Per una storia della canzone napoletana nel continente americano

Sul finire dell’Ottocento la canzone napoletana si presenta per alcuni tratti come il prototipo della musica di consumo italiana con proprie forme e testimoni[1]. Essa è allora un prodotto sonoro della prima era industriale destinato ad intrattenere gli appassionati dei raduni pubblici – come la celebre festa di Piedigrotta – e degli appuntamenti privati noti a Napoli con il nome di periodiche. Queste occasioni invogliavano l’ascoltatore ad acquistare lo spartito o l’incisione fonografica. Quella napoletana era una musica che rappresentava perfettamente il confine netto tra un’Italia contadina, regionale, esclusa dalla secolare questione della lingua nazionale, e un paese fortemente proiettato verso un inurbamento moderno sulla scia delle metropoli europee e americane. Un collante culturale, dunque, in grado di creare una produzione musicale “nazionale” senza rinunciare alla fisionomia dialettale che ancora costituiva il bagaglio distintivo dei repertori musicali italiani di intrattenimento all’indomani della raggiunta unità.

Da un passato remoto la canzone eredita la tradizione popolare collettiva ed errante della “pusteggia” (o cuncertino), il cui nome deriva dal termine dialettale che indica il posto occupato per l’esibizione. La generazione dei “posteggiatori” ha il gran merito di diffondere nel mondo il melos napoletano più autentico, costituito dalla combinazione e interazione di composizioni d’autore e di stili popolari. Già durante l’Ottocento la canzone napoletana, profondamente incardinata nelle forme della romanza da salotto, era diventata un fenomeno di massa ante litteram, diffusa in ogni strato della popolazione attraverso l’opera intelligente di alcuni editori musicali.

Con l’inizio del nuovo secolo la canzone conosce nuovi attributi formali che la separano dal rapporto preferenziale con la tradizione della romanza. Essa subisce repentine trasformazioni derivate dal contatto con musiche provenienti dall’America e dall’Europa che le conferiscono un corredo inedito nonostante questo processo di modernizzazione sia ostacolato da editori, intellettuali e interpreti spaventati dal pericolo di uno snaturamento che l’esposizione ad altri repertori avrebbe causato.

Le resistenze non valsero ad evitare questi contatti perché con slancio la musica prodotta a Napoli attirò ritmi all’epoca definiti “esotici” come habanera – ‘O Sole Mio composta nel 1898 ne fu il primo celebre esempio – fox-trot, shimmy, maxixe, rag. La canzone napoletana formalizzò nuove forme di melodramma popolare, del cinema e del teatro musicale attraverso le modulazioni di una lingua con una spiccata natura transnazionale. Fondamentale per la comprensione di quest’ultimo aspetto è la diaspora della canzone napoletana negli Stati Uniti e nel Sud America attraverso il canale dell’emigrazione che ha provveduto non solo a creare una storia parallela del genere, ma anche a tenere in vita e a moltiplicare grazie ai nuovi strumenti di riproduzione offerti dalla tecnologia, le canzoni provenienti dalla terra d’origine sul filo della memoria e della conservazione. A questo aspetto guarda il presente contributo che intende indagare le modalità di innesto e sincretismo del repertorio napoletano con i modelli americani.

All’inizio del Novecento il ruolo dell’industria discografica nord-americana è capitale per la comunità italiana emigrata. Il principio dell’americanizzazione delle popolazioni emigrate messo in atto dalle etichette discografiche promosse la cultura etnica giacché si comprese che l’identità di un popolo passa soprattutto per il suo valore simbolico che è massimo nelle espressioni artistiche. Il problema di rendere americani gli immigrati era molto complesso ed investiva il concetto stesso di identità nazionale del popolo americano di per sé un’astrazione della storia.

In aggiunta al valore sociale c’è poi la valenza strettamente storico-musicale delle nuove tecnologie legate alla musica riprodotta, è infatti a quest’ultima che si deve il passaggio da genere popolare a prodotto di consumo. L’attività delle prime etichette discografiche limitatamente alla produzione extra-colta era pensata come una sorta di archivio per immagazzinare su supporti stabili e non più per mezzo dell’oralità una produzione musicale che restava ancora in gran parte popolare, folk direbbero gli americani, per ispirazione, vocalità, temi e organico strumentale. Il passaggio su disco creò modalità di diffusione totalmente diverse rispetto alla tradizione popolare che veniva veicolata in massima parte per trasmissione diretta. Il disco dette l’avvio al processo di fruizione trasversale e transnazionale dei repertori, impensabile prima di allora. È questo aspetto che trasformò la musica popolare, espressione di repertori profondamente radicati nei luoghi dai quali traevano origine, in popular destinata cioè al mercato e che rese possibile la nascita di quel genere che prese il nome di dance music.

In Italia il termine fu tradotto con la parola ballabili e portò alla diffusione dei repertori afro-latino-americani in ambiti radicati nella tradizione come quello napoletano. Ruth Glasser ha spiegato che tra il 1915 e il 1934 nella Repubblica Dominicana durante l’occupazione di Haiti da parte degli americani la musica fu letteralmente invasa sia dai modelli statunitensi che da quelli cubani. Ciò avvenne anche grazie ai programmi radiofonici e ai dischi importati dagli Stati Uniti[2]. Un processo molto simile spiega la diffusione dei modelli americani anche tra gli italiani.

Limitatamente agli italiani lo scambio di repertori avvenne non solo tra gli emigrati ma anche tra coloro che risiedevano a Napoli, città che dette un contributo importante alla cultura degli stessi e che per il tramite del grammofono e grazie anche all’attività di agenti come il noto Fred Gaisberg, emissario in Europa per conto di Emile Berliner, entrarono in contatto con repertori prima sconosciuti. È il caso per esempio della canzone eseguita da Berardo Cantalamessa ‘A Risa, derivata dall’originale americano The Laughing Song di George W. Johnson, che conobbe decine se non centinaia di adattamenti in tutto il mondo[3].

Nel panorama italiano Napoli divenne presto uno dei principali luoghi di produzione di musica riprodotta grazie al rapporto stabilitosi tra la Beka, etichetta tedesca e la ditta napoletana dei fratelli Esposito. La Beka era una compagnia discografica nata dalla fusione di etichette minori in Germania ad opera di Carl Lindström. Nella città italiana la Beka cedette parte delle sue matrici ad una ditta locale già rivendita di fonografi, grammofoni e dischi a cilindro. La ditta era la Fratelli Esposito di Raffaele che nel 1909 si era trasformata in Società Fonografica Napoletana e produceva i dischi Sirena. Intorno al 1911 la ditta cambiò nuovamente nome e divenne Phonotype Record e in questa fase si munì di presse per stampare dischi autonomamente dalla casa madre. L’attività degli Esposito copriva vari aspetti della produzione musicale; la famiglia si occupava dell’assemblaggio e della vendita di macchine parlanti, si legò con contratto a La Canzonetta, una prestigiosa casa editrice, e ne fondò altre due la Marechiaro e la Santa Lucia. I contatti con l’America erano stabiliti anche attraverso l’attività delle etichette italo-americane Geniale Record e Italianstyle che di fatto stampavano le matrici della Phonotype per il mercato degli emigrati[4].

L’aria che si respira in questi contesti musicali è di grande fermento. In questo panorama si inserisce la vicenda della Ceria (Case Editrici Riunite Italia-America), una ditta fondata a Napoli dallo stesso Rossi e affidata alla direzione di Mario Nicolò, musicista e imprenditore. Nel 1924 Nicolò e Rossi organizzano a New York la prima edizione della Piedigrotta Rossi. Nel 1928 Mario Nicolò si separa da Rossi e trasforma la Ceria in MIA (Musicale Italo americana) che resta attiva fino alla fine degli anni Cinquanta[5]. Ernesto Rossi era un editore importante: stampava partiture e dischi per la Geniale Record, la sua casa discografica, e nel 1927 pubblicò uno dei brani più celebri legati al mondo degli emigrati, ‘A Cartulina ‘e Napule, lanciata da un giovanissimo cantante, Mario Gioia, e resa celebre dall’interpretazione di Gilda Mignonette.

La diffusione della canzone napoletana nel continente americano avveniva su dischi oltre che su supporto cartaceo. Inizialmente le case discografiche che stampavano questo repertorio erano le etichette italo-americane specializzate in musica per emigranti, come la ricordata Geniale Record, la Italian Record Co. e la Nofrio Record. In seguito il mercato passò alle americane Columbia, Victor e Okeh.

Per il suo ruolo trasversale che raccoglie in sé varie professionalità, talent-scout, compositore, tour manager e editore, uno dei personaggi più interessanti di questo contesto a cavallo tra l’ambiente italiano e americano, è Alfredo Cibelli. Insieme con i genitori e i fratelli Salvatore e Eugenio, Alfredo emigrò da Napoli a New York intorno al 1908. Dopo aver lavorato come mandolinista in alcuni ristoranti e music club della città e come baritono al Metropolitan Opera House, scelse la carriera di produttore discografico e divenne capo del foreign department della Victor Talking Machine Company. Alfredo Cibelli di formazione accademica fu musicista e direttore d’orchestra versatile. Diresse alcuni tra i più noti interpreti del repertorio ispanico e italiano sotto contratto per la Victor: Juan Arvizu, E. Palacio Coll, Rodolfo Ducal, Carlos Gardel, Tito Guizar, Alfonso Ortiz Tirado, Enrico Caruso, Gilda Mignonette, Eduardo Migliaccio, il duo Silvia Coruzzolo-Roberto Ciaramella, Ada Bruges e Amelia Bruno. Fu grazie a lui che molti performer italiani entrarono in contatto con il mondo musicale di estrazione latino-americana adottandone, spesso con successo favoriti anche dalla somiglianza fisica, i ritmi e le ispirazioni poetiche. Glasser chiarisce quali fossero i rapporti del musicista e produttore italiano con i musicisti con cui si trovava a lavorare poiché uno dei suoi compiti era di mantenere contatti continui con i rivenditori di musica[6].

La ricostruzione della Glasser sembra adattarsi perfettamente alle consuetudini con le quali anche gli italiani combinavano o, per così dire, riciclavano la musica altrui permettendo talvolta che canzoni note solo in inglese raggiungessero la celebrità anche nei repertori etnici.

Gli artisti emigrati incidevano per quasi tutte le etichette americane. I responsabili delle società discografiche avevano compreso che l’inserimento delle comunità straniere sul suolo americano doveva avvenire innanzitutto attraverso i canali della musica e del cinema, capaci di restituire agli immigrati un’immagine di sé positiva, nella quale riflettersi senza il timore di non riconoscersi in seguito alla perdita dei loro orizzonti geografici e culturali[7]. Le principali compagnie per le quali gli italiani realizzarono le incisioni in America furono Columbia, Victor, Okeh e Brunswick. Le case discografiche ingaggiarono per anni una guerra senza sosta soffiandosi nicchie di mercato ed artisti con il gran merito di accelerare la diffusione e l’incisione di una sterminata produzione musicale. Il destino di molte di queste incisioni era però segnato perché la musica commerciale non aveva particolari attributi di musica d’arte. Una volta esaurite le scorte e tramontato il successo dell’artista scritturato la matrice veniva distrutta giacché l’onore della conservazione toccava solo alle incisioni di musica sinfonica e operistica[8].

Il grande fermento musicale registrato nella comunità italo-americana degli Stati Uniti cominciato alla fine dell’Ottocento all’indomani dell’unità d’Italia e cresciuto con intensità fino alla vigilia del secondo conflitto mondiale trova il suo corrispettivo nelle comunità italiane del Sud America anch’esse segnate dalla presenza napoletana tra gli artisti e in particolar modo tra i musicisti attivi nei primi decenni del Novecento. La vicenda degli italiani nell’America meridionale è significativa anche nei decenni precedenti l’unità d’Italia ma la loro incidenza qui sembra registrare un’accelerazione proprio al passaggio di secolo grazie ancora una volta ai nuovi strumenti tecnologici legati alla riproduzione fono-discografica[9].

Nella musica l’idea di migrazione degli stili, di scambi e di innesti è connaturata al concetto stesso di musica, è il cuore, per così dire, di questo linguaggio. All’inizio del Novecento la possibilità di viaggiare da un paese all’altro, consuetudine cui nessun musicista si sottrae, subì un’ulteriore scatto grazie ai potenti transatlantici che sfruttavano gli ultimi ritrovati della tecnologia dell’era moderna, ciò rese possibile una maggiore fruizione dei generi e una più diffusa mobilità degli interpreti, in breve un più accentuato sincretismo. Il fenomeno divenne una realtà consolidata sul mercato musicale trasversalmente ai generi. Esemplare è la storia del Reisenweber’s, il celebre locale su Columbus Circle a Manhattan, che ogni sera offriva spettacoli di compagnie di varia provenienza geografica lasciando che si alternassero sulla ribalta orchestre sudamericane, combo di musica sincopata e complessi di diversa estrazione etnica. Sophie Tucker una delle più note entertainer americane degli anni venti, esponente di spicco del burlesque e del vaudeville ricorda che il Reisenweber’s inaugurò l’età del jazz e cambiò completamente la vita notturna a New York. C’erano band ad ogni ora e il locale offriva i migliori spettacoli in città. Prova ne era il fatto che gli altri locali cominciarono a copiare i suoi programmi[10].

Il sincretismo musicale e più nello specifico l’influenza della musica napoletana e italiana nei repertori nord e sudamericani sono temi di discussione capaci di rivelare indirizzi di ricerca di grande interesse talvolta inediti. Attraverso le indagini di alcuni studiosi diventa evidente, per esempio, che in Argentina la letteratura creola frutto della mescolanza linguistica delle minoranze etniche lì emigrate, fissa il suo punto di riferimento proprio tra gli italiani immigrati per formare il sociotipo più rappresentativo del bacino culturale del Rio de la Plata. Fino agli anni Trenta la quota di italiani a Buenos Aires era del 40% sulla popolazione totale. L’integrazione linguistica fu un fenomeno veloce che conobbe soluzioni ardite e varie spiegabili in parte come conseguenza della presenza di una popolazione di immigrati per lo più povera e scarsamente scolarizzata. Ne venne fuori una lingua meticcia nata dall’incontro tra una lingua spagnola per lo più maccheronica e un italiano con spiccati contributi dialettali.

Questa fantasia linguistica viene registrata immediatamente a teatro dove si formalizza e si lega alla tradizione del sainete, un tipo di teatro popolare che prende il nome dal termine omonimo con il quale si indicava a partire dal Seicento un breve componimento drammatico dal carattere giocoso in un solo atto in forma di intermezzo con accompagnamento musicale e la presenza di personaggi comico-caricaturali. Non sono poche le opere riferibili a questo genere che mettono in scena le figure di musicisti italiani in grande difficoltà nel nuovo contesto geografico. In Conservatorio La Armonia di Discepolo, de Rosa e Folco del 1917, un testo che rientra nel genere della comedia asainetada referencial, ovvero un componimento di sainete dai toni spesso grotteschi, focalizzato sugli aspetti sociali, sui vizi, le idiosincrasie e le difficoltà di antieroi, i due musicisti protagonisti San Francesco e Leonardo falliscono in una maniera tragicomica per la loro presunzione e la loro incapacità di adattarsi al basso livello musicale del nuovo mondo. Cosa simile accade al compositore e musicista Stefano in un’altra opera dal carattere grottesco di Discepolo dal titolo omonimo del 1927.

Altrove invece è l’italiano che si impone sul creolo come in La vida es un sainete di Vacazezza in cui il tenore italiano Bongiardino la spunta sul cantore Marengo, anche se la sua superiorità viene stabilita con l’astuzia e non con la bravura visto che l’italiano lo mette fuori gioco fingendosi suo compagno. Le capacità musicali dell’italiano in questo caso non sono decisive anzi passano addirittura in secondo piano. In tutti i casi i musicisti italiani vengono da Napoli, la loro indubitabile preparazione musicale e il loro talento però non li aiuta affatto nel cammino dell’integrazione. Sembra quasi che la loro origine sia più una iattura che qualcosa da coltivare con l’approvazione generale.

In questo contesto accanto a quello del genovese si crea il tipo napoletano del Cocoliche rappresentato a teatro mentre suona il mandolino o la chitarra e che si caratterizza appunto tanto per il suo spiccato desiderio di integrazione sociale quanto per il suo evidente talento musicale. Lo stesso termine di cocoliche sarà utilizzato in seguito proprio per indicare la combinazione linguistica ispanico-italo/dialettale parlato dalle prime generazioni di italiani immigrati. Alcuni vocaboli del cocoliche passeranno in seguito ad arricchire il gergo malavitoso del lunfardo e lo spagnolo argentino.

Gli ispanici inizialmente dimostrano scetticismo verso gli emigrati italiani perché il loro arrivo ha distrutto le usanze di quei territori. Poi la prospettiva cambia e nel giro di una manciata di decenni l’italiano in Argentina diventa il lavoratore serio e scrupoloso che aiuta a costruire la nuova patria e si confonde con gli argentini stessi. Questa trasformazione è esplicita nelle strategie di legittimazione che gli italiani mettono in campo nel corso del tempo proprio nella musica e nella figura del gringo, termine che in origine era utilizzato proprio per designare gli italiani e che ritorna spesso nelle canzoni del repertorio italo-argentino. Questo cambiamento risponde ovviamente ai nuovi assetti politici e non si sviluppa in maniera lineare. Anzi questa trasformazione fu al centro di un acceso dibattito mai davvero risolto tra la fazione dei conservatori e quella dei progressisti nell’ambito del folclore argentino. Nel frattempo questa disputa plasma gli strumenti per una moltitudine di musicisti e poeti che resero il repertorio di alto profilo.

Durante gli anni Trenta in un territorio in cui i musicisti si contendevano i palchi per conquistare potere, soldi e fama non c’era posto per gli outsiders e per gli stranieri ma l’affermazione degli emigrati italiani fu un fenomeno veloce e inarrestabile. È nel tango che si ritrova con più incisività la presenza dei musicisti italiani quando nei testi si pone l’accento proprio sull’ideale maschile del lavoratore che si impegna quotidianamente per mettere da parte i soldi, pensare al bene della famiglia e del paese.

Partendo dalla storia sociale e politica argentina è possibile riconoscere una storia del tango divisa in tre periodi: il tango del postribolo (1880-1916), il tango canción (fino al 1955) e il tango di avanguardia (dal 1955 in poi). In ciascuno di questi momenti la presenza italiana è sempre decisiva. Le due prime fasi sono quelle più interessanti dal punto di vista sociale perché la collocazione dell’italiano interagisce con la riconfigurazione stessa degli strati popolari.

Nel primo periodo, quello cosiddetto prostibulario (sic!) inteso come depositario di una vita associata ai bassifondi in cui pullulavano prostituzione e crimine, il tango si presenta soprattutto come reazione alla classe dirigente, in forma antagonista al potere costituito, palesemente critico nei confronti di qualsiasi sistematizzazione sociale che spingeva per collocare l’italiano immigrato ad un livello basso. Nella seconda fase entra in scena il lavoro come ideale maschile positivo che nell’immaginario della letteratura legata al tango appare proprio come elemento caratteristico associato all’immigrato italiano.

La periodizzazione è legata ad alcune date nelle quali avvengono eventi di grande importanza per il paese. Il 1880 è l’anno in cui con l’unificazione politica e territoriale dell’Argentina nasce lo stato nazionale, nel 1916 si forma il primo governo popolare con la presidenza di Hipólito Yrigoyen e nel 1955 si registra la caduta del regime di Perón. Ciò che è importante tener presente è che la nascita di questo repertorio musicale strutturalmente legato ai contributi degli immigrati italiani è l’effetto immediato del pensiero politico di Juan Baptista Alberdi, ideale autore della Costituzione Argentina del 1853, secondo il quale “governare è popolare”, nel senso che nello stato argentino moderno lo straniero immigrato diventava il principale sostegno economico del paese e per questo bisognava attrarre l’immigrato soprattutto europeo e permettergli di stabilirsi lì e partecipare alla nascita del nuovo modello statale. Aprire le frontiere, incentivare l’arrivo degli immigrati, garantire il lavoro e distribuire la terra erano tutti imperativi che dipendevano dal pensiero ispiratore di Alberdi. Così il primo effetto in termini culturali di questa politica fu la formalizzazione del tango che nasce proprio come territorio di innesto in cui si incrociano gli apporti culturali delle etnie di immigrati. Pascual Contursi, l’autore di Mi noche triste, il testo da cui si comincia a datare l’inizio del tango canción, era figlio di italiani, lo stesso vale per il bandoneonista Aníbal Troilo, o i poeti Enrique Cadícamo, Homero Manzi e Enrique Santos Discépolo, e infine Nonino e Nonina, genitori di Astor Piazzolla, anch’essi italiani.

Anche in Brasile la storia della cultura di quel paese è associata alla presenza italiana. In differenti ambiti, dalla politica all’architettura e all’economia passando per il cinema, il teatro, le arti figurative, la letteratura e la musica nomi come Giuseppe Martinelli, Francesco Matarazzo, Rodolfo Crespi, Franco Zampari, Gianfrancesco Guarnieri, Adolfo Celi, mettono in evidenza ben al di là dell’immaginabile l’influenza italiana per la nascita della cultura brasiliana moderna. Nell’ambito specifico delle arti, occorre sottolineare il ruolo significativo dell’italiano immigrato ma anche dei discendenti di immigrati italiani come Victor Brecheret, Anita Malfatti, Amacio Mazzaroppi e tutta una serie di altri oriundi, termine che in Brasile designa proprio i discendenti degli italiani.

A São Paulo, la città con il maggior numero di italiani al mondo assieme a New York e dopo l’Italia, campeggia la figura di Adoniran Barbosa che con il suo portoghese maccheronico seppe recuperare sotto una nuova veste ritmica e linguistica brani del repertorio italiano e classico napoletano come Dicitencello Vuje, tra i più suonati alla radio già nei primi decenni del Novecento. L’esperienza musicale di Barbosa, i suoi interessanti innesti frutto proprio della sua origine italiana, fanno di questo cantautore una delle personalità principali della storia della canzone popolare urbana in Brasile. A più di 100 anni dalla sua nascita, era nato nell’agosto del 1910, Barbosa resta una delle figure di riferimento quando si parla di questo repertorio. Allo stesso tempo il suo lascito è uno dei più felice apporti per la costruzione della storia della città stessa di São Paulo.

Le sue canzoni raccontano il modo in cui si sono andate configurando le relazioni tra gli abitanti di São Paulo e lui stesso appare come un vero e proprio cronista della modernizzazione della città. Ricorrendo al portoghese maccheronico, una combinazione di accenti, prosodia e lessico forgiata nei diversi quartieri popolari paulisti Barbosa scrisse alcune delle sue più celebri composizioni nelle quali emerge evidente l’elemento italiano, da qui il titolo di una sua canzone Samba Italiano che è anche il manifesto del genere al quale egli stesso contribuì. “Gioconda, piccina mia,/Va brincare en el mare en el fondo,/Mas atencione co il tubarone, ouvisto?/Hai capito meu San Benedito?/ Piove, piove,/ Fa tempo que piove qua, Gigi,/E io, sempre io,/Sotto la tua finestra/E vuoi senza me sentire/Ridere, ridere, ridere/Di questo infelice qui/Ti ricordi, Gioconda,/Di quella sera in Guarujá/Quando il mare te portava via/E me chiamaste/Aiuto, Marcello!/La tua Gioconda ha paura di quest’onda/Dicitencello vuie, como ha detto Michelangelo”. Nel testo compaiono omaggi alla storia dell’arte come alla canzone italiana, quel “Piove, piove” è un’evidente citazione della celebre Piove (Ciao Ciao Bambina) di Domenico Modugno, ma come svuotati di senso.

Questa breve disamina sull’impatto del repertorio napoletano nel continente americano nei primi decenni del Novecento procede quasi necessariamente per appunti e suggestioni rilevando sostanziali differenze negli esiti tra Stati Uniti e Sud America legate soprattutto alla lingua del paese di approdo. Le similitudine fonetiche e sintattiche tra la lingua italiana e quella spagnola permettono una disinvoltura maggiore nella composizione dei testi rispetto all’uso dell’angloamericano. Da questo dato deriva una moltitudine di altri aspetti culturali e sociali che rendono i repertori italiani molto più assimilabili a quelli ispanici che non a quelli nordamericani secondo delle coordinate che disegnano il futuro delle comunità italiane in America.

Negli Stati Uniti con il sopraggiungere delle tensioni internazionali che porteranno allo scoppio della seconda guerra mondiale anche lo scenario musicale americano cambia radicalmente e il suo impatto sulla musica italiana e sulla canzone napoletana acquista tutt’altro peso e natura. Alla fine degli anni Trenta si assiste alla nascita di un nuovo prototipo etnico; l’italoamericano vero e proprio. Louis Prima è colui che più di ogni altro in quegli anni, con i suoi tratti somatici inconfondibilmente meridionali – era di origini siciliane – proteso nella ricchezza ritmico-espressiva del jazz degli anni Trenta, operò il travaso della musica italiana nella tradizione americana rappresentando la vera integrazione musicale degli italiani in America. Anche Louis Prima pagò il suo tributo al repertorio napoletano, ricordiamo la sua versione di Maria Marì, il celebre brano del 1899 di Vincenzo Russo e Eduardo Di Capua ed entrato nel repertorio degli italiani in America già nel 1905[11]. Prima trasforma la canzone in un brano boogie-woogie quasi irriconoscibile per la fitta mescolanza di nonsense e del tipico jive-talk. La carriera di Prima rappresenta uno dei momenti più importanti nella storia della musica americana di intrattenimento. Egli indicò la strada ad intere generazioni di cantanti italoamericani che avrebbero reso l’enorme servizio di guidare la naturale inclinazione melodica degli italiani nel solco della musica sincopata. Con lui emergono i cantanti confidenziali, i cosiddetti crooners, Dean Martin, Perry Como, Vic Damone, dopo di lui le generazioni italiane di teen-idols, Frankie Avalon, Fabian Forte, Bobby Darin, Annette Funicello, Connie Francis, dei gruppi doo-wop, Dion DiMucci e i Belmonts, i Four Seasons di Frankie Valli.

Esiti diversi avvengono in Sud America, il caso del Cile è esemplare. Qui nella seconda metà del Novecento si assiste ad un cambiamento radicale nei gusti degli ascoltatori di musica pop. Se fino all’inizio degli anni Sessanta erano personaggi come Elvis Presley a detenere il primato di vendite nei negozi di dischi, in seguito la supremazia nordamericana comincia a decadere e il rock’n’roll cede il passo alla produzione italiana. Questo aspetto è del tutto eccezionale perché la tradizione canora italiana al cospetto con quella angloamericana non ha mai giocato un ruolo così preminente. Anche se la percentuale di italiani immigrati in Cile è molto bassa a paragone di quella degli altri paesi dell’area sudamericana, grazie soprattutto alla straordinaria fase di ripresa economica degli anni Sessanta alcuni cantanti come Rita Pavone, Domenico Modugno, Adriano Celentano diventano celebrità anche in Cile. Attraverso le loro canzoni essi stessi diventano il veicolo di un nuovo approccio alla vita, positivo e fiducioso nel futuro. Le canzoni italiane trasmettono entusiasmo, sono l’inno all’Italia degli anni del miracolo economico, arrivano a toccare l’immaginario dei cileni attraverso i resoconti spettacolari dei festival della canzone, primo fra tutti Sanremo e restituiscono i ritmi di origine sudamericana (bossanova, tango, bolero) ma in una forma e attraverso una lingua completamente nuove incarnando le aspettative dei giovani cileni che rifiutavano le loro tradizioni musicali giudicandole prive di attrattiva e superate[12].

In conclusione, nel giro di pochi decenni l’italiano che emigra subisce un doppio passaggio identitario, dalla condizione di abitante di una città o di una regione (Napoli, Genova, Sicilia, Veneto) si riconosce cittadino di una nazione in un contesto extraterritoriale pur se il suo bagaglio di cultura e simboli è legato all’origine che resta regionale. Per quello che concerne la musica in questa fase di transizione il riferimento è il repertorio napoletano accanto ad altre tradizione dialettali ugualmente ricche che si presentano in maniera ancora più evidente in Sud America[13]. L’innesto anche in questo caso è duplice se non addirittura molteplice, i casi di Adoniran Barbosa in Brasile o di Alfredo Cibelli a New York raccontano proprio il bizzarro cammino di integrazione compiuto dall’italiano emigrato che deve scegliere di appartenere non al paese del quale conserva il cognome (il sangue) ma al luogo che gli ha offerto la possibilità del riscatto sociale.

[1]           Parte di questo articolo è stato pubblicato in Fratelli d’Italia, 150 anni di cultura, lavoro, emigrazione, a cura di Luigi Troiani, Stony Brook NY, Forum Italicum Publishing. 2012, pp. 370-385.

 

[2]           La Repubblica Dominicana cominciò a commerciare incisioni americane a partire dal 1913. Queste includevano danzas, danzones, canciones, zarzuelas, opere e brani two-step e nonostante l’origine dichiaratamente ispanico-americana di questi modelli, nessuno dei dischi era di produzione dominicana. Bisogna aspettare il 1928 per ascoltare un disco prodotto nella Repubblica Dominicana da un artista dominicano. Nel frattempo il più importante cantante di questo paese, Eduardo Brito, che registrò per la Victor nel 1929 a New York, era cresciuto imitando la musica cubana che ascoltava dai dischi diffusi nella sua città natale. Risultato paradossale di ciò fu che Brito veniva scritturato come cantante cubano, cosa che dissimulava le sue vere origini ma che era perfettamente in linea con quell’eredità musicale che lui e tutto il vasto pubblico di ascoltatori latino-americani condividevano. Eduardo Brito passava per artista cubano perché professionalmente conosceva quella tradizione appresa attraverso i dischi. La diffusione della musica riprodotta provoca, dunque, una perdita o un deragliamento dell’identità culturale, un processo che dall’inizio dell’era discografica ad oggi, in realtà, non si è mai arrestato. Partendo da questa osservazione possiamo affermare che la musica di consumo ha stravolto i repertori popolari sottraendo loro la fisionomia specifica e avviandoli verso quel fenomeno di globalizzazione nel quale siamo immersi attualmente. Le valutazioni economiche alla base della produzione e distribuzione di certa musica piuttosto che altra erano già al centro delle attenzioni delle compagnie discografiche che sceglievano gli artisti non solo sulla base della musica più orecchiabile o più adatta al ballo ma anche considerando fattori demografici, come la densità della popolazione di una data area, geo-economici, come le strade che erano già rotte commerciali, e politici. I legami economici stretti tra gli Stati Uniti e i paesi dell’area latino-americana hanno avuto un ruolo di reciprocità importante per lo scambio dei rispettivi repertori musicali per molti anni. Così dall’inizio degli anni Venti l’aver stabilito filiali di stazioni radiofoniche, di società cinematografiche e musicali nord-americane in giro per le nazioni del Centro e Sud America dette agli Stati Uniti la possibilità di dominare culturalmente quei territori. Cfr. Ruth Glasser, My Music is My Flag, Los Angeles, University of California, 1995, p. 135.

 

[3]           Anita Pesce, La Sirena nel Solco, Napoli, Guida, 2005, pp. 78-80, ha ricostruito il modo in cui le compagnie straniere ingaggiavano gli artisti locali. La sua indagine aiuta a inserire Napoli in un panorama più vasto di consumi musicali moderni. L’insediamento sul campo da parte dei primi discografici in pieno furore espansionista avveniva innanzitutto contattando un rivenditore locale per conferirgli la rappresentanza, di solito era un negoziante di materiali meccanici o elettrochimici (come ventilatori, attrezzi fotografici, strumenti ottici, macchine da scrivere), oppure di strumenti musicali, pianoforti automatici, fonografi. A Napoli furono scelti i fratelli Loreto di Antonino con il loro negozio fondato nel 1898. Di solito erano gli emissari locali a contattare gli interpreti e ad accordarsi per le modalità di esecuzione e per il compenso. In questo momento pionieristico della storia del disco a Napoli sembra che non si ponesse troppa attenzione né sugli interpreti né sui repertori. Ma piuttosto l’obiettivo era quello di colmare un segmento merceologico con quanto c’era di disponibile al momento.

 

[4]           Fernando Esposito, uno degli eredi della ditta, ricorda alcuni aspetti dell’attività legata agli scambi commerciali della ditta napoletana: “Quando, all’inizio del Novecento, Ernesto, il padre di Louis Rossi, attuale proprietario del negozio di musica Rossi & Co., un tempo importante luogo di produzione e consumo musicale a New York, decise di trasferirsi in America, aprì niente di più di un emporio in cui si vendeva di tutto, anche dischi di cantanti lirici e di canzonette napoletane. Alla fine dell’Ottocento, anche mio nonno, prima di inaugurare la Phonotype aveva un negozio di libri e grammofoni in via S. Anna dei Lombardi a Napoli. Il grammofono fu una grande novità e molti artisti erano attratti da questo nuovo oggetto e si dimostrarono subito favorevoli ad incidere le loro voci, ecco perché nacque la prima versione della Phonotype, cioè la Società Fonografica Napoletana. Inizialmente i dischi erano incisi in Germania, poi, nel 1905, la lavorazione passò a Napoli, prima nello stabilimento di via Foria e, dal 1923, in via De Marinis, la nostra sede attuale. Anche Rossi compì più o meno lo stesso percorso, cominciò a specializzarsi nella vendita di dischi che acquistava da noi. Il trasferimento dei dischi sul piroscafo da Napoli a New York era rischioso perché la maggior parte delle copie arrivava a destinazione letteralmente a pezzi. Per questo motivo Ernesto cominciò ad acquistare da noi solo le matrici in metallo e a stampare direttamente a New York. In un secondo momento si occupò anche delle scritture americane di molti artisti che erano sotto contratto discografico con noi. Così negli anni cominciammo un vero e proprio scambio di matrici che si è rivelato fondamentale quando qualche anno fa, in occasione della ripubblicazione di tutto il catalogo storico della Phonotype, abbiamo chiesto a Louis di fornirci le matrici che a noi mancavano. Ricordiamoci che a Napoli abbiamo subìto i bombardamenti e la maggior parte delle nostre produzioni è andata perduta. Mio fratello Roberto ha stimato che il materiale sopravvissuto qui è solo il 10% del totale. La collaborazione tra noi e la Rossi è andata avanti dopo la morte di Ernesto con i due figli Eduardo e Louis, fino alla seconda guerra mondiale. In seguito e in buona parte a causa del naturale decadimento di questo repertorio i rapporti di lavoro si sono dilatati sempre di più. Per molti anni ancora Louis è venuto a Napoli per registrare artisti che a Napoli ormai avevano scarsa presa. Per la nostra ditta e per la Rossi l’emigrazione ha avuto un impatto importante perché in America, a New York, in quegli anni gli emigrati erano per la maggior parte meridionali che si riconoscevano tutti, senza distinzione di provenienza geografica, nella tradizione musicale napoletana” (Simona Frasca, La Coscienza sull’Altra Sponda del “lago italiano”, “Meridione”, V, 2 (2005), pp. 145-64, citazione a pp. 148-149).

 

[5]           Vedi Ettore De Mura, Enciclopedia della Canzone Napoletana, Napoli, Il Torchio, 1969, I, p. 447.

 

[6]           R. Glasser, My Music is My Flag, cit., p.150.

 

[7]           Sul cinema in particolare vedi Giorgio Bertellini, Italy in Early American Cinema, Bloomington, Indiana University Press, 2010, e Giuliana Muscio, Piccole Italie, grandi schermi, Roma, Bulzoni, 2004.

 

[8]           Sotto l’etichetta di musica commerciale si identificavano sia gli artisti legati agli ambienti del jazz che i musicisti folk provenienti dai diversi contesti etnici. Vedi Richard K. Spottswood, Ethnic Music on Records: A Discography of Ethnic Recordings Produced in the United States, 1893 to 1942, I-VII, Urbana and Chicago IL, University of Illinois Press, 1990, e Commercial Ethnic Recordings in the United States, in Ethnic Recordings in America: A Neglected Heritage, Washington DC, Library of Congress – American Folklife Center, 1982: 50-80. Sul ruolo di italiani e italoamericani nella formalizzazione del linguaggio jazz si vedano inoltre Garry Boulard, Blacks, Italians and the Making of New Orleans Jazz, “Journal of Ethnic Studies”, 16, 1 (1988), pp. 53-66, e Julia Volpelleto Nakamura, The Italian American Contribution to Jazz, “Italian Americana”, 8 (1986), pp. 22-35.

 

[9]           Le fonti di ciò che segue sono in parte il resoconto di alcuni interventi in attesa di pubblicazione raccolti da me in occasione del convegno Italian Migration and Urban Music Culture in South America, Freiburg Institute for Advanced Studies, 15-16 Ottobre 2010.

 

[10]          Sophie Tucker, Some of these days, Garden City NY, Doubleday, 1945, p. 157.

 

[11]          Nick Tosches, Dino, Dean Martin e la Sporca Fabbrica dei Sogni, Milano, Baldini Castoldi Dalai Editore, 2004, p. 78.

 

[12]          Sul Cile vedi Juan Pablo Gonzalez e Claudio Rolle, Historia Social de la Música Popular en Chile, 1890-1950, Santiago, Ediciones Universidad Católica de Chile, 2004.

 

[13]          Vedi Emilio Franzina, Le canzoni dell’emigrazione, in Storia dell’emigrazione italiana, I, Partenze, a cura di Piero Bevilacqua, Andreina De Clementi ed Emilio Franzina, Roma, Donzelli, 2001, pp. 537-562.