi, Artigiani migranti, cit., pp. 24-26.

[49] Sull’emigrazione in Russia, cf. il recente volume di Nicola Navone, Costruire per gli zar. Architetti ticinesi in Russia 1700-1850, Bellinzona, Ed. Casagrande, 2010.

[50] Cf. Peter Barber, Peter Jacomelli, Vo partir per Londre. Gli emigrati ticinesi e i loro caffè-ristoranti in Inghilterra, 1847-1987, in Lo zampino dei Gatti, a cura di Fernando Ferrari, Olivone, Fondazione Jacob Piazza, 1996, pp. 77-127 (94-95); Gianni Berla, Migranti ticinesi a Parigi (1830-1850), “Archivio Storico Ticinese”, 111 (1992), pp. 97-146 (135-137);

[51] Cf. Raffaello Ceschi, Appunti sulla “ticinesità”, “Bloc Notes”, a. 2, n. 2-3 (1980), pp. 7-14.

[52] Cf. G. Martinola, Lettere, cit., p. 17, 27, 91, 140.

[53] Cf. Fernando Ferrari, Emigranti ticinesi in Francia e in Inghilterra: esperienze, forme associative e legami con la «patria», in Partire per il mondo, cit., pp. 71-91 (83-85).

[54] M. Daguerre, La costruzione di un mito, cit., pp. 26-28; I. Fosanelli, Verso l’Argentina., cit., pp. 53-67.

[55] M. Daguerre, La costruzione di un mito, cit., p. 27.

[56] Augusto Pedrazzini, L’emigrazione ticinese nell’America del Sud, Locarno, Pedrazzini, 1962, Vol. 1, p. 85.

[57] Cf. ad esempio la testimonianza di un emigrante ticinese in California che di fronte alle tendenze irredentiste che percorrono il Ticino prima e dopo la Prima guerra mondiale scrive a casa per invitare i parenti a non votare “di andare insieme coll’Italia. Qui in questi paesi sono molto mal veduti gli italiani e non sono molto educati […]. Cf. G Cheda, Epistolario, cit., vol. II*, p. 119 (Orosi Tulare Cal. 5 dicembre 1920).

[58] Peter Manz, “Ytaliääner und Tessiner”. Emigrazione italiana e ticinese a Basilea (1880-1914). Note di analisi del discorso su immigrati e migranti interni di condizione popolare, in Partire per il mondo, cit., pp. 51-70.

[59] Laurence Marti, Etrangers dans leur pays. L’immigration tessinoise dans le Jura bernois entre 1870 et 1970, Neuchâtel, Ed. Alphil, 2005, p. 65.

[60] Cf. Marco Schnyder, Tra mobilità e identità. Le pratiche transnazionali del ceto dirigente dei baliaggi di Lugano e Mendrisio (secoli XVII e XVIII), “Percorsi di Ricerca. Working papers LabiSAlp”, 2 (2009), pp. 1-9 (2) (www.arc.usi.ch/index/ris_ist_labi_working_papers.htm).

[61] Ibidem.

[62] Diversi esempi concernenti degli emigranti in Argentina sono descritti in M. Daguerre, La costruzione di un mito, cit., p. 26

[63] Cf. ad esempio Fernando Ferrari, Le meraviglie della sterlina. Il ruolo politico dei Gatti in Ticino 1844-1893, in Lo zampino dei Gatti, cit., pp. 129-188

[64] Cf. Luigi Lorenzetti, Anne-Marie Granet Abisset, Les migrations de retour. Jalons d’un chapitre méconnu de l’histoire alpine, “Histoire des Alpes – Storia delle Alpi – Geschichte der Alpen”, 14 (2009), pp. 13-24.

[65] Appare quindi tutt’altro che rara la vicenda di Pietro A. Bassi che, partito per la California nel 1910 con l’intento di rientrare in Ticino dopo due anni, vi rimarrà per 55 anni, fino al suo decesso nel 1965. La vicenda è ricostruita attraverso un ricco epistolario da Mauro Baranzini, Strategie famigliari e patrimoniali nella Svizzera italiana (1400-2000). Vol. II, Tre microstorie. Supplemento iconografico, Roma, Edizioni di Storia e letteratura, 2008, pp. 223-306.

[66] I. Fosanelli, Verso l’Argentina, cit., p. 164 (Isla de San José, 2 agosto 1891).

[67] Ibid., p. 143 (Buenos Aires, 15 marzo 1909).

[68] Sonia Fiorini, Lettere di emigranti bleniesi in Inghilterra, “Archivio storico ticinese”, 111 (1992), pp. 147-164.

[69] Cf. la testimonianza di un emigrante valmaggese per il quale, il rientro a casa è l’occasione per tornare “in sieme al mio caro zio in patria […] su via pei monti colle nostre capre”. G. Cheda, Epistolario, cit., vol. II**, p. 771 (Guadalupe, 10 settembre 1901).

[70] Ibid., vol. II**, p. 438 (Maggia, 15 maggio 1870).

[71] Ibid., vol. II*, p. 224 (Someo, 2 settembre 1900).

[72] Ibid., vol. II*, p. 586 (Cavigliano, 20 settembre 1881).

[73] Cf. B. McCook, Becoming Transnational, cit., p. 171,

[74] Cf. G. Cheda, I ranceri, cit., vol. I, pp. 166-169.

[75] Cf. ad esempio la lettera di un emigrante partito nel 1911 alla vota dell’Argentina e che nel 1927, dopo aver ripetutamente rinviato il rientro in patria, chiede alla moglie raggiungerlo poiché “con quei 22.000 franchi che tio mandato a convertirli qui in proprietà potrei avere facilmente più di cento cinquanta pezi al mese iguale a fran (300) guarda tè che differenza di guadagno di averli li e essere qui, e se avete un po di sale in zucca dovreste ripentirvi della vostra ostinazione”. I. Fosanelli, Verso l’Argentina, cit., p. 239 (Cordoba, 18 agosto 1927).