“Dove ieri fu serva, sia oggi consocia”: la condizione della donna secondo Arturo Giovannitti

“Poeta del wop”, per riprendere la definizione di Kenneth Macgowan, Giovannitti credeva nella necessità di unire arte e politica per fare evolvere la società[6]. Invece di usare la sua penna per servire la sola letteratura, ne faceva uso anche per esprimere la sua fede nell’efficacia dell’azione diretta e dei metodi impiegati dal sindacato di cui divenne uno degli emblemi: l’Industrial Workers of the World (Iww)[7]. Si mostrava sensibile alle lotte del suo tempo, che fossero quelle dei minatori evocati nel suo poema “il figlio dell’abisso,” quelle degli operai delle fabbriche della Pennsylvania o quelle ancora delle sarte dell’industria dell’abbigliamento[8]. Louis Untermeyer scriveva con pertinenza che l’ingiustizia fosse il suo “campo di battaglia” e tra le molteplici battaglie dell’inizio del ventesimo secolo, la lotta delle donne per la propria emancipazione non lo lasciò indifferente[9].

Come tanti uomini della sua epoca, Giovannitti vedeva nella donna innanzitutto una genitrice. Martino Marazzi nota, per esempio, come nella sua introduzione al volume di Clara Vacirca (moglie dell’esule ed ex deputato socialista Vincenzo Vacirca) Giovannitti avesse lodato la scrittrice soprattutto “come ‘consorte e madre esemplare’”[10]. Nel dibattito sulla cosiddetta “questione delle donne” l’idea che la maternità fosse l’essenza stessa della femminilità era infatti un concetto che non solo era prevalente nella società statunitense ma sul quale esisteva quasi un consenso tra i diversi movimenti politici e sindacali a prescindere dal loro orientamento ideologico. Neppure gli intellettuali del gruppo avanguardista radicale di New York che Giovannitti frequentava assiduamente contestavano la specificità della condizione femminile, costituita dalla riproduzione della specie secondo quello che lo scrittore e giornalista Floyd Dell chiamava “l’arrangiamento biologico della razza”[11].

Elisabetta Vezzosi ed altri storici hanno spiegato quanto fosse difficile, anche per gli esponenti del movimento operaio italiano e statunitense, liberarsi da una concezione della donna basata sul ruolo fondamentale che essa svolgeva in quanto madre[12]. Tale percezione della figura femminile si radicava in una forte tradizione patriarcale occidentale, nella quale si esaltava nella donna la bellezza, la dolcezza, la pazienza e il senso del sacrificio. Lo storico Angelo Trento sottolinea che perfino gli anarchici italiani difendevano nella propria stampa “ideali vicinissimi a quelli dei maschilisti borghesi”, cioè ideali nei quali il posto della donna era “fisiologicamente e psicologicamente” assegnato dalla natura in famiglia in quanto sposa e madre[13]. La stessa militante socialista Anna Kuliscioff, che chiedeva ai compagni di “considerare l’agitazione pel voto alle donne, non come un lusso o un perditempo, ma come una necessità imprescindibile”, appoggiava in parte la sua argomentazione sul fatto che la donna non fosse soltanto una lavoratrice ma che desse “ai futuri combattenti della milizia proletaria il proprio sangue e la vita” e ne foggiasse “la mente e l’anima,” ciò che costituiva “il più alto e delicato degli uffici sociali”[14].

Non si può negare che il pensiero e i versi di Giovannitti siano stati influenzati da questo modo di vedere. I militanti dell’Industrial Workers of the World e dei nuovi sindacati emersi all’inizio del ventesimo secolo grazie alla mobilitazione degli immigrati italiani, russi, o polacchi –quali l’Amalgamated Clothing Workers of America (Acwa) e l’International Ladies Garment Workers Union (Ilgwu) – pubblicavano nei propri giornali gli scritti della Kuliscioff (tra l’altro a volte senza nominarla) e anche altri testi che celebravano le virtù della maternità e il nobile compito adempiuto dalle donne attraverso l’educazione dei figli. Come ricorda Barbara Foley, anche a livello iconografico, la stampa di sinistra “costruiva la categoria del “lavoratore” in quanto maschio”[15]. Rappresentava quindi raramente la donna nelle vesti di lavoratrice e si limitava a raffigurarla quasi sempre accanto a bambini, come si può vedere nell’organo dell’Acwa “Il Lavoro”, del quale Giovannitti era un collaboratore regolare.[16] La visione addolorata delle madri lasciate sole “nella raffica impervia dell’esistenza,” dopo la scomparsa del marito in guerra o in fabbrica era in parte condivisa da Giovannitti.[17] Anch’egli lamentava per esempio nella propria poesia la tragica sorte della madre proletaria la cui “mammella secca” non le permetteva di allattare i propri figli[18]. Non a caso, quando nel 1911 l’emigrata italo-canadese Angelina Napolitano uccise il marito che voleva costringerla a prostituirsi, Giovannitti prese le difese dell’omicida proprio in nome della maternità[19]. Mentre le femministe la sbandieravano “come eroina che aveva liberato la terra da un bruto,” Giovannitti sosteneva che Napolitano meritasse di essere salvata dal patibolo perché il fatto di aver dato la vita più volte le conferiva il diritto di valersi di un numero uguale di vite[20].

Tuttavia Giovannitti non concepiva la maternità come una catena che legasse la donna al focolare. La sua visione era infatti più ampia. Durante gli scioperi e i raduni politici, Giovannitti era abituato a collaborare con le donne e conosceva il valore delle poche compagne, quali Dorothy Jacobs o Elisabeth Gurley Flynn, a cui i sindacati avevano concesso un posto di organizzatrici. Flynn, soprattutto, le cui qualità di oratrice suscitarono l’ammirazione di tutti durante lo sciopero di Lawrence del 1912, dimostrò una saggezza politica fuori dal comune. Nel 1917, quando il governo statunitense accusò Carlo Tresca, Joseph Ettor Giovannitti e Flynn di tentare di nuocere allo sforzo bellico degli Stati Uniti, fu la strategia scelta da Flynn che probabilmente salvò dal carcere i quattro attivisti[21]. Il carisma e l’impegno di Bellanca, Flynn o della celebre agitatrice anarchica Emma Goldman impressionavano gli intellettuali radicali di New York, che vedevano nel loro operato la prova che le competenze femminili non limitassero all’ambito domestico. Insieme ai redattori di “The Masses” e di “The Liberator”, Giovannitti cercava di ideare una nuova donna “sessualmente emancipata” alla quale, malgrado le discrepanze e le contraddizioni esistenti all’interno di questo gruppo, fosse possibile vivere un rapporto diverso con gli uomini[22]. Propugnatore dell’amore libero, Giovannitti criticava così nell’introduzione a Sabotage di Emile Pouget, l’ipocrisia di una società che si rassegnava ad accettare l’adulterio e il divorzio ma diffidava dell’idea della libertà sessuale perché “è solo quando diventa un’idea che diventa una forza dinamica e distruttiva della società borghese”[23]. Nel 1916, Giovannitti faceva parte, insieme a Max Eastman, del comitato che aveva organizzato un grande comizio alla Carnegie Hall per la liberazione di Emma Goldman, che era stata incarcerata per aver diffuso propaganda a favore dei contraccettivi[24]. Goldman sosteneva che l’emancipazione femminile sarebbe dipesa anche dalla capacità della donna di negare a chiunque il diritto di sfruttare il proprio corpo e di “rifiutare di fare figli a meno che li volesse”. Questa posizione era condivisa da Giovannitti, che definiva il controllo delle nascite nella sua “psicanalisi minima” come “la riforma più utile”[25]. È in questa prospettiva che si spiega la molteplicità  delle connotazioni della figura materna nella poesia di Giovannitti. Per esempio, la madre evocata nell’“Anniversario,” non è soltanto “pura”, “bella” e “buona”. È anche “gagliarda” e “forte” e segue il poeta “in alto, lontano, madre in fatiche e dolore, e nella rivolta sorella”[26].

Eppure, nel primo decennio del ventesimo secolo, le “sorelle” erano poco presenti nella rivolta, malgrado l’incremento costante del numero di lavoratrici nelle fabbriche dei grandi centri urbani statunitensi. Negli ambienti radicali, il lavoro della donna, per ragioni ovvie, non veniva apprezzato in quanto strumento dell’emancipazione femminile. “Per quanto riguarda la grande massa delle ragazze e delle donne lavoratrici”, scriveva nel 1911 con lucidità Emma Goldman, “quant’è l’indipendenza che si guadagna se la limitatezza e la mancanza della casa vengono sostituite dalla limitatezza e mancanza di libertà della fabbrica, del retrobottega, del grande magazzino o dell’ufficio?”[27]. Qualche anno dopo, Giovannitti riecheggiava questo interrogativo e lamentava che la donna fosse stata “scacciata dall’ambiente domestico e gettata senza misericordia e senza riconoscenza nei traffici spietati delle competizioni economiche”[28]. La prima guerra mondiale, che accelerò il processo di integrazione della manodopera femminile nelle maggiori industrie, si rivelò un periodo chiave in cui i sindacati presero atto dell’ineluttabile immissione delle donne in parte del mercato del lavoro. Questo fenomeno inquietava i sindacati e i partiti di sinistra che lo ritenevano una conseguenza disastrosa dello sviluppo sfrenato del capitalismo e un’opportunità eccezionale per i “padroni” di sfruttare ulteriormente la classe proletaria. Le operaie, il cui stipendio era inferiore a quello degli uomini a parità di mansioni, erano viste quindi come una minaccia per la manodopera maschile. Anche Giovannitti si mostrava critico dell’“imperiosa necessità” che aveva rovesciato “moltitudini immense di donne” in “quasi tutte le industrie che sinora si ritenevano di assoluto dominio dell’uomo”[29]. A suo giudizio, tale situazione avrebbe alterato in misura ragguardevole i rapporti di forza tra donne e uomini non solo nel mondo del lavoro ma anche nell’ambiente domestico. Dichiarava:

dopo la guerra [non] sarà possibile rimandare queste donne alla pentola ed alla calza. Avendo libato il vino proibito della indipendenza economica dal loro signore e padrone, la donna non vorrà rinunciare a ciò che si è acquistato con un violento e doloroso sobbalzo, né l’antica potenza del maschio sarà forte ancora abbastanza a spodestarnela. [….] La verità brutale è che chi avrà ottenuta la “giobba” se la terrà e che ogni donna che ha surrogato un uomo lascerà quest’uomo sul selciato ammenoché non sia morto sul campo di battaglia.[30]

Per quanto questa evoluzione del ruolo della donna fosse dispiaciuta ai sindacati, toccava ai loro esponenti prenderne atto. Questi ultimi cercarono dunque di trasformare un fenomeno che vedevano come un problema in uno strumento per lo sviluppo delle organizzazioni operaie. La scarsa partecipazione delle donne alle lotte sindacali divenne allora una delle principali preoccupazioni dei sindacati, in particolare nell’industria tessile. Tuttavia, fino al 1919 e malgrado il loro impegno nello scioperò delle sarte del 1913, le operaie italiane furono duramente criticate per la loro mancanza di solidarietà con la propria classe[31]. Donna Gabaccia, Franca Iacovetta e Fraser Ottanelli hanno ventilato che la riluttanza delle donne italiane a sostenere il movimento operaio non sarebbe risultato da un loro minore impegno ma da un modo diverso di manifestarlo in quanto avrebbero privilegiato “i sodalizi personali e l’organizzazione informale rispetto all’adesione ai un sindacato e alla disciplina”[32]. Comunque, questo atteggiamento non era gradito agli esponenti dell’Acwa e dell’Ilgwu, che accusavano le immigrate italiane di essere crumire e pane bianco per i padroni che le divoravano senza che si ribellassero nemmeno. Ritenute incapaci di pensare da sole e pronte a sottomettersi alla volontà del più forte, le donne erano anche dipinte come cieche seguaci dei preti. Nell’attaccare con forza le donne italiane che non scioperavano, Giovannitti stesso scriveva nel “Lavoro”:

Sia detto non a disdoro delle nostre donne, ma a vergogna di tutto il nostro popolo, che fra le ragazze che son restate al lavoro mangiando il pane del tradimento che è più amaro ancora di quello della prostituzione, il 90 percento e forse più sono italiane! E quel che è peggio, questo novanta per cento di disgraziate figlie del popolo è così impervio alle buone ragioni delle loro compagne, così refrattario al senso della comune decenza, così vuoto di dignità umana da far seriamente dubitare chi avesse poca fede e meno pertinacia, dell’avvenire civile della nostra razza.[33]

Nell’industria tessile, il reclutamento delle donne era però vitale per la salvezza dei sindacati. Sia Luigi Antonini dell’Ilgwu sia Frank Bellanca dell’Acwa dovettero dedicare una gran parte dei loro rispettivi giornali, “Giustizia” e “Il Lavoro”, a campagne di propaganda destinate a raccogliere le adesioni tra le operaie. Come viene evidenziato da Mari Jo Buhle, nelle pagine della stampa di sinistra “le donne italo-americane emersero come una forza importante, e la loro presa di coscienza come la speranza del futuro”[34]. Ciò nonostante l’atteggiamento degli esponenti di questi sindacati rifletteva la posizione ambigua dei socialisti e degli anarchici nei confronti delle donne. Sally Miller spiega che la stessa parola “solidarietà” costituiva per i leaders del partito socialista americano “una costruzione maschile nella quale le donne erano invisibili”[35]. In modo analogo, l’Iww che spingeva nel 1914 le donne a raggiungere l’organizzazione e che si inorgogliva dell’efficacia della sua eroina Elisabeth Gurley Flynn, offriva in realtà una visione alquanto “virile” del sindacalismo[36]. Francis Schor insiste infatti su come i legami di “fraternità” che univano i minatori dell’Iww si forgiavano attraverso una comune esperienza maturata delle taverne, del gioco d’azzardo, e nelle case di tolleranza[37]. I terreni in cui si svolgevano le manifestazioni della solidarietà maschile tra i “fratelli” sindacalisti erano quindi generalmente luoghi dai quali venivano di fatto escluse le operaie. Da una parte le donne dovevano essere “sorelle nella rivolta”, ma dall’altra veniva chiesto loro di conservare la propria femminilità, cioè di rimanere buone spose a casa. Si favoriva l’emancipazione dell’operaia ma non la liberazione della donna.

La femminista Anna Maria Mozzoni aveva già osservato questo fenomeno in Italia alla fine degli anni Novanta dell’Ottocento, quando scriveva che per quanto fosse una contraddizione si vedevano “socialisti, e socialisti di polso i quali non credono, non vogliono e combattono caldamente l’emancipazione della donna”[38]. Questa contraddizione caratterizzava ugualmente il movimento operaio italo-americano, i cui militanti erano divisi sulla questione del suffragio femminile. Malgrado il fatto che i socialisti e gli anarchici avessero capito l’importanza di associare le donne alla loro lotta contro il capitalismo, prevaleva ancora l’idea che l’emancipazione del lavoratore fosse comunque prioritaria rispetto alla mobilitazione per la concessione del voto alle donne. Per di più, erano in molti a pensare che, siccome la donna era dedita alla maternità e alle mansioni domestiche, le sue attività non dovessero investire l’arena pubblica. Nel 1913, la scrittrice socialista Helen Keller, che svolse un ruolo fondamentale nella carriera letteraria di Arturo Giovannitti, si opponeva a questo ragionamento affermando:

È indiscutibilmente vero che la donna è fatta per la maternità. Come, nello stesso modo, l’uomo è fatto per la paternità. Ma nessuno sembra di pensare che questo gli impedisca di valersi dei suoi dritti di cittadino[39].

Quattro anni prima che fosse adottato il diciannovesimo emendamento che concesse alle donne statunitensi il diritto di voto, Arturo Giovannitti riprese nella rivista “Vita” argomenti molto simili a quelli della Keller, con un tono ancora più spiritoso. Benché si dichiarasse un “convinto antielezionista”, voleva difendere il suffragio femminile solo perché le donne “lo vogliono e perché ne hanno diritto”. A quelli che sostenevano che la donna fosse “intellettualmente e fisicamente inferiore all’uomo”, chiedeva con malizia: “Le tremila e più maestre della città di New York che istruiscono i nostri figli fino all’età dei sedici anni, se ne intenderebbero meno di tasse e di tariffe dei tremila bananari che illustrano la mascolina genialità della Little Italy?”. Con lo stesso senso della derisione, Giovannitti ironizzava sugli uomini che negavano il diritto di voto alle donne in nome della “cavalleria”, perché il suffragio avrebbe presumibilmente abbassato “la regina dei nostri pensieri al livello della nostra umiltà adorante”. Come scriveva, la cavalleria non era che una scusa zoppicante che non aveva impedito agli uomini di chiedere “alla signora dei nostri sogni, all’ispiratrice di tutte le nostre lotte di lavare le nostre mutande, di rattoppare il fondo dei nostri eroici calzoni, di lustrare le nostre scarpe e vuotare le tenebrose faenze notturne”. A differenza di Keller, Giovannitti non credeva che il suffragio femminile avrebbe posto fine alla guerra. Pensava invece che avrebbe abolito “la pace iniqua e crudele, quella pace sociale e domestica che è basata sulla soppressione di istinti sani e naturali e di ribollenti aspirazioni spirituali compresse e schiacciate dalla mano gorillesca [degli uomini]”[40]. Era convinto che avrebbe fatto riflettere gli uomini e avrebbe aperto a casa un sano scambio di idee tra coniugi.

Infatti, Giovannitti faceva parte dei pochi uomini che proponessero un’analisi alternativa per spiegare lo scarso impegno delle immigrate italiane nel movimento operaio. Invece di limitarsi a commenti acidi sulle crumire, cercava di valutare la responsabilità maschile in questo fenomeno. Non pensava che l’ignoranza o l’educazione religiosa della donna impedissero quest’ultima di diventare una buona sindacalista, ma affermava che “la causa principale, la più dinamica venisse ricercata non tanto nell’ambito economico e sociale in quanto in quello domestico”[41]. Anziché esonerarli da ogni colpa, questo approccio spingeva gli uomini a riflettere sull’equilibrio dei ruoli svolti dalle femmine e dai maschi all’interno della vita familiare. Secondo Giovannitti, non si poteva risolvere il problema dell’impegno sindacale delle donne se non si aveva il coraggio:

di attaccare il male alle sue radici più profonde, liberando cioè la donna della servitù supina della casa, emancipandola del maschio, dandole una coscienza propria, una volontà propria una missione sua speciale. […] Bisogna[va] insegnarle a ribellarsi, incitarla incoraggiarla alla ribellione contro tutti i canoni decrepiti del sentimento e del romanticismo. Ogni atto di libertà è incominciato sempre con un atto di disubbidienza. Insegniamo la donna a disubbidire.

Certo, l’idea paradossale che la donna, addirittura per ribellarsi, avesse ancora bisogno di una lezione maschile dimostra quanto Giovannitti pensasse che l’uomo fosse l’unica chiave della libertà femminile. Ma essere lo strumento di tale emancipazione era un compito al quale non era sempre facile adempiere, neanche per lui. Non a caso, Rudolph Vecoli ricorda che il romanzo parzialmente autobiografico di Len Giovannitti, il figlio di Arturo, sembra suggerire che il poeta non fosse riuscito a stabilire un rapporto così ideale con sua moglie[42]. Ciò non altera però l’audacia del pensiero di Giovannitti in un momento chiave della lotta delle donne. A differenza degli altri esponenti sindacali, concepiva una donna alla pari dell’uomo, una donna liberata, non solo una lavoratrice emancipata. Come sosteneva: “Diciamo alla donna che il suo primo diritto dove essere affermato laddove cominciò il suo primo soggiogamento, nell’ambiente domestico. Dove ieri fu serva, sia oggi consocia”[43].


[1] Arturo Giovannitti Dies at 75; Poet Long-Time Labor Leader, “New York Times”, 1 gennaio, 1960, p.19.

[2] Lettera del vice console a Luigi Sillitti, Regio console generale d’Italia a San Francisco, 12 settembre, 1930, Archivio Centrale dello Stato, Roma, Casellario Politico Centrale, “Arturo Giovannitti,” b. 2439, f. 13802.

[3] Domenico Saudino, Ricordando Arturo Giovannitti, “La Parola del Popolo”, LII, 44 (1960), p.13, cit. in Elisabetta Vezzosi, Il socialismo indifferente, Immigrati italiani e Socialist Party negli Stati Uniti del primo Novecento, Roma, Edizioni Lavoro, 1991, p. 35.

[4] Sul lavoro di Giovannitti ne “Il Fuoco,” si veda Marcella Bencivenni, A Magazine of Art and Struggle: The Experience of Il Fuoco, 1914-1915, “Italian American Review”, 8, 1 (2001), pp. 57-84. Su “The Liberator”, si veda Antoinette Galotala, From Bohemianism to Radicalism: The Art of The Liberator, “American Studies International,” 40, 1 (2002), pp.4-34 e Victoria Hagelstein Marquardt, Art on the Political Front in America, “Art Journal”, 52, 1 (1993), pp.72-82. Su “Il Proletario”, si veda Elizabetta Vezzosi, Class, Ethnicity and Acculturation in “Il Proletario”: The World War One Years, in The Press of the Labor Migrants in Europe and North America, 1880s to 1930s, a cura di Christiane Harzig e Dick Hoerder, Bremen, Publications of the Labor Newspaper Preservation Project, 1985, pp. 443-55.

[5] Onorio Ruotolo, Uno sguardo al passato e al presente, in Arturo Giovannitti, Il Camminante (The Walker), New York, N. Morgillo Editore, 1950, p. 6.

[6] Kenneth Macgowan, Giovannitti, Poet of the Wop, “Forum”, ottobre 1914, pp. 609-671.

[7] Si veda A Poet of the I.W.W., “Outlook”, 5 luglio 1913, vol.104, n.10., p.504-506; e Arturo Giovannitti, Syndicalism-The Creed of Force, “The Independent”, 30 ottobre 1913, p.209-211.

[8] Si veda l’analisi di questa poesia in Nunzio Pernicone, Arturo Giovannitti’s “Son of the Abyss” and the Westmoreland Strike, “Italian Americana,” XVII, 2 (1999), pp. 178-192.

[9] Louis Untermeyer, American Poetry Since 1900, New York, H. Holt and Company, 1923, p. 277.

[10] Martino Marazzi, I Misteri di Little Italy. Storie e testi, Milano, Franco Angeli, 2001, p. 28.

[11] Floyd Dell, An Anti-Feminist Utopia, “Current History”, novembre 1927, p. x.

[12] Si vedano per esempio, Elisabetta Vezzosi, L’immigrata italiana: Alla ricerca di un’identità femminile nell’America del Primo Novecento, “Movimento Operaio e Socialista”, VII, 3 (1984), pp. 305-319; Ead., Immigrate italiane e socialismo negli Stati Uniti agli inizi del Novecento, “Il Veltro”, XXXIV, 1-2 (1990), pp.159-167; Sally Miller, Socialism and Women, in Failure of a Dream, Essays in the History of American Socialism, a cura di John H. Laslett e Seymour Martin Lipset, Berkeley, University of California Press, 1984, pp. 291-317.

[13] Angelo Trento, “Wherever We Work, That Land is Ours,” The Italian Anarchist Press and Working-Class Solidarity in Sao Paulo, in Italian Workers of the World Labor Migration and the Formation of Multiethnic States, a cura di Donna Gabaccia e Fraser Ottanelli, Urbana e Chicago, University of Illinois Press, 2001, p. 112.

[14] Anna Kuliscioff, Proletariato femminile e Partito Socialista, relazione al congresso nazionale socialista, 1910, “Critica Sociale”, XX, 18-19 (1910), pp.18 e 20.

[15] Barbara Foley, Radical Representations, Politics and Form in U.S. Proletarian Fiction 1929-1941, Durham, NC, Duke University Press, 1993, pp. 221.

[16] Per maggiori dettagli su “Il Lavoro”, si veda Bénédicte Deschamps, “Il Lavoro”, The Italian Voice of the Amalgamated, 1915-1932, “Italian American Review”, 8, 1 (2001), pp. 85-120.

[17] Si veda “Non più padre, non più marito, soli nella raffica impervia dell’esistenza”, didascalia di un disegno rappresentando una madre sola con tre figli, “Il Lavoro”, 9 giugno 1917, p. 2.

[18] “Nenia Sannita”, in Arturo Giovannitti, Parola e Sangue, a cura di Martino Marazzi, Isernia, Cosmo Iannone, p. 172.

[19] Arturo Giovannitti, La donna e la forca, “Il Proletario”, 30 giugno 1911, citato da Angelo Principe, Glimpses of Lives in Canada’s Shadow: Insiders, Outsiders, and Female Activism in the Fascist Era, in Women, Gender, and Transnational Lives: Italian Workers of the World, a cura di Franca Iacovetta e Donna Gabaccia, Toronto, University of Toronto Press, 2002, p.361, e da Michael Miller Topp, The Lawrence Strike: The Possibilities and Limitations of Italian American Syndicalist Transnationalism, in Italian Workers of the World, a cura di D. Gabaccia e F. Ottanelli, cit., p. 150. Si veda anche Anonimo, Child Born To Prisoner, Mrs Napolitano Under Life Sentence for Killing Her Husband, “New York Times”, 3 agosto, 1911, p.1.

[20] Franca Iacovetta, Scrivere le donne nella storia dell’immigrazione: Il caso italo-canadese, “Altreitalie”, gennaio-giugno 1993, p. 23.

[21] Helen C. Camp, Iron in Her Soul, Elisabeth Gurley Flynn and the American Left, Pullman, Washington State University Press, 1995, pp. 76-77.

[22] Si veda Mari Jo Buhle, Women and American Socialism, 1870-1920, Urbana, University of Chicago Press, 1981, p.262; Leslie Fishbein, Rebels in Bohemia: The Radicals of The Masses, 1911-1917, Chapel Hill, University of North Carolina Press, 1982, pp. 126-150.

[23] Arturo Giovannitti, Introduction, in Emile Pouget, Sabotage, Chicago, Charles H. Kerr and company, 1912.

[24] Si veda Mrs Rose P. Stokes Defies the Police, “New York Times”, 6 maggio, 1916, p. 5.

[25] Emma Goldman, Il suffraggio femminile, in Ead., Anarchia, femminismo e altri saggi, Milano, La Salamandra, 1976, p. 162; A. Giovannitti, “Psicanalisi minima”, in Id., Parola e Sangue, cit, p. 270.

[26] Arturo Giovannitti, “A Mia Madre”, in Id., Parola e Sangue, cit., p. 39. Questo poema è anche noto sotto il titolo “Anniversario”.

[27] E. Goldman, La tragedia dell’emancipazione della donna, in Ead., Anarchia, femminismo e altri saggi, cit. p. 167.

[28] Arturo Giovannitti, Votes for Women, “Vita”, 1 novembre 1915, p. 77.

[29] Arturo Giovannitti, Un problema dimenticato, “Il Lavoro”, 18 maggio 1918, p.1.

[30] Ibidem.

[31] Si veda Colomba Furio, The Cultural Background of the Italian American Immigrant Woman and Its Impact on Her Unionization in the New York City Garment Industry, 1880-1919, in Pane e Lavoro: The Italian American Working-Class, a cura di George Pozzetta, Toronto, Multicultural Historical Society of Ontario, 1980, pp. 81-98.

[32] Donna Gabaccia, Franca Iacovetta e Fraser Ottanelli, Laboring Across National Borders: Class, Gender, and Militancy in the Proletarian Mass Migrations, “International Labor and Working-Class History”, 66 (2004), p.69. Su questa questione, si veda anche Jennifer Guglielmo, Italian American Women’s Proletarian Feminism in the New York City Garment Trades, 1890s-1940s, in Women Gender and Transnational Lives, a cura di D. Gabaccia e F. Iacovetta, cit. pp. 247-298. Per un esempio di ribellione tra le lavoratrici italiane, si veda Ead., Living the Revolution: Italian Women’s Resistance and Radicalism in New York City, 1880-1945,Chapel Hill, University of North Carolina Press, 2010.

[33] Arturo Giovannitti, Ai margini del grande sciopero, “Il Lavoro”, 13 marzo 1919, p.4.

[34] M.-J. Buhle, Women and American Socialism, cit., p. 298-300.

[35] Sally Miller, For White Men Only: The Socialist Party of America and Issues of Gender Ethnicity and Race, “Journal of the Gilded Age and Progressive Era”, 2, 3 (2003), p.296.

[36] Philip S. Foner, History of the Labor Movement in the United States, IV, The Industrial Workers of the World, 1905-1917, New York, International Publishers, 1965, p. 128.

[37] Francis Schor, “Virile Syndicalism” in Comparative Perspective: A Gender Analysis of the IWW in the United States and Australia, “International Labor and Working-Class History”, 56 (1999), p. 69. Su virilità e sindacalismo si veda anche Michael MillerTopp, Those Without a Country, The Political Culture of Italian American Syndicalists, Minneapolis, University Press, 2001.

[38] Anna Maria Mozzoni, La liberazione della donna, a cura di Franca Pieroni Bortolotti, Milano, Mazzotta, 1975, p.105.

[39] Helen Keller, Why Men Need Woman Suffrage, “New York Call”, 17 ottobre 1913.

[40] A. Giovannitti, Votes for Women, cit. pp. 76-77.

[41] A. Giovannitti, Ai margini del grande sciopero, cit., p.4

[42] Rudolph Vecoli, The Making and the Un-Making of the Italian American Working Class, in The Lost World of Italian American Radicalism. Politics, Labor and Culture, a cura di Philip V. Cannistraro e Gerald Meyer, Westport, Praeger, 2003, p. 64. Si riferisce al romanzo intitolato The Nature of the Beast: A Novel, pubblicato dal figlio di Giovannitti nel 1977.

[43] A. Giovannitti, Ai margini del grande sciopero, cit., p.4.