Sindacato e frontalieri nel Canton Ticino tra fine dell’Ottocento e gli anni Ottanta del Novecento

1. OPERAI, IMMIGRATI E SINDACATO TICINESE
Negli anni Cinquanta dell’Ottocento, in ritardo rispetto a quanto accadde nei cantoni che conobbero uno sviluppo industriale più precoce, sorsero le prime organizzazioni operaie del Canton Ticino. Il 18 luglio 1851 si costituì il Circolo degli Operai di Bellinzona che, come gli otto analoghi circoli individuati da Raffaello Ceschi, aveva carattere elitario ed esclusivo(1). Le forme di mutua assistenza venivano garantite a tutti i membri della società e rifiutate a chi ne fosse estraneo. Aiuto reciproco, solidarietà tra aderenti dell’associazione, cooperazione: queste erano le parole d’ordine di quei circoli, del resto adeguate allo sviluppo economico cantonale il cui ritardo sul piano industriale non aveva favorito la nascita di una vera e propria classe operaia(2). La condizione di arretratezza economica del Cantone si protrasse nei decenni successivi.
In occasione della costruzione dell’asse ferroviario che avrebbe collegato Italia e Svizzera Interna, si attivò un processo che non avrebbe tuttavia inciso in modo decisivo sull’economia cantonale, dal momento che la gran parte degli appalti vennero assegnati a ditte straniere e il 90% della manodopera impiegata era italiana(3): del resto, i muratori ticinesi preferivano emigrare verso nord, alla ricerca di paghe più consistenti, e la manodopera specializzata richiesta dai lavori di scavo era scarsa nel Cantone. Il traforo ferroviario avviò così una fase di crescita lenta, durante la quale gli operai aumentarono, ma con un’iniezione di forza lavoro straniera davvero considerevole. La classe operaia ticinese sviluppò le sue organizzazioni proprio grazie all’apporto di lavoratori provenienti dall’esterno del Canton Ticino (e per la stragrande maggioranza dall’Italia): se nel 1870 il numero complessivo di stranieri e confederati era prossimo alle 10.000 unità, nel 1910 quel numero si era quintuplicato(4).
Negli stessi anni nacque il Partito Socialista Svizzero, crebbe l’Unione Sindacale Svizzera e si diffusero le Camere del Lavoro in Italia. Tali organizzazioni ebbero in Ticino una duplice influenza: gli immigrati che avevano avuto contatti con il mondo operaio delle loro regioni d’origine importavano la loro esperienza di lotta nel cantone, mentre i migranti ticinesi trovavano fuori dal Cantone formazioni operaie come le Unioni Sociali Ticinesi e, militando nelle stesse durante la stagione di lavoro, acquisivano una mentalità nuova e una diversa visione del loro ruolo nei processi produttivi(5).
L’emigrazione italiana in Svizzera comprendeva in quegli stessi anni un significativo numero di socialisti che, nel 1892, fondò il Partito Socialista Italiano della Confederazione Elvetica. Anche grazie al contributo del suo settimanale, “L’avvenire del lavoratore”, il partito offriva assistenza politica agli immigrati, diffondendo informazioni sui salari e sui diritti dei lavoratori, oltre che invitando gli stessi a partecipare attivamente alla vita sindacale locale. Alcuni immigrati sceglievano di avvicinarsi individualmente alle organizzazioni operaie svizzere, altri fondarono sindacati italiani di un certo settore, per poi entrare nella relativa federazione elvetica: fu questo, per esempio, il caso della Federazione Muraria Italiana che venne integrata nella Gewerkschaftsbund (Federazione dei Sindacati Svizzeri)(6).
Come già osservava Guido Pedroli – in quello che possiamo considerare un classico della storia del socialismo nel Canton Ticino – a cavallo tra Ottocento e Novecento “la linea di distinzione fra unioni operaie e circoli socialisti, movimento economico e movimento politico, organizzazione svizzera e organizzazione italiana non era ben netta. A volte si identificano, a volte si intersecano. Solo con il tempo si giunge a organismi separati e autonomi”(7). Si pensi per esempio che, tra gli organi di stampa ufficiali della Camera del Lavoro del Ticino, si consideravano, oltre a “L’Aurora” (organo del Partito socialista ticinese) e a “Lo scalpellino” (giornale della Federazione degli Scalpellini del Canton Ticino e del Canton Uri), proprio il citato “Avvenire del Lavoratore”(8). Ancora, la sezione del Partito socialista di Tenero, alla cui fondazione partecipò una delle figura più importanti nella storia del socialismo cantonale, Guglielmo Canevascini, divenne sede sindacale un mese dopo la sua creazione e, poco più tardi, venne aperta agli italiani che, nel 1905, costituivano la maggioranza degli iscritti. Mentre, due anni dopo, quando Canevascini ottenne l’incarico di segretario della Camera del Lavoro ticinese, fu accompagnato alla segreteria amministrativa da un italiano, Roberto Benelli(9).
Il “protezionismo operaio”(10) che in quegli anni caratterizzava posizioni e proposte di molte organizzazioni sindacali del mondo industrializzato – sebbene con periodiche oscillazioni verso l’internazionalismo –(11) non trovava insomma un terreno fertile nel Cantone: in Ticino, l’azione politica e quella sindacale furono troppo fortemente condizionate dalla presenza di immigrati e dall’influenza di pensatori provenienti dall’Italia. Del resto, per quanto in proporzione rimanessero poco sindacalizzati, gli stranieri, e in particolare gli italiani, erano una fetta consistente della classe lavoratrice. Questa era la situazione di alcuni settori nel Canton Ticino del 1901:

MANODOPERA IMPIEGATA PER MESTIERI (1901)
Tot Uomini Donne Svizzeri Stranieri
Tabacco 1235 96 1139 807 428
Filande 513 33 480 – –
Officine FFS 488 488 0 365 120
Laterizi 290 270 20 117 173
Orologi 282 131 151 204 77
totale 4982 2578 2404 2809 2166

Fonti: Camera del Lavoro 1902-1982, cit., p. 42.

Non fu un caso se, all’inaugurazione ufficiale della Camera del Lavoro di Lugano, l’8 giugno del 1902, parteciparono, tra gli altri, “la delegazioni di scalpellini, la società mutuo soccorso Figli d’Italia di Mendrisio, circoli socialisti italiani di Lugano e di Bellinzona”(12). In un momento di ascesa delle organizzazioni operaie in Europa, il mondo dei lavoro organizzato ticinese, così complesso e composto da frammenti migranti, si presentava come unico corpo della classe operaia e lavoratrice del Canton Ticino.
Il clima cambiò con la Prima Guerra Mondiale che da un lato ridusse il numero degli immigrati nel Paese, dall’altro generò tensioni e tentazioni xenofobe, volontà di chiusura e di limitazione all’ingresso degli stranieri. Significativa in merito è un’intervista raccolta da Eve Hermann durante una ricerca sulle sigaraie e gli scioperi nel Ticino primonovecentesco, nella quale un’operaia, parlando dello sciopero del 1916 a Brissago – un comune di confine situato sulla sponda destra del Lago Maggiore – raccontava:

Allora siccome che venivano quelli del confine dall’Italia, venivano a lavorare [qui in] quei tempi là. Tenevano la parte al direttore. Allora erano mica gli italiani che comandavano sul territorio svizzero? Noi abbiamo detto: “Se siete dalla nostra parte…”. Ma loro volevano stare col direttore. Il direttore era italiano. Noi abbiamo detto: “Se siete italiani state con gli italiani”. E li abbiamo accompagnate fino al confine: in Italia. Nevicava terribilmente; c’era già neve alta così. Non sono più ritornati. Le guardie non li hanno lasciati passare. Gli hanno detto: “è inutile che venite perché non vi lasciamo più passare”. Le guardia italiane non li hanno più lasciati passare! Li hanno detto: “Dovevate stare dalla sua parte (dalla parte delle scioperanti) e potevate andare ancora”(13).

Durante la guerra, insomma, i lavoratori provenienti dall’Italia divennero più soggetti a essere adoperati, o considerati, come crumiri, facili a prestarsi ai giochi dei datori di lavoro, per convenienza propria e a danno delle lotte operaie o dei lavoratori del Cantone, a seconda del punto di vista.
I governanti della Confederazione decisero di superare il trattato con l’Italia del 1868 grazie al quale, negli anni in cui l’emigrazione aziendale e di capitali svizzeri verso l’Italia era stata intensa, si era garantita la libera circolazione tra i due paesi(14). Ora, invece, diversi attori e settori sociali elvetici chiedevano controlli e contingentamenti dei flussi. Irrompeva nel linguaggio politico il termine “inforestierimento” – con i connessi immaginari che, secondo le congiunture, come un fiume carsico svaniscono e ritornano periodicamente a colonizzare i dibattiti politici nel paese – e, attraverso la legge del 1931, si creava un sistema di permessi di soggiorno vincolati al permesso di lavoro, di tipo stagionale, annuale, a tempo indeterminato oppure frontaliero: quest’ultima categoria riconosceva la presenza dei lavoratori pendolari – ossia, come molte sigaraie di Brissago a cui si è fatto riferimento, stranieri residenti tanto vicino alla frontiera da poter rientrare a casa, e cioè in patria, dopo il lavoro – assegnando ai Cantoni il diritto alla loro regolamentazione in base alle esigenze economiche della regione.
L’avvento del fascismo in Italia, inoltre, ebbe ricadute importanti sulla comunità italiana in Ticino. La penetrazione del regime attraverso la creazione di sedi del fascio in diverse città non ebbe esiti rilevanti tra la popolazione elvetica, ma influì pesantemente sulla comunità italiana. Le pressioni sui lavoratori della Penisola da parte di agenti del fascio comprendevano la minaccia di ritiro del passaporto a carico di quanti militassero in organizzazioni antifasciste svizzere:(15) nel 1928 gli immigrati sindacalizzati nel Ticino erano diminuiti del 90%(16).
Il rapporto tra lavoratori locali, immigrati e sindacati si modificò così sostanzialmente e, nel 1945, dopo la guerra e gli anni di crisi che la accompagnarono, l’immigrazione venne definitivamente posta come un problema dalle rappresentanze della Camera del Lavoro di Lugano: “se per principio [la Camera del Lavoro] non può essere contro, […] chiede un minimo di pianificazione e la parità di trattamento per immigrati e indigeni. L’immigrazione non deve essere concorrenziale alla mano d’opera indigena”.(17) In questo senso, però, occorre sottolineare come il vero problema non fossero, in fondo, i lavoratori stranieri in generale, ma i frontalieri. Proprio loro finirono con il diventare il vero straniero dei militanti sindacali in quanto, grazie alle condizioni che ne regolavano l’accesso nel Cantone, avevano un costo molto inferiore rispetto a qualsiasi lavoratore elvetico o domiciliato(18). Come si intende anche dal saggio di Francesco Garufo presente in questo fascicolo, negli altri cantoni di confine i lavoratori frontalieri godevano dello stesso trattamento economico e il loro utilizzo da parte di talune imprese come strumenti di pressione al ribasso sui salari era controllato e sorvegliato dalle autorità cantonali. Il Canton Ticino, invece, dal secondo dopoguerra basò il proprio sviluppo industriale proprio sulla presenza di una forza lavoro pendolare, abbondante e a basso costo proveniente dalla Penisola. Molte imprese, soprattutto del settore tessile e dell’abbigliamento, si trasferirono dalla Svizzera Interna nelle aree di frontiera ticinesi, allo scopo di impiegare frontalieri(19).
L’economia ticinese negli anni Cinquanta – anni della sua prima rapida espansione – si andò quindi configurando come un’economia duale, dove alcuni settori impiegavano principalmente manodopera locale con salari adeguati al costo della vita nel cantone, altri settori impiegavano prevalentemente manodopera frontaliera, i cui salari erano sufficienti per vivere in Italia, ma non avrebbero garantito la sussistenza nella Confederazione.
I frontalieri, inoltre, a differenza dei domiciliati non vivevano in Svizzera e non prendevano parte alla sua vita politica e sindacale, per partecipare talvolta alla vita politica e sindacale italiana: proprio per questo si candidarono al rapporto più complicato e controverso con le organizzazioni dei lavoratori locali, mentre i sindacati italiani cercavano strade per potersi occupare di loro, nonostante che fossero impiegati in un paese straniero e, quindi, fossero soggetti a una diversa normativa sul lavoro.

2. FRONTALIERI E SINDACATO DOPO GLI ANNI SESSANTA
Nel corso degli anni Sessanta il frontalierato nel Canton Ticino conobbe un mutamento qualitativo che gli osservatori del tempo mettevano sovente in luce. Infatti, all’aumento del loro numero complessivo – favorito tra le altre cose dallo sviluppo della motorizzazione privata che già nel 1966 consentiva di percorrere la tratta che separa Lugano da Milano in un’ora di automobile – si accompagnò in quegli anni un’evoluzione della loro composizione. Come registrava Angelo Coerezza, sindacalista della CGIL di Varese, i frontalieri non erano più solamente abitanti delle provincie italiane confinanti, alla ricerca di lavoro in Svizzera, ma, in proporzione crescente, erano immigrati da “zone depresse (mantovano, cremonese, polesine e recentemente soprattutto SUD)” che si trasferivano nei paesi italiani di confine con l’obiettivo di recarsi al lavoro in Svizzera, trasformando quegli stessi paesi in dormitori, “zone di parcheggio per lavoratori sempre meno qualificati e perciò scarsamente pagati”.(20)
Considerazioni analoghe proponeva Basilio Biucchi, economista ticinese, in un’intervista di pochi anni precedente, quando sosteneva che esistesse una nuova categoria di frontalieri, ben diversa dai lavoratori specializzati conosciuti nel Ticino dei decenni passati: “sono operai che, per i tre quarti, provengono dalla popolazione disoccupata del Sud, che si riversa con molte speranze e illusioni nella Lombardia e nel Piemonte. Attitudini, mobilità, formazione professionale di questa popolazione sono molto diverse […] a quelle dei frontalieri di un tempo”. Tali lavoratori sarebbero risultati proprio per questo facili vittime delle speculazioni: “sfruttando la possibilità di un immediato ricambio, in diversi posti di lavoro i loro salari sono rimasti bloccati su cifre magre (poco più di quattro franchi all’ora)” e non pochi sono gli operai che, alla richiesta di un giusto adeguamento, si sentono rispondere che “è giocoforza accontentarsi, poiché alla frontiera ci sono altri operai meridionali disposti a venire a lavorare da noi per ancora meno”(21). Sarebbe da accertare che questi nuovi frontalieri fossero effettivamente tutti non qualificati. Certo, avevano caratteri diversi dai vecchi frontalieri, provenivano da regioni più distanti anche culturalmente, non avevano quella conoscenza del Cantone e delle sue prassi che di cui disponevano invece i loro predecessori: tutto ciò rendeva probabilmente più complicato il loro inserimento negli ambienti di lavoro svizzeri, al di là delle loro qualifiche effettive. Ad ogni modo, come ha recentemente ricordato Matteo Sanfilippo, le migrazioni dal Sud verso la frontiera allo scopo di lavorare all’estero, riguardavano del resto anche altre zone di frontiera(22).
Negli stessi anni, anche a causa degli accordi bilaterali italo-svizzeri del 1964 e delle loro implicazioni(23), giunsero al culmine i sentimenti xenofobi già presenti nella popolazione, favorendo la nascita dell’Azione Nazionale contro l’Inforestieramento (AN), un’organizzazione che seppe proporre diverse iniziative popolari, meglio note come iniziative Schwarzenbach, il cui scopo era ridurre il numero degli stranieri sul territorio elvetico(24). Dal punto di vista degli imprenditori operanti nel Canton Ticino questa operazione avrebbe avuto effetti economicamente nefasti, come si può chiaramente dedurre dallo scambio intercorso tra la Camera di Commercio, dell’Industria e dell’Artigianato del Cantone Ticino, l’Associazione Industriali Ticinesi, il Dipartimento delle Opere Sociali e l’Ufficio del Lavoro di Bellinzona, per discutere delle misure di regolamentazione dei flussi che il governo anticipava di voler introdurre allo scopo di combattere la prima iniziativa Schwarzenbach, voluta dall’AN(25). I due enti imprenditoriali esprimevano infatti tutta la loro preoccupazione per i possibili esiti dell’imminente referendum e si rallegravano per avere appreso che, nelle ipotesi di restrizione elaborate dal governo, la manodopera frontaliera sarebbe comunque rimasta esclusa da ogni limitazione quantitativa: proprio quei lavoratori venivano considerati come una sorta di perno dell’economia cantonale(26). Un’ulteriore garanzia in merito sarebbe peraltro arrivata dal governo federale poche settimane più tardi, quando la commissione incaricata dell’esame della prima iniziativa Schwarzenbach affermava che “per quanto concerne la manodopera stagionale e i frontalieri, l’attuale regolamentazione dovrà essere conservata”(27).
La posizione dei sindacati svizzeri, in tale quadro, era invece di plauso e di sostegno ad ogni iniziativa governativa che limitasse il numero degli immigrati sul territorio. In una lettera spedita nel dicembre del 1969 al dipartimento federale dell’economia pubblica, l’Unione Sindacale Svizzera (USS) si rallegrava delle proposte di contingentamento globale dei lavoratori, vedendo di buon occhio la stabilizzazione degli immigrati già presenti nel Paese e la contemporanea limitazione di ingressi ulteriori che considerava espressamente, e come i referendari, in termini di “pénétration étrangère”. Per fugare ogni dubbio sulla propria posizione, l’Unione Sindacale affermava: “Comme nous le répétons depuis des années, nous voulons une réduction du nombre des immigrés. Nous ne pouvons renoncer à cette exigence”(28). Un’esigenza che l’USS aveva già ufficialmente espresso pochi anni prima quando, durante il Congresso del 1960, si era collocata su posizioni di acceso nazionalismo, rivendicando parità salariale per gli immigrati solo allo scopo di contenere la pressione al ribasso sui salari, mentre immaginava sistemi di formazione professionale e di reclutamento per l’impiego che privilegiassero i cittadini elvetici.(29)
Anche nel Ticino i sindacati finirono così con l’assumere posizioni di tipo protezionistico, per quanto il rapporto con gli immigrati italiani continuasse ad essere complesso e controverso: soprattutto tra i settentrionali italiani di più antica presenza sul territorio era facile trovare militanti sindacali convinti e combattivi(30). Fino agli anni Cinquanta, poi, non si era dato troppo peso alla presenza di immigrati, perché era considerata provvisoria. Inoltre, alcuni esponenti del sindacalismo e del socialismo ticinese si caratterizzavano per una particolare sensibilità nei confronti dell’immigrazione italiana, proprio perché erano figli della tradizione di cui si è detto e allievi di personalità come Guglielmo Canevascini. Per esempio, Dario Robbiani, militante sindacale e futuro presidente del Partito Socialisti Ticinese, veniva spesso invitato in altri cantoni a tenere conferenze, in italiano, di fronte ai lavoratori organizzati di quei settori in cui la manodopera proveniva principalmente dalla Penisola. Emblematico in questo senso il discorso tenuto a Zurigo da Robbiani il 1° maggio del 1965, proprio negli anni caldi delle iniziative xenofobe:

Care compagne e compagni, colleghi e lavoratori tutti, proprio così, non ho detto liebe Kollegen und Arbeiter, non mi rivolgo a voi in lingua tedesca, ma in italiano. La cosa potrebbe anche non stupire se questo comizio non avesse luogo a Zurigo, città che sembra essere diventata la roccaforte della xenofobia antitaliana. Questa manifestazione, questo comizio, inoltre sono stati organizzati da sindacati operai svizzeri e taluni dicono che sono proprio le organizzazioni sindacali a volere male agli italiani: i controlli alla frontiera, le x e le r stampigliate sui passaporti, la caccia agli indesiderabili, i licenziamenti dei superflui, i maltrattamenti di cui soffrono gli emigranti italiani sarebbero da attribuire dai sindacati svizzeri. Ora, voi credete che se i sindacati operai svizzeri, le federazioni di categoria aderenti all’unione sindacale fossero qui mangiaitaliani di cui di va dicendo oggi, sarei qui io, oratore di lingua italiana, a parlare a questo comizio? E se i lavoratori svizzeri sono tanto nemici e ostili, come mai voi italiani e spagnoli siete sfilati pochi minuti fa in questa piazza al loro fianco? La risposta non devo suggerirvela. Voi lo sapete che nel sindacato non ci sono distinzioni di nazionalità. Voi lo sapete che molti vostri connazionali ricoprono posti di responsabilità nelle organizzazioni dell’unione sindacale. Voi lo sapete che senza italiani molti gruppi di categoria non esisterebbero in Svizzera, poiché sono stati proprio gli immigrati italiani dell’inizio del secolo a dar vita al movimento operaio elvetico. Voi lo sapete che da noi non si canta soltanto l’internazionale ma si praticano i suoi insegnamenti(31).

Ben diverso era tuttavia il registro riscontrabile negli scambi epistolari intercorsi tra i sindacalisti ticinesi a proposito dei frontalieri. La lamentela più frequente riguardava il fatto che la Polizia degli Stranieri non prendesse contatto con l’Uffico consortile del Lavoro, o con l’Ufficio cantonale del Lavoro, prima di avviare le pratiche finalizzate all’emissione di permessi di lavoro per frontalieri. Di fatto, cioè, auspicavano si mantenesse sulle assunzioni un rigido controllo cantonale, basato sulla rilevazione delle effettive condizioni economiche e del mercato del lavoro nelle zone in cui le fabbriche chiedessero di assumere frontalieri(32). Similmente quando sedevano ai tavoli di contrattazione per concordare le riduzioni di personale, i sindacalisti ticinesi si esprimevano a favore del licenziamento dei frontalieri, prima dei locali. Un esempio si trova in una lettera che il sindacalista Dario Negri indirizzò, nel 1974, alla segreteria della Camera del Lavoro:

Il 21 gennaio 1974, presso gli uffici della Fabbrica FATATI a Quartino si è tenuta una riunione delle parti contraenti per sentire la decisione della direzione in merito alla situazione di crisi venutasi a creare per i motivi a tutti noti. La FATATI registra una reale mancanza di lavoro, in quanto non può disporre di sufficiente materia prima e deve addirittura far capi al mercato nero per alcuni prodotti di estrema necessità […]. Per il momento la Direzione prevede una riduzione di 42 dipendenti scaglionati però in 3 gruppi: una quindicina verranno licenziati a fine gennaio, una quindicina a fine febbraio e il resto alla fine di marzo. La Direzione ha spiegato i criteri con cui ha operato la scelta dei licenziati. Ha dapprima fatto una lista delle donne che lavorano contemporaneamente al marito in fabbrica, o delle donne che lavorano in fabbrica, il cui marito ha un’attività decorosa. Inoltre ha preso in considerazione gli elementi di scarso rendimento […]. Dopo ampia discussione e scambi di vedute fra la parti la decisione della ditta è la seguente: verranno licenziate sette lavoratrici frontaliere, che probabilmente potranno trovare immediata occupazione nella zona, e otto uomini”.(33)

La via del protezionismo era del resto in quegli anni la via condivisa dalla gran parte delle forze sindacali in tutti paesi d’immigrazione, fatta eccezione per paesi come l’Italia e la Spagna in quanto, quando i loro sindacati si trovarono ad affrontare il tema dell’immigrazione, erano ancora impegnati sul fronte dell’emigrazione dei propri lavoratori(34).
In ogni caso, le prime iniziative antistranieri non riuscirono a ottenere la maggioranza dei voti e, a parziale conferma di quanta rilevanza potesse avere all’inizio degli anni Settanta la storia delle relazioni tra lavoratori e militanti politici svizzeri e italiani, in Ticino maggioranze più consistenti che in altri cantoni si opposero alle misure xenofobe.(35)

3. VERSO GLI ACCORDI SINDACALI TRANSFRONTALIERI
Solo l’Organizzazione Cristiano Sociale Ticinese (OCST) andò maturando già all’inizio degli anni Sessanta una posizione diversa in merito ai frontalieri, ponendosi come l’avanguardia di un processo che si sarebbe completato nei vent’anni successivi su tutto il territorio nazionale(36). Anche a livello federale, del resto, negli anni Settanta la Confederazione dei Sindacati Cristiani deteneva un’agenda sul tema delle migrazioni assai più aperta di quella dell’Unione Sindacale Svizzera(37).
Negli stessi anni, inoltre, i sindacati italiani tentarono la via dell’accordo con quelli ticinesi, allo scopo di cercare un’intesa e la collaborazione proprio sulla questione dei frontalieri. Nell’aprile del 1971 le sezioni CGIL, CISL e UIL di Varese indirizzarono infatti una lettera congiunta all’OCST, di cui conoscevano sensibilità e aperture, e alla Camera del Lavoro. Nella lettera spiegavano di voler creare un’organizzazione unitaria “CGIL-CISL-UIL Frontalieri” per risolvere i tre ordini di problemi che ritenevano più urgenti per quei lavoratori, ossia quelli:

di carattere assistenzale previdenziale; di strutture sociali da costruire in Italia dove vivono con un contributo economico del padronato svizzero; di mantenimento dei diritti sindacali e democratici acquisiti in Italia con la giusta causa per i licenziamenti e con lo Statuto dei lavoratori, oltre alla parità salariale Canton Ticino-altri cantoni e alla parità uomo donna.(38)

Insieme, auspicavano che le organizzazioni svizzere collaborassero fattivamente con loro per raggiungere i medesimi obiettivi. La lettera che Edgardo Chiesa spedì ai diversi segretari sindacali pochi giorni più tardi mostra bene come permanessero titubanze e resistenze:

Cari compagni, le tre organizzazioni sindacali italiane ci hanno rimesso l’invito a partecipare, con l’Organizzazione Cristiano Sociale, ad un incontro per discutere i problemi di cui vi faccio parte rimettendovi la copia fotostatica della loro lettera. Con mons. Del Pietro [OCST] ho discusso la questione ed egli, per conto della sua organizzazione, dice di non potersi sottrarre dall’obbligo almeno di ascoltarli. Ci rendiamo conto che queste tre organizzazioni dal punto di vista sindacale non hanno alcuna rappresentatività in seno al gruppo dei frontalieri. Inoltre essi vorrebbero sapere la nostra opinione prima del giorno 9 maggio data in cui verrà tenuto il convegno di Como. Per ragioni tattiche abbiamo proposto di incontrarci il 14 maggio alle ore 9.30 al ristorante Delizie di Mendrisio. Non vorremmo, nel caso fosse tenuto un incontro prima del 9 maggio, al convegno si dovesse dare ad intendere che le organizzazioni nostre abbiano preso un impegno qualsiasi sui tre punti che come potrete vedere non possiamo per nessuna ragione minimamente vincolarci(39).

La manifestazione del 9 maggio provocò le scomposte reazioni della stampa ticinese che, per molti versi, spiegano i dubbi e le cautele di Chiesa. Il “Corriere del Ticino”, per esempio, descriveva l’incontro come un caotico atto d’accusa contro la Confederazione, guidato da sentimenti anti-elvetici.
In ogni caso, il 14 maggio successivo si tenne il primo incontro tra sindacati dei due paesi, che si svolse in un clima di collaborazione e cordialità, e dal quale sortì l’impegno a incontrarsi nuovamente nei mesi successivi, allo scopo di elaborare una linea e un documento comune per affrontare la delicata questione del lavoro frontaliero. Come i documenti della Camera del Lavoro dimostrano, i sindacati svizzeri si prestarono all’iniziativa anche con l’obiettivo di lavorare a una normalizzazione delle tensioni e alla moderazione dei conflitti. Così Edgardo Chiesa sintetizzava al Segretariato USS di Berna le ragioni degli incontri con le organizzazioni italiane:

Questa presa di contatto [con i sindacati italiani] si è rivelata oltremodo necessaria alfine di verificare la posizione delle organizzazioni sindacali di frontiera di fronte alla continua pressione propagandistica e di agitazione da tempo iniziata da gruppuscoli extraparlamentari di estrema sinistra ed anche di estrema destra.(40)

Gli “anni Settanta”, in effetti, avevano raggiunto anche il Ticino, attraverso forze della sinistra extraparlamentare come Lotta Continua, deboli ma presenti(41). Ad ogni modo, la collaborazione in merito ai frontalieri tra le organizzazioni sindacali italiane e svizzere continuò anche negli anni successivi, coinvolgendo i sindacati dei diversi settori, soprattutto su alcune questioni particolarmente rilevanti per quella categoria di lavoratori, come erano, e sono tutt’oggi, l’imposizione fiscale e l’assistenza sanitaria. Nel 1973 CGIL, CISL e UIL invitavano i lavoratori italiani alla militanza nei sindacati elvetici – attraverso volantini che, nella Confederazione, furoro diffusi anche dall’OCST – e, contemporaneamente, informavano la Giunta Regionale Lombarda della loro collaborazione con le organizzazioni svizzere(42). Nell’ottobre del 1974, significativamente, venne firmato l’Accordo tra Svizzera e Italia relativo alle imposte dei lavoratori frontalieri e alla compensazione finanziaria a favore dei comuni italiani limitrofi. L’accordo riconosceva ai frontalieri il diritto a pagare le tasse in un solo paese, riconoscendo però all’Italia il diritto a ricevere una quota dei prelievi fiscali agiti sui salari, per pagare i servizi che sfruttavano in patria(43).
Nonostante gli accordi tra i sindacati, però, gli atteggiamenti del mondo sindacale elvetico nei confronti dei frontalieri subirono sempre continue oscillazioni. Attraverso le carte della Camera del lavoro e del Sindacato Edilizia e Industria di Mendrisio è possibile infatti ricostruire un interessante dibattito sul contingentamento dei frontalieri: nei primi anni Ottanta, il documento “Sindacalisti ticinesi pretendono il contingentamento dei frontalieri” lamentava che, su 145.000 persone impiegate in Ticino, 30.000 fossero frontalieri, diffusi in tutti i settori. A fronte di ciò la posizione delle organizzazioni sindacali era orientata alla conservazione dei posti di lavoro di quanti fossero già impiegati in Ticino come frontalieri, ma con il contemporaneo contingentamento di quanti ambissero a diventarlo. Si diceva nel testo: “L’unico partner sociale contento [dell’aumento di frontalieri] è il datore di lavoro che può aumentare la sua capacità di concorrenza ulteriormente in diversi campi. Egli non sottostà alle regolamentazioni del mercato del lavoro italiano, né i sindacati locali proteggono i frontalieri dagli abusi”(44).

4. CONCLUSIONI
Il frontalierato nel Canton Ticino è un fenomeno peculiare per diverse ragioni. Anzitutto, a differenza che negli altri cantoni è sempre stata esplicita la disparità tra i salari dei frontalieri e quelli della popolazione residente: di fatto la frontiera ticinese ha prodotto situazioni di rendita differenziale sfruttate da diversi agenti economici, attraverso il frontalierato o, in forma illegale, attraverso il contrabbando. Tuttavia, i frontalieri hanno avuto un ruolo determinante nello sviluppo economico del Cantone, favorendo il trasferimento dalla Svizzera Interna di imprese che intendessero sfruttare a loro vantaggio il basso costo di questa manodopera. Come si è cercato di dimostrare, il loro rapporto con le organizzazioni dei lavoratori locali va interpretato principalmente da questo punto di vista. Infatti, nonostante le organizzazioni sindacali ticinesi avessero avuto storicamente un buon rapporto con i lavoratori italiani, i frontalieri hanno rappresentato un capitolo particolare e distinto, essendo esplicito il loro utilizzo come strumento di pressione al ribasso sui salari da parte di una buona quota dei datori di lavoro ticinesi.
Solo a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, grazie anche agli sforzi di penetrazione di CGIL, CISL e UIL, le organizzazioni dei lavoratori ticinesi modificarono il proprio atteggiamento, accettando di prendere accordi per tutelare in una qualche misura anche i frontalieri. Nonostante ciò, però, la loro posizione si mantenne critica e particolarmente soggetta alle congiunture economiche.
Tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta, poi, il quadro politico-istituzionale mutò. Da un lato, la prospettiva di un’Europa unita stimolò un dibattito sulla politica transfrontaliera che divenne di attualità dopo il 15 marzo 1988, quando il consigliere di stato ticinese Rossano Bervini e il presidente della Giunta regionale lombarda Bruno Tabacci si incontrarono a Milano, avviando i lavori che avrebbero portato alla stipulazione di una convenzione relativa ai problemi transfrontalieri: due giorni più tardi, un convegno organizzato a Campione d’Italia alimentò la discussione dalla quale emersero posizioni come quella dell’economista Remigio Ratti, che auspicava la necessità di un’integrazione della Svizzera nel sistema di accordi sulla libera circolazione europea, allo scopo di favorire “il contatto tra sistemi politico-istituzionali e tra sottosistemi socio-economici”, ritenuto utile all’economia cantonale(45). In effetti il tema venne indicato tra le aree di intervento prioritarie nelle linee direttive della politica cantonale 1988-1991, allo scopo di coordinare i rapporti del Cantone con le province lombarde e piemontesi(46). Lo stesso Ratti, in un’intervista del 1991, profilava la possibilità di creare una regione alto-lombarda concorrenziale all’area economica milanese, che trovasse il suo centro in Lugano e la sua periferia nella fascia comprendente le città di Verbania, Varese, Como, Lecco e Bergamo(47).
L’effettiva stipula degli accordi per la libera circolazione tra l’Europa e la Svizzera del 1999 favorì quindi un deciso aumento di frontalieri in Ticino, ulteriormente intensificato dalla crisi economica di inizio millennio che porterà i frontalieri a superare quota 60.000, nel 2013, su una popolazione attiva che contava 180.000 persone. La presenza di quei lavoratori si pose così a partire dagli anni Novanta in modo nuovo e sempre più problematico tanto che, il 9 febbraio 2014, si assistette al primo storico trionfo nel Cantone di un’iniziativa popolare anti-stranieri: il 69% dell’elettorato – insieme al partito dei Verdi, tradizionalmente collocato a sinistra(48) – sostenne l’iniziativa che proponeva l’introduzione di contingenti rispetto al numero di immigrati e di rifugiati: in Ticino, però, fu proprio il dibattito intorno ai lavoratori frontalieri a costruire un consenso così ampio all’iniziativa(49).
L’evidente complessità degli aspetti e delle questioni che hanno caratterizzato i frontalieri in questi ultimi trent’anni ci costringono tuttavia a rimandare ad un’altra sede la disamina relativa al comportamento assunto in merito delle organizzazioni sindacali.

(1)Raffaello Ceschi, Movimento democrati e società popolari e operaie a Bellinzona, “Pagine Bellinzonesi”, 1978, pp. 211-230.

(2) Si vedano: Gabriele Rossi, Sindacalismo senza classe. Dall’Ottocento alla prima guerra mondiale, Bellinzona,Pellegrini Canevascini, 2002; Marc Vuilleumier, Immigrati e profughi in Svizzera, Zurigo, Pro Helvetia, 1992.

(3) Camera del Lavoro 1902-1982. Contributi per una storia del movimento sindacale nel Canton Ticino, Lugano, Camera e Segretariato del Lavoro del Ticino, 1982, p. 23. Si veda anche Marco Marcacci, Giochi con frontiere e percezione dei confini: il caso ticinese, in Oscar Mazzoleni e Remigio Ratti, Vivere e capire le frontiere in Svizzera. Vecchi e nuovi significati nel mondo globale, Locarno/Bellinzona, Dadò/Coscienza svizzera, 2014.

(4)Ibid., p. 30.

(5) Ibid., p. 31.

(6) Monica Bartolo, Renitenti, sindacalisti o sovversivi? Gli immigrati italiani nel Canton Ticino (1945-1970), tesi di Laurea, Università di Basilea, 2004, p. 8.

(7) Monica Bartolo, Renitenti, sindacalisti o sovversivi? Gli immigrati italiani nel Canton Ticino (1945-1970), tesi di Laurea, Università di Basilea, 2004, p. 8.

(8)Guido Pedroli, Il socialismo nella Svizzera Italiana (1880-1922), Locarno, Dadò, 2004 [1962], p. 40.

(9) M. Bartolo, Renitenti, sindacalisti o sovversivi?, cit., p. 18.

(10) Nelly Valsangiacomo Comolli, Storia di un leader. Vita di Guglielmo Canevascini 1886-1965, Fondazione Pellegrini Canevascini, Bellinzona, 2001, pp. 33-42. Come spiega Valsangiacomo in questo volume, negli anni Dieci Canevascini divenne una figura nota del sindacalismo a livello federale poiché ricopriva spesso il ruolo di conferenziere in varie sedi sindacali in altri cantoni dove, però, gli organizzatori erano spesso lavoratori sindacalizzati italiani. Sul leader Canevascini le influenze ideologiche sono state di natura diversa ma “quella italiana è stata sicuramente preponderante; i legami che si instaurano si consolideranno con il tempo, rendendo molto saldo il rapporto con la vicina penisola” (p. 66).

(11) Il fenomeno veniva descritto in questi termini da Giuseppe Prato, Il protezionismo operaio: l’esclusione del lavoro straniero, Torino, Artigianelli, 1910.

(12) In merito a queste oscillazioni, a proposito del caso francese si veda Maria Grazia Meriggi, L’internazionale degli operai. Le relazioni internazionali dei lavoratori in Europa fra la caduta della Comune e gli anni ’30, Milano, Franco Angeli, 2014.

(13) Ibid., p. 48.

(14) Lucia Bordoni, La donna operaia all’inizio del Novecento, Locarno, Dadò, 1993, p. 50.

(15) Die Schweiz anderswo – La Suisse ailleurs, a cura di Brigitte Studer, Caroline Arni, Walter Leimgruber, Jon Mathieu e Laurent Tissot, Zurich, Chronos, 2015; Daniela Luigia Caglioti, Vite parallele. Una minoranza protestante nell’Italia dell’Ottocento, Il Mulino, Bologna, 2006; Gérald Arlettaz, “Les Suisses de l’étranger” et l’identité nationale, “SF”, 12 (1986, pp. 5-35; Gérald Arlettaz, L’émigration suisse d’outremer de 1815 à 1920, “Studi e fonti”, 5 (1979), pp. 7-236.

(16) I leader dell’antifascismo ticinese erano legati al partito socialista e alle organizzazioni operaie che, sempre in contatto con esponenti di spicco del socialismo italiano e soprattutto milanese, durante la guerra si occuparono anche della protezione dei rifugiati italiani. Si vedano: Francesca Mariani Arcobello, Socialista di frontiera. L’avvocato Francesco Nino Borella (1883-1963), Fondazione Pellegrini Canevascini, 2008; Nelly Valsangiacomo Comolli, Storia di un leader, cit, e Domenico Visani (1894-1969). Sindacalista, Socialista, Democratico, Lugano,Fondazione Pellegrini Canevascini, 1994.

(17) Camera del Lavoro 1902-1982, cit., p. 70.

(18) Ibid., p. 75.

(19) Angelo Rossi, Tessere, Bellinzona, Fondazione Pellegrini Canevascini, 2010. Ronny Bianchi, Un’economia in mezzo al guado. Spunti per una riflessione sulla politica industriale ticinese, Bellinzona,Salvioni Edizioni, 2007. Si vedano anche: Idee senza frontiere, a cura di Assessorato alla Cultura dell’Amministrazione Provinciale di Como, “InsiemeCultura”, 12 (aprile 1989); Remigio Ratti, Tazio Bottinelli, Tarcisio Cima e Antonio Marci, Ricerca sugli effetti socio-economici della frontiera: il caso del frontalierato nel Canton Ticino, in Régions frontalières – Grenzregionen – Regioni di frontiera, a cura di Basilio Biucchi e Gaston Gaudard, Saint-Saphorin, Georgi, 1981.

(20) Angelo Coerezza, Relazione presentata da Angelo Coerezza, per conto delle organizzazioni sindacali CGIL-CISL-UIL, al convegno unitario dei frontalieri con la Svizzera tenutosi a Como il 9 maggio 1971, Archivio di Stato di Bellinzona (ASB), Archivio Fondazione Pellegrini Canevascini – Fondo Camera e Segretariato del Lavoro 1902-1978 (FPC 03), scatola 83, cartella 1, camicia 2.

(21) Basilio Biucchi, I frontalieri: un affare per tutti, “Popolo e libertà”, novembre 1969; Amministrazione provinciale di Varese, I frontalieri italiani nel Canton Ticino: problemi e prospettive, 9 novembre 1969, Varese, ASB, FPC 03, scatola 83, cartella 1, camicia 1.

(22) Matteo Sanfilippo, Studiare il frontalierato nell’Archivio di Stato di Imperia, sezione di Ventimiglia, “Archivio storico dell’emigrazione italiana”,10 (2014), pp. 89-92. Si veda anche Franco Pittau, Regioni nordorientali minoranze e migrazioni, Pordenone, Istituto Regionale Studi Europei del Friuli Venezia Giulia, 1987.

(23) Prima tra tutte va ricordata la semplificazione delle procedure necessarie per ottenere il diritto al ricongiungimento familiare, da cui conseguiva l’aumento di immigrati non produttivi e più costosi per le casse statali, come gli anziani e i bambini.

(24) Mauro Cerutti, L’accord italo-suisse de 1964: une rupture dans la politique migratoire suisse, in La politique étrangère de la Suisse: persistances, ruptures et défis, Bern, Swiss Federal Department of Foreign Affairs, 2008, pp. 33-38, e Un secolo di emigrazione italiana in Svizzera (1870-1970), attraverso le fonti dell’Archivio federale, “Studi e fonti”, 20 (1994), 11-141.

(25) La classe dirigente elvetica temeva che la vittoria dei referendari incidesse su un’economia basata sull’impiego di manodopera straniera. Il governo propose quindi sistemi di contingentamento, di dosaggio degli accessi (con riferimento agli ingressi complessivi e a quelli nei diversi settori), da adottare preventivamente, in modo da convincere la cittadinanza che le iniziative Schwarzenbach non fossero necessarie.

(26) Lettera della Camera di Commercio, dell’Industria e dell’Artigianato del Canton Ticino e Associazione Industriali Ticinesi al Dipartimento delle Opere Sociali e Uffico del Lavoro di Bellinzona, Concerne: futuro regime della mano d’opera estera, 16 ottobre 1969, ASB, FPC 03, scatola 82, cartella 1, camicia 4.

(27) Communiquée lors de la séance du 10 novembre 1969 de la Commission du Conseil national chargée d’examiner la deuxième initiative contre l’emprise étrangère, Esquisse de la conception d’une nouvelle réglementation des travailleurs étrangers projetée par l’Office fédéral de l’industrie, des arts et métiers et du travail, FPC 03, scatola 82, cartella 1, camicia 4.

(28) Union Syndicale Suisse au Département fédérale de justice et de police et au Dèpartement fédérale de l’économie publique, Nouvelle reglementation de l’emploi de la main-d’oeuvre étrangère, 11 dicembre 1969, FPC 03, scatola 82, cartella 1, camicia 4.

(29) Jean Steinauer e Malik Von Allmen, Smuovere le acque. Gli immigrati nei sindacati svizzeri (1945-2000), Lausanne, Édition d’En Bas, 2000, p. 13. Il volume qui citato, a pagina 70, riporta anche la descrizione di un manifesto xenofobo diffuso dall’USS, negli anni di Schwarzenbach: vi era rappresentato un Guglielmo Tell nell’atto di respingere gli immigrati italiani.

(30) In merito va segnalato l’interessante lavoro di Mattia Pelli, Monteforno. Storie di acciaio, di uomini e di lotte, Lugano-Pregassona, Fontana, 2014, in cui sono raccontati aspetti della vita politica sindacale nella nota fabbrica di Bodio, attraverso le testimonianza di numerosi lavoratori, molti dei quali immigrati.

(31) Dario Robbiani, Discorso del 1° maggio 1965, in Archivio Dario Robbiani (ADR), prossimamente depositato presso l’Archivio Fondazione Pellegrini Canevascini dell’Archivio di Stato di Bellinzona.

(32) Lettera di Dario Negri a Edgardo Chiesa, Concerne: movimento lavoratori frontalieri, 15 febbraio 1974, FPC 03, scatola 60, cartella 2, camicia 3.

(33) Dario Negri, Situazione della fabbrica Fatati di Quartino, in merito alla crisi energetica (licenziamento di oltre 40 operai in 3 gruppi) – Confidenziale, FPC 03, scatola 60, cartella 2, camicia 3.

(34) Si vedano almeno: Luca Einaudi, Le politiche dell’immigrazione in Italia dall’Unità a oggi, Roma-Bari, Laterza, 2007 rispetto alla situazione italiana e, per una comparazione tra diversi paesi, Leah Haus, Unions, Immigration, and Internationalization: New Challanges and Changing Cohalition in the United States and France, New York, Palgrave, 2002, e Julie R. Watts, Immigration Policy in the Challenge of Globalisation: Unions and Employers in Unlikely Alliance, Ithaca NY, Cornell University Press, 2002. Quest’ultimo studio presenta vari punti di interesse, nonostante alcuni limiti significativi esposti in Peter Andreas, Immigration Policy in the Challenge of Globalisation: Unions and Employers in Unlikely Alliance – Book Review, “Perspectives on Politics”, 1, 1 (2003), pp. 242-243.

(35) Nel 1970, per esempio, in Ticino si oppose all’iniziativa Schwarzenbach più del 63% della popolazione, contro il 54% nazionale. Si veda anche la breve ricostruzione: Gerhard Lob, L’urlo di rivolta del Canton Ticino, http://www.swissinfo.ch/ita/libera-circolazione-con-l-ue_l-urlo-di-rivolta-del-canton-ticino/37939874 .

(36) A proposito dell’OCST si vedano Mons. Luigi Del-Pietro (1906-1977). Un protagonista della storia ticinese del Novecento, a cura di Alberto Gandolla, Pregassona, Organizzazione Cristiano Sociale Ticinese, 2006; Gli 80 anni dell’OCST, a cura di Id., Pregassona, Organizzazione Cristiano Sociale Ticinese, 1999, oltre al citato J. Steinauer e M. Von Allmen, Smuovere le acque, pp. 93-98.

(37) J. Steinauer e M. Von Allmen, Smuovere le acque, cit., p. 60. Si veda anche: M. Bartolo, Renitenti, sindacalisti o sovversivi?, cit., pp. 59-81.

(38) CGIL, CISL, UIL di Varese alla Camera del Lavoro e OCST di Lugano, Lettera, Varese, 21 aprile 1971, FPC 03, scatola 83, cartella 1, camicia 2.

(39) Edgardo Chiesa a FOMO di Lugano, FLEL di Mendrisio, Lugano, Locarno e FACA di Lugano, Concerne: incontro con le organizzazioni sindacali italiane per i problemi dei frontalieri, Lugano, 29 aprile 1971, FPC 03, scatola 83, cartella 1, camicia 2.

(40) Edgardo Chiesa a Segretariato USS di Berna, Concerne: situazione dei lavoratori frontalieri delle Provincie di Varese, Como, Novara, Sondrio, in rapporto alla revisione dell’accordo Italo-Svizzero sull’emigrazione, 7 settembre 1971, FPC 03, scatola 83, cartella 1, camicia 3.

(41) Per una riflessione sugli anni Settanta in Ticino ci permettiamo di rimandare a Paolo Barcella e Roberto Villa, Le carte dell’Associazione delle Consumatrici della Svizzera Italiana all’Archivio di Stato di Bellinzona, “Archivio Storico Ticinese”, 158, in corso di stampa. Si veda Francesco Veri, I movimenti extraparlamentari d’estrema sinistra nella società politica ticinese degli anni Settanta, “Bollettino Storico della Svizzera”, 109 (2006), pp. 271-300.

(42) Giunta Regionale Lombarda: Assessorato al lavoro e ai movimenti demografici – Regione Lombardia, Conclusioni dell’incontro con la Federazione Regionale della CGIL, CISL, UIL per il problema dei frontalieri, FPC 03, scatola 83, cartella 2, camicia 2.

(43) Accord entre la Suisse e l’Italie relatif à l’imposition des travailleurs frontaliers et à la compensation financière en faveur des communes italiennes limitrophes (RU 1979 457), stipulato nell’ottobre 1974, sarà approvato dall’Assemblea federale solo 4 anni più tardi, il 24 ottobre 1978, ed entrerà in vigore il 27 marzo del 1979.

(44) Sindacalisti ticinesi pretendono il contingentamento dei frontalieri, Archivio Fondazione Pellegrini Canevascini – Fondo FLEL/SEL/SEI (FPC 12), sc. 25, Cartella 1/6.
(45) Lillo Alaimo, Nell’attesa del 1992 la frontiera-barriera diventi aperta, “Eco di Locarno”, 22 marzo 1988, p. 4, ASB, FPC, ADR.

(46) Si vedano: l’intervento al Granconsiglio di Dario Robbiani, Coinvolgimento del Granconsiglio nella collaborazione transfrontaliera tra il Ticino e la Lombardia – Mozione, 21 marzo 1988, in ASB, FPC, ADR; Un gruppo di lavoro Ticino-Lombardia per un costante scambio di informazioni, “Corriere del Ticino”, 16 marzo 1988 in ASB, FPC, ADR; A Campione per discutere a cavallo della frontiera, “Corriere del Ticino”, 16 marzo 1988 in ASB, FPC, ADR; Una miriade di accordi e un binario che divide, “Corriere del Ticino”, 18 marzo 1988 in ASB, FPC, ADR.

(47) Bruno Giussani, Tessin: l’union contre la métropole, “Hebdo”, 18 luglio 1991, p. 21, in ASB, FPC, ADR.

(48) Occorre però segnalare che proprio sul tema il partito si divise. Il comportamento dei Verdi rimane comunque un interessante punto di osservazione sulla trasversalità del consenso nei confronti di istanze e posizioni anti-frontalieri.

(49) Paolo Barcella, I frontalieri nel Canton Ticino, in Fondazione Migrantes, Rapporto Italiani nel Mondo 2014, Todi, Tau Editrice, 2014, pp. 84-93.