Canzone ed emigrazione. La canzone italiana e gli emigranti oggi

Negli ultimi anni si è notata nella produzione musicale italiana, sia quella più squisitamente “popular” e “mainstream” che in quella più di nicchia o “underground”, una certa attenzione alle contaminazioni “altre” e una non eludibile tendenza al melting pot. Tendenza figlia di questa età di passaggio in cui il paese sta tentando, tra revanscisti richiami ad un nazionalismo becero e di facciata – tutti i vari partiti di estrema destra ricompattatisi di fronte alla “paura dello straniero” – e ipocriti e ipotetici rimandi ad una compattazione storico-geografica a dir poco risibile – vedi alla voce Lega Nord/Padania – di assorbire le molte e trasversali influenze apportate dal sempre crescente numero di immigrati.

Abituata per decenni ad una tipologia di flusso migratorio interno basato sulla direttrice sud/nord e fondata esclusivamente su questioni lavorative, non priva anch’essa di oggettivi problemi di “integrazione”, l’Italia si è ritrovata dalla fine degli anni 1980 e conseguentemente al crollo del muro di Berlino e della fine della Guerra Fredda, a confrontarsi con una nuova forma di immigrazione. Esterna questa volta, ma non meno problematica per un paese non ancora maturo per quel che riguarda l’accoglienza.

I vari flussi – retrogradamente concepiti a blocchi geografici (gli albanesi, la categoria onnicomprensiva dei “vu cumprà”, le ex repubbliche sovietiche, i romeni, i “cinesi” a indicare tutti gli immigrati provenienti dal lontano oriente, ecc.) e settoriali (a seconda delle attività che gli immigrati vanno a svolgere) – che si sono succeduti in quest’ultimo quarto di secolo hanno, però, via via apportato delle modifiche al pensiero italiano, inglobando per forza di cose stili di vita, tradizioni e costumi, finendo con lo scalare anche le inutili statistiche relative ai cognomi più diffusi di Milano[1] o altre amenità del genere.

Questa fusione è avvenuta anche in musica, territorio di confine ma dai confini labili, malleabili e plasmabili, naturalmente incline al “clash” tra culture e indubbiamente mezzo di comunicazione “super partes” attraverso il quale la comunicazione può avvenire anche senza il medium di un linguaggio condiviso, essendo la musica stessa il linguaggio condivisibile tra etnie anche piuttosto distanti per retroterra e origini geografiche, oltre che per, a volte, insormontabili barriere linguistiche.

A questo proposito citerei un ottimo lavoro di etno-blues “migrante” proveniente dall’underground più indipendente, Baxamaxam, esordio omonimo per l’etichetta lombarda Black Sweat (http://www.blacksweatrecords.com/), in cui un chitarrista italiano, Cristiano Buffa, incontra un percussionista e cantante senegalese, Abdoue Mbaye. Un incontro di civiltà, più che uno scontro, dato che in questo caso le migrazioni hanno portato nuova linfa in maniera del tutto casuale: l’incontro tra i due avvenne, stando a quanto racconta Buffa, tramite un annuncio in un internet point permettendo così la nascita di una collaborazione basata esclusivamente sul linguaggio musicale, in questo caso blues delle origini[2].

Nuovi “italiani” che apportano nuove modalità compositive, casuali quanto si vuole, in un tessuto socio-culturale che via via comincia ad adeguarsi a questi “nuovi” cittadini. La musica come terreno di incontro che prescinde da linguaggio e retroterra comuni e il pentagramma che diviene immateriale spazio di confronto e commistione, rielaborazione e ri-creazione. Cosa che avviene anche con una categoria nuova di “italiani”: i cosiddetti immigrati di seconda generazione, figli di stranieri residenti in Italia e nati nel territorio italiano oppure figli di coppie miste, spesso retaggio di un passato “coloniale” che nella pochezza numerica nasconde però alcune chicche non indifferenti[3].

È il caso di un paio di cantanti salite all’attenzione di pubblico e critica come Malika Ayane[4] e Saba Anglana[5]. La prima figlia di padre marocchino e madre italiana, la seconda di madre etiope e padre italiano, sono divenute entrambe simbolo di una “nuova” musica pop, nel caso della Ayane, addirittura invitata a cantare l’inno nazionale in una manifestazione sportiva istituzionale, o più di ricerca, la Anglana – nonostante quest’ultima abbia spesso prediletto il cantato in swahili o somalo invece dell’italiano, in omaggio ad una tradizione, quella della world music, che si propone di superare ogni tipo di barriera, anche linguistica –, dimostrando appieno come non si possa prescindere da una intera nuova generazione di autori che fanno dell’incontro tra culture il proprio punto di forza poiché essi stessi sono figli di questo “clash”.

Proprio quest’ultima vive la condizione della “mezzosangue”, ignobile termine con cui si era soliti additare i figli di coppie miste, di una esistenza cioè divisa esattamente a metà tra origini ormai lontane e nuove seconde patrie, se è vero che ogni suo lavoro ruota intorno al concetto di melting pot, di contaminazione tra culture e soprattutto di riferimenti continui al viaggio, all’esilio, allo spaesamento. In una recente intervista[6] per la promozione dell’album Biyo la Anglana ha ribadito come musica e viaggio – e le migrazioni tutte, imposte o per scelta, sono a pieno titolo forme particolari di viaggio – siano elementi molto affini, avendo essa tentato di elaborare nella sua produzione artistica un percorso che la riportasse alle proprie origini e a quelle della sua famiglia, esule per questioni politiche dalla madrepatria e trasferitasi in Italia … all’età di 5 anni, con un lavoro in cui si tenta allo stesso tempo di mantenere le tradizioni originarie, le influenze musicali, i suoni, l’uso della lingua, ma attualizzandolo ad un messaggio recepibile anche in una situazione “altra” come quella d’adozione. Il fatto che i lavori della Anglana siano prodotti da Fabio Barovero, membro degli ormai disciolti Mau Mau la dice lunga sul portato della musica “world” nel panorama italiano.

Un po’ come avveniva con la tradizione orale, la “narrazione”, in questo caso ibridata tra l’aspetto musicale e quello testuale, diviene mezzo per reiterare l’aderenza a un mondo ormai abbandonato, lontano, forse perso per sempre, trasformando la narrazione, ripeto, sempre musicale e testuale, in una sorta di filo conduttore del mantenimento delle origini e delle radici, accompagnando nel distacco il “viaggiatore” e aiutandolo a mantenere in vita quel legame ormai troncato. Qualsiasi studio antropologico potrebbe dimostrare il legame tra canto e viaggio, a partire dal caso monstre e unico nel suo genere delle “songlines”, le vie dei canti degli aborigeni australiani[7], ma anche pensando a tutti i canti che accompagnavano i pellegrini nei lunghi viaggi d’età medievale che li avrebbero portati nei luoghi santi del nuovo culto cristiano si giungerà alla stessa conclusione. Codici come il Llibre Vermell del Monastero di Montserrat, il Codex Calixtinus di Santiago, oppure la monumentale raccolta delle cosiddette Cantigas de Santa Maria che il Re di Castiglia e León Alfonso X “El Sabio” fece realizzare tra il 1250 ed il 1280 raccolgono numerosi indizi di questi canti corali, melodie da recitare in solitudine o in compagnia per alleviare la durezza del percorso ma che, allo stesso tempo, divengono un efficace mezzo per accorciare le distanze con ciò che ci si era lasciati alle spalle.

Il rapporto tra musica e viaggio, nel caso specifico, musica ed emigrazione, però, non è soltanto di accompagnamento al viaggio e/o di mantenimento delle tradizioni. Esso diviene spesso anche arma sociale di protesta e/o denuncia. Succedeva negli anni 1990 con i vari gruppi “folk” sui generis come gli antesignani e già citati Mau Mau, che sin dal nome scelsero di mettersi dalla parte di chi viaggia per necessità e soffre e subisce una sorta di migrazione molto simile all’esilio[8] e che divennero in breve antesignani di un fare musica che fosse mescolanza di influenze, contaminazione di generi e, come detto, denuncia sociale.

Su tutt’altri lidi musicali, ma inseribili nello stesso filone di “denuncia”, annoveriamo un paio di altri lavori recentemente pubblicati da due personaggi agli antipodi per rilevanza e considerazione, ma paritari per il nostro discorso. Da questa parte del mare di Gianmaria Testa[9], cantautore off, accomunato spesso a Paolo Conte per eleganza e ricercatezza letteraria e compositiva, e Sud di Fiorella Mannoia[10], sono entrambi concept album legati alle migrazioni mediterranee e allo sguardo sul sud del mondo (e d’Italia, nel caso della Mannoia, ispirata anche dal libro di Pino Aprile, Terroni) che sembra essere diventato motivo di indagine anche per esponenti di primo piano della musica italiana.

Specie il lavoro di Testa è apprezzabile nel tentativo di costruire quasi un romanzo sotto forma di disco con i vari pezzi a formare ideali capitoli di un racconto senza tempo che parla di desideri e rimpianti (3/4), distacchi e disillusione (Seminatori di grano), scoperte e aspettative (Rrock) finendo con l’offrire uno spaccato di memoria condivisa – la Miniera scritta da Bixio e Cherubini nel 1927, unica canzone non scritta da Testa – in cui a venire offerta è la prospettiva dell’italiano emigrato, condizione spesso dimenticata dall’opinione pubblica.

Su versanti più classicamente rock, anzi, “alternative-rock” o “indipendente” in base alla definizione che agli inizi degli anni 1990 si cominciò a dare a sonorità rock corpose e rumorose, influenzate dalle band anglosassoni e supportate da etichette indipendenti – da qui il termine “indie”, da leggersi all’inglese – un disco in particolare ha fatto parlare di sé negli ultimi anni per aver affrontato in modalità concept l’argomento “migrazioni”, cercando di affondare lo sguardo sul fenomeno delle migrazioni attraverso l’occhio del migrante.

È pur vero che la tradizione “rock” poco si confà alla lingua italiana per questioni di metrica, ma è innegabile che negli ultimi anni molte band nostrane abbiano fatte loro le dinamiche del rock, quello della grande tradizione anglosassone, per intendersi, e l’abbiano piegate ad una ricerca testuale e lirica che sta posizionandosi come punto di riferimento nell’ambito dell’underground o della musica indipendente. La lingua italiana però si è sempre prestata alle musiche “rock”, grazie alla sua modularità, agli scambi, ai travasi, al riutilizzo e/o  alla rifunzionalizzazione. Ne è testimonianza un bel lavoro pubblicato da Stefano Telve[11] in cui si indagano i risvolti “popular” dell’italiano “lingua del canto”.

Terzo album de Il Teatro Degli Orrori, progetto letterario sin dalla scelta del nome, parafrasato dal teatro delle crudeltà artaudiano e basato sulla fusione tra approccio rock, americano, indipendente e d’inizi anni ’90 (post-Nevermind, per intendersi) e tradizione letteraria “alta” (Carmelo Bene su tutti ma anche Gaber, Battiato, De Andrè, limitandosi agli italiani, Celine, Rimbaud, Majakovskji per gli stranieri), Il Nuovo Mondo – anche qui il rimando è alla letteratura, stavolta utopica, di Huxley – è organizzato come concept album ruotante intorno alle migrazioni e ai migranti. Ad esser posta al centro della “narrazione” è la condizione di straniamento e isolamento che caratterizza la condizione di chi, per necessità o imposizione, è costretto a ricostruirsi una vita lontano dalle proprie origini, reso tramite l’angolazione e la casistica specifica di molti “diversi” assurti a simboli dell’oggi. Tra tragici fatti di cronaca recenti, la morte dell’operaio romeno bruciato vivo dal datore di lavoro italiano (“Ion”), distacchi e lontananze (“Nicolaj”, “Non Vedo L’Ora”), sguardi trasversali sul sud del mondo (“Cuore D’Oceano”, “Gli Stati Uniti D’Africa”) o sulla condizione di invisibilità che i migranti soffrono sulla propria pelle una volta giunti a destinazione (“Vivere E Morire A Treviso”), è l’intero universo dei migranti – anche quelli del primo mondo, come accade nel parallelo tra il soldato americano di stanza a Baghdad e gli affetti rimasti negli USA di “Cleveland-Baghdad” – ad esser posto sotto la lente di ingrandimento della band veneta. Con risultati indubbiamente efficaci in alcuni passaggi, quelli in cui poetica rock e messaggio vanno di pari passo, meno in altri, troppo ancorati ad una visione limitata del fenomeno delle migrazioni, dei legami con la “globalizzazione” e delle dinamiche che spingono gli uomini a viaggiare e spostarsi.

Su tutti altri lidi, che esulano cioè dal mero concetto di “canzone” per avvicinarsi alla composizione, l’integrazione/interazione tra “nuovi” e vecchi italiani ha funzionato e funziona tuttora. Quel luogo di incontro, quegli “organici musicali più predisposti ad accogliere musicisti immigrati dell’area mediterranea”[12] sono, nelle parole di Roy Paci, le orchestre “miste”, diretta emanazione di quella grossa tradizione italiana, popolare e popolana, vera scuola di musica per molti musicisti e che è tuttora vivissima nei piccoli centri nonostante le difficoltà economiche e gli accorati appelli alla salvaguardia di una tradizione così imponente e importante, che è la “banda” di paese.

Palestra per musicisti, luogo di trasmissione di una passione musicale condivisa ed egualitaria, territorio di condivisione e di conservazione delle tradizioni – si pensi proprio alla Banda Ionica voluta da Paci per registrare in modalità quasi lomaxiane, diremmo, una testimonianza delle marce funebri del sud Italia che è momento unico al mondo – la banda è diventata nel corso degli anni il luogo deputato dove far confrontare e scontrare, assorbire e rielaborare in forme sempre nuove, diverse, cangianti le influenze corali e orchestrali delle varie tradizioni mediterranee. Questa delle “orchestre” multietniche, il cui impatto genera esperienze multiculturali di altissimo valore, è una tradizione che ha ormai preso piede in Italia a dimostrazione che integrazione e interazione sono sempre più possibili se si parla lo stesso linguaggio. Uno studio commissionato dal MEI, il Meeting delle Etichette Indipendenti[13], a Francesco Fiore, leader della Med Free Orchestra, ha posto in risalto il ruolo dell’Italia come nazione in Europa “con la maggior presenza di orchestre e bande multietniche”[14] e Roma come città-principe in questa speciale classifica e capostipite con l’ormai acclamata Orchestra di Piazza Vittorio[15] omaggiata anche da un docufilm omonimo che ne metteva in risalto il portato e la rilevanza[16]. Ben 19 sono infatti le bande presenti sul territorio italiano, con formazioni che variano dagli 8 ai 25 componenti per un totale certificato di almeno 200 musicisti provenienti da 40 paesi e 5 continenti (Africa e Bangladesh, Palestina e Sud America, Svizzera, Albania, Filippine, Sri Lanka e tantissimi altri), tanto per ribadire anche coi numeri quello che è un fenomeno indubbiamente significativo. E non solo per mere questioni musicali, dato che quello delle bande e orchestre multietniche è un patrimonio anche socio-culturale di valore inestimabile per le ovvie implicazioni di solidarietà che lo sostengono alla base oltre che per l’arricchimento sociale che esse apportano al panorama culturale italiano in generale. Luoghi non-luoghi, non ci stancheremo mai di ribadirlo, in cui la comunicazione inter-culturale avviene su un piano che prescinde da qualsiasi altra differenza di background, provenienza, religione o razza, per stabilirsi su un terreno invisibile eppure comprensibilissimo anche senza parole com’è quello musicale.

In cui non c’è canto di migrazione vero e proprio ma diviene la natura stessa della nascita della banda multietnica la dimostrazione di come la musica sia ponte tra culture spesso e volentieri nate intorno a quel grande mare nostrum che è il Mediterraneo.

In questo senso acquisisce una rilevanza ulteriore l’ultimo lavoro di un’altra orchestra multietnica di stanza a Roma, la Med Free Orkestra, che già dal nome rimanda all’idea folle di una formazione libera e che nella scelta di indurire il suo cuore con quella “k” al posto del tradizionale “ch” sembra ispirarsi a grandi fenomeni extra-nazionali come l’Arkestra di Sun Ra. Essa persevera nel proporre una dimensione molto viva e pulsante all’interno del panorama musicale italiano, che si distingue dal magma del “cantautorato” d’ambito “migrante” o del pop virato etno. L’ensemble della Med Free Orkestra ha ripensato, nel suo ultimo lavoro Pensiero Mediterraneo (pubblicato lo scorso anno da Helikonia) il testo Solo andata di Erri De Luca[17], e ha reso perfettamente, nel suo melting pot totale e totalizzante, l’asimmetria di sola andata dei viaggi della “speranza” raccontati da De Luca, evidenziando ancora una volta come parole e musiche viaggino insieme, specie quando raccontano le storie di chi è, volente o nolente, costretto a muoversi per il mondo.

[1]           Rimando alla versione online dell’articolo Milano, nella classifica dei cognomi gli Zhou hanno superato i Brambilla, http://milano.repubblica.it/cronaca/2013/08/25/news/milano_nella_classifica_dei_cognomi_gli_zhou_hanno_superato_i_brambilla-65263049/, oppure a quello non meno folkloristico Milano, è Mohamed il più diffuso tra i nomi degli imprenditori, http://milano.repubblica.it/cronaca/2013/09/03/news/milano_mohamed_il_pi_diffuso_fra_i_nomi_dei_piccoli_imprenditori-65828659/.

 

[2]           “Ho messo un fogliettino d’annuncio in un internet point di telefonia qui a Faenza […] mi ha risposto Abdou, gli ho fatto sentire delle cose che avevo registrato per i fatti miei, lui ha risposto semplicemente ok. Poi ci siamo trovati a provare assieme ed è stata un’unione alchemica” afferma Buffa in una recente intervista sottolineando le stupefacenti affinità, non solo musicali, con Mbaye. In particolare è il trovarsi sulla stessa lunghezza d’onda attraverso la musica di matrice “blues” che lo colpisce: “Non credo Abdou conosca il concetto di blues, semplicemente, per certi versi, lo è […] insomma, la testimonianza concreta che quello che noi chiamiamo blues viene davvero da lì, nella sostanza, al di là delle classificazioni […] pezzi semplici ma molto viscerali, proprio perché dalle viscere arrivano, molto istintuali”. Cfr. Stefano Pifferi, Mother Africa calls their sons. Di diaspore, terzomondismi noise e sonorità afro, http://sentireascoltare.com/articoli/drop-out/mother-africa-calls-her-sons/

 

[3]           Si pensi al partigiano “mezzosangue” Giorgio Marincola, figlio di un militare italiano e di una donna somala scappato in Italia e finito a combattere a fianco dei partigiani fino a trovare la morte per mano dei nazisti in ritirata il 5 maggio del 1845 in Val di Fiemme. Figura borderline su cui gli storici Carlo Costa e Lorenzo Teodonio, prima, e gli scrittori del collettivo Wu Ming, poi, hanno concentrato le proprie attenzioni riportandolo all’attenzione non solo degli addetti ai lavori ma anche di un pubblico più vasto grazie a reading musicati: Carlo Costa e Lorenzo Teodonio, Razza partigiana. Storia di Giorgio Marincola 1923-1945, Pavana di Albano Laziale (Roma), Iacobelli, 2008; Wu Ming 2, Basta uno sparo. Storia di un partigiano italo-somalo nella Resistenza italiana, Massa, Transeuropa, 2010 (libro + cd). Dalla storia di Giorgio prende il via anche un altro romanzo “meticcio”, questa volta incentrato sulla sorella Isabella, attrice e non solo: Wu Ming 2 e Mohamed Antar, Timira. Romanzo meticcio, Torino, Einaudi, 2012.

 

[4]           Cfr. http://it.wikipedia.org/wiki/Malika_Ayane.

 

[5]           Cfr. il sito ufficiale http://www.sabaanglana.com/index.php?lang=it e http://it.wikipedia.org/wiki/Saba_Anglana.

 

[6]           L’intervista è a questo indirizzo: https://www.youtube.com/watch?v=DlfThkVBe9Q.

 

[7]           Il caso più interessante legato alle “songlines” è indubbiamente il libro di Bruce Chatwin, Le vie dei Canti (tr.it., Milano, Adelphi, 1995).

 

[8]           Il termine Mau-Mau è ereditato dal Gruppo di Liberazione del Kenya, ma in realtà si rifà al termine con cui a Torino erano chiamati gli immigrati dal sud Italia. Cfr. http://www.maumau.it/.

 

[9]           Cfr. http://www.gianmariatesta.com/.

 

[10]          Cfr. http://www.fiorellamannoia.it/Homepagei.

 

[11]          Stefano Telve, That’s Amore! La lingua italiana nella musica leggera straniera, Bologna, il Mulino, 2012.

 

[12]          Cito dalla Nota introduttiva di Roy Paci a Orchestre e bande multietniche in Italia, a cura di Francesco Fiore, Arezzo, Zona, 2013.

 

[13]          Cfr. http://www.meiweb.it.

 

[14]          Giordano Sangiorgi, Introduzione, in Orchestre e bande multietniche in Italia, cit., p. 12.

 

[15]          “Prima ed unica orchestra nata con l’autotassazione di alcuni cittadini che hanno creato posti di lavoro e relativi permessi di soggiorno per eccellenti musicisti provenienti da tutto il mondo e ora di fatto nostri concittadini”, ibid., p. 22.

 

[16]          Agostino Ferrente, L’orchestra di Piazza Vittorio, docufilm, 2006.

 

[17]          Erri De Luca, Solo andata. Righe che vanno troppo spesso a capo, Milano, Feltrinelli, 2005.