Nuove fonti ecclesiastiche per lo studio degli italiani negli Stati Uniti

L’utilizzo delle fonti ecclesiastiche, ed in particolare di quelle romane, per lo studio dell’emigrazione italiana verso il Nord America è un dato acquisito nel panorama storiografico degli studi migratori . Tuttavia, se da un lato si ha ormai una conoscenza chiara e ben delineata della documentazione conservata negli archivi cosiddetti maggiori quali l’Archivio della Sacra Congregazione “de Propaganda Fide” o l’Archivio Segreto Vaticano, dall’altro ci sono archivi, recentemente riaperti o più semplicemente ignorati dalla maggioranza degli studiosi, che possiedono del materiale ancora sconosciuto.
Il progetto in corso “Roman sources for the history of American Catholicism”, coordinato dal CUSWHA Center for the study of American Catholicism della Notre Dame University, ha permesso di trovare del materiale inedito in archivi ancora poco utilizzati per lo studio dell’emigrazione italiana in Nord America . Nello specifico questo articolo si concentrerà su quattro archivi: 1) l’archivio dell’abbazia di San Paolo fuori le mura, 2) l’archivio storico generale dei frati francescani, 3) l’archivio della provincia domenicana romana di Santa Caterina da Siena, 4) l’archivio generale dei servi di Maria.
Il primo archivio esaminato contiene all’interno della serie Miscellanea – scaffale nr. 19 una piccola raccolta di lettere e cartoline scritte da Paolo Marella (1895-1984), che fra il 1922 ed il 1933 fu attivo negli Stati Uniti in qualità di uditore presso la delegazione apostolica di Washington. All’interno della sua corrispondenza, ci pare importante mettere in risalto la lettera che Marella inviò ad un destinatario di difficile identificazione nel marzo del 1922. Quello che colpisce della lettera è l’impressione che un ecclesiastico italiano ha della società americana di quel periodo, soprattutto quando Marella parla della comunità nera: “Qui a Washington ce sono tanti. Sono cittadini Americani con tutti i diritti come gli altri, però fanno scuole, chiese e quartieri separati. In genere molti sono servitori, operai etc.: molti però sono signori e signore con tanto di cappello. A vederli fanno un po’ d’impressione. Un buon numero dei negri degli Stati Uniti è cattolico ma è un’esigua minoranza”. All’interno della stessa lettera Marella fa anche un ironico paragone fra Roma e Washington sottolineando: “Non c’è qui il chiasso di Roma: gli automobili non suonano la tromba che raramente: il traffico è regolato dai poliziotti. Tutti vanno per i fatti loro e sembra che non è più vita mentre ce n’è a mille volte più che da noi. Nei tram, per es[empio], anche quando sono pieni stanno stretti, in silenzio o dovendo dire qualche parola, parlano sottovoce .
Rispetto alla corrispondenza di Marella, la documentazione conservata nel fondo Segreteria generale e Missioni presso l’archivio storico generale dei frati francescani è più eterogenea in quanto raccoglie il fondo della provincia americana dell’Immacolata Concezione per gli anni dal 1848 al 1869. Al di là delle richieste di finanziamento o dei permessi per poter erigere nuovi conventi, la corrispondenza inviata a Roma in quel periodo permette di avere un quadro delle difficoltà che i francescani italiani si trovano a dover affrontare durante il loro apostolato americano. Uno dei problemi che vengono maggiormente enfatizzati è quello del rapporto conflittuale fra clero diocesano e clero regolare, un contrasto sovente alimentato da questioni economiche o di giurisdizione sopra le parrocchie e che affondava le sue radici negli ultimi decenni del Settecento .
A questo proposito è emblematica la lettera che Francesco Caro, un francescano attivo a New York, invia il 31 maggio 1855 al ministro generale a Roma. Il frate sottolinea con una certa polemicità che “[i]o fui in servizio del parroco di St. Stefano per un anno senza salario a riguardo di non sapere la lingua, ricevendo da lui il solo scarso mantenimento. Per vestiario ed altro, devo le mie obbligazioni a mio fratello, il quale è ricco, specialmente dopo aver sposato una signorina cattolica di New York, figlia adottiva del Signor Dacorsi con venti mila scudi di dote. Ritornato l’arcivescovo da Roma, e però dileguate le tenebre, io credetti regolare abbandonare un parroco che mi trattava alla foggia dei Neri”. Altrettanto degna di essere menzionata, anche se dal tono più ironico, è la parte in cui Corso mette in evidenza la difficoltà ad operare in un contesto completamente diverso, soprattutto dal punto di vista linguistico, una problema comune alla grande maggioranza degli ecclesiastici italiani che arrivano in Nord America durante quel periodo . Corso infatti dice che “Il giorno della Pentecoste per la prima volta arringai il pubblico americano nella lingua del demonio cioè in inglese: e fui grazie al Cielo, inteso con soddisfazione.”
Sempre all’interno del fondo relativo alla provincia dell’Immacolata Concezione si trova una lettera che offre una prospettiva “diversa” sull’attività dei francescani italiani negli Stati Uniti. La virgolettatura ci pare opportuna in quanto questo documento viene redatto da un migrante italiano laico, un certo Severo Migli, che agli inizi di settembre del 1868, scrive al ministro generale. Il documento, in un italiano pessimo, dà un’immagine alquanto sconcertante dei francescani. Migli riferisce: “Sono statto per qualche tempo nell cità del Buffalo dove i suoi frati anno una chiesa ciamata San Patrich, e un certo Padre Giacomo è rettore. Vostra riverenza non si meravigli se dico che di scandalo ne da proprio troppo. È cosa nota che detto padre a figli, ed essendo rettore della chiesa a mezi da soportarli. Il medesimo padre a una strettissima amicizia con una signorina che si dice sia organista della chiesa. Questa signorina sta tutto il giorno nella rettoria, e anche assai tardi la sera. Il stesso padre visita frequentemente altre donne che non anno troppo buonna fama. Prima di lui un certo padre Gioachino era rettore, e a dirla chiarra varie povere ragazze furono fatte madri etc. Il stesso padre si trova ora qua in Nuovva York, e non c’è un bordelo che lui non sappia e freqquenti. Gli altri piu o meno sono dello stesso taglio, non connosco il loro nome, perro che si chiamano P.Andrea, P. Leo, P. Michele. P. Andrea specialmente qua in Nuova York e proprio un puttaniere di primo ordine, gli altri non so dove sono ma son sicuro che sono lo stesso. Sento che il superiore sa tutte queste cose, e chiude gli occhi. Sarebbe una benedizionne se li richiamasse tutti in Roma .”
Al di là della lettera di Migli, che può essere considerata come una vera e propria denuncia contro il malcostume di alcuni frati, altri documenti dimostrano come gli ecclesiastici italiani, sia i regolari che i secolari, si ritrovino ad affrontare nel Nuovo Mondo una serie di difficoltà che sembrano precludere qualsiasi prospettiva di sviluppo. Un esempio eloquente è fornito dal carteggio del domenicano Antonino Salvati, al secolo Salvatore di Antonio Salvati, membro del provincia romana di Santa Caterina da Siena, conservato presso l’Archivio di Santa Maria sopra Minerva. La corrispondenza, che copre gli anni dal 1914 al 1921, mette in luce gli ostacoli, sia di natura finanziaria che burocratica, che precludono l’apertura di una casa missionaria della provincia di Santa Caterina negli Stati Uniti. Questo ben si capisce dalla lettera che, il 21 marzo 1921, Salvati manda al suo provinciale, asserendo che “il bel progetto di aprire qui in America una casa di missione, si può dire già abortito fin dal suo nascere. Lascio considerare a Lei l’immenso dispiacere che ne provo, sia pel danno che ne viene alla Provincia, sia principalmente per la brutta figura che io faccio con questo ultimo vescovo. Non le nascondo che da quando ci penso, mi assale una tale tristezza che mi prostra e abbatte. Fin d’ora Le dico, che io non ho il coraggio di ritirare la parola, perciò se la cosa non si effettuerà, pensi Lei a dirglielo direttamente e subito, perché sta in attesa. Ecco il suo indirizzo: Mons Tommaso Walsh, vescovo di Trenton, N.J. 153 North Warren Street. Mi dice anche il fratello che si preferirebbe Brooklyn o New York, e che forse i nostri padri sarebbero disposti a cederci S. Caterina di New York. Altro che cederla, l’hanno già perduta! Perché l’arcivescovo di New York ha sottratto alla giurisdizione dei nostri padri tutti gli italiani e gli ha affidati ad un prete secolare!. E ciò nonostante che i nostri Padri avessero tutto disposto per costruire una chiesa parrocchiale esclusivamente per uso degli Italiani: I vescovi, specialmente d’America, non amano di dare le loro parrocchie ai religiosi .”
Oltre alla corrispondenza di Salvati, l’Archivio di Santa Maria sopra la Minerva conserva anche un altra importante fonte per ricostruire l’attività della provincia di Santa Caterina in Nord America. All’interno della sezione relativa ai fondi personali si trova infatti il diario personale del domenicano Antonino Maria Achille che rimane negli Stati Uniti da gennaio a novembre del 1924. Il suo diario offre molti spunti interessanti in chiave del rapporto clero cattolico-comunità italiane e di attaccamento al cattolicesimo. In particolare è significativa la descrizione che il domenicano fa delle celebrazioni tenutesi in occasione della festività della Madonna del Monte Carmelo presso l’omonima chiesa a New York. Parlando della festività Achille sottolinea con enfasi come “[d]opo la messa sono andato alla chiesa del Carmine. Giunto alla 115 strada ho visto una immensa fiumana di gente, quasi tutta fornita di candele, di ex-voto di cera che si affrettava verso la chiesa. Una cinquantina di metri prima della porta una fittissima folla a stento trattenuta e regolata da Policemen, attendevo il mio turno per entrare in chiesa. Io sono stato accompagnato da un policeman e così ho potuto subito entrare nella rettoria. Che superbo e imponente spettacolo di fede! Quanto concorso di gente di ogni età, d’ogni sesso, d’ogni condizione! Se non si vede non si immagina! E siamo a New York! Quanto fervore di affetto di questo popolo italiano verso la Madonna” . Nella parte finale della sua descrizione Achille esalta il fervore e la devozione dimostrata dalla comunità italiana, collegando il sentimento religioso ad un’idea di nazione chiaramente influenzata dal fascismo . Descrivendo la folla che si accalca per entrare in chiesa, Achille esclama enfaticamente: “Mi sembrava di essere tornato di colpo in Italia e in qualcuno dei più celebri santuari nel giorno della festa. … Si dica quello che si vuole; ma nessun altro popolo del mondo è capace di presentare uno spettacolo simile. È un popolo che ha questa energia in fondo all’anima non può perire .”
Assai diversa è invece l’impressione della comunità italiana data da Agostino Morini (1826-1909), un missionario dell’ordine dei Servi di Maria, che opera fra Chicago e la cittadina di Green Bay, nello stato del Wisconsin, fra il 1870 ed il 1888 . Il suo carteggio, conservato presso l’archivio generale dell’ordine a Roma, dà un quadro alquanto desolante dell’emigrazione italiana negli Stati Uniti alla fine dell’ottocento. Nella lettera che, il 19 gennaio 1887, Morini manda al generale a Roma, il missionario sottolinea con tristezza come: “non è facile davvero trovare il mezzo di provvedere al bene spirituale degli Italiani nell’America Settentrionale. Quelli che si fermano nelle città si sparpagliano per quanto la città è lunga e larga: un gran numero a vendere la frutta col barroccino e nei cantoni delle strade dalla mattina presto fino a mezzanotte, tanto di festa che giorno di lavoro, un altro numero considerevole tengono restaurants, o vendono birra e liquori, parecchi girano per la città e per le campagne a suonare e accattare, e parecchi girano per tutti i chiassoli di giorno e di notte a raccattare stracci, fogli, sigari etc. Anco poi supposto che tutti questi si potessero avvicinare perché in città per la maggior parte, a farli andare in chiesa, non intendono di pagare, altro che un centesimo alla colletta. Quella di pagare pel mantenimento della chiesa e del prete non ci vuole entrare. Ci è poi un gran numero d’Italiani che si spargono in piccoli gruppi, e insieme con Norvegi, Svedesi, Tedeschi e Irlandesi lavorano a fare le stradeferrate, a scavar canali, a scavare nelle mine specialmente del carbone. Ce ne sarà una dozzina in un paesetto, una quarantina in un posto lontano qualche centinaio di miglia da ogni paese, forse in inverno un 30 qua e un 60 là nelle foreste a tagliare gli alberi. Vengono dell’Italia sudici, ignoranti che non sanno neppure i misteri principali della Santa Fede, oppure garibaldini che non parlano altro che oscenità e roba d’inferno contro i preti e contro il papa, e bestemmie di fare oscurare il sole. Per oscenità e bestemmie pare che i Lucchesi riportino la palma”. Morini appare anche molto scettico sulle reali capacità di apportare dei miglioramenti da parte del clero italiano. Infatti egli afferma con franchezza che: “Anco ci fusse abbondanza di sacerdoti italiani che corressero di qua e di là, mantenuti par la sussistenza da Propaganda, cosa si farebbe? L’emigrazione italiana è la più infelice e disonorevole di tutte, e a parere mio due sono le cagioni. 1o perché pel passato in Italia, è stata trascurata almeno in certe parti l’educazione, e 2o perché essendo di natura indolenti non vogliono darsi all’agricoltura, o abbracciare un arte; quindi ci sono qua coloni di tutte le nazioni, eccetto gl’Italiani”. Secondo Morini una possibile soluzione sarebbe “formare costà dei comitati cattolici specialmente nelle città marittime, i quali si occupassero seriamente e con perseveranza della direzione della emigrazione. Questi comitati bisognerebbe che avessero correlativamente altri comitati italiani qua a New York, Filadelfia, New Orleans e San Francisco, con i quali organizzare una corrispondenza onde provvedere la situazione ai nuovi venuti. I comitati d’Italia bisognerebbe conferissero e fossero sotto la direzione dei vescovi delle città marittime. come Napoli, Venezia, Ancona, Livorno etc. Questi vescovi si mettessero in comunicazione con i vescovi di New York, Filadelfia, New Orleans e San Francisco ed esortarli a far creare i comitati qua. I comitati di qua bisognerebbero fussero informati dai Comitati italiani del numero degli emigranti del luogo da dove vengono, delle attitudini dei medesimi e del quando e con qual vascello e per qual porto partono. Uno o due del comitato bisognerebbe soprintendessero all’imbarco e dassero a ciascuno una carta per cui possano essere presi in cura qua all’arrivo, mentre qua dovrebbe esserci uno o due con un sacerdote italiano a riceverli e attendere all’occorrente perché arrivino sani al loro destino. Credo però sarebbe necessario tanto costà che qua un bureau centrale, qua specialmente per trovare le destinazioni. Se fusse possibile persuadere la maggioranza di andare alla campagna e formare delle colonie di agricoltura, il maggiore ostacolo sarebbe superato, ma un sacerdote bisognerebbe venisse con ciascuna colonia”. Nella conclusione della lettera, Morini scende nel dettaglio e descrive la comunità italiana di Chicago, sottolineando come: “la gran maggioranza degl’Italiani qua sono Genovesi e Napoletani. Né gli uni né gli altri parlano l’italiano, ma sì il loro pattoà. I Genovesi specialmente vogliono il loro pattoà, e non intendono bene l’italiano puro. Ci vorrebbero quindi preti genovesi, napoletani, piemontesi per essi. Un altro punto poi da considerare è questo. O l’emigrazione continova, et quidem in larga proporzione, o no. Se continova, e preti che parlino il pattoà di ciascuna sezione sono provveduti, e specialmente se si possono formare colonie, le chiese italiane sussisteranno, ma se diminuisce grandemente, o cessa, e non si possono formare colonie, le chiese italiane diventeranno inglesi di natura sua, per la ragione che la gioventù che vien qua, e i figliuoli che nascono qua si mescolano con gli Americani e imparano l’inglese e non parlano che l’inglese” .
In conclusione, questo breve saggio ha cercato di illustrare nuove fonti per la storia della presenza ecclesiastica italiana negli Stati Uniti fra la seconda metà dell’ottocento ed i primi decenni del novecento. Il materiale riportato non va, però, considerato esaustivo: solo una ricerca a tappeto in questi archivi potrebbe fornire ulteriore documentazione, contribuendo così ad espandere il quadro già molto vasto delle fonti ecclesiastiche romane per lo studio dell’emigrazione italiana in Nord America.

1 Per un quadro sulle ricerche condotte e sul materiale catalogato vedi Giovanni Pizzorusso e Matteo Sanfilippo, Dagli indiani agli emigranti. L’attenzione alla chiesa romana al Nuovo Mondo, 1492-1908, Viterbo: Edizioni Sette Città, 2005. Si vedano inoltre di Sanfilippo: L’affermazione del cat-tolicesimo nel Nord America, Viterbo, Edizioni Sette Città, 2003; Il Vaticano e l’emigrazione nelle Ame-riche, in Per le strade del mondo. Laiche e religiose fra Otto e Novecento, a cura di Stefania Bartoloni, Bologna, Il Mulino, 2007, pp. 339-363; Scalabrini e la Santa Sede (Propaganda Fide e Segreteria di Stato) in rapporto alle missioni per l’emigrazione, in L’ecclesiologia di Scalabrini, a cura di Gaetano Pa-rolin, Agostino Lovatin, Roma, Urbaniana University Press, 2007, pp. 389-409; Breve storia del catto-licesimo degli emigranti, in Cristiani d’Italia. Chiese, società, stato, a cura di Alberto Melloni, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 2011, pp. 987-999, disponibile su http://www.treccani.it/enciclopedia/breve-storia-del-cattolicesimo-degli-emigranti_%28Cristiani_d%27Italia%29/)

2 Questo progetto è diretto da Kathleen Sprows Cummings, Luca Codignola e Matteo Sanfilip-po.

3 Archivio Storico di San Paolo, Roma, scaffale nr. 19, palchetto c, Miscellanea, non fogliato né paginato.

4 Robert Frederick Trisco, The Holy See and the Nascent Church in the Middle Western United States, 1826-1850, Roma, Gregorian University Press, 1962; Luca Codignola, Conflict or Consensus? Catholics in Canada and in the United States, 1780-1820, “The Canadian Catholic History Association ‘Historical Papers’”, 55 (1988), pp. 43-59;

5 Matteo Sanfilippo, L’affermazione del cattolicesimo nel Nord America, cit.; Peter R. D’Agostino, Rome in America: Transnational Catholic Ideology from the Risorgimento to Fascism, Chapel Hill, The University of North Carolina Press, 2004. M. Sanfilippo, L’affermazione del cattolicesimo nel Nord America, cit.

6 Archivio Storico Generale dell’Ordine dei Frati Minori (AGOFM-Storico), Roma, M/119, Immaculatae Conceptionis U.S.A. 1848-1869, f. 33.

7 AGOFM-Storico, M/119, Immaculatae Conceptionis U.S.A. 1848-1869, f. 192rv.

8 Archivio della Provincia Romana di S. Caterina da Siena, Roma, Archivio di S. Maria sopra la Minerva (PR CII13) 3.

9 Archivio di S. M. sopra Minerva, cm III 19 (6).

10 Peter D’Agostino, The Triad of Roman Authority: Fascism, the Vatican, and Italian Emigrant Church, “Journal of American Ethnic History”, 17, 3 (1998), pp. 3-37; Stefano Luconi e Guido Tintori, L’ombra lunga del fascio: canali di propaganda fascista per gli italiani d’America, Milano, M&B, 2004; Anna Ferro e Matteo Pretelli, Gli Italiani negli Stati Uniti del XX secolo, Roma, Centro Studi Emigra-zione, 2005; Matteo Pretelli, Il fascismo e gli italiani all’estero, Bologna, Clueb, 2010, e La via fascista alla democrazia americana. Cultura e propaganda nelle comunità italo-americane, Viterbo, Edizioni Set-te Città, 2012.

11 Archivio di S. M. sopra Minerva, cm III 19 (6).

12 Su Morini vedi Luca Barbaini, Morini Agostino, in Dizionario biografico degli italiani, 76, Roma, Istituto della enciclopedia italiana Treccani, 2012, pp. 852-854, disponibile su http://www.treccani.it/enciclopedia/agostino-morini_(Dizionario_Biografico)/; Agostino Morini, The Foundation of the Order of Servants of Mary in the United States of America, 1870-1883, a cura di Conrad M. Borntrager OSM, e Odir Jacques Dias, Rome, Marianum, 1993; Peter D’Agostino, Italian Ethnicity and Religious Priests in the American Church: The Servites, 1870-1940, “The Catholic Histo-rical Review”, 80, 4 (October 1994), pp. 714-740.

13 (Archivio generale dell’ordine dei servi di Maria, Roma, Epistolae Priorum Generalis seriae II 77, corrispondenza di Agostino Morini, 1887, non foliato nè paginato).