Italiani in Tennessee tra identità nazionale e americanizzazione. Una prima indagine

Lo studio delle colonie della East Coast degli Stati Uniti ha portato alla luce l’esistenza di comunità pluri-sfaccettate di lavoratori più o meno specializzati, artigiani, musicisti e contadini; uomini, donne, bambini che lasciarono la madrepatria per inseguire (e, nella maggior parte dei casi, realizzare) il sogno di una vita migliore in un mercato del lavoro ormai sulla via della globalizzazione .
Gli italiani che si avventurarono oltre la linea degli Appalachi e coloro che arrivarono nel loro nuovo paese attraverso il porto di New Orleans si trovarono però spesso a dover affrontare sfide differenti rispetto a quelle sostenute dai connazionali fermatisi nelle grandi metropoli della costa orientale e decisamente molti meno furono i migranti che si stabilirono nel sud degli Stati Uniti nel corso delle due grandi migrazioni della terza decade dell’Ottocento e dei primi anni Venti.
Nonostante gli sforzi compiuti da molti stati per attirare nuova forza lavoro, da impiegare principalmente nell’agricoltura, la popolazione straniera del Sud rimase bassa. Gli italiani che arrivarono a New Orleans si stabilirono generalmente in alcune piccole colonie dentro e fuori dalla Louisiana: seguendo il corso del Mississippi giunsero fino a Memphis, TN, mentre altri si spostarono verso l’Alabama, fermandosi a Birmingham, cittadina rapidamente divenuta, all’inizio del Novecento, un importante centro minerario e siderurgico facente capo alle Tennessee Coal and Iron Industries (TCI).
I migranti italiani si mostrarono riluttanti nello stabilirsi nel Sud visto il basso livello di industrializzazione di quelle zone e la conseguente scarsità di offerte di lavoro nel secondo settore. Inoltre sussisteva un problema di tipo razziale, già messo in evidenza da Robert J. Norrell, secondo cui gli italiani temevano che, emigrando a sud, avrebbero sofferto discriminazioni simili a quelle riservate ai neri americani .
In aggiunta a queste ragioni “pratiche”, che certo dissuasero molti coloni italiani dallo stabilire la loro nuova dimora nel Sud (senza dimenticare le violente epidemie di febbre gialla che colpirono sistematicamente l’area ad ovest del Mississippi, la regione del Delta e la sua “capitale” economica Memphis, TN) , probabilmente pure ragioni “letterarie” contribuirono a scoraggiare gli emigranti italiani.
Nel 1838, infatti, Antonio Gallenga, esule mazziniano rifugiatosi in Nord America a seguito del fallimento dei moti rivoluzionari del 1831, si avventurò sino alle città di Nashville, TN, e Louisville, KY, allora considerati parte del lontano e misterioso West. La descrizione che di queste terre diede Gallenga nel suo diario di viaggio è tutto fuorché accattivante: nonostante fosse rimasto colpito positivamente dalla bellezza del paesaggio, rigoglioso di querce, aceri e frassini, Gallenga si disse sconvolto dal fatto che le innegabili risorse naturali di quelle terre fossero sfruttate senza criterio e sprecate dagli autoctoni, a dire dell’esploratore dei veri e propri selvaggi .
È plausibile che resoconti come quello di Gallenga e degli esploratori che dopo di lui si avventurarono ad ovest degli Appalachi ebbero un qualche impatto nel dissuadere i coloni italiani dal tentare la fortuna nella Black Belt; e però, allo stesso modo, quegli scritti poterono certamente solleticare la curiosità dei migranti per una terra fertilissima, quasi del tutto vergine e che, potenzialmente, avrebbe potuto offrire molte possibilità di riscatto sociale.
Sebbene il numero di italiani che emigrarono verso il Mid-South sia comunemente considerato quasi insignificante da un punto di vista numerico, qualche migliaio di coloni seguirono (e, in qualche caso, anticiparono) le orme di Gallenga e si stabilirono in quella striscia di America schiacciata tra il Kentucky e la valle del Mississippi, arrivando in Tennessee da est o risalendo verso nord dopo essere sbarcati a New Orleans, principale porto d’entrata sul Golfo del Messico.
Basandosi su una serie inedita di documenti d’archivio, questo contributo mira anzitutto a fornire una prima istantanea della presenza di emigranti italiani nello stato del Tennessee all’incirca nel periodo 1819-1950. Il risultato di questa prima indagine è utile a mappare la presenza italiana in un lembo di terra americana finora largamente ignorato dalle indagini storiche, sociologiche e letterarie. Ricostruire alcune tra le vicende di questi emigranti è importante per ricollocare al suo posto un pur minimo tassello nel variopinto mosaico della storia sociale dell’emigrazione italiana al di fuori delle grandi città del Nord America.

1. LA COMMISSIONE DILLINGHAM
Prima di osservare la nascita e i primi passi delle colonie Italiane di Nashville, Memphis e Knoxville conviene stabilire alcuni punti fermi di questa ricerca, almeno per quanto riguarda la disponibilità di documentazione ufficiale su cui incardinare il nostro discorso. A questo proposito gli unici riferimenti di cui è possibile avvalersi sono i censimenti (State Census), specie quello del 1900, e il rapporto della Commissione Dillingham (Dillingham Report), preparato dalla United States Immigration Commission tra il 1907 e il 1911.
Secondo i dati riportati dal censimento, nel 1900 in Tennessee vivevano 2.020.616, di cui solo 17.746 erano nati in un paese straniero. In altre parole, il 99,1 % della popolazione totale dello stato era autoctona e solo lo 0,9 per cento era di origine straniera. La Germania era rappresentata dal maggior numero di individui (4.569), seguita dall’Irlanda (3.372), dall’Inghilterra (2.207), dall’Italia (1.222) e dalla Svizzera (1.004). I 1.222 italiani rappresentavano il 6,9 % del totale della popolazione straniera dello Stato e, in aggiunta, il censimento del 1900 parla di 1295 autoctoni con uno o entrambi i genitori nati in Italia: il che porta così il numero di persone di origine italiana che vivevano in Tennessee nel 1900 a 2.517.
Quanto alle occupazioni di questi coloni, il censimento parla di 902 maschi e 92 femmine di origini italiane impiegate in attività lavorative remunerate (“gainful occupations”). Le attività agricole (“Agricultural pursuits”) occupavano 162 maschi italiani e 15 femmine, il “servizio professionale” (“Professional service”, si presume nel settore terziario) 18 e 5, il “servizio personale e domestico” (“Domestic and personal service”) 174 e 19, il “commercio e i trasport” (“Trade and transportation”) 391 e 13, la “manifattura e le attività meccaniche” (“Manufacturing and mechanical pursuits”) 157 e 23. Da questi dati si ricava inoltre come 177 (18%) “breadwinners” della prima e della seconda generazione fossero impegnati in attività agricole: di essi 78 maschi e 8 femmine erano braccianti agricoli e 74 maschi e 6 femmine erano “agricoltori, seminatori o sorveglianti“ (“farmers, planters or overseers”) .
Nel 1900 il maggior numero di coloni italiani si trovava rispettivamente nelle città di Memphis (Shelby County) e Nashville (Davidson County) e il 90% della popolazione italiana dello stato si trovava proprio in queste due contee, per un totale di 1110 immigrati italiani. Da queste poche statistiche si ricava come, in maniera del tutto prevedibile, gli emigranti stabilissero le loro nuove dimore di preferenza nei due centri più grandi dello stato, in cerca di impiego nel settore dei servizi o, più probabilmente, di città in rapido sviluppo, nelle quali aprire una propria piccola attività imprenditoriale e sfruttare le possibilità offerte dalla società americana.
Inoltre, come evidenziato nei taccuini di viaggio di Gallenga, la fertile e poco sfruttata pianura della valle del fiume Cumberland (nei dintorni di Nashville) e, soprattutto, l’estesa valle del Delta del Mississippi (Memphis), esercitarono una certa attrattiva sui braccianti agricoli, che vi si recarono in gran numero, almeno secondo i dati forniti dal Dillingham Report.
Due rilevamenti furono poi condotti dal governo sulle colonie di Memphis e Paradise Ridge, nei pressi di Joelton, una comunità semi-rurale di fattorie e periferie suburbane situata a circa 18 miglia a nord di Nashville. Nella sezione intitolata Italians in the Southern States il rapporto si concentra unicamente sulle colonie rurali, dando per scontato che i migranti, di qualunque nazionalità, trasferitisi nella zona si dedicassero unicamente ad attività agricole . Tuttavia, per stessa ammissione degli inviati governativi, le indagini sulle comunità del Sud furono molto meno accurate rispetto a quelle condotte sulle colonie settentrionali, seppure il rapporto vantasse il censimento di “tutti” i migranti italiani stabilitisi nel Sud:

the large number of rural settlements of foreigners precluded detailed investigations such as were made of some of the communities farther north […] and difficulties were experienced in ascertaining the location of some of the many small rural groups .

La ricerca ignorò invece quasi del tutto le aree urbane dello stato del Tennessee, incluse quelle delle quattro città maggiormente popolose: Memphis, Nashville, Knoxville e Chattanooga, fornendo quindi un dato largamente incompleto – che in questa sede si cercherà di integrare – circa la presenza e, soprattutto, le attività, degli italiani della zona .

2. DAL PO AL MISSISSIPPI. LA COLONIA ITALIANA DI MEMPHIS
La prima traccia di una presenza italiana nella regione del Delta del Mississippi si trova nel censimento dello Stato del 1850, che testimonia la presenza di 32 famiglie, delle quali almeno un membro era nato in Italia. Il censimento specifica altresì che, a questa data, gli italiani di Memphis erano 45 e che la loro occupazione non era limitata alle professioni agricole, come sancito invece dal Dillingham Report . Ventuno di questi coloni dichiararono di lavorare in coffee-houses, due erano pasticceri, due avevano un negozio di alimentari, due erano baristi, due impiegati, due mercanti e uno era scalpellino . I primi emigranti a Memphis lavoravano dunque nel food business e la prima attività commerciale italiana inserita nella City Directory della città fu il magazzino all’ingrosso di vini e liquori A. Vaccaro & co., che iniziò la sua attività nel 1844.
Nel 1869 il numero di famiglie italiane che vivevano a Memphis aumentò fino a 50. In quello stesso anno, poco prima della fine della terza guerra d’indipendenza italiana, Domenico Canale fondò la D. Canale & co., che divenne in breve tempo il maggiore distributore di prodotti alcolici negli stati del Sud e del Mid-South .
Domenico era originario di San Pietro di Rovereto, una piccola comunità nel comune di Zoagli, a circa 40 km a sud-est di Genova. Figlio di Giovanni Canale e Ada Vaccaro, Domenico partì per l’America nel febbraio del 1859, quando aveva 16 anni, e il suo viaggio rappresenta la traversata tipica di molti migranti della sua generazione che decisero di tentare la sorte a Memphis. Arrivato a New Orleans dopo un viaggio lungo 65 giorni, salì a bordo del piroscafo John Simon e giunse a Memphis risalendo il corso del Mississippi. Poco dopo il suo arrivo, nel maggio dello stesso anno, Domenico iniziò a lavorare per suo zio, che gestiva un fiorente magazzino di alcolici all’ingrosso . Nel 1866 mise da parte abbastanza denaro per iniziare la propria attività, la D. Canale & co., per l’appunto, che si occupò, per un certo periodo, anche dell’import-export di frutta dall’estero e servì numerosi stati del Sud. In quegli anni la sua ditta produceva e distribuiva un apparentemente ottimo bourbon, denominato Old Dominick .
I primi italiani di Memphis, ben rappresentati dalla figura di Canale, furono dunque appartenenti al ceto, per così dire, mercantile, come peraltro testimoniato da John Shepherd, un immobiliarista e figura di spicco del tessuto sociale cittadino nell’ultimo decennio del Novecento. Shepherd sostiene infatti che:

These first Italians, as those who came later, were characterized by hard work and strong family loyalties. […] Many came initially under sponsorship arrangement through which they agreed to work a certain number of years for their sponsor. Their children eventually moved in to the professions, lawyers, doctors and banking .

La seconda ondata migratoria partì principalmente dal Piemonte e dalla Toscana tra il 1870 e il 1880 e i migranti che giunsero nella valle del Delta lavorarono principalmente in caffetterie e saloons, consolidando dunque la loro presenza nel campo della ristorazione, e aprendo negozi di generi alimentari e pasticcerie . E tuttavia molti di essi cominciarono a stabilirsi nella periferia della città, nella zona denominata The Pinch, in cui si raccolsero molte tra le prime comunità di migranti (non solo italiani, ma anche irlandesi, russi, tedeschi, greci ed ebrei), dove si dedicarono spesso alla coltivazione di appezzamenti di terra sulle sponde del Mississippi . Proprio dall’attività agricola e dal duro lavoro dei campi le prime comunità italiane di Memphis ottennero le maggiori soddisfazioni, in termini economici e, soprattutto, di riscatto sociale. Nel 1870, mentre il numero di italiani in città si attestava sulle 200 unità, sette di loro fondarono la Società di Unione e Fratellanza Italiana di Memphis, preludio alla creazione di una vera e propria Italian Society in difesa dell’identità della colonia italiana locale, che rischiava di essere indebolita dalla progressiva “americanizzazione” richiesta dall’integrazione in una terra che li vedeva principalmente commerciare con gli autoctoni e comunicare con loro in lingua inglese. L’associazione si proponeva poi di limitare quanto più possibile gli scontri tra gruppi di emigranti provenienti dai differenti stati europei e, addirittura, tra gli stessi italiani del Nord e del Sud. L’associazione tentò (con successo) di unire sotto un’unica egida le piccole comunità disperse nella valle del Delta e, più in generale, tutti gli italiani di Memphis intorno a un unico sentimento patriottico nazionale .
Gli anni della seconda grande migrazione videro arrivare a Memphis un gran numero di piemontesi, specialmente dal piccolo borgo di Bassignana (Alessandria), attratti, come confermano alcune testimonianze orali, dal clima favorevole che caratterizzava la regione . Clima non sempre – e del tutto – propizio agli insediamenti umani, se è vero che a partire dal 1870 Memphis fu duramente colpita da una serie di epidemie, tra cui quelle ricorrenti di febbre gialla (1870, 1873 e 1878) che, seguendo il tragitto compiuto dai migranti, risalì il corso del Mississippi da New Orleans alla valle fluviale del Delta uccidendo, nella sola città di Memphis, più di 7000 individui .
Una testimonianza è particolarmente utile a ricostruire l’esperienza migratoria di alcuni dei primi italiani di Memphis ed è quella dell’italo-americano (di seconda generazione) John Daniel “Dan” Martini, il cui avo “Captain Joe” Martini emigrò nel 1903 da Bassignana, all’età di 7 anni. Joe (Giuseppe) fu uno dei tanti truck-farmers (agricoltori) che cercò nella regione del Delta una nuova valle del Po: “The climate in Memphis” – afferma John – “was similar to the climate in the Po River Valley, moderate, with four distinct seasons. So many of the Italian truck farmers settled in this area”. Joe continua poi, descrivendo l’attività lavorativa di quegli uomini e di quelle donne:

They made their money with back breaking labor. The women would pick vegetables during the day, wash them in the creek, and pack them into barrels and crates […] Poplar [Avenue] was a gravel road. Daddy would take the vegetables all the way to Front Street in a double wagon pulled by two horses. He would leave at midnight to get there by daybreak, sell out and come home to do it all over again .

In effetti, molti tra gli emigranti italiani della zona si rivolsero alle attività agricole, confidando nella fertilità della piana fluviale formata dal Mississippi e dallo Yazoo – e molti tra essi riuscirono a sviluppare dapprima piccole attività di import-export di ortaggi e frutta e, quindi, ad aprire i loro negozi nel centro cittadino di Memphis, dove riuscirono ad acquistare palazzine in cui viveva e lavorava, nella rivendita ubicata al piano terra, l’intera famiglia. The Italian Gardeners, la società di mutuo soccorso tra agricoltori italiani, fu costituita nei primi anni del Novecento e venne riconosciuta solo nel 1950, quando il suo statuto fu approvato dallo stato ma, dobbiamo presumere, il potere economico e sociale di quella che era diventata, in meno di un secolo, una vera e propria gilda di operosi coltivatori e venditori (all’ingrosso e al dettaglio) di ortaggi, occupò sin dal primo decennio del secolo un ruolo rilevante nell’economia cittadina, regionale e statale.
In tutta la città fiorirono, difatti, a partire da quella gestita da Antonio (Tony) Campagna, all’angolo di Beale Street e Main Street, svariate bancarelle di frutta e, intorno alla metà degli anni Trenta, lo strapotere dei coltivatori italiani si esplicò nell’apertura di un mercato contadino (farmer’s market) tra Washington Street e High Street nell’aprile del 1935. Gli organizzatori dell’impresa furono i membri, a prevalenza italiani, della Shelby County Growers Association; in città, inoltre, Clemente Santi aveva aperto, tra la fine del 1934 e l’inizio del 1935, il primo dei molti negozi che avrebbero costituito la catena denominata WeOna Food Stores .
Parallelamente alla crescita economica della comunità italiana di Memphis, il bisogno di organizzare i migranti italiani dispersi in piccole comunità familiari (sia rurali, sia urbane) condusse al rafforzamento dell’associazionismo, così che, al passaggio tra il vecchio e il nuovo secolo, nel 1900, fu istituito il capitolo locale dei Knights of Columbus, l’associazione per la difesa dei valori cattolici fondata nel 1882 da Michael J. McGivney. Inutile dire che gli italiani, molti dei quali ormai di seconda generazione, ebbero un ruolo importante nella fondazione del capitolo. Tra i fondatori figurava tra gli altri, Frank L. Monteverde, futuro sindaco di Memphis nel 1918, nato in Tennessee ma di madre e padre italiani.
Anche la Società di Unione e Fratellanza Italiana si espanse e, per accomodare i nuovi membri (a questa data 300), nel 1905 ottenne in comodato d’uso dal governo un salone ubicato ai civici 136-138 di South Second Street, subito ribattezzato The Italian Hall e che fu il teatro di tutte le più importanti riunioni della colonia italiana di Memphis, inclusa quella in cui, il 16 giugno 1940, gli agricoltori italiani ripudiarono gli ideali fascisti e dichiararono la loro fedeltà al governo degli Stati Uniti a seguito dell’entrata in guerra dell’Italia il 10 giugno . Solo sette anni prima, invece, gli umori della comunità italiana nei confronti del fascismo non furono così negativi, se è vero che una delegazione di un centinaio di uomini partì per Chicago, per accogliere la squadriglia di 20 idrovolanti guidati da Italo Balbo .
Lo stesso anno vide l’iscrizione nella City Directory di una nuova associazione italiana, la Società di mutuo soccorso “Vittorio Emanuele III”, che avrebbe dato vita, nel 1936, fondendosi con la Società di Unione e Fratellanza, alla nuova Memphis Italian Society. A quest’altezza cronologica è ancora difficile fornire un numero esatto di italiani residenti a Memphis, sebbene il quotidiano locale “Commercial Appeal” riferisse che al trentesimo Italian picnic organizzato nel 1900 già partecipassero “migliaia” di persone . Bisogna credere a questi numeri se è vero che in quegli stessi anni sarebbero fioriti alcuni quotidiani in lingua italiana, a testimonianza di una colonia abbastanza numerosa da esigere un foglio in lingua: il “Corriere italiano” (1906-1908), “L’Appello Coloniale” (edito da John Galella tra il 1909-1920) e, infine “The Italian-American Citizen” (pubblicato da Mario Chiozza, Ubaldo Andreuccetti e John Galella per buona parte degli anni Venti) .
I numerosi italiani di Memphis fondarono quindi, nel secondo dopoguerra, un Country Club (1949), che rispecchiò la volontà di una colonia ormai largamente americanizzata, di ospitare serate di beneficenza che coinvolgessero la società autoctona e non più solo quella d’oltremare.

3. MUSICISTI, FILANTROPI E PATRIOTI. GLI ITALIANI DI NASHVILLE
Sappiamo dai rapporti governativi che un negoziante di nome “Bozza” viveva e lavorava a Nashville nel 1850, mentre alcuni certificati di morte testimoniano che una famiglia Longinotti, proveniente dalla Liguria, perse due bambini nel 1854, quando un incendio domestico distrusse la loro casa di Nashville. Una generazione prima, nel giugno 1819, i Longinotti avevano perso, stavolta per malattia, un altro bambino, Albert, di nemmeno 2 anni .
Un altro italiano, Antonio Gotto, fu inumato nel 1912 in un piccolo camposanto (oggi bonificato) nella fattoria di famiglia, che si trovava al 1721 di Murfreesboro Road (poi Old Murfreesboro Pike). Secondo la testimonianza del pronipote Jim Gotto, Antonio era nato “in Italy or Sicily” l’8 gennaio 1809 e si era imbarcato per l’America dal porto di Genova. Scoppiata la guerra civile, “quando aveva circa 19 anni”, Antonio si era stabilito nei pressi di Murfreesboro Road e, nel 1864, comprò da Jacob McGavock Jr. un appezzamento di terra in quella località. Gotto era membro della chiesa cattolica di St Mary nel centro cittadino di Nashville ed aveva lavorato alla costruzione del Campidoglio, alle fognature cittadine e a “altre strutture in muratura lungo la ferrovia Nashville, Chattanooga, St Louis” .
Le fonti restano poi silenziose sino al 1880, anno per il quale la Nashville City Directory ci segnala Carlo (Charles) e Giovanni (John) Pellettieri. Proprietari di un saloon e si di un negozio di frutta e una pasticceria al 302 di Church Street, i Pellettieri erano anche i manager di una Italian String Band avente sede al 346 della stessa strada. Nella guida cittadina la banda era pubblicizzata come gruppo ideale per “music […] balls, private parties etc. etc.”
Questa banda sarebbe diventata parte della tradizione che vede Nashville come la Music City americana per antonomasia, dal momento che nel gruppo musicale iniziò la sua carriera Vito Mario Pellettieri (1889-1974) prima di diventare stage manager del Grand Ole Opry .
Otto anni dopo, un breve articolo intitolato Italians in Nashville: A Fruit Vendor Talks about his Countrymen apparve su “The Nashville Tennessean”. Sappiamo dalla persona intervistata, un non meglio specificato – e forse inventato – “Signor Romeo”, che “circa ottanta italiani” vivevano a Nashville e che “quarantadue nomi erano contenuti in una lista” circolante tra i membri della colonia. Molti tra loro, continua la fonte, “si trovavano bene e, generalmente meglio, rispetto al loro arrivo a Nashville”. Nei giorni in cui l’intervista venne pubblicata, gli italiani non erano impiegati unicamente nell’ambito musicale (come l’intervistatore, con una punta di sarcasmo, diceva di aspettarsi), ma tra essi figuravano “alcuni lavoratori molto abili”, a Nashville come nel resto del paese. “Alcuni di loro” – aggiunge Romeo – “hanno una rivendita di prodotti ortofrutticoli […] altri sono musicisti professionisti, [..] altri esperti muratori, […] altri ancora lavorano nelle fabbriche di sigari e dolciumi” .
La banda dei Pellettieri fu protagonista delle celebrazioni del Columbus Day del 1892, suonando tra i discorsi ufficiali della autorità e le pubbliche benedizioni impartite dal clero locale. Il complesso fu acclamato dalla “vasta moltitudine” che tentò di entrare nello Union Gospel Tabernacle (oggi il famoso Ryman Auditorium, considerato universalmente The Mother Church of Country Music) non senza qualche turbolenza. I colori italiani, lo stemma sabaudo e il e uno striscione con il nome “Genoa” campeggiavano al centro delle celebrazioni, dove troneggiava pure un gigantesco ritratto di Cristoforo Colombo .
Seppure in via di espansione e piuttosto vivace, la comunità italiana di Nashville rimaneva ancora abbastanza ridotta nel numero dei suoi componenti, come testimoniato da un dossier preparato nel 1904 dal vescovo, monsignor Thomas Sebastian Byrne. Rispondendo a un’inchiesta del Vaticano circa la composizione etnica della sua diocesi, Byrne comunicò che essa comprendeva solo 60 italiani su 16.373 cattolici, aggiungendo che i preti italiani erano solo 2 su 60 .
Mentre gli italiani di Nashville diventavano gradualmente parte della società americana, un nuovo capitolo della loro integrazione stava per incominciare. Nel 1908 l’Unione italiana (Italian Union) fu registrata tra le associazioni autorizzate dallo stato del Tennessee. Nella domanda di iscrizione al registro, lo scopo dell’associazione è indicato nello “svago sociale, miglioramento intellettuale e morale degli italiani di Nashville (e dintorni) e la promozione di una buona cittadinanza” .
Il presidente dell’associazione, Evaristo V. Ghidoni, giocò un ruolo importante nel processo d’integrazione suo e degli italiani di Nashville. In seguito al riconoscimento dell’Unione italiana, Ghidoni, descritto come “un gentiluomo italiano colto e molto divertente, che ha deciso di fare di Nashville la sua nuova casa”, pensò di aprire una scuola serale gratuita per i suoi compatrioti in città a partire dall’ottobre di quello stesso anno . Ghidoni organizzò incontri settimanali insieme a sua moglie, di nazionalità americana, che si occupava delle lezioni di lingua inglese; Evaristo impartiva invece lezioni di italiano.
L’Unione italiana contava ora all’incirca trenta membri effettivi, che si riunivano ogni domenica “in un bellissimo salone su Broadway” per ascoltare i discorsi di Ghidoni. In un’intervista pubblicata dal “Nashville Tennessean”, il presidente dell’Unione italiana affermò che i suoi connazionali avrebbero dovuto essere “meglio informati sulla nazione in cui vivevano e che avrebbero dovuto capire meglio di politica per essere elettori maggiormente preparati” . Le parole di Ghidoni dimostrano un chiaro impegno da parte della giovane Unione italiana ad incentivare l’“americanizzazione” dei propri membri (che comprendevano, all’incirca, il 50% della popolazione italiana di Nashville nel 1908) attraverso l’insegnamento della lingua locale e all’insegnamento delle leggi e della politica. Il fine ultimo di questa operazione era naturalmente quello di favorire l’integrazione degli italiani a ogni livello sociale e a sviluppare un sentimento nazionale radicato nei confronti della nuova patria.
Mentre la comunità italiana di Nashville tentava di diventare parte integrante della sua nuova nazione – e, come apprendiamo da alcuni articoli pubblicati nei quotidiani locali, si guadagnava un certo rispetto da parte dei locali – i suoi membri non persero i loro legami con la madrepatria. Nel 1908, in occasione dei terremoti di Messina e Reggio Calabria, la colonia di Nashville creò numerosi comitati ad hoc per raccogliere fondi da mandare in Italia in soccorso delle zone più colpite. In un paio di giorni l’Unione italiana raccolse la ragguardevole cifra di $620,35, ricevendo un aiuto significativo da parte dell’intera comunità di Nashville, inclusa la popolazione non cattolica. Secondo Ghidoni, che sosteneva di essere l’unico protestante italiano della città, l’intera comunità mise da parte le proprie differenze per offrire solidarietà alle vittime siciliane e calabresi, ora ritenute appartenenti alla stessa nazione, nonostante la Trinacria sarebbe stata a lungo percepita come terra altra rispetto all’Italia .
Nel 1909, quando Ghidoni organizzò nuovi incontri di beneficenza in favore delle aree italiane colpite dal sisma, il numero di italiani che vivevano a Nashville aveva raggiunto quota 300. Questa seconda raccolta fondi fruttò la bellezza di $1028,90 che furono consegnati nei primi mesi dello stesso anno all’ambasciatore italiano a Washington. La raccolta fondi risultò inoltre nel riconoscimento ufficiale della piccola colonia di Nashville da parte “delle autorità italiane di Washington e New Orleans” .
Quando, nel 1917, il presidente Woodrow Wilson dichiarò lo stato di belligeranza degli Stati Uniti gli italiani di Nashville reagirono con ardenti dichiarazioni di patriottismo: il giovane napoletano Domenico (Dominick) Petruccelli e l’ex-garibaldino bergamasco Carlo Zenoni, entrambi emigranti di prima generazione, dichiararono pubblicamente la loro intenzione di rispondere alla chiamata del “loro” presidente Wilson e di arruolarsi nell’esercito americano.
Petruccelli e Zenoni erano personalità di spicco dell’Unione italiana: il primo aveva già fatto parte dell’esercito italiano nel 1906 ed era rientrato in Italia appositamente per imbracciare il fucile solo due anni dopo aver abbandonato una prima volta la Penisola alla volta di Nashville, quando aveva diciassette anni. Sotto le armi, fu chiamato a Reggio e Messina, nei giorni immediatamente successivi al terremoto del 1908 e fu incaricato di sorvegliare l’area intorno al Vesuvio durante l’eruzione dello stesso anno. Zenoni era stato volontario nell’esercito garibaldino nelle campagne del 1866 e 1870 contro gli austriaci: come Petruccelli, Zenoni si era naturalizzato americano e scalpitava per diventare un soldato di Uncle Sam nonostante la sua età ormai avanzata.
Questo esempio di patriottismo italoamericano non rimase un caso isolato e un altro giovane italiano, emigrato nei primi anni del secolo da Modena, sarebbe diventato di lì a poco il primo straniero a servire, da volontario, i colori a stelle e strisce dello stato.
Primo Bartolini arrivò a Nashville nel 1907, seguendo un percorso che dall’Università di Bologna lo condusse a Ellis Island, quindi a Covington (Indiana) dove insegnò lingue moderne, poi in Missouri, dove conseguì un Bachelor of Arts prima di trasferirsi nella capitale del Tennessee. Qui Bartolini insegnò in diverse scuole e istituti della città (da Boscobel College, una scuola femminile, a Fisk University, presso cui fu il primo docente non di colore di sempre), divenendo un intellettuale più volte menzionato dalla stampa locale come patriota in grado di infiammare i cuori dei suoi connazionali, uomo di poliedrici interessi e vasta cultura .
Primo non-Tennessean a partecipare al draft di selezione per l’esercito americano, Bartolini fu anche e soprattutto poeta d’amore, di nostalgia e di guerra. Vinse, con tanto di congratulazioni personalizzate del presidente Wilson, un concorso poetico del “New York Sun”, che selezionava la migliore poesia avente per tema il patriotic knitting. Bartolini partì quindi brevemente per la guerra e tornò a Nashville senza aver mai visto un soldato nemico, confinato come fu nella caserma di Vancouver NY, dove servì la patria come docente di francese per gli ufficiali. Rientrato a Nashville continuò a contribuire significativamente alla società americana e italiana con varie iniziative, divenendo attivissimo protagonista del Club italiano e fondando, insieme con il baritono Gaetano Salvatore De Luca, il Nashville Conservatory of Music, che fece della città la capitale delle arti liberali del Mid-South.
Primo morì nel 1959, quando quel “piccolo, sparuto gruppo di emigranti italiani che si incontravano la domenica pomeriggio nella sede del Club Italo-Americano” era ormai completamente integrato (lo si capisce anche dal nome che esso assunse dopo gli anni Trenta: Italian-American Club, al posto del vecchio Italian Club) sotto la guida di Dominick Petruccelli (lui, il giovane volontario a Reggio e Messina) e Vincent Mammarelli. Ormai “as American as the Whittler’s club at the village store”, il club italiano si era trasformato gradualmente da una scuola di americanità e di buona cittadinanza in un circolo ricreativo, avendo ottenuto il riconoscimento di stato nel 1921, fino a diventare, nei primi anni Cinquanta, un’importante associazione impegnata a raccogliere fondi per molteplici attività di beneficenza e stabilmente acquartierata in uno degli angoli più esclusivi della città: all’angolo tra West End Avenue e Craighead .

4. GLI EYE-TALIANS DELL’APPALACHIA.
I COLONI DI KNOXVILLE
A differenza delle colonie di Memphis e Nashville, le testimonianze relative alle prime comunità italiane di Knoxville sono molto più limitate. Nonostante gli sforzi lodevoli del personale dell’East Tennessee History Center e, in particolare, dei curatori della Calvin M. McClung Collection, le fonti su cui è possibile basarsi per uno studio dei primi arrivi di migranti italiani nella città dell’East Appalachia sono piuttosto esigue.
La trascrizione di un’intervista/conferenza di John Rebori (1990 circa), emigrante di terza generazione e membro di una delle famiglie italiane più influenti di Knoxville è, allo stato attuale della ricerca, l’unica fonte attendibile. Si tratta di un documento di taglio largamente divulgativo che però rende una testimonianza ricca di dati e aneddoti sulle prime presenze italiane in città . Rebori, nipote di uno dei primissimi emigranti italiani di Knoxville, dice che tra il 1850-1870 in città si trovavano solo due persone nate nella Penisola. Il loro numero non crebbe di molto negli anni che seguirono, se è vero che nel 1880 si erano stabiliti nel territorio cittadino solo altri due individui; il loro numero salì a 5 (in totale) nel 1890 e a 12 nel 1900 . La tendenza non si invertì neppure negli anni successivi e, sempre secondo Rebori, solo una mezza dozzina di famiglie italiane (di cui il padre e la madre erano effettivamente nati in Italia) popolava la zona di Knoxville.
Più che la storia di una vera e propria colonia, si tratta quindi di ricostruire alcune vicende individuali dei migranti che hanno lasciato un qualche segno in città dopo essere arrivati, perlopiù per caso, ai piedi degli Appalachi. Rebori sostiene che i primi immigrati italiani fossero “marble workers”, che si stabilirono nella zona delle cave di marmo ad est della contea di Knox, nelle comunità di Asbury e Marbledale tra il 1820 e il 1830. Tuttavia, per sua stessa ammissione, non esistono vere e proprie testimonianze scritte relativamente a questi uomini.
La City Directory cittadina permette di risalire alla probabile prima presenza italiana attestata a Knoxville . Nel 1850 è registrata la presenza di John (Giovanni) Riccardi, co-proprietario di una panetteria/pasticceria insieme con Joseph Dunkerly. La Riccardi & Dunkerly era situata su South Gay Street, tra Cumberland e Church avenue. Giovanni emigrò a Knoxville con il fratello Pietro, nel tentativo di lasciarsi alle spalle i problemi economici della famiglia (fiorentina), caduta in disgrazia a seguito di un giro di assegni falsi. Anche di Pietro (Peter) Riccardi c’è qualche traccia nella City Directory del 1850: aprì un negozio di frutta e verdura all’angolo sud-occidentale di Gay Street e Union Avenue.
La storia dei due fratelli Riccardi è ricca di colpi di scena, di natura principalmente economico-finanziaria. Pietro ebbe in Peter Kern (di origini svizzere) un formidabile avversario in affari, in grado di vendergli una piccola “soda fountain” dotata di macchina per gelati, corrompendo i mocciosi della zona per simulare un giro d’affari in realtà inesistente .
Pietro non riuscì a risollevare le proprie sorti economiche e, dopo pochi anni, rimase in arretrato con le rate del mutuo che l’intransigente presta-soldi pretese senza concedere proroghe e, infine, pignorandogli l’attività. Nel suo memoriale Rebori avanza un gustoso retroscena a spiegazione dei problemi economici di Riccardi: quest’ultimo sarebbe stato un sostenitore della causa confederata, mentre il suo “aguzzino” finanziario un generale dell’Unione .
Le buone qualità nel campo imprenditoriale permisero ai fratelli Riccardi di dare vita a non meglio specificate “successful business initiatives” negli anni a venire. Ciò prima che un incidente stradale si portasse via Pietro, ucciso da un attacco cardiaco in seguito a un disarcionamento da cavallo causato, pare, dalla manovra azzardata di un tram. Aveva 62 anni, ed era il 1889. Il fratello morì invece nel 1900, appena compiuti gli ottant’anni .
Nel 1859 la City Directory registra l’attività di un imbianchino italiano chiamato Lorenzo Bencini (cognome distintamente toscano, di area fiorentina) che non ha lasciato tracce di sé, a differenza di un altro italiano, un ligure, che sarebbe arrivato a Knoxville di lì a trent’anni.
Fiorenzo Ernesto Rebori, avo del nostro John, giunse in città dalla costa est e, inizialmente, il suo viaggio sulle rotaie posate solo pochi anni prima dalla Tennessee Valley Authority (TVA), si sarebbe dovuto concludere a Memphis. Il treno si fermò in città a causa di una bufera di neve, per cui Fiorenzo decise di fare una passeggiata lungo Gay Street, nel centro cittadino. Qui incontrò un italiano, di Napoli, Raffaele (Raf) Marmora, che portava avanti un piccolo negozio di ortofrutta, il Marmora Fruit Co. in cui lavorava Federico (Fred) Maroni. Fu quest’ultimo a convincere Fiorenzo Rebori a restare in Appalachia, visto che Knoxville era “a good town [for business]” . In breve tempo, mentre Raf moriva nel sanatorio di Asheville, quattro anni dopo la tragica scomparsa della moglie, arsa viva in un incendio domestico, Fiorenzo diventò “The Peanut King”: fece infatti fortuna vendendo noccioline tostate e gelati in un baracchino posizionato tra Gay e Vine Street, all’angolo della biblioteca civica. Quando questa si trasferì, nel 1915, l’attività di Rebori fu minacciata da altri imprenditori locali, che miravano ad acquistarne l’edificio, anche per mettere fuori gioco quel filiforme Eye-talian con i baffetti che invidiavano per il suo successo.
Rebori capì che i suoi rivali locali non avrebbero mai permesso che un storico edificio della città fosse venduto a un emigrante italiano e agì d’astuzia. Tornò in Italia e lasciò che a partecipare all’asta giudiziaria per l’assegnazione del palazzo fosse un suo nipote adolescente, Giovanni (John) Brichetto. L’impertinente ragazzino prese a ribattere colpo su colpo le offerte dei concorrenti, alzando così la posta e infastidendoli a tal punto che tutti, uno dopo l’altro, si ritirarono, ritenendo che il tutto fosse un gioco del monello. Non appena l’offerta sul piatto ammontò a $63.000 l’ultimo degli offerenti si ritirò sfidando il ragazzo a produrre il denaro. Dopo pochi minuti gli astanti lo videro tornare con i fondi che lo zio aveva svincolato presso la propria banca prima di partire .
La fama di Rebori, che sarebbe di lì a poco rientrato a Knoxville con moglie al seguito, crebbe e, grazie al suo ingegno, fu presto riconosciuto dai locali come “Real East Tennessean”. Rebori acquistò, nel giro di poco tempo, diversi palazzotti nel centro della città e chiamò quello nel quale elesse la propria residenza, tra Vine Avenue e Walnut Street, “Genoa” in onore della sua città natale .
I migranti genovesi ebbero un impatto anche nel campo dell’intrattenimento dei cittadini di Knoxville. Ernesto Rebori, difatti, convinse la sorella Teresa, sposata a un Giovanni Brichetto, a raggiungerla nell’East Tennessee. I due si trasferirono con i quattro figli: Elena, Chiara, Giovanni e Lorenzo. Rebori aiutò la famiglia ad aprire una rivendita di ortofrutta al 119 di Gay Street. La loro attività dovette fruttare un buon gruzzolo, se è vero che nel 1901, i Brichettos riuscirono ad acquistare un intero palazzo al 425 di South Gay Street e aprirono un secondo e più grande negozio. Alla morte dei genitori, poi, Lorenzo (Lawrence) e lo scaltro Giovanni (John) Brichetto – quello dello “scherzo” dell’asta pubblica – chiesero aiuto economico allo zio per aprire un cinema. Ernesto Rebori accondiscese a finanziare l’impresa, che permise ai due di aprire il Picto, piccola sala di proiezioni su Central Avenue, nel quartiere di Happy Hollow. I giovani Brichetto riuscirono in seguito a costituire una vera e propria catena di sale cinematografiche sparse sul territorio cittadino: il Crystal e il Ritz su Gay Street, il Broadway nel quartiere di Arlington, il Gay in quello di Burlington e il Savoy su Western Avenue .
Oltre alla presenza genovese e napoletana, a Knoxville si aggiunse, all’inizio del Novecento, anche quella siciliana. Nel 1902, Michele Armetta lasciò la Trinacria per raggiungere la zia, che aveva un negozietto nel French Market di New Orleans. Stancatosi della vita di negoziante, Armetta cercò impiego, trovandolo, presso una ditta appaltatrice di lavori ferroviari. In quei giorni la costruzione di nuove linee per la Southern Railroads e per la TVA rappresentava un’ottima possibilità di lavoro per molti operai non specializzati. Gli italiani, in questo senso, erano molto ambiti dai padroni rispetto agli altri gruppi etnici in quanto universalmente riconosciuti come lavoratori indefessi e, soprattutto, poco dediti al consumo di alcolici. Campo nel quale eccellevano invece, ad esempio, tedeschi e irlandesi, per questo spesso snobbati dai costruttori .
Dopo sei anni di lavoro sui tracciati ferroviari, la ditta di Armetta si trovò a passare da Knoxville. Probabilmente il clima mite, la bellezza del paesaggio nel periodo primaverile e una città ancora ricca di possibilità per un giovane voglioso di aprire una propria attività ingolosirono Michele a rimanere e aprire una piccola produzione di gelati, The Liberty Ice Cream Co, all’angolo di Central e Jackson Avenue. Il suo negozio divenne in breve tempo un luogo di ritrovo per gli italiani di Knoxville, una specie di club non ufficiale in cui riunirsi la domenica pomeriggio per parlare delle ultime notizie giunte dall’Italia, discutere di affari, giocare a carte e cantare le canzoni della propria terra .
Esistono poche e sparse informazioni circa altri italiani che scelsero Knoxville come loro nuova dimora: il piastrellista piemontese Giuseppe (Joseph) Beretta che, insieme al fratello Giovanni (John), lavorò a importanti edifici della città (The University of Tennessee, gli ospedali locali, la TVA Tower, le sedi della YMCA e YWCA), dello stato (Vanderbilt University Stadium) e del paese (Oklahoma University Stadium); o come i fratelli Giuseppe e Riccardo Lobetti, impresari agricoli lombardi che rimasero in città dal 1916 al 1938, quando decisero di vendere le loro terre e ritornare in Italia .
Una vera e propria Italian Society fu fondata a Knoxville solo nel 1980, a riprova delle difficoltà dei pochi italiani locali a costituire una colonia, privilegiando la strada del lavoro individuale e della completa integrazione nella nuova società americana.

5. STORIE DI EMIGRAZIONE, STORIE DI INTEGRAZIONE
La vita delle comunità italiane esaminate testimonia alcune tendenze degne di nota e che conviene tenere presenti nell’ottica di una futura analisi più approfondita dei flussi migratori verso il Mid-South. Anzitutto, gli emigranti che decisero di stabilirsi in Tennessee lo fecero per due motivi. Il primo: alla ricerca di terre fertili da coltivare e che potessero rassomigliare, per clima e conformazione oro-geografica alle zone d’Italia che avevano dovuto abbandonare. E questo vale principalmente per coloro che puntarono a una nuova vita nella zona del Delta, a Memphis e nei dintorni del fiume Cumberland nei pressi di Nashville. Il secondo motivo, come dimostra il caso di Knoxville, è legato a circostanze contingenti quanto imprevedibili di ogni singola storia, visto che alcuni (in realtà sembrerebbe una ricorrenza abbastanza comune e frequente) migranti diretti a sud si fermarono in una piccola città in forte espansione e con una fama pressoché immacolata, a differenza dei centri urbani maggiori, nei quali spesso gli italiani venivano discriminati e, talvolta, anche colpiti da indicibili violenze.
I migranti giunti in Tennessee partirono da un numero abbastanza limitato di regioni italiane. Pochi, rispetto ai conterranei che si fermarono nei grandi bacini delle città orientali, quelli di origini meridionale. La quasi totalità arrivò invece da nord, con Piemonte e Liguria in testa. A seguire emiliani e friulani, con quest’ultimi che colonizzarono il villaggio rurale di Paradise Ridge che, con i suoi “soli” 52 autoctoni, accolse ben 90 udinesi alle soglie del 1903 .
Le storie dei singoli e delle piccole comunità permettono di abbozzare qualche considerazione preliminare sulle modalità e sulla qualità di integrazione delle tre comunità italiane descritte in questo saggio – che fu particolarmente rapida e favorì una loro progressiva quanto irreversibile americanizzazione.
I documenti, incluso il Dillingham Report, che spicca per molte considerazioni apertamente razziste nei confronti delle comunità “aliene” presenti in Nord America, mostra con certezza un’integrazione molto precoce dei coloni italiani. Questo accadde soprattutto nelle comunità rurali, come quella di Paradise Ridge, i cui membri furono apertamente lodati dagli emissari governativi che li definirono senza indugi “buoni cittadini […] pienamente americani” . Negli stessi anni le relazioni tra le colonie italiane nel Mid e Deep South erano ben più problematiche, se si pensa ai casi del Missouri, dall’Alabama e della Louisiana, in cui gli immigrati erano confinati in veri e propri ghetti, baraccopoli sporche e malviste dagli americani, non dissimili dalle Little Italies fiorite a inizio secolo a Chicago, New York e San Francisco. Nel Sud, ad esempio, la colonia di Birmingham, AL, distante meno di 200 miglia da Nashville, soffrì episodi di aperta e pesante discriminazione e solo dopo molti anni fu possibile ai migranti, quasi tutti provenienti dalla sicula Bisacquino, riuscire a essere a malapena sopportati dalla popolazione autoctona .
Qui i “Dirty Eye-talians” erano frequentemente accusati di avere una scarsissima igiene personale (in verità uno stereotipo diffuso nell’America di allora), come si può leggere in parecchi articoli pubblicati ne “Il Gladiatore”, foglio settimanale della comunità italiana di Birmingham, che incitava i propri membri a “lavarsi la faccia” . Nel Sud molti italiani venivano ingiustamente accusati di reati mai commessi e, come dimostra, a solo titolo di esempio, il controverso caso del linciaggio di Tallulah, LA, anche atti di efferata quanto ingiustificata violenza mossa dall’odio razziale .
Il fatto che le tre colonie di Nashville, Memphis e Knoxville abbiano potuto svilupparsi senza incorrere in evidenti episodi di discriminazione – se si esclude qualche minimo caso di competizione, specie economica, come nel caso di Ernesto Rebori, temuto e invidiato per il suo successo dagli imprenditori locali – è un dato da tener presente negli studi successivi sull’emigrazione in quest’area nordamericana.
Il processo di integrazione della colonia di Nashville, inoltre, consolida ed amplia la nostra conoscenza del fenomeno della partecipazione sociale e del desiderio di integrazione espresso dai migranti italiani – specialmente da quelli di prima generazione – trasferitosi in Tennessee e nel Mid-South .
Contrariamente ai loro connazionali sparsi negli altri stati, gli italiani di Nashville si mostrarono pronti a tagliare nel giro di pochi mesi molti dei loro cordoni identitari con la madrepatria – e, specialmente, quelli linguistici come testimoniano le parole di Ghidoni e il progetto della sua scuola serale – per poter essere considerati “veri” americani prima ancora di firmare i documenti di naturalizzazione. Gli sforzi di Ghidoni per favorire una migliore educazione e la cittadinanza attiva della comunità italiana attraverso l’insegnamento dell’inglese, “lingua del commercio e degli affari” dimostra ampiamente quanto sia approssimativa la generalizzazione stereotipica che vede ogni comunità italiana all’estero come un gruppo etnico volutamente isolato dagli altri e, in special modo, dagli autoctoni.
Al contrario, gli italiani di Nashville, Memphis e Knoxville, pur mantenendo la loro identità culturale attraverso la fondazione di associazioni italiane che si informassero sulle questioni politiche della Penisola e mantenessero vivo il ricordo nostalgico della loro terra d’origine, rinunciarono poco a poco alla loro “italianità”, spesso solo rappresentata da toponimi (il “Genoa” di un Rebori ormai “re” delle noccioline, nonché e scaltro e rispettato “real East Tennessean”), simboli, gagliardetti e bandiere sventolati in occasione di manifestazioni pubbliche, quali quelle in onore di Cristoforo Colombo, o di americanicissimi picnics.
Così come aspetti della loro identità italiana iniziarono ad affievolirsi, si accese in quegli immigrati un nuovo spirito, spesso a forti tinte patriottiche, intriso di ideali ispirati alle pulsioni rivoluzionarie risorgimentali ma fortemente radicato, ora, negli ideali libertari del nuovo mondo.
La prima guerra mondiale, in particolare, ebbe un notevole valore “americanizzante”, come ben testimoniano le storie degli italiani di Nashville e, in particolare, di Primo Bartolini, in una terra nella quale coesistevano una miscela di lealtà verso il vecchio mondo e il desiderio dei migranti di essere accettati e riconosciuti nella società e nella vita pubblica delle loro città d’adozione.
È emblematico osservare da vicino proprio lo shift identitario del nostro Bartolini che, naturalizzato nel 1931 – e, un tempo, fervente patriota italiano (scrisse una serie di poesie “di guerra”, tra cui una intitolata My Italian Flag) – montò un’asta sul tetto della propria casa, quella costruita sui ruderi della dimora di William Driver, e, proprio come il vecchio lupo di mare americano, prese a issarci la ormai “sua” Old Glory nei giorni di festa nazionale. Intervistato nel 1953 da un quotidiano locale, Bartolini pare avesse composto al momento, interrogato circa i suoi sentimenti di appartenenza americana, alcuni versi quantomeno rivelatori, proprio mentre sul tetto della dimora – sua e della moglie Maria Cardinale da Napoli – The Star Spangled Banner garriva nel vento del Sud (Fig. 1). In questa sua quartina è ben racchiusa l’esperienza di molti emigranti italiani in Tennessee: piccole comunità che già a partire dal primo dopoguerra avevano scelto senza ombra di dubbio – americanizzate (quasi) alla perfezione – quale fosse la loro nuova casa:

I proudly raise my flag;
I do it every day:
It flies above my home,
The place I chose to stay.