inter.jpg

L’Abruzzo migrante dall’Unità d’Italia alla Grande Guerra

 

L’aumento demografico avvenuto nella prima metà dell’Ottocento aveva determinato nel Mezzogiorno uno stato di crescente disagio tra le classi lavoratrici più umili, sul quale negli anni Settanta si soffermarono i dibattiti delle forze politiche ed economiche, anche sulla base dell’inchiesta parlamentare che è passata alla storia col nome del suo organizzatore, Stefano Jacini. L’Abruzzo osservato da Jacini e dai suoi collaboratori era un insieme di realtà provinciali e subprovinciali, legate al particolarismo locale e i relatori suggerivano rimedi per una situazione individuata come stagnante ed arretrata che collocava il territorio tra le aree povere e depresse del paese da poco unificato. L’economia abruzzese nel periodo postunitario si trovava in uno stadio ancora precapitalistico3, in cui una modesta crescita era rilevabile solo in una parte piuttosto ristretta della proprietà agraria e dell’imprenditoria che faticosamente si avviava verso la strada della modernizzazione. Gran parte della classe benestante viveva in una situazione di immobilità, caratterizzata anche da carenze strutturali, tra le quali spiccavano la pochezza del credito e la mancanza di adeguata rete viaria e ferroviaria.

In Abruzzo il disagio era causato inoltre dal progressivo abbandono della rotazione mais-frumento, che pure inizialmente aveva prodotto buoni risultati, agevolando la crescita demografica e permettendo una riorganizzazione del ciclo alimentare. Il grano era utilizzato dai proprietari benestanti, mentre il mais serviva per il consumo contadino e consentiva la sostituzione di altri alimenti, poco soddisfacenti per un adeguato apporto calorico4. L’entrata in crisi del sistema rotativo mais-frumento consigliò il passaggio ai foraggi in alternanza con il grano, mutamento che implicò disponibilità di capitali per l’introduzione di bestiame di grossa taglia.

Inoltre la superficie coltivabile era quantitativamente e qualitativamente difficile da modificare dal momento che, come si segnalava nei rilevamenti, gran parte della provincia aquilana era situata al di sopra dei cinquecento metri5, mentre le province di Chieti e Teramo lo erano per circa un terzo6. Di conseguenza poiché il territorio utilizzato per le coltivazioni agrarie era ubicato in gran parte in montagna, un processo di riforma che promuovesse la modernizzazione era nell’immediato difficilmente realizzabile. Nel catasto agrario del 1909 si evidenziava che erano coltivati ben 12340 chilometri quadrati di montagna, 4198 chilometri quadrati di terreni in colline, mentre insignificante era l’utilizzo dei terreni in pianura7. Modesti erano anche gli investimenti dei proprietari sui fondi, così come limitato era l’utilizzo dei macchinari. Leopoldo Franchetti annotava che «[…] lo scarso prodotto agricolo in quelle province è quasi esclusivamente dovuto al lavoro delle braccia»8.

Rispetto alle altre regioni meridionali, in Abruzzo la proprietà fondiaria faceva rilevare una forte presenza della piccola e media proprietà, una maggiore partecipazione di agricoltori proprietari che coltivavano il fondo, una minore presenza di giornalieri impegnati nel lavoro dei campi, ed una percentuale consistente di mezzadri e coloni. In particolare era il circondario di Teramo ad essere caratterizzato dal contratto mezzadrile, presente anche in alcune zone del chietino. Tuttavia questo tipo di contratto risultava scarsamente efficiente rispetto ad altre zone d’Italia per l’incapacità dei proprietari di investire capitali e proporre innovazioni9. In Abruzzo la scelta della mezzadria non esprimeva tanto una spinta al miglioramento produttivo, quanto al mantenimento della condizione di proprietario terriero, protettore dei propri mezzadri, che si legavano a lui con rapporti di subalternità. Fino agli anni Ottanta la spartizione del prodotto non recava particolari vantaggi al colono, che pur ricevendo la metà dei raccolti cerealicoli, otteneva per le colture specializzate molto meno, ad esempio per l’uva un quarto, per le olive un quarto o un sesto del raccolto10. In questo modo si riducevano gli investimenti poiché il colono doveva sopportare spese senza essere ripagato da adeguati guadagni.

In Abruzzo la produzione agricolo-pastorale era collegata ai territori limitrofi e chi ne conosceva l’area sapeva che l’emigrazione interna era già diffusa nel periodo preunitario, sia per le migrazioni stagionali dei lavoratori agricoli che si dirigevano nell’Agro romano, in Maremma, nelle Puglie, sia per la tradizione della pastorizia transumante. Già Galanti all’inizio del XIX secolo aveva osservato come il circondario di Teramo presentasse affinità con il territorio di Ascoli Piceno e la diffusione della mezzadria avesse rinsaldato i legami esistenti con i territori confinanti11. La provincia aquilana gravitava sia per motivi economici sia per motivi culturali verso Roma ed il Lazio, la parte meridionale dell’area abruzzese era in stretto rapporto con le Puglie, ma anche con Napoli e la Campania.

Periodicamente dai tre agli otto mesi annui, circa 13000 fra uomini, donne, bambini, partivano per lavorare e guadagnare attraverso l’emigrazione quei denari (si è calcolato che ammontassero a circa 130000 ducati), utilizzati quasi esclusivamente nei paesi natii della montagna abruzzese per pagare i debiti contratti in precedenza. Sempre Galanti osservava che i lavoratori che si spostavano verso il Lazio e la Toscana arrecavano un danno economico e politico al Regno di Napoli a vantaggio soprattutto dello «Stato Romano […] ch’è quanto dire del nostro natural nemico […]»12.

In realtà

l’andare e il venire in rapporto ad un unico luogo centrale, la propria terra, (che la pastorizia transumante e l’esodo stagionale ben emblematizzavano) hanno costituito […] una costante della realtà regionale13.

Pertanto in un’area geograficamente articolata come quella abruzzese la bipolarità montagna-pianura aveva consentito la sopravvivenza della popolazione instaurando un sistema correlato di integrazione economico-sociale.

2. – a pastorizia transumante

Come si è detto per un lungo periodo la pastorizia è stata una delle principali fonti di reddito dell’economia abruzzese; un fenomeno particolare era costituito dall’attività dei pastori impegnati a produrre ricchezza nel percorrere da secoli i tratturi14 per la “mena delle pecore”, in special modo durante gli inverni rigidi che favorivano la pastorizia transumante rispetto ad altre tipologie di allevamento. Le greggi, che durante il periodo estivo pascolavano sulle montagne abruzzesi, in inverno si trasferivano sia nelle campagne dell’agro romano sia soprattutto nel Tavoliere delle Puglie. Il rapporto privilegiato tra la pastorizia abruzzese e l’economia dei territori confinanti era di vecchia data: l’istituzione nel 1447 della Regia Dogana per la Mena delle pecore in Puglia ad opera di Alfonso I d’Aragona aveva reso possibile fino all’Ottocento il transito delle pecore lungo i tratturi, vere e proprie “autostrade d’erba” lunghe diverse centinaia di chilometri15. La dogana concedeva agli armentari condizioni agevolate, con pascoli assegnati in base al numero dei capi, transito sulla rete tratturale e fino al 1806, anno dell’eversione della feudalità, il diritto di commerciare i prodotti alla fiera annuale di Foggia. Tutto ciò permetteva ai proprietari abruzzesi di vendere i prodotti della pastorizia ed in particolare le lane ai mercanti stranieri, essenzialmente inglesi e francesi.

Nella seconda metà del Settecento i riformatori illuministi italiani iniziarono a polemizzare sull’istituto della Regia Dogana, lamentando un impoverimento delle terre del Tavoliere come conseguenza della pratica della transumanza. Nel corso dell’Ottocento il processo di trasformazione che riguardò anche l’eversione della feudalità comportò un ridimensionamento dei privilegi degli armentari, determinando la trasformazione delle abitudini produttive. Di conseguenza ci fu nel Tavoliere la diminuzione delle terre destinate al pascolo a vantaggio della diffusione delle aziende agricole.

Questi mutamenti vennero acquisiti dal governo unitario che nel febbraio del 1865 promulgò la legge di affrancazione del Tavoliere, con cui si stabiliva che i locatari potessero riscattare alcuni terreni destinati a pascolo. Tutto ciò modificò il sistema economico di quell’area geografica16. I pastori che percorrevano i tratturi per spostarsi in inverno da un sistema ambientale avverso ad un altro più favorevole, recavano con sé un patrimonio di idee, usi e costumi che, entrando in contatto con le altre popolazioni, da un lato riceveva stimoli e arricchiva l’insieme dei valori culturali, dall’altro diventava un tramite per la divulgazione delle proprie tradizioni17. L’altro aspetto speculare di questa realtà era la ricchezza dei pascoli estivi che faceva convergere flussi di uomini, animali e quindi di capitali ed interessi economici dalle regioni viciniori. Il sistema armentizio pugliese, laziale, campano ed anche toscano con gli investimenti sui capi di bestiame guardava con interesse all’Abruzzo, che in una visione dell’economia interregionale entrava a far parte di un più vasto sistema di attività produttive.

Pertanto una caratteristica dell’Abruzzo era questa naturale apertura verso l’esterno, sia vicino – con riferimento alle regioni circostanti – sia lontano – con riferimento alla grande emigrazione – in una costante alternanza di isolamento ed integrazione.

3. – Crisi agraria e conseguente trasformazione della società abruzzese

Tra il XVIII e il XIX secolo la rivoluzione industriale, il progresso tecnico e la diffusione dell’illuminismo avevano contribuito all’affermarsi di aspettative di migliori condizioni di vita nelle popolazioni, rafforzate da provvedimenti quali l’eversione della feudalità ed una iniziale frammentazione dei grandi patrimoni privati ed ecclesiastici.

Non sempre le attese corrisposero ad una concreta trasformazione nello stile di vita degli uomini; in Abruzzo l’ecosistema naturale, afferente nella quasi totalità ad un paesaggio montuoso aspro e con scarse risorse, rese difficile un cambiamento radicale. In montagna la proprietà fondiaria era fortemente parcellizzata e complessivamente insufficiente a sostenere i bisogni familiari; così per riuscire a supplire ai modesti raccolti si faceva ricorso alle migrazioni stagionali e all’ausilio delle attività armentizie18. Queste ultime sia nelle minime dimensioni stanziali sia in quelle più consistenti della transumanza, così come le brevi migrazioni stagionali in pianura in occasione della mietitura e vendemmia, contribuivano alla ricerca di forme alternative o integrative di sostentamento. Il forzato abbandono, sia pure temporaneo del proprio ambito, era reso necessario dalle misere condizioni di vita; l’allontanamento di uomini determinava da parte di coloro che restavano una riorganizzazione economica riguardante in modo particolare la gestione delle attività rurali19.

Negli anni successivi all’unificazione si determinarono dei mutamenti che produssero alcune trasformazioni nel rapporto tra economia di montagna e di pianura20. L’approvazione della legge di affrancamento del Tavoliere delle Puglie, l’alienazione dei beni demaniali e delle Opere Pie, la legge forestale che rese possibile il disboscamento dei terreni situati nelle zone di montagna rafforzarono gli interessi agrari nelle pianure rispetto alle tradizionali attività nelle zone montuose. La crescita agraria favorì un certo sviluppo quantitativo; in Abruzzo si cominciò a praticare anche la cerealicoltura sui terreni di montagna ad altezze insolite, ma i rendimenti non sempre corrisposero alle attese21. Nelle pianure del chietino e del teramano ci si dedicò alla coltivazione di prodotti destinati all’esportazione, alle colture ortive e della frutta, mentre la produzione dello zafferano si allargò anche nella valle dell’Aterno.

Uno dei primi effetti fu quello di sottrarre terreni ai pascoli per destinarli alle colture ed aumentare la produzione di generi alimentari. Inizialmente il nuovo rapporto instauratosi fra terreni e popolazione sembrò produrre discreti risultati, ma le tendenze innovative subirono un freno in concomitanza con la crisi agraria che si manifestò durante gli anni Ottanta. La crisi colpì proprio il settore cerealicolo che si trovò a fronteggiare la concorrenza di grano americano e russo. Attraverso l’analisi dei dati delle Camere di commercio si nota che uno dei primi effetti riscontrati sui mercati abruzzesi fu la diminuzione del prezzo del frumento22. Tra il 1881 e il 1885 la crisi agricola divenne generale coinvolgendo anche i prezzi delle coltivazioni specializzate, che oltre a dover fronteggiare la concorrenza delle merci nazionali, vennero danneggiate anche dalle cattive condizioni climatiche23. Nello stesso arco di tempo l’affrancamento delle terre del Tavoliere ed il disboscamento determinarono uno stravolgimento che condusse alla crisi della pastorizia e dell’ambiente24. Tutto ciò penalizzò non solo i piccoli e medi proprietari che non riuscirono ad onorare i debiti contratti per affrancare i terreni demaniali ed impiantare nuove coltivazioni, ma anche i grandi proprietari che subirono la diminuzione delle rendite. Ne derivò l’aumento del numero degli espropri fiscali che, tra il 1885 e il 1895 considerato il numero di abitanti, furono inferiori solamente a quelli che si registrarono in Sardegna, Calabria e Sicilia25.

Spaventati dalla depressione economica, i grandi proprietari fondiari e gli industriali convennero sulla necessità da parte dello stato di abbandonare il liberismo a vantaggio di una politica doganale più severa. Nel 1887 i provvedimenti protezionistici imponevano dazi sull’importazione del grano e delle altre merci, allo scopo di tutelare i prodotti italiani. Nel 1894 i proprietari abruzzesi chiesero attraverso i Comizi Agrari che il dazio sul grano venisse elevato a 10 lire per quintale26. Tra la fine dell’Ottocento ed i primi anni del nuovo secolo in Abruzzo si cominciò a verificare un processo di disgregazione a cui contribuì la crisi economica, con la conseguente diminuzione dell’offerta di forza lavoro nelle campagne e l’intensificarsi del fenomeno migratorio.

4. – I primi emigranti abruzzesi

La diffusione dell’emigrazione in Europa ed oltreoceano tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento mutò la realtà economica e sociale delle campagne abruzzesi come notò Leone Carpi che, come già citato, fornì i primi rilevamenti sull’emigrazione italiana dal 1869, con particolare attenzione al triennio 1874-7627. Egli annotava che, nei circondari di Avezzano, Sulmona, Aquila, Chieti, Vasto, Penne nel periodo preso in esame, si era cominciata a verificare la partenza dei lavoratori verso i paesi europei, a cui fecero seguito i primi viaggi per le Americhe; in particolare la più alta percentuale di emigranti si era registrata nel chietino28.

I primi dati ufficiali sull’emigrazione si ebbero nel 1876, allorché il Ministero dell’Agricoltura, dell’Industria e Commercio istituì la Direzione Generale della Statistica per osservare in maniera più attenta le dimensioni dell’emigrazione nazionale. Si rilevò che in Abruzzo i tempi ed i luoghi da cui ebbe origine l’esodo evidenziavano una continuità con il precedente modello di migrazione interna, con cui aveva in comune i presupposti culturali ed economici. La scelta di emigrare contraddistinse quelle zone già segnate dalla cultura della mobilità, dall’abitudine al viaggio verso nuovi territori, dalla ricerca del lavoro per conseguire i mezzi necessari al sostentamento.

Negli anni dell’Inchiesta Agraria, il barone Angeloni29 riferiva di una migrazione dai circondari di Aquila, Sulmona, Avezzano, Vasto, Lanciano, Isernia ed Agnone nel Molise30, confermando che le zone tradizionalmente legate all’emigrazione stagionale furono poi le prime a dare origine agli espatri. Il prefetto dell’Aquila, interrogato insieme agli altri colleghi abruzzesi dal ministro Lanza, il 10 agosto 1871 indicava che su 1437 emigranti, 1261 erano stagionali segnalando il carattere occasionale e temporaneo del fenomeno31. Sempre il prefetto dell’Aquila il 18 maggio 1877 rispondendo ad una circolare del ministro Nicotera sosteneva che l’emigrazione verso l’estero era mossa dal solo desiderio di guadagno32. Inizialmente le autorità governative sembravano non dare eccessivo rilievo allo spostamento dei lavoratori, anche se il fenomeno degli abruzzesi che migravano continuò. In particolare nei primi anni Novanta la crisi della viticoltura determinò un consistente espatrio, come avvenne nel 1893 quando 4500 abitanti partirono dalla provincia aquilana, e di questi circa 2500 provenivano dalla Conca di Sulmona33.

Nella prima fase del periodo migratorio tra il 1876 ed il 1900 il flusso degli italiani era diretto per il 48% verso gli Stati europei, mentre tra le partenze verso i paesi extraeuropei prevalevano quelle verso l’America Latina che rappresentavano circa 1/3 del totale34. Per quel che riguarda l’Abruzzo, l’emigrazione verso l’Europa ed i Paesi del Mediterraneo35 in questa prima fase era alimentata quasi esclusivamente dalla provincia di Aquila, che costituiva all’incirca il 70% dell’emigrazione regionale ed era di tipo temporaneo. Ci si indirizzava verso tali zone perché più semplici sia da raggiungere sia da lasciare per tornare in patria. Le partenze dal territorio aquilano come risposta alla crisi del mondo pastorale36 si orientavano, come già detto, verso un modello migratorio prevalentemente temporaneo. Solamente a partire dal 1896 anche dalla provincia di Aquila ci si indirizzò in prevalenza verso le Americhe.

Nei primi anni le destinazioni transoceaniche interessarono le aree di Chieti, Teramo e Campobasso: circa l’86% dei migranti si diresse verso le Americhe37. Sulla scelta influivano la vicinanza del porto d’imbarco, il costo del biglietto, il richiamo di amici e parenti, la propaganda degli agenti dell’emigrazione. Tale opzione era comune a gran parte dei migranti meridionali, che preferivano recarsi oltre l’Atlantico piuttosto che dirigersi verso i paesi europei per i minori costi del trasporto: per quanto possa sembrare strano, era più vantaggioso il costo del biglietto per la traversata atlantica degli 11000 km di mare che per il tragitto ferroviario da Napoli a Torino38.

Anche nei primi anni del Novecento l’abbandono del territorio italiano era determinato dalle condizioni di miseria, dalle informazioni fornite dagli emigranti rimpatriati, dalle rimesse che giungevano dall’estero, dal ruolo e dalla rete degli agenti e sub-agenti, i quali da conoscitori dei luoghi e delle necessità delle persone continuavano ad offrire a quelle masse rurali semi-analfabete assistenza “interessata” nello scrivere e leggere la corrispondenza, nel disbrigo delle pratiche per il passaporto, per il nulla osta militare e per il viaggio.

In quegli anni si diffusero anche campagne di propaganda per convincere i migranti ad indirizzarsi verso i paesi dell’America del Sud e dell’Oceania, attività sulle quali le agenzie dei procacciatori realizzavano consistenti guadagni in virtù delle sovvenzioni elargite da alcuni di questi Stati. Non mancarono purtroppo inganni e truffe ai danni dei più sprovveduti. Nel 1873 pervenne a New York un bastimento con a bordo numerose famiglie di contadini abruzzesi, che erano stati imbarcati dagli agenti dell’emigrazione con l’impegno di essere condotti a Buenos Aires dove li attendevano amici e parenti. Mons. Scalabrini denunciava che gli emigranti erano stati raggirati, e dopo aver sofferto per la lunga traversata si trovarono molto lontano dalla meta del loro viaggio e soprattutto senza mezzi per proseguirlo39.

Tommaso Paolini ha riportato la testimonianza di una rivista italiana che nel 1881 documentava episodi di vera e propria tratta umana

Si ebbero emigranti morti soffocati nelle stive dei bastimenti a cagione dei cattivi veleni, o decimati a bordo dalle malattie; se ne ebbero abbandonati al posto d’imbarco, delusi, traditi, derubati del loro meschino peculio: altri furono condotti in un luogo del tutto diverso da quello per il quale erano stati ingaggiati e dove avevano parenti o amici, alla Plata anziché al Canada, agli Stati Uniti di Colombia anziché a quelli dell’America del Nord […] molti si trovano in condizioni più disperate che in patria […] altri caddero in balìa di esosi speculatori, ridotti a vera schiavitù40.

Lentamente si ebbe una considerazione giuridica del fenomeno soprattutto per reprimere abusi ed imbrogli, prima con la legge Crispi del 1888 e in seguito con quella del gennaio del 1901, allorché si cominciò a legiferare in modo specifico sull’emigrazione.

5. – Gli espatri dalle province di Abruzzo e Molise: caratteri e cause

Seguendo l’andamento generale dell’emigrazione, nel periodo tra il 1876 e il 1900 si può notare, per i motivi sopra descritti, un progressivo e costante aumento dell’emigrazione dalle province abruzzesi. Erano espulsi dai ruoli produttivi quegli abitanti non specializzati nel lavoro che davano così origine ad un costante flusso verso l’estero, con l’eccezione della provincia di Teramo che fino al Novecento non registrò quote di partenze degne di rilievo.

Destinazione per province41

ANNI

EUROPA

AMERICHE

ALTRI PAESI

AQUILA

1876 – 1880

29

120

100

1881 – 1885

4188

982

1041

1886 – 1890

3433

4667

402

1891- 1895

9734

6178

54

1896 – 1900

6017

17708

323

1901 – 1905

24237

467368

889

1906 – 1910

20089

51536

1911 – 1915

14166

42161

CAMPOBASSO

1876-1880

1080

3312

5

1881-1885

2411

13691

79

1886-1890

1854

35406

332

1891-1895

367

34624

11

1896-1900

2732

40440

12

1901-1905

3637

62035

7

1906-1910

2527

60877

1911-1915

1160

40416

CHIETI

1876 – 1880

63

1610

23

1881 – 1885

435

4521

450

1886 – 1890

98

13430

296

1891- 1895

9

10093

4

1896 – 1900

18757

1901 – 1905

2976

62462

62

1906 – 1910

2461

52277

1911 – 1915

753

38277

TERAMO

1886 – 1890

67

169

11

1891 – 1895

109

826

23

1896 – 1900

744

2036

14

1901 – 1905

5783

37691

14

1906 – 1910

4348

37549

1911 – 1915

3112

33939

In Abruzzo i prefetti esaminarono con attenzione i motivi che causavano il fenomeno migratorio. Rispondendo ad un questionario della Direzione Generale della Statistica nel 1881, il prefetto di Chieti esaminava con competenza l’evento; riteneva che la causa dell’emigrazione fosse da individuare nelle condizioni di miseria, ne prevedeva l’ulteriore diffusione dal momento che l’emigrazione motivata da bisogni impellenti non poteva essere frenata facilmente, e si rendeva conto che un importante impulso attrattivo proveniva dalle iniziali rimesse inviate alle famiglie, le quali a loro volta influenzavano la decisione di partire.

Il funzionario comunque si augurava che per frenare l’esodo dei lavoratori si promuovesse un rinnovamento da parte dei detentori di capitali con iniziative economiche apportatrici di benefici per i lavoratori42.

A loro volta i proprietari terrieri, preoccupati del consistente allontanamento della manodopera a basso costo, sollecitavano l’intervento delle autorità governative affinché scoraggiassero i cittadini, in particolare i lavoratori agricoli ad emigrare in massa. La polemica venne sostenuta anche dal barone Angeloni, grande armentario e relatore dell’Inchiesta Agraria, che individuava un’importante alternativa all’emigrazione nell’espansione coloniale. Le grandi emigrazioni erano il segnale che i mezzi di sussistenza non erano adeguati all’aumento demografico della popolazione, pertanto, egli sosteneva, l’espansione coloniale poteva contribuire al benessere degli agricoltori43.

La preoccupazione dei proprietari proseguì anche agli inizi del Novecento: essi ritenevano infatti che i contadini non traendo risorse sufficienti dalle attività della terra e allettati dalla speranza di trovare fortuna nei lontani paesi d’oltroceano abbandonassero con troppa facilità i luoghi natii, causando danni agli stessi proprietari, e che omettessero di prestare attenzione alle difficoltà e agli stenti a cui potevano andare incontro nei paesi stranieri44.

In questi ultimi tempi è avvenuto anche […] che i coloni per emigrare abbiano abbandonato il fondo durante l’anno colonico, senza aver dato alcun preavviso, ciò che nella provincia di Teramo è chiamato con frase caratteristica mettere la chiave sotto l’uscio45.

Dal Molise46 l’emigrazione verso il continente americano47 raggiunse percentuali vicine al 70%; parimenti si verificò anche per Chieti, mentre per Teramo tale fenomeno avvenne solo nel Novecento. Per Aquila fino al 1896 la destinazione dell’emigrazione, alimentata dai territori montani, come Ateleta, Pacentro, era diretta verso i paesi europei. Solamente a partire dal 1896 gli emigranti della provincia aquilana si diressero, come gran parte degli abruzzesi, verso località americane48.

Nella prima fase dell’emigrazione i lavoratori aquilani si erano spostati verso i paesi dell’Europa, dell’Asia e dell’Africa settentrionale, impiegandosi in particolare nei lavori di costruzione delle reti viarie e ferroviarie. Luoghi di lavoro erano anche i Paesi balcanici, quali Serbia, Bulgaria e Tessaglia, dove gli abruzzesi si segnalarono per la loro dedizione al lavoro. Il console al Pireo nel 1892, raccontando la condizione degli emigranti italiani, sottolineava la disponibilità al sacrificio degli abruzzesi. La paga si aggirava tra le 3 o 4 dracme al giorno e gli operai più inclini al risparmio erano proprio “[…] i sobri abruzzesi, considerati i migliori terraiuoli: vivono di pane e poco companatico”, evidenziandone la parsimonia rispetto agli altri connazionali, che spendevano soprattutto per il vitto49. Come era avvenuto nelle precedenti emigrazioni interregionali, gli abruzzesi erano spinti ad allontanarsi dalla patria nella speranza di accumulare denaro e poter così ritornare in breve tempo a casa. Per tal motivo essi accettavano i lavori umili, riducendosi spesso a vivere in condizioni di estrema miseria. Con la conclusione dei grandi lavori nei Balcani ai primi del Novecento si erano moltiplicati gli appelli delle autorità italiane affinché gli emigranti non si recassero più in quelle zone dove si andava registrando un aumento della disoccupazione. Gli abruzzesi impiegati nello scavo di gallerie nelle rete ferroviaria si spostarono allora in Sassonia, poiché in Germania erano presenti altri corregionali che lavoravano come muratori e minatori.

6. – Professioni e stili di vita

Una consistente percentuale di lavoratori si diresse verso gli Stati Uniti, l’Argentina ed il Brasile, come riportato da Cesare Jarach.

Destinazione americane per province50

ANNI

ARGENTINA

BRASILE

STATI UNITI

AQUILA

1881 – 1885

181

25

673

1886 – 1890

1604

287

2597

1891- 1895

708

1759

3690

1896 – 1900

2637

5335

9522

1901 – 1905

2139

4988

37688

CAMPOBASSO

1881 – 1885

3476

1578

8259

1886 – 1890

5962

2658

25752

1891- 1895

3854

9750

20807

1896 – 1900

7854

9856

21491

1901 – 1905

5599

4569

50571

CHIETI

1881 – 1885

2055

898

1104

1886 – 1890

6813

1241

4973

1891- 1895

3105

2994

2950

1896 – 1900

8722

6281

3741

1901 – 1905

12312

8990

37790

TERAMO

1896 – 1900

305

812

911

1901 – 1905

2257

15380

19809

È interessante la comparazione tra i mestieri svolti in patria e le attività che esercitavano poi gli emigranti nei paesi di arrivo. Talvolta le occupazioni praticate risentivano della zona di provenienza; ad esempio i piemontesi in America erano utilizzati nelle miniere, in quanto ritenuti particolarmente robusti e resistenti e perché si sapeva che avrebbero accettato tale lavoro, sebbene pericoloso, spinti dal desiderio di ricevere una buona retribuzione51. In genere i primi a partire verso gli Stati Uniti e il Brasile furono gli artigiani, i muratori, gli operai ed i piccoli proprietari, ossia coloro che erano in grado di svolgere un lavoro grazie alla professionalità acquisita, o potevano pagarsi il biglietto di viaggio; successivamente emigrarono i contadini ed i fittavoli che si procuravano da vivere lavorando a giornata. Con l’inizio del Novecento aumentò il numero dei braccianti e diminuì il numero degli agricoltori, il che ha fatto parlare di un processo di proletarizzazione che nelle fasi più acute del fenomeno trasformò gli agricoltori in braccianti e in forza lavoro dequalificata52. Tale processo in effetti si verificò anche quando gli abruzzesi si erano recati, negli ultimi decenni dell’Ottocento, nei Balcani e nell’Africa settentrionale per lavorare nelle costruzioni ferroviarie, sebbene quel tipo di emigrazione si caratterizzasse per la sua temporaneità, mentre quella transoceanica era una emigrazione più stabile.

Per ragioni strutturali all’economia abruzzese la maggior parte degli emigranti apparteneva alla categoria degli agricoltori; nelle statistiche presentate sotto la voce agricoltura erano compresi «agricoltori, pastori, giardinieri», nella voce industria edilizia «muratori, manovali, scalpellini», tra i giornalieri «terraiuoli, braccianti», «mentre gli operai sono quelli dei settori industriali diversi dall’edilizia». Questi dati non rappresentavano esaustivamente le attività esercitate dagli emigranti abruzzesi in patria, ma ne indicavano le principali professioni, che gli espatriati non avrebbero svolto sic et simpliciter nei paesi di arrivo, dove anzi nella maggior parte dei casi dovettero adattarsi a svolgere altri tipi di attività.

Nell’America del Sud oltre all’impiego nell’agricoltura, erano occupati nelle attività artigianali in qualità di sarti, calzolai e commercianti, mentre negli Stati Uniti operavano come braccianti, artigiani, minatori, operai nelle industrie metallurgiche. Alcuni più intraprendenti si dedicarono ad attività di intermediazione, occupandosi di gestire le rimesse degli emigranti verso l’Italia, della vendita dei biglietti di viaggio, del cambio della valuta italiana ed estera, diventando così dei punti di riferimento per gli altri connazionali. Le autorità consolari riferivano che dopo il 1900 numerose comunità abruzzesi erano presenti in Pennsylvania, in Massachussets, a New York, in Colorado e nello Utah53.

Le popolazioni del Mezzogiorno tendevano a vivere insieme in raggruppamenti parentali e paesani, che permettevano di affrontare con maggiore sicurezza in un paese sconosciuto la vita e le difficoltà che essa comportava, come ad esempio la lingua ed i problemi connessi al lavoro54. Si venivano a creare pertanto in America delle piccole comunità all’interno delle quali con spirito campanilistico si organizzavano associazioni per aiutarsi, per festeggiare gli eventi della vita, i santi patroni del paese d’origine e per continuare a parlare il proprio dialetto. Abitudini similari si riscontravano anche tra gli abruzzesi, che sebbene abituati alla vita fuori dai propri territori, erano tuttavia

caratterizzati da una emigrazione “perenne”, perché costante nei secoli, ma “temporanea”, perché contraddistinta dalla persistenza, nella mente dell’emigrante dell’idea di fare ritorno nella terra di provenienza55.

Punto fondamentale nella cultura della mobilità prodotta dall’emigrazione era quello di riconoscersi nelle tradizioni e nei valori della propria terra anche fuori da essa, nelle forme di religiosità e nella creazione di associazioni assistenziali all’estero56; in questo modo i lavoratori cercavano di mantenere sempre vivo e forte il legame con le aree di provenienza.

Il figlio della montagna aquilana, oltre Atlantico, non abbandona il fazzoletto rosso intorno al collo, il cappello a pan di zucchero, gli anelli dorati alle orecchie57.

Il legame con la propria terra influenzava l’opinione sugli abruzzesi

popolazione robustissima e di vivida intelligenza, non godono oltre l’Oceano di quella considerazione alla quale le grandi, indiscutibili qualità, e la nobiltà della razza del paese “forte e gentile” darebbero loro diritto, e ciò dipende, giova dirlo, in parte da una profonda ingiustizia del giudizio degli americani, in parte da colpa loro58.

L’autore spiegava per quale motivo il giudizio fosse negativo.

L’abruzzese giunto in America stenta ad abbandonare gli usi del paese natio, ai quali è amorosamente attaccato, stenta a lasciare il suo abbigliamento pittoresco e caratteristico: in New York essi lavorano preferibilmente nelle fabbriche industriali. Una parte però si ostina a voler esercitare alcune professioni ignote e non apprezzate dagli americani, come quelle di cantastorie, di suonatore d’organetto, di conduttore di cani e scimmie ammaestrate59.

Comunque tra le fila dei lavoratori era presente anche un alto numero di minatori, scalpellini e carbonai, che svolgevano mestieri rischiosi, per i quali ricevevano sì una paga dignitosa, ma erano costretti ad esporsi a pericoli talvolta mortali, come avvenne nella tragedia di Monongah60. Gli emigrati abruzzesi che svolgevano tali lavori erano soliti abitare fuori dalle città, nei pressi delle cave di pietra, delle miniere o nelle vicinanze dei boschi. Insediamenti urbani di comunità abruzzesi si trovavano a Chicago e nella città mineraria di Pittsburg, anche se i documenti relativi ai domicili indicavano una certa tendenza al suburbanesimo61. Poiché gli italiani immigrati cercavano di vivere tra loro in raggruppamenti più o meno numerosi, negli Stati Uniti tale aggregazione destava preoccupazione soprattutto perché si temevano fenomeni malavitosi.

Gli italiani in America si dimostravano refrattari all’assimilazione e questo comportava un discreto numero di rientri in patria. Le rilevazioni ufficiali si interessarono dei rimpatri solo dal 1905 ponendo particolare attenzione ai rientri provenienti dai paesi transoceanici. Sebbene le statistiche fornissero quadri parziali, si possono tuttavia ricavare indicazioni interessanti per determinare il grado di temporaneità dell’emigrazione abruzzese.

Cosicché, girando le campagne e discorrendo coi contadini (fra di essi riconoscerete facilmente l’americano per certi speciali pantaloni di tela azzurra con numerose tasche ed una larga pettorina, o per l’uso delle bretelle), vi imbattete facilmente in uomini di 35-40 anni, che hanno già fatto due o tre viaggi all’America62.

Dal 1905 al 1915 gli abruzzesi che rientrarono dai paesi transoceanici furono circa 150000, cifra pari a circa il 7% del totale dei rimpatri italiani, di cui più del 70% proveniva dagli Stati Uniti63. Tutta la durata della loro permanenza era finalizzata ad accumulare quanto più possibile risorse e denaro per l’eventuale ritorno in patria. Molti emigranti infatti accantonavano una parte dei loro guadagni destinandoli al ritorno in Italia, dal momento che consideravano la loro permanenza del tutto temporanea. Quello che potevano, a costo di notevoli sacrifici, lo inviavano nel paese natio, dove le rimesse inviate influivano in maniera consistente sull’economia.

7. – Effetti delle rimesse

Una fantastica pioggia d’oro. Così nei decenni a cavallo tra Otto e Novecento, gli osservatori del tempo definirono l’afflusso di capitali verso l’Italia generato dalle rimesse dell’emigrazione64.

Il denaro inviato dagli italiani all’estero ha svolto un’importante funzione nel processo di crescita economica dell’Italia. Un ruolo fondamentale nella raccolta e custodia di valuta straniera era svolto nell’area abruzzese dal Banco di Napoli, che aveva ricevuto dallo Stato la concessione del servizio di trasmissione in patria del risparmio degli emigrati, sia direttamente tramite la succursale di Chieti e le agenzie di Aquila e Teramo, sia tramite le banche locali collegate65. Il Banco di Napoli, grazie agli istituti locali, riuscì a realizzare un servizio capillare di recapito delle rimesse, perché questi istituti avevano propri incaricati anche in centri diversi da quelli dove avevano la sede e riuscivano a coprire un’area territoriale piuttosto ampia.

Di frequente le banche presso le quali avveniva la riscossione delle rimesse raccoglievano il risparmio delle famiglie degli emigrati; è comunque impossibile quantificare in modo preciso l’ammontare delle rimesse perché oltre alle somme inviate dall’estero mediante gli istituiti finanziari, esistevano le rimesse “invisibili” effettuate direttamente dagli emigrati senza passare per i canali finanziari ufficiali.

Cesare Jarach a tal proposito così osservava

Non è possibile misurare nella sua vera entità quella corrente di denaro che ogni anno giunge dall’estero e si diffonde in tutti i paesi della regione. Di essa una gran parte sfugge ad ogni valutazione […] le descrizioni che se ne sentono nei piccoli e nei grandi Comuni danno l’impressione di una fantastica pioggia d’oro: migliaia e migliaia di lire giungono ogni anno alle più misere abitazioni; nei più oscuri tuguri si nascondono tesori; la donnicciuola, che scende la domenica in città a far acquisti, maneggia con disinvoltura i biglietti di grosso taglio, di cui fino a poco tempo fa ignorava anche l’esistenza […]66.

Si poteva trattare di cifre considerevoli, acquisite spesso a costo di enormi sacrifici

Si calcola concordemente in tutta la regione che un anno di permanenza in America (Stati Uniti) permetta un risparmio fra le 1000 e le 1500 lire, un anno di residenza in un paese europeo un risparmio sulle 600 lire; una stagione in Germania (da ottobre o novembre a marzo) un risparmio fra le 300 e le 500 lire. I contadini sogliono fare questo calcolo: che si guadagnino in America almeno 7,50 al giorno e che con mezzo dollaro sia possibile provvedere a tutte le spese di vitto ed alloggio; calcolo che giustifica pienamente un risparmio annuo di oltre 1000 lire67.

Sull’economia rurale abruzzese le migrazioni portavano da un lato effetti positivi tramite le rimesse in valuta estera, dall’altro impatti negativi in conseguenza della diminuita manodopera sul mercato del lavoro locale. L’avventura migratoria era legata essenzialmente alla realizzazione di un obiettivo: lasciarsi alle spalle la miseria e poter ritornare al paese con un avanzamento nella posizione sociale. Così i sacrifici erano finalizzati all’acquisto della terra e della casa, investendo i capitali risparmiati all’estero. L’acquisto della terra e di una casa permetteva di emancipare la famiglia e provvedere alle sue necessità.

8. – La tragedia mineraria a Monongah

Il fenomeno migratorio non produsse solamente emancipazione e benessere nelle famiglie dei migranti, perché se alcune trassero giovamento economico e sociale dall’espatrio, molte pagarono duramente, talvolta anche con la vita l’esperienza di lavoro all’estero. Il 6 dicembre del 1907 la cittadina mineraria di Monongah68 nel West Virginia

[…] fu scossa in rapida successione da esplosioni di inaudita violenza per cui la terra tremò fino a 12 km di distanza. I pozzi n. 6 e n. 8 […] delle cinque miniere di carbone di Monongah della Fairmont Coal Company, erano implosi in modo terrificante […] alcuni edifici crollarono e furono divelte rotaie della ferrovia. Quella giornata era iniziata come tante altre in precedenza e, nell’intenso freddo mattutino (era dicembre ai piedi dei Monti Appalachi), intorno alle 5.30, la sirena della miniera aveva richiamato i 500 minatori del turno che si presentarono puntualmente all’imbocco delle gallerie n. 6 e n. 869.

Gli abitanti della cittadina ed i soccorritori si resero subito conto della gravità della situazione.

Dalle due gallerie usciva soltanto fumo e polvere. Lo scenario che si presentava ai loro occhi era spaventoso. Una enorme frana ostruiva l’ingresso sotterraneo della galleria n. 6, mentre quello in superficie era bloccato da resti di carrelli e dei due motori elettrici. L’esplosione, distruggendo gli impianti di aerazione, aveva provocato la repentina diffusione di gas velenosi in tutti i cunicoli della miniera. Chi non trovò la morte sotto i detriti finì sicuramente con il soccombere a causa delle esalazioni di gas mortali. La loro eccessiva presenza, inoltre, ritardò i lavori dei soccorritori stessi i quali, sprovvisti di attrezzature adeguate come maschere anti-gas, non potevano resistere più di 15 minuti sotto terra e dovevano darsi il cambio70.

Le operazioni di soccorso furono ritardate anche dallo scoppio di ulteriori incendi nelle due gallerie, mentre i familiari si radunavano davanti agli ingressi principali.

Purtroppo le notizie dei soccorritori erano sempre più sconvolgenti e molti dei corpi ritrovati erano mutilati e bruciati. Alcuni di loro vennero identificati attraverso gli effetti personali, altri non vennero mai identificati71.

Sulle cause del disastro ancora oggi manca una spiegazione accertata e condivisa. Ciò che emerge dalla vicenda è che la Fairmont Coal Company riuscì ben presto ad allontanare da sé il sospetto delle responsabilità sull’accaduto e dall’iniziale risalto delle testate giornalistiche72 si passò all’oblio della notizia. I responsabili della miniera indicarono la presenza di circa 400 minatori e della morte di circa 200. In seguito il numero ufficiale dei morti fu stabilito a 361, di cui 171 italiani, 105 polacchi e 85 americani73. Probabilmente il numero reale dei deceduti fu di gran lunga superiore alle cifre riportate74. L’interesse a ridimensionare il disastro era dovuto alla necessità di non destare eccessivi allarmi nell’opinione pubblica, evitare azioni di protesta da parte dei minatori e delle famiglie dei morti e tutelare la reputazione della compagnia. Inoltre non era estranea nelle classi dirigenti della società americana dell’epoca – così come avviene purtroppo anche nei giorni attuali – l’idea di considerare gli immigranti come forza lavoro da poter utilizzare e sfruttare anche per i lavori più pericolosi.

Da dove provenivano i minatori? Dall’elenco degli indennizzati risultava che provenissero per la maggior parte dalla Calabria, dal Molise e dall’Abruzzo. Si parlava di un centinaio di molisani, una quarantina di calabresi ed una trentina di abruzzesi. All’identificazione più precisa non poteva essere di aiuto l’elenco degli assegnatari dell’indennizzo che conteneva solo i nomi dei minatori “regolari” e non quelli degli “aiutanti”. Nei giorni successivi al disastro furono raccolti aiuti e contributi da distribuire ai familiari delle vittime. Molti lavoratori italiani tuttavia erano soli ed alle loro famiglie rimaste in Italia non solo non giunse alcun risarcimento, ma non pervennero nemmeno le notizie ufficiali sulla sorte dei loro cari.

Dall’Italia non arrivò nessun contributo né in seguito ci fu alcun riconoscimento alle famiglie delle vittime, alcune delle quali con numerosi orfani: gli unici interventi furono quelli del Regio Console di Philadelphia, Sara Forni, e l’agente consolare di Fairmont, Giuseppe Caldera, che si interessarono degli aspetti burocratici della drammatica situazione […] ci fu anche la collaborazione di un sacerdote scalabriniano, don Giuseppe D’Andrea, originario di Premia (Novara), che aveva perso nella miniera un fratello, Victor D’Andrea. Per il resto fu solo silenzio, assenza assoluta dello Stato per questi poveri morti e per le loro famiglie75.

Notizie dell’accaduto vennero riportate in Italia con il ritorno nei paesi natii dei lavoratori scampati al disastro. Gli emigranti abruzzesi di Monongah provenivano per l’aquilano da Civitella Roveto, Canistro, Civita d’Antino, Pescocostanzo e dalla zona di Sulmona, per il chietino da Vasto e Vacri. Dal Molise i due paesi di Duronia e Torella del Sannio registrarono un alto numero di vittime, rispettivamente con 37 e 13 morti. Prevalentemente furono i giovani a perire, anche se i nomi delle vittime talvolta sono stati dimenticati perché diversi erano irregolari se non clandestini e “le autorità istituzionali riservarono poca attenzione alla loro vita e quindi anche alla loro morte”76.

9. – L’emigrazione osservata attraverso l’inchiesta parlamentare del 1909 ed il relatore Cesare Jarach

Agli inizi del Novecento da parte delle forze politiche si avvertì tramite una commissione d’inchiesta la necessità di indagare “Sulle condizioni dei contadini nelle Provincie meridionali e nella Sicilia” per comprendere i mutamenti e le trasformazioni in atto nelle campagne. I commissari nominati decisero di recarsi sul posto, osservando, intervistando, confrontando e sentendo i diversi soggetti sociali che incontravano. Le interviste coinvolsero contadini, pastori, ma anche proprietari, agronomi, notai, politici e questa ampia raccolta di voci produsse una straordinaria ricchezza di dati e notizie che furono espressi nei resoconti dei commissari, e che per l’Abruzzo e Molise vennero redatti da Cesare Jarach. Dai dati raccolti emergeva la profonda crisi di quel sistema economico fondato sulla piccola proprietà; è bene precisare che con il termine di proprietario nell’Abruzzo e Molise del XIX secolo si indicava colui che possedeva la terra, ma non la coltivava direttamente. Per il proprietario che lavorava la terra di persona si utilizzavano termini come “campagnolo” o “contadino”.

I relatori prestarono attenzione anche al fenomeno migratorio, allo scopo di conoscere i motivi che spingevano gli agricoltori a partire

Se è un contadino che parla, egli afferma invariabilmente che è emigrato od emigrerà o lascia emigrare i suoi figli perché in paese non si riesce a campare77.

L’emigrazione, diminuendo la quantità e la qualità di manodopera, determinava l’aumento del costo del lavoro. Sui terreni restavano a lavorare in maggioranza vecchi, donne e bambini. I proprietari non contenti di questo stato di cose

riconoscono che al suo inizio l’emigrazione sia stata determinata da un grave disagio economico, asseriscono però essere diventata ormai una smania irrefrenabile, morbosa, una moda, una imitazione non ponderata, la corsa verso la ricchezza di esaltati sognatori che trascurano un benessere relativo ma certo, per uno maggiore ma incerto78.

La crisi era analizzata attraverso le idee di una classe politica basata sulla conservazione di una gerarchia sociale consolidata da secoli, che osservava con apprensione il mutamento di strutture che consentivano il tramandarsi quasi ininterrotto di privilegi in grado di garantire ai proprietari benessere economico e sicurezza sociale. Inoltre si guardava con sospetto il cambiamento che le rimesse degli emigranti potevano produrre attraverso l’acquisto da parte dei contadini di beni immobili, quali terreni e case fino ad allora negati alla parte più povera della società.

Le perplessità della classe dirigente erano eccessive quando sosteneva che la vendita delle proprietà incentivasse un processo di concentrazione dei possedimenti, dal momento che era piuttosto aumentato il numero dei proprietari e pertanto il fenomeno non poteva essere considerato allarmante. Erano invece fondate le preoccupazioni allorquando ci si riferiva ad una possibile trasformazione storica, politica e sociale che riportava al centro dell’attenzione quelle problematiche e quel processo di modernizzazione appena iniziato dopo l’unità d’Italia, che aveva riguardato in gran parte solo i ceti dominanti.

I relatori dell’inchiesta notavano che cause prettamente economiche avevano dato origine al fenomeno migratorio; lo stesso Jarach, studiando l’emigrazione in Abruzzo e Molise, aveva distinto tra quella proveniente dalla montagna, che aveva le sue cause nella crisi della pastorizia, nel fallimento delle operazioni di disboscamento e nel dissodamento dei demani comunali, e l’emigrazione dalla pianura cominciata successivamente per motivi solo apparentemente demografici, ma in realtà determinata da cause precise quali la diffusione della malaria, la monocoltura cerealicola nelle proprietà più estese, la diminuzione dei salari giornalieri e l’aumento delle prestazioni annue al proprietario79.

Anche i più accaniti oppositori dell’emigrazione attuale parlano di quel primo periodo dipingendolo con frasi assai colorite ed espressive, e giustificando l’emigrazione come una necessità ineluttabile. “Se non fosse avvenuta l’emigrazione si sarebbe dovuto fare a coltellate per vivere”, i contadini “avrebbero dovuto strapparsi a forza il pane l’un l’altro”.

Si proseguiva notando che agli inizi del Novecento il migliorato tenore di vita raggiunto dai contadini rispetto al passato consentiva a questi ultimi di acquistare terreni. Tale avanzamento preoccupava il ceto dirigente liberale per le possibili conseguenze politiche e sociali. Dall’inchiesta emergeva la posizione di alcune famiglie non più indebitate, ma economicamente in ascesa e dotate di risorse finanziare e conoscenze tecniche acquisite grazie al soggiorno all’estero. La relazione di Cesare Jarach tendeva ad evidenziare i lati positivi del fenomeno migratorio con il rientro di uomini dotati di capitale economico in grado di produrre benessere e superare lo stadio di arretratezza.

Alla emigrazione di persone sole, le quali lasciano dietro di sé affetti profondi, ed al ritorno da parte di quasi tutti gli emigrati, sono esclusivamente dovuti alcuni dei numerosi effetti della emigrazione […] le rimesse, la larga accumulazione di risparmi, la cessazione dell’usura, il miglioramento dell’alimentazione e delle abitazioni, la costituzione di una larga classe di piccoli proprietari coltivatori, l’aumento del prezzo degli immobili80.

La trasformazione ebbe delle ripercussioni anche all’interno degli ambiti familiari: i giovani emigranti tendevano a sganciarsi dalla figura del patriarca ed inviavano i propri risparmi alle mogli piuttosto che ai padri. Nonostante questo si manteneva sempre un forte legame con i propri cari

La nostalgia del paese nativo, gli affetti familiari lasciati in patria fanno sì che tutti gli emigranti ritornino […] Un’emigrazione di famiglie intere, definitivamente perdute per la patria, avrebbe avuto un’azione ben più limitata, e le sue conseguenze immediate non sarebbero state se non la elevazione dei compensi, di qualunque forma, del lavoro81.

Dalla relazione di Jarach emergeva una ricostruzione complessivamente rassicurante dell’emigrazione, sebbene se ne valutassero anche gli aspetti meno convenienti. Si descrivevano le trasformazioni e le implicazioni che rendevano possibile una ricostruzione storica dell’Abruzzo, per cui si poteva affermare che, pur nella diversità dei tempi, l’emigrazione era stata un fenomeno caratteristico dell’intero territorio abruzzese.

Tra le note positive venivano indicati i notevoli benefici che sul piano economico investirono la società del tempo, il miglioramento delle condizioni igieniche, dell’ordine pubblico, l’emancipazione femminile. Tra le note sfavorevoli si registrava il diffondersi delle vedove bianche, dell’adulterio e conseguentemente la crisi del sistema familiare. Si prestava attenzione al fatto che le giovani generazioni e quindi le forze attive e più propositive della popolazione si allontanassero dai propri luoghi natii. Questi processi erano valutati come un dato ineliminabile nel percorso di crescita della società abruzzese e molisana.

L’emigrazione ha un costo, non semplicemente economico costituito dalle spese di viaggio, ma anche morale, a costituire il quale intervengono il timore dell’ignoto, il dolore per l’abbandono del paese e della famiglia, il disagio per il cambiamento d’abitudine ed altri simili elementi; ora, finché la differenza fra le rimunerazioni ottenute in patria ed all’estero supera questo complesso costo, di cui il contadino fa nel suo animo una inconscia valutazione, egli si determina ad emigrare82.

Ma le rimesse monetarie erano sufficienti a ricompensare le sottrazioni umane? Non si può rispondere in termini completamenti positivi per alcuni motivi. Il flusso di denaro proveniente dall’emigrazione insieme allo sviluppo dei centri rurali migliorava non soltanto lo stile di vita dei lavoratori, ma apportava consistenti benefici anche alle classi medio alte. I capitali derivati dalle vendite dei terreni posseduti nel contado dalle famiglie maggiorenti venivano reinvestiti da queste ultime anche nelle città. I proprietari sicuramente non svendevano i loro possedimenti e ciò consentiva loro di investire il denaro proveniente dalle vendite agli emigranti sia nell’acquisto di beni in città sia nell’istruzione dei figli. Tali scelte si riveleranno nel lungo periodo più fruttuose rispetto a quelle degli emigranti, i quali invece vedranno deprezzati gli investimenti a causa della diminuzione del valore della rendita agraria, soprattutto di quella montana, e del valore degli immobili dei piccoli centri.

Si assistette pertanto ad un ulteriore danno, soprattutto nel secondo dopoguerra, quando quella parte di popolazione si vide costretta a partire nuovamente e questa volta più stabilmente per l’Europa, l’America del Nord e del Sud, l’Australia. Ciò che agli inizi del secolo pareva essere una vittoria per coloro che tornavano dall’estero, i quali esclusi per lungo tempo dalla partecipazione alla proprietà erano riusciti a comprare dei beni appartenuti al ceto dominante, si rivelò in seguito essere meno foriero di soddisfazioni. Il deprezzamento degli investimenti diede pertanto vita ad una nuova emigrazione nel tentativo di risollevare una condizione ancora una volta disagiata.

Note al testo:

1 Cfr. Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità ad oggi. L’Abruzzo, a cura di Massimo Costantini e Costantino Felice, Torino, Einaudi, 2000; Storia dell’Abruzzo, a cura di Costantino Felice, Adolfo Pepe, Luigi Ponziani, Roma-Bari, Laterza, 1999.

2 Per approfondite indicazioni sull’emigrazione abruzzese cfr. Emigrazione abruzzese tra Ottocento e Novecento, a cura di Lia Giancristofaro, 2 voll., L’Aquila, Regione Abruzzo, 2008; L’Abruzzo e Montenerodomo nel secondo dopoguerra: ricostruzione e nuovo esodo. Atti del Convegno nazionale di studi Montenerodomo, 3-4 agosto 2006, numero monografico di “Abruzzo Contemporaneo” a cura di Costantino Felice ed Enzo Fimiani, 25/26 (2006); Vincenzo Rivera, Profili essenziali dell’emigrazione abruzzese dall’unità ad oggi, in Studi monografici sulla popolazione abruzzese, L’Aquila, CRESA, 2001, pp. 207-260; Umberto Dante, L’inverno del patriarca. Criminalità e conflitti nella famiglia abruzzese negli anni della grande emigrazione, “Abruzzo Contemporaneo”, 5 (1997), pp. 48-87; Pierre Vitte, Le campagne dell’alto appennino. Evoluzione di una società montana, Milano, Unicopli, 1995.

3 Gaetano Sabatini, L’agricoltura abruzzese tra Ottocento e Novecento: trasformazioni e continuità, in L’Abruzzo nell’Ottocento, Istituto Nazionale di Studi Crociani, Chieti, Ediars, 1996, pp. 61-72.

4 Cfr. Costantino Felice, Il disagio di vivere. Il cibo, la casa, le malattie in Abruzzo e Molise dall’Unità al secondo dopoguerra, Milano, Franco Angeli, 1989.

5 Inchiesta parlamentare sulle condizioni dei contadini nelle Province meridionali e nella Sicilia, vol. II Abruzzi e Molise, t. 1, Relazione del delegato tecnico C. Jarach, Roma, Tipografia Nazionale, 1909, p. 240.

6 Cfr. Daniela De Nardis, L’emigrazione abruzzese tra Ottocento e Novecento. L’esodo massiccio degli abruzzesi dal 1876 al 1915, Cerchio (AQ), Adelmo Polla Editore, 1994, p. 23.

7 G. Corona, Terre e tecniche tra Otto e Novecento, “Trimestre”, 23, 3-4 (1990), p. 265.

8 Leopoldo Franchetti, Condizioni economiche e amministrative delle Province napoletane: Abruzzi e Molise, Calabria e Basilicata. Appunti di viaggio, Firenze, Tipografia della Gazzetta d’Italia, 1875, p. 6.

9 Sidney Sonnino, La mezzeria in Toscana, Firenze, Tipografia della Gazzetta d’Italia, 1875, pp. 4-10.

10 L. Franchetti, Condizioni economiche e amministrative delle Province napoletane: Abruzzi e Molise, cit., p. 5.

11 Giuseppe Maria Galanti, Testamento forense, Venezia, 1806, in particolare pp. 185-198.

12 Ibid.

13 Eide Spedicato Iengo, Il “mestiere” di emigrante fra illusioni e rinascite. Una nota in chiave sociologica, in Emigrazione abruzzese tra Ottocento e Novecento, vol. I, cit., p. 45.

14 Raffaele Colapietra, I grandi tratturi nella tematica attuale dei beni ambientali, in Atti del IV convegno sulla preistoria, protostoria, storia della Daunia, San Severo, 17-19 dicembre 1982, Comune di San Severo, 1985, pp. 329-336.

15 Raffaele Colapietra, La dogana di Foggia, Bari, Centro Librario, 1972; Id, Abruzzo. Un profilo storico, Lanciano, Carabba, 1977.

16 P. Vitte, Le campagne dell’alto appennino, cit., in particolare pp. 237-296.

17 Alcuni autori contrastano questa tesi, come Saverio Russo che evidenzia come l’identità abruzzese nella transumanza fosse connotata da un atteggiamento di resistenza, in quanto i pastori restavano lontani dai centri abitati e mantenevano un rapporto marginale con la società delle pianure pugliesi; cfr. Saverio Russo, Questioni di confine: la Capitanata tra Sette e Ottocento, in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità ad oggi, La Puglia, a cura di Luigi Masella e Biagio Salvemini, Torino, Einaudi, 1989, pp. 253-254.

18 Raffaele Colapietra, Problemi politici e sociali dell’Abruzzo a fine Ottocento, “Nuovi Quaderni del Meridione”, 5, 20 (1967), pp. 45-80.

19 Sui riflessi nella società e nella struttura familiare abruzzese del fenomeno migratorio cfr. Antonio Grumelli, Aspetti sociologici dell’evoluzione demografica in Abruzzo, Roma, Editoriale di cultura e documentazione, 1960; U. Dante, L’inverno del patriarca. Criminalità e conflitti nella famiglia abruzzese negli anni della grande emigrazione, cit.

20 Sulle trasformazione dell’economia abruzzese e sul conseguente fenomeno migratorio cfr. P. Vitte, Le campagne dell’alto appennino. Evoluzione di una società montana, cit., in particolare pp. 91-157.

21 Fabio Bettoni, La montagna abruzzese, gli equilibri agricoli e pastorali tradizionali tra Unità e anni Trenta, “Trimestre” 23, 3-4 (1990), pp. 203-252.

22 D. De Nardis, L’emigrazione abruzzese tra Ottocento e Novecento, cit., p. 31.

23 Ibid., p. 32.

24 F. Bettoni, La montagna abruzzese, gli equilibri agricoli e pastorali tradizionali, cit.

25 D. De Nardis, L’emigrazione abruzzese tra Ottocento e Novecento, cit., p. 33.

26 Ibid., p. 35.

27 Leone Carpi, Statistica illustrata dell’emigrazione all’estero del triennio 1874-1876 nei suoi rapporti con i problemi economico-sociali, Roma, Tip. del Popolo Romano, 1878.

28 Leone Carpi riteneva che nel 1875, dalla provincia di Chieti fossero partiti 179 emigranti, dei quali ben 177 diretti verso le Americhe.

29 Il barone fu il relatore per l’Abruzzo, il Molise e la Puglia – quarta circoscrizione – nell’Inchiesta agraria presieduta da Stefano Jacini.

30 Giuseppe Andrea Angeloni, Relazione per gli Atti della Giunta per l’Inchiesta Agraria e sulle condizioni della classe agricola, Roma, Forzani e C.,1884, pp. 476-490.

31 Mario Arpea, Alle origini dell’emigrazione abruzzese. La vicenda dell’altipiano delle Rocche, Milano, F. Angeli, 1987, p. 19, n. 18.

32 Ibid.

33 D. De Nardis, L’emigrazione abruzzese tra Ottocento e Novecento cit., p. 90.

34 Ibid.

35 Gli italiani e gli abruzzesi erano impegnati nei cantieri ferroviari, stradali, portuali, nei lavori di terrazzamento cfr. M. Arpea, Alle origini dell’emigrazione abruzzese, cit., pp. 22-28.

36 Prima dell’unificazione nella provincia di Aquila si registrava una bassa percentuale di contadini che “era compensata dalla più alta percentuale 10,79 di pastori (10 mila, mentre gli agricoltori erano 70 mila) tra le province del Regno”: Giuseppe Galasso, Mezzogiorno medievale e moderno, Torino, Einaudi, 1975, p. 314.

37 D. De Nardis, L’emigrazione abruzzese tra Ottocento e Novecento, cit., p. 96.

38 Giorgio Bertone, La patria in piroscafo, nota all’edizione di Edmondo De Amicis, Sull’Oceano, Reggio Emilia, Diabasis, 2005.

39 Giovanni Battista Scalabrini, Il disegno di legge sull’emigrazione italiana, in La società italiana di fronte alle prime emigrazioni di massa, a cura di Antonio Perotti, numero monografico di “Studi Emigrazione”, 5, 11-12 (1968), p. 216.

40 Tommaso Paolini, L’industria abruzzese nell’800, in L’Abruzzo nell’Ottocento, cit., pp. 76-77.

41 D. De Nardis, L’emigrazione abruzzese tra Ottocento e Novecento, cit., pp. 102-103, elaborazione sui dati dall’Inchiesta Parlamentare e dall’Annuario Statistico.

42 Ibid., pp. 119-20.

43 Giuseppe Andrea Angeloni, Relazione del commissario Andrea Giuseppe Angeloni sulla quarta circoscrizione (provincia di Foggia, Bari, Lecce, Aquila, Chieti, Teramo, Campobasso), in Atti della Giunta per l’Inchiesta Agraria e sulle condizioni della classe agricola, Roma, Forzani e C. tipografi del Senato, 1884.

44 Inchiesta parlamentare sulle condizioni dei contadini nelle Province meridionali e nella Sicilia, vol. II Abruzzi e Molise, t. 1, Relazione del delegato tecnico C. Jarach, cit., pp. 251-52.

45 Ibid., p. 130.

46 Cfr. Gino Massullo, Molise: grande emigrazione e mobilità territoriale, in L’emigrazione abruzzese e molisana (secoli XIX e XX), a cura di Guido Crainz, numero monografico di “Trimestre”, 27, 3-4 (1994), pp. 497-521; Vincenzo Lombardi, L’emigrazione dal Molise, “Archivio Storico dell’emigrazione italiana”, 3, 1 (2007), pp. 41-54.

47 Nicole Malpas, Un incontro dimenticato: il Molise e il Canada, in L’emigrazione abruzzese e molisana (secoli XIX e XX), cit., pp. 523-539.

48 Sul fenomeno migratorio nell’area aquilana cfr. Gaetano Sabatini, Le dinamiche demografiche dell’area aquilana dalla statistica murattiana al censimento del 1991, in L’emigrazione abruzzese e molisana (secoli XIX e XX), cit., pp. 581-628.

49 Rapporti dei R. R. Agenti diplomatici e Consolari, edito da Ministero degli Affari Esteri, Tipografia Bertero, 1893, p. 359, citato in D. De Nardis, L’emigrazione abruzzese tra Ottocento e Novecento, cit., p. 107.

50 Inchiesta parlamentare sulle condizioni dei contadini nelle Province meridionali e nella Sicilia, vol. II Abruzzi e Molise, t. 1, Relazione del delegato tecnico C. Jarach, cit., p. 250.

51 Paulo G. Brenna, Storia dell’emigrazione italiana, Roma, Mantegazza, 1928, p. 251.

52 Cfr. Ercole Sori, L’emigrazione italiana dall’Unità alla Seconda Guerra Mondiale, Bologna, Il Mulino, 1979, pp. 31-40.

53 Ibid., p. 110.

54 Franco Ramella, Reti sociali, famiglie e strategie migratorie, in Storia dell’emigrazione italiana, t. 1, Partenze, a cura di Piero Bevilacqua, Andreina De Clementi, Emilio Franzina, Roma, Donzelli, 2001, pp. 143-160.

55 Lia Giancristofaro, Cultura popolare abruzzese. Gli Abruzzesi all’estero, L’Aquila, Regione Abruzzo, 2002, p. 17.

56 Cfr. D. De Nardis, L’emigrazione abruzzese tra Ottocento e Novecento, cit., pp. 20-22; M. Arpea, Alle origini dell’emigrazione abruzzese. La vicenda dell’altipiano delle Rocche, cit., p. 21 n. 22.

57 P. G. Brenna, Storia dell’emigrazione italiana, cit. p. 253.

58 Ibid., p. 252.

59 Ibid.

60 Sulla tragedia che colpì gli abruzzesi a Monongah ci si soffermerà più avanti.

61 Amy A. Bernardy, Italia randagia attraverso gli Stati Uniti, Torino, Bocca editore, 1913, pp. 312-313.

62 Inchiesta parlamentare sulle condizioni dei contadini nelle Province meridionali e nella Sicilia, vol. II Abruzzi e Molise, t. 1, Relazione del delegato tecnico C. Jarach, cit., p. 244.

63 D. De Nardis, L’emigrazione abruzzese tra Ottocento e Novecento, cit., pp. 124-25.

64 Gino Massullo, Economia delle rimesse, in Storia dell’emigrazione italiana, t. 1 Partenze, a cura di P. Bevilacqua, A. De Clementi, E. Franzina, cit., p. 161.

65 Cfr. Gaetano Sabatini, Sistema economico agro-pastorale, ferrovie, credito ed emigrazione, “Archivio Storico dell’emigrazione italiana”, 3, 1 (2007), p. 33.

66 Inchiesta parlamentare sulle condizioni dei contadini nelle Province meridionali e nella Sicilia, vol. II Abruzzi e Molise, t. 1, Relazione del delegato tecnico C. Jarach, cit., p. 258.

67 Ibid.

68 Sulla ricostruzione della vicenda si veda il giornale “La Gente d’Italia. Cronache degli italiani nel mondo”. Nel 2003 il direttore Mimmo Porpiglia si interessò del caso dopo un colloquio con un giornalista italo-americano. Fra i contributi alla storia di Monongah va ricordato anche il film-documentario Monongah, la Marcinelle americana. Una storia sconosciuta dell’emigrazione abruzzese in America, scritto e diretto da Silvano Console.

69 Sulla vicenda si veda Claudio Palma, Dina Cianci, Monongah: dal fatto al simbolo. La tragedia mineraria del 6 dicembre 1907 West Virginia-USA, Pescara, Edizioni Tracce, 2007, p. 17.

70 Ibid., p. 18.

71 Ibid..

72 Ibid., p. 30 n. 7, il “New York Times” pubblicò nel mese di dicembre diversi articoli dove si parlava della vicenda.

73 Ibid., p. 21.

74 Mimmo Porpiglia, Sono più di 500 i minatori italiani morti a Monongah, “La Gente d’Italia”, n. 3, 2003.

75 C. Palma e D. Cianci, Monongah: dal fatto al simbolo. La tragedia mineraria del 6 dicembre 1907 West Virginia-USA, cit., p. 26.

76 Ibid., p. 57.

77 Inchiesta parlamentare sulle condizioni dei contadini nelle Province meridionali e nella Sicilia, vol. II Abruzzi e Molise, t. 1, Relazione del delegato tecnico C. Jarach, cit., p. 251.

78 Ibid., p. 252.

79 Cesare Jarach, Le cause e gli effetti dell’emigrazione negli Abruzzi e nel Molise, “Rivista di emigrazione”, 3 (1910), pp. 1-23.

80 Ibid., p. 244.

81 Ibid.

82 Ibid., p. 255.