CONVEGNI

Re-Mapping Italian America. Places, Cultures, Identities (Università degli Studi di Roma Tre, 12-13 maggio 2016)
di Eleonora Paggetti

Questo convegno internazionale – organizzato da Sabrina Vellucci, del dipartimento di Lingue, Letterature e Culture Straniere dell’Università di Roma Tre, e da Carla Francellini, del dipartimento di Filologia e Critica delle Letterature Antiche e Moderne dell’Università di Siena, con il patrocinio del John D. Calandra Italian American Institute e dell’Associazione Italiana per gli Studi Nordamericani – testimonia la vivacità dell’interesse per l’italo-americanistica. L’assise ha voluto anche essere un’opportunità per fare il punto sulla situazione, ancora piuttosto in divenire, di tale ambito di ricerca e di insegnamento nel mondo accademico italiano nonché si è presentata come un’occasione per segnalare la necessità di una maggiore diffusione dei cosiddetti Italian-American studies nei curricula delle università di questo Paese, sull’esempio di quanto fatto recentemente all’Università della Calabria con l’istituzione di un corso di laurea magistrale in “cultura e letteratura italiana americana”.
La prolusione di Mary Jo Bona (Stony Brook University) ha fatto luce sull’impossibilità di conciliare il ruolo imposto alle donne dalla cultura tradizionale italo-americana e la volontà di alcune di loro di divenire scrittrici, contravvenendo ogni norma sociale del gruppo etnico di appartenenza. Tale tematica ha accomunato anche gli interventi della scrittrice Maria Mazziotti Gillan e di Maria Anita Stefanelli (Università Roma Tre), che hanno sottolineato il difficile percorso di affermazione dell’identità personale femminile all’interno del più ampio processo di elaborazione e accettazione della propria eredità etnica e culturale.
La rielaborazione dell’identità etnica in chiave storica è stato il filo conduttore dell’intervento di Stefano Luconi (Università di Napoli L’Orientale) sull’impatto della prima guerra mondiale all’interno delle comunità italo-americane e del contributo di Daniela Rossini sui reportage di Amy Allemand Bernardy. Interessanti spunti di riflessione sono stati offerti dalle relazioni di Matteo Pretelli (Middelbury School in Italy), Vito Zagarrio (Università Roma Tre) e Veronica Pravadelli (Università Roma Tre) nell’ambito della storia del cinema. In particolare, Pretelli ha ricostruito l’immagine dei soldati italo-americani nella produzione filmica americana sulla seconda guerra mondiale (nel primo caso), mentre Zagarrio e Pravadelli hanno esaminato le modalità attraverso cui si è manifestato il divario culturale tra le diverse generazioni di italo-americani.
Proprio il luogo comune che caratterizza la figura di questi ultimi nell’immaginario statunitense è stato l’argomento affrontato da Fred L. Gardaphè (Queens College, CUNY), il quale ha tratto lo spunto da alcune scene dalla celebre serie televisiva The Sopranos per sottolineare quelli che lui stesso ha definito “running jokes” relativi alla cultura degli emigrati italiani negli Stati Uniti.
L’ambito letterario e quello linguistico sono stati, tuttavia, il centro vivo del convegno, che ha visto la partecipazione dello scrittore Tony Ardizzone e della poetessa Maria Mazziotti Gillan. A entrambi sono stati riservati spazi significativi. Il primo ha concesso una breve intervista guidata da Carla Francellini, che ha poi presentato una relazione sul lavoro di Ardizzone, mettendo in luce lo straordinario talento del narratore e la complessa eredità culturale di ascendenza italiana tanto quanto americana presente nelle sue opere. Ne è seguita la toccante lettura di brani dal suo romanzo The Whale Chaser (Chicago, Chicago Review Press, 2010). Mazziotti Gillan ha recitato alcune delle sue poesie più note dopo essere stata intervistata da Elisabetta Marino (Università di Roma Tor Vergata), che ha proposto un’interessante interpretazione sulla funzione benefica delle sue liriche per il superamento dei traumi. Le conclusioni di Anthony J. Tamburri (Queens College, CUNY) si sono incentrate sull’importanza della lingua scelta dagli scrittori italo-americani in quanto indice altamente significativo di etnicità.
Un momento di straordinaria intensità è stata la videoconferenza con i documentaristi Mary-lou e Jerome Bongiorno, introdotta e coordinata da Sabrina Vellucci. La loro pellicola The Rule, pro-dotta dalla Bongiorno Production nel 2014, ha messo in luce le modalità in cui l’istruzione scolastica e la creazione di una comunità di riferimento possano fare la differenza per i ragazzi più svantaggiati, evidenziando il ricorrere costante e programmatico di alcuni paradigmi propri della realtà di molte minoranze etniche negli Stati Uniti.
L’impronta internazionale che ha caratterizzato l’intero convegno ha evidenziato la necessità che gli Italian-American studies trovino il posto che spetta loro all’interno del panorama accademico italiano, anche grazie al supporto dei cultori della materia che operano oltreoceano. Ancora oggi, infatti, la terra verso cui molti italiani sono emigrati nel corso del tempo sembra dare maggior rilievo agli studi sull’identità storica e culturale degli italo-americani rispetto a quanto non venga fatto in Italia. Risulta, però, essere opinione condivisa che il futuro degli Italian-American Studies sia in Italia e che proprio iniziative come quella svoltasi a Roma Tre possano aprire la strada al dovuto riconoscimento del valore di questa disciplina in Italia.

Profughi/Rifugiati. Refugees/Asylum seekers. Spostamenti di popolazione nell’Europa della Prima guerra mondiale. Alle radici di un problema contemporaneo (Rovereto, 4-6 novembre 2015)
di Patrizia Audenino

Nella prestigiosa struttura del Mart di Rovereto questo convegno ha riunito per tre giorni i principali studiosi di migrazione forzate del Novecento, che hanno preso in analisi il ruolo della prima guerra mondiale nella genesi e nello sviluppo delle fughe e dei trasferimenti di popolazione dell’intero secolo. Nella relazione di apertura è stato Peter Gatrell, autore nel 2013 di una vasta sintesi sull’evoluzione della profuganza nella storia del secolo, a ricordare come la guerra abbia avuto come effetto il dilagare di fenomeni di fuga e di espulsione di popolazione civile in tutto il continente, il cui significato di lungo termine nella storia del Novecento non è stato ancora illustrato. Le domande poste da questa tragedia sono molte e in qualche modo hanno dettato l’agenda delle ricerca sia per il convegno che per il lavoro futuro. Chi sia stato considerato effettivamente come profugo e quali aspetti abbiano determinato per ciascun gruppo o individuo il suo diritto al soccorso statale; quale ruolo abbiano accettato di svolgere gli stati e in quali circostanze sia invece subentrata l’azione di agenzie private; quali conseguenze politiche siano derivate dalla divisione dei ruoli nel soccorso; quale impatto ha prodotto nelle società di accoglienza la presenza dei profughi e dei rifugiati e come si siano attivate le reti parentali, istituendo forme di soccorso transnazionali sono i quesiti posti dallo storico inglese. A questi numerosi interrogativi i lavori hanno risposto sia analizzando molte situazioni specifiche di un fenomeno che ha caratterizzato l’esperienza di guerra di tutti gli stati coinvolti nel conflitto, sia riproponendo il problema più generale del ruolo della grande guerra nella storia degli spostamento forzati di popolazione del ventesimo secolo.
Per il primo aspetto sono state prese in esame le situazioni di vari paesi sia in Europa orientale che in quella occidentale: nel primo caso l’espulsione si accompagnò come è noto agli episodi di maggiore violenza e crudeltà contro i civili, come ha ricordato Luca Gorgolini rievocando il “disastro umanitario” prodotto dall’invasione della Serbia da parte delle truppe austriache, tedesche e bulgare nell’autunno del 1915. Le differenza nelle modalità delle fughe e delle espulsioni e nella loro gestione sono bene emerse dalle analisi dei casi affiancati dell’impero russo (Anastasiya Tuminova), della Romania (Adrian Vitalaru) e della Lituania (Thomas Balkelis). La gestione dei profughi nell’impero asburgico è stata analizzata nei confronti degli internati militari (Matthew Stibbe), degli sloveni (Petra Svoljsak) e dei trentini (Francesco Frizzera). Per questi ultimi, che hanno costituto uno dei temi principali della ricerca svolta negli ultimi trent’anni dal Laboratorio di storia di Rovereto, Frizzera ha illustrato i risultati di questa lunga stagione di indagini, mentre Diego Leoni ha rievocato il lungo percorso di ricerca compiuto, sottolineando come il recupero della memoria dell’esodo, a partire dagli anni Ottanta, sia avvenuto dopo decenni oblio, seguiti all’euforia della vittoria, durante i quali il ricordo della fuga e della profuganza era scomparso dalla memoria pubblica. La ricerca ha invece scoperto un tesoro nascosto in quella privata e familiare, composto da documenti diaristici e fotografici, che ha permesso di restituire alla comunità trentina aggredita dalla guerra questa parte del suo passato. Nel corso del convegno è stata infatti presentata l’opera Gli spostati: Profughi, Flüchtinge, Uprchlici 1914-1919, curato dal Laboratorio come ultimo risultato della sua pluriennale ricerca. La documentazione sui profughi trentini accolti in Austria inoltre, come ha affermato Frizzera, permette di collocare la loro esperienza all’interno di quella altre minoranze dell’impero, costituendo un case study privilegiato per valutare il funzionamento e il progressivo deterioramento del sistema di assistenza e di accoglienza imperiale, accompagnato dal parallelo peggioramento dei rapporti fra i vari gruppi nazionali.
Per quanto riguarda i profughi dell’Italia, il loro caso è stato illustrato da Matteo Ermacora attraverso una rassegna delle acquisizioni più recenti di una stagione di studi, che ha trovato fin dal 2006 una prima importante sistemazione nella fortunata ricerca di Daniele Ceschin sugli esuli di Caporetto. Paolo Malni, che ha accostato in modo comparativo Italia e Austria nelle pratiche di gestione e di accoglienza dei profughi, ha mostrato come a una organizzazione dettagliata, predisposta fin dall’inizio delle ostilità dalle autorità austriache, con piani di evacuazione preordinati, nel nostro paese abbia corrisposto una gestione emergenziale da parte del Ministero dell’Interno, caratterizzata da un atteggiamento di concessione che ha ulteriormente contribuito all’allontanamento dei cittadini dalle istituzioni. L’afflusso di un contingente di popolazione in fuga, che dopo Caporetto arrivò alla consistenza di 630.000 persone, ha prodotte conseguenze importanti sia sul piano del rapporto fra stato e cittadini sia su quello dell’esperienza individuale. La scelta adottata fu di disperdere i profughi nelle provincie del Settentrione, evitandone la concentrazione nelle aree urbane. Tale dispersione ha prodotto lo sfaldamento di molte famiglie, addirittura la perdita di bambini, provocando una condizione di tensione fra lo stato e i profughi, nonostante che la retorica patriottica insistesse sull’aspetto eroico della scelta di abbandonare case e averi per non piegarsi al nemico. Tuttavia, una analisi condotta con la dovuta attenzione anche alle dinamiche di genere mostra oggi come il prezzo più alto per la fuga sia stato pagato dalle donne, in termini di umiliazione, di trauma della partenza e degli effetti pratici della dispersione familiare.
Proprio negli esiti finali, la vicenda dei profughi francesi, analizzata da Alex Dowdall appare significativa dei molti risvolti non solo gestionali ma anche politici posti dall’irrompere di 1milione e ottocentocinquantamila rifugiati sul territorio nazionale. L’emergenza indusse lo stato a rafforzare la sua presenza, sia per fronteggiare i problemi pratici del soccorso, sia per riaffermare attraverso la sua azione i valori del nazionalismo e della difesa della patria oltraggiata, trasformando i profughi in testimonianza d’accusa nei confronti del nemico. In definitiva l’accoglienza e la gestione dei profughi, nel caso francese e in contrasto con quello italiano, divennero un ulteriore strumento di rafforzamento del legame fra stato e cittadini.
In chiusura, le due relazioni di Daniel Marc Segesser e di Antonio Ferrara hanno fatto il punto nei confronti del ruolo della grande guerra nella elaborazione del concetto di profugo e di rifugiato dal punto di vista legale e nella vicenda delle migrazioni forzate nel ventesimo secolo. Ferrara ha ricordato come la prima guerra mondiale, con il disfacimento degli imperi dinastici continentali, abbia segnato con la propria “lunga ombra” l’intera storia successiva delle fughe e delle espulsioni del Novecento. Agli studiosi delle migrazioni forzate e di quei fenomeni di separazione delle popolazioni che nell’ultimo scorcio del Novecento hanno preso il nome di “pulizia etnica” è ben noto come sia possibile tratteggiare una linea di continuità fra la convenzione di Losanna del 1923, la conferenza Potsdam del 1945 e gli accordi di Dayton del 1995, relativi alla Bosnia, come ha per primo ricordato Norman Naimark nel 2001. Mettendo fine a un drammatico scambio di popolazioni fra Grecia e Turchia, nel 1923 si sanciva infatti un precedente storico invocato più volte nel corso di tutto il secolo per varare la separazione di popolazioni e per raggiungere degli obiettivi di carattere nazionalista attraverso procedimenti di semplificazione etnica, linguistica e religiosa. L’esperienza europea di divisione delle popolazioni attraverso procedimenti di migrazioni forzata si è inoltre riverberata nei contesti della decolonizzazione, ha ricordato Ferrara, a partire dalle modalità di realizzazione dell’indipendenza dell’India nel 1947. Proprio sulle emergenze umanitarie che hanno costellato l’intera storia del secolo appena trascorso ha fatto il punto la tavola rotonda conclusiva, introdotta da Luisa Chiodi, direttrice dell’Osservatorio Balcani Caucaso, e cha ha riunito Chiara Favilli, Marcello Flores, Gian Carlo Perego e Daniele Nicoletti.

À l’italienne. Narrazioni dell’italianità dagli anni ottanta ad oggi. (Università di Losanna, 27-29 ottobre 2016)
di Francesco Diaco

L’evento organizzato dai professori Niccolò Scaffai e Nelly Valsangiacomo, per certi versi pionieristico, aveva lo scopo di avviare una riflessione sull’immagine che è stata costruita dell’Italia e dell’italianità negli ultimi decenni e su come questa fosse stata calata in vari campi, dalla letteratura alla moda al commercio, per cercare di capire i cambiamenti e le tendenze di lungo periodo. À l’italienne è infatti un termine piuttosto diffuso ed efficace in questi ambiti e rimanda sia a degli stereotipi sia a delle verità che a loro volta producono delle immagini diffuse. Per affrontare tale argomento si è ritenuto opportuno adoperare un approccio interdisciplinare e per questo sono stati invitati a parlare e a confrontarsi accademici esperti in vari campi, ma anche persone, come scrittori o giornalisti, esterne all’università e legate in maniera personale o professionale all’italianità. Il concetto su cui si è voluto dichiaratamente impostare il convegno è quello della “soglia” e del suo oltrepassamento; in particolare la soglia etnica e linguistica, che non corrisponde ai confini nazionali, attraversati nel corso degli anni da numerosi migranti con varie fortune a livello di riconoscimento sociale. Si è inoltre deciso di concentrare l’attenzione sul periodo dagli anni ‘80 ad oggi, perché è questo il periodo in cui cambia la percezione dell’italianità all’estero. Come è avvenuto ciò? Chi ha influito su questa trasformazione? In che direzione? Queste sono le domande a cui il convegno ha cercato di dare una risposta.
La prima sessione si è occupata degli italofoni in Svizzera mettendo subito in evidenza l’importanza dell’esperienza dell’immigrazione italiana nella Confederazione per la nascita di molte opere letterarie che descrivono o prendono spunto in diverse maniere da questo vissuto di sradicamento traumatico e di tentata integrazione. Ci si è poi concentrati sulla percezione che gli svizzeri italofoni hanno dell’Italia e degli italiani rilevando come la loro coscienza culturale sia in cambiamento e come talvolta giunga anche a delle esasperazioni in senso anti-italiano.
La seconda sessione ha ripreso il discorso sull’italianità in quanto veicolato da diverse forme narrative fatte di suoni e immagini. Nella cinematografia rappresentazioni extralocali dialogano con le autorappresentazioni di una comunità che si riconosce anche nella propria immagine riflessa dall’esterno. Si è esaminato in particolare il caso degli italiani di Montreal, i cui film sono tendenzialmente dominati dal tema della memoria e rivolti ad affermare l’identità di una minoranza spesso rappresentata negativamente dai mass media. Si sono poi analizzate le percezioni dell’italianità emergenti dalle fotografie scattate per il progetto 150 anni Grande Italia, e si sono individuate e messe a confronto varietà di italiano anche molto distanti tra loro nell’ambito della canzone italiana nel mondo.
La terza sessione si è occupata di dinamiche internazionali di vario tipo: i molteplici aspetti correlati alla formula postmoderna Made in Italy, utilizzata a fini promozionali soprattutto negli Stati Uniti a partire dagli anni Ottanta; il rapporto tra italianità e un concetto di design sempre più ricco di valori semantici; e la diffusione di italianismi e pseudoitalianismi nel panorama plurilingue del mondo globale e postglobale.
La quarta sessione ha considerato le declinazioni dell’italianità nell’immaginario collettivo di paesi come il Lussemburgo, dove il mutamento della società italiana e il multiculturalismo del paese ospitante hanno dato origine a nuove forme di rappresentazione e autorappresentazione; e la Germania del Secondo Novecento, dove, come in altri paesi europei, le connotazioni associate all’Italia appaiono profondamente contrastanti. Infine, da un’inchiesta giornalistica condotta presso la Foreign Press Association di Roma sono emersi punti di forza associati all’Italia non sempre riconosciuti dagli italiani stessi.
Una tavola rotonda è stata occasione di vivace confronto tra persone profondamente legate all’Italia per motivi di natura familiare e/o professionale, che hanno raccontato le proprie storie e contribuito alla definizione del multiforme e sempre più complesso concetto di italianità.
Il pubblico, sempre numeroso e qualificato, ha avuto modo di fare delle domande, interagire con i relatori e proporre delle riflessioni che sono state raccolte e sviluppate nella discussione finale.
Il convegno ha rappresentato la prima iniziativa del nuovo Polo di ricerca sull’italianità (http: //www.unil.ch/ital/italianita), fondato presso l’Università di Losanna da Niccolò Scaffai (sezione di italiano) e Nelly Valsangiacomo (sezione di storia), che intende porsi come osservatorio permanente sui fenomeni e le espressioni culturali legati all’italianità.

I Veneti in Brasile e la storia delle migrazioni internazionali (icenza- Marostica, 11 e 12 novembre 2016)
di Riccardo Vecchi

Prima di domandarsi che Veneto fosse quello che si trovò ad assistere, nell’Ottocento, al sorgere in Italia dei primi flussi emigratori transoceanici diretti per lo più in Brasile, ci si do-vrebbe interrogare forse su quale fosse il volto di questa regione quando, su iniziativa dell’Accademia Olimpica di Vicenza, essa ne ospitò la “messa in mostra” nel centenario dell’inizio di quell’esodo, in Basilica palladiana, tra il settembre e il novembre del 1976. Si tratta di un interrogativo che sorge spontaneo adesso che con un titolo quasi identico e per impulso dello stesso soggetto promotore si è tenuto tra Vicenza e Marostica un convegno di nuovo sui “Veneti in Brasile e la storia delle migrazioni”. A tenere a battesimo la mostra del 1976 furono amministratori e politici di un tempo altro dal nostro a cominciare da Mariano Rumor, fino a due anni prima presidente del consiglio al suo quinto e ultimo mandato. Fu però grazie all’apporto di vari studiosi di valore che l’esposizione di allora riuscì soddisfacente e all’altezza di quanto era già stato fatto, un anno prima, a Caxias do Sul sul medesimo tema e per celebrare, visto dall’altra parte dell’oceano, il medesimo anniversario. Ne scaturì poco più tardi anche un catalogo fotografico a cura di Neri Pozza e di Emilio Franzina che venne introdotto da Mario Sabbatini con un saggio sulle origini e sulle caratteristiche della prima immigrazione agricola nel sud del Brasile che conserva ancor oggi una sua rilevanza. Sabbatini, in campo storiografico, aveva aperto la strada alle ricerche, sviluppate poi da Silvio Lanaro, sul modello veneto di cui si stavano appena delineando i caratteri intorno appunto alla metà degli anni settanta, quasi agli albori cioè di una nota e formidabile stagione di crescita e di sviluppo economico che sarebbe durata per almeno un quindicennio. Messo a confronto con lo scenario di un secolo prima, dunque, di quale Veneto è lecito parlare invece ai giorni nostri? E quanto incisero sul suo destino le migrazioni di ieri o quanto incidono di nuovo, oggi, l’emigrazione – ma soprattutto l’immigrazione – in una realtà, fotografata dall’ultimo rapporto della Fondazione Migrantes, in cui, su un totale di quasi 110 mila nostri connazionali espatriati nel 2015, tra le loro regioni di partenza, con oltre 10 mila unità, il Veneto si colloca al secondo posto in Italia, dietro alla Lombardia, ma subito prima della Sicilia e fra i primi a fornire ai lavoratori stranieri lavoro e, per quanto strano possa apparire, integrazione?
In un ricordo all’Università di Padova della figura di Silvio Lanaro che ha preceduto di pochi giorni l’avvio del convegno vicentino dell’11 e 12 novembre di quest’anno se lo sono chiesti in molti, per rispondere a una virtuosa provocazione fatta da Cesare De Michelis, patron della Marsilio, e approfondita da Ilvo Diamanti (“Esiste ancora il Veneto?”). Il quesito, specie tenuto conto dell’impatto dei fenomeni immigratori, era quasi scontato. Un po’ meno la risposta positiva anche se rispetto a 40 anni fa, assieme del resto al mondo o al resto del mondo, il Veneto risulta sì alquanto cambiato ma non forse così in profondità o in ogni sua struttura, specie antropologico-culturale.
L’emigrazione all’estero dei secoli XIX e XX, vista dai luoghi in cui essa si determinò (non per la prima volta, peraltro, essendo preesistita ed essendo poi stata durevole sin dentro al secondo dopoguerra, dal Veneto, una enorme emigrazione “europea”) se vista, quale fu, alla stregua di un fenomeno di massa tra gli anni ‘80 dell’Ottocento e l’inizio del secolo successivo, potrebbe darne ancora conferma. Nel convegno vicentino che si è avvalso dell’apporto di esperti italiani e brasiliani, ad aprire i lavori su questa falsariga sono stati Emilio Franzina con un profilo dei rapporti emigratori fra Italia, Veneto e Brasile dal 1876 ai giorni nostri e Paola Corti, che nel tracciare un bilancio storiografico nazionale e internazionale degli studi ha posto in rilievo il contributo e l’impulso che vi hanno dato, in molte occasioni, le analisi svolte e imperniate sui casi regionali. Alla duplice introduzione han fatto seguito, a Vicenza, gli interventi di vari autori da Casimira Grandi (sulla memoria sociale delle donne venete in Brasile con spiccata attenzione per le eredità materiali ed enoalimentari) ad Angelo Trento (di cui è stata letta, in absentia per motivi di salute, una bella relazione sugli italiani di San Paolo, la stampa e il tempo libero), mentre a Marostica si sono avvicendati a parlare di veneti e di altri italiani soprattutto nel Rio Grande do Sul e a San Paolo fra Otto e Novecento, Andrea Zannini, Gianpaolo Romanato e tre storici brasiliani di origine veneta (Luis Fernando Beneduzi, Catia Dal Molin e Maria Catarina Chitolina Zanini), ai quali è stato commesso il compito di intrattenersi anche sulle vicende dei primi veneto discendenti tra fascismo e interdizioni dell’Estado Novo dal 1937 al 1942.
Forse anche per meglio farsi intendere da un pubblico di non specialisti, si sono poi susseguiti, nell’ambito del convegno, interventi originali di storia orale o di uso delle memorie e delle postmemorie familiari (come hanno fatto ruotando attorno a esperienze didattiche compiute all’Università di Venezia Alessandro Casellato e, intrattenendosi sulla figura di un proprio illustre familiare, il pittore Candido Portinari, sua nipote Stefania, giovane storica dell’arte a Ca’ Foscari), ma anche proiezioni di docufilm come quello realizzato vicino a Caxias do Sul da Giovanni Luigi Fontana e da Vania Heredia, con il commento dal vivo, a Marostica, di Gianantonio Stella sui discendenti degli operai tessili di Schio stabilitisi laggiù a fine Ottocento e protagonisti da quindici anni in qua, nella cittadina di Galopolis, d’una rinascita “manifatturiera” fuori dell’ordinario e infine anche una intera lezione di storia cantata condotta da Emilio Franzina su Esuli, profughi, rifugiati e (in una parola)migranti assieme al complesso musicale degli Hotel Rif (ora consultabile in versione integrale nel sito dell’Accademia Olimpica http: //www.accademiaolimpica.it/)
I lavori del convegno sono stati, in definitiva, una occasione per riflettere su problemi del presente e per compiere nel contempo una traversata di cent’anni di esperienze fatte dai veneti e da altri emigranti italiani nel Brasile dei secoli XIX e XX ed esaminate dai diversi punti di vista della storia sociale, culturale ed economica. Il tema, in via più attualizzante, è stato affrontato, però, nella giornata inaugurale, da una tavola rotonda svoltasi a Vicenza presso l’Odeo Olimpico su Migranti, immigrati e processi d’integrazione tra storia e attualità, cui hanno dato vita quattro esperti di notevole prestigio come l’ambasciatore Adriano Benedetti (per molti anni alla guida della Direzione degli Italiani all’estero alla Farnesina), il vescovo di Astigi Agostino Marchetto, già Segretario del Pontificio Consiglio della Pastorale per i migranti e gli itineranti, il filosofo della scienza Telmo Pievani e l’editorialista di “Repubblica” – e sociologo perennemente in spola fra Parigi ed Urbino – Ilvo Diamanti. Anche dai loro rilievi sono riemerse le ragioni profonde di un interessamento che gli storici devono continuare a tener vivo e che sono anzi tenuti ad alimentare, pur nella quasi assoluta indifferenza delle classi di governo e della stessa opinione pubblica, intorno alle dinamiche emigratorie del passato sia remoto e sia più recente. Tutto il convegno d’altronde ha puntato a farlo, descrivendone e commentandone alcune relative alle parabole di quasi mezzo milione di veneti espatriati fra il 1876 e la vigilia della grande guerra tanto nel sud del Brasile quanto in altri stati (all’inizio province imperiali) di quell’immenso paese. E quindi non solo nel “più veneto” di essi, il Rio Grande do Sul con diramazioni in Santa Catarina e in Paraná, ma anche altrove (ad esempio addirittura in anticipo e assieme ai trentini nella serra capixaba di Espirito Santo) dove ancora, tra i più anziani, si parla qua e là un dialetto di matrice vicentino-feltrina (la koiné linguistica definita “taliàn”) e dove più numerosi sono i segni di una origine e di una appartenenza regionale veneta nella toponomastica, nelle tradizioni religiose, negli usi alimentari, nei canti popolari e così via. I veneti, però, emigrarono numerosi anche in Minas Gerais e a Rio de Janeiro e soprattutto a San Paolo dove anzi fu a lungo più corposa e articolata la loro presenza marcando evidenti differenze con altri connazionali del Mezzogiorno d’Italia, ma pure tra parti diverse della regione di origine (nel sud più numerosi gli emigranti originari del Veneto centrale e montano che si pagarono per lo più il viaggio da soli, a San Paolo e a Minas gli altri in quantità sovente superiore ossia, per qualche anno, i braccianti poverissimi delle basse pianure e del Polesine che ebbero il viaggio pagato dai fazendeiros ecc.). Tra le esperienze culturali, associative e politiche che tutti fecero nell’arco di un secolo, fermo restando che la maggior parte di essi rimase per sempre a vivere in Brasile (anche se più di un terzo via via rimpatriò), sulla scorta delle relazioni presentate al convegno si può dire che siano rintracciabili le prove di una difficile ma infine riuscita convivenza ovvero della possibilità che a certe condizioni fu data agli immigrati di conseguirla (terra libera a riscatto per i coloni contadini e pionieri, originariamente a casa loro piccoli proprietari, mezzadri o affittuari, occupazione anche in fabbriche e opifici, nei commerci ovvero nelle imprese, nell’agroalimentare ecc. per gli altri): l’integrazione insomma vi fu ma fu pagata a caro prezzo come dimostra oltre tutto la storia dei figli e dei nipoti dei primi immigrati sulla quale si sono soffermati, pour cause, gli storici brasiliani intervenuti. Essi hanno parlato, infatti, tanto dei veneti quanto e ancor più dei veneto-discendenti a contatto con i fascismi degli anni trenta in clima di acceso nazionalismo e alle prese con le persecuzioni ai loro danni da parte del Brasile di Getulio Vargas. Fra i quali danni vi furono, com’è noto, la proibizione dell’uso delle parlate nazionali o dialettali e la cancellazione dei nomi etnici di quasi tutte le località fondate a maggioranza dai veneti (come d’altronde successe anche ai tedeschi), fatta appena eccezione per la città gaúcha di Garibaldi a cui invece fu lasciata la sua denominazione originaria in onore della rivoluzione federalista e autonomista dei “farrapos” a cui il Generale nizzardo fra il 1837 e il 1840 aveva fornito il proprio braccio ignorando che proprio lì, quasi quarant’anni dopo, avrebbero cominciato ad arrivare le avanguardie contadine di una emigrazione di massa che tra il 1876 e il 1914 condusse quasi mezzo milione di veneti in un Brasile passato dalla monarchia alla repubblica, dopo l’abolizione della schiavitù, nel 1889 e da dove, ancor oggi, ritornano a volte, in Italia, alcuni loro bisnipoti e pronipoti, magari per motivi di lavoro, anche se i più famosi di tutti rimangono sempre, per forza di cose, non i grandi imprenditori come Raoul Randon e Claudio Panto o i leader politici come João Pedro Stedile, il fondatore del movimento dei Sem Terra, bensì i calciatori come, per citare solo i più recenti dopo Josè Altafini (la cui famiglia polesana era di Giacciano con Barucchella), Jorginho, nome di battaglia di Jorge Luis Frello che ha il passaporto italiano grazie a un trisnonno di Lusiana sull’Altipiano di Asiago o come Eder, santacatarinense di nascita, ma col bisnonno, Battista Righetto, nato anche lui in Veneto, alle Nove di Bassano, naturalmente sul finire dell’Ottocento.