FRA STORIA, MICROSTORIA E DISCUSSIONI IN RETE: LA GRANDE GUERRA DEGLI IMMIGRANTI “AMERICANI” (1914-1918)

In una tipica discussione telematica, durata circa una settimana e avviata l’11 novembre del 2009 da una interpellante tanto spaesata quanto curiosa , vari corrispondenti si alternarono con volonteroso impegno e qualcuno anche con evidente passione proponendo le più diverse soluzioni al quesito da lei posto in questi termini:

Oggetto: Emigrazione e arruolamento per la Prima Guerra Mondiale
Sto cercando di capire come una persona nata a San Paolo nel 1895 possa aver fatto la Prima Guerra Mondiale arruolata nell’esercito italiano. La prima risposta che mi sono data è che pur essendo nato in Brasile, [egli] sia poi rientrato in Italia e vi sia rimasto. Successivamente è emigrato nuovamente, stavolta in Argentina. Questa ipotesi sarebbe corroborata dal fatto che ha sposato una donna nata in Calabria e non in Brasile o Argentina. Esiste un’altra possibilità oltre a questa? Potevano essere obbligati a rientrare dal Brasile anche gli emigranti? In quel caso dove potrei trovare il suo foglio matricolare? Grazie Tiziana

La persona che si firmava anche “celanzit” (con ogni probabilità, come ho desunto da vari altri indizi, un’insegnante di Brescia o di quella parte della sua provincia attraversata dal Chiese a metà strada fra il capoluogo e la costiera gardesana di Salò) poneva un problema al quale da molto tempo anch’io mi stavo interessando senza sapere, all’epoca, che un altro volontario figlio d’italiani, sulla carta classe 1895 e venuto lui pure dal Brasile, oltre ad aver condiviso con quello paulista non meglio identificato l’esperienza dell’arruolamento nel regio esercito, aveva lasciato scritte le proprie memorie di un anno di guerra sul fronte dell’Isonzo, A Olyntho Sanmartin, figlio di emigranti veneti stabilitisi sul finire dell’Ottocento a Santa Maria da Boca do Monte (RS), che, per potersi avvalere delle agevolazioni fatte per il viaggio transatlantico dalle autorità consolari “regnicole” a chi avesse risposto positivamente alla chiamate alle armi, aveva barato nel 1915 sulla propria data di nascita aggiungendosi un anno di età per venire a combattere in Italia , ho già dedicato qualche attenzione altrove, ma per saperne di più sul suo conto varrà la pena di riferirsi, per il momento, alle indicazioni fornite oltre quarant’anni fa da Moacyr Flores . Una cosa, però, è certa: anche da una singola storia di vita, meglio se ricostruita con pazienti riscontri e quindi intrecciando quelli autobiografici con altri dati puntuali o di contesto, possono scaturire risultati importanti così a livello locale come a livello transnazionale. Su tale presupposto si basano, ormai da molti anni in qua, le ricerche che hanno preso a modello le opere di alcuni storici di grande valore e di altrettanto grande notorietà (Carlo Ginzburg e Natalie Zemon Davis, Jacques Revel e Giovanni Levi, Robert Darnton ed Edoardo Grendi, ecc.) e di qui spesso provengono anche le più diverse analisi degli estimatori, particolarmente numerosi in Brasile e in America Latina, della cosiddetta scuola microstorica. Si tratti di riflettere sulle possibili interrelazioni delle questioni di storia del lavoro in termini di storia globale con le vicende di un oscuro marinaio di colore nell’antica Desterro (o meglio con le attività svolte da un “africano livre” in Santa Catarina intorno alla metà dell’Ottocento) oppure di esaminare “dal basso” le migrazioni internazionali e contemporaneamente le loro ricadute in Europa e in Brasile nell’arco degli ultimi due secoli (e così via) , alla forza del modello si sono aggiunte e sovrapposte da ultimo le risorse offerte dalla enorme mole di notizie oggi reperibili in rete, non sempre tutte sfruttate a dovere anche perché fomiti talvolta di grande confusione. Prendendo spunto da questa circostanza proveremo a inoltrarci in un territorio d’indagine che non ha goduto sin qui di eccessiva considerazione tra gli specialisti, né in America Latina né in Italia, riguardando da un lato la storia dell’immigrazione e da un altro non quella del lavoro, bensì quella delle passioni e delle idee “patriottiche” o nazionalistiche innescate tra molti immigrati “americani” dalla grande guerra del 1914-18. Sino alla vigilia del ciclo di commemorazioni secolari del primo conflitto mondiale, cominciate e poi dilagate in Europa nonchè in USA e in Canada già intorno al 2013, è stato possibile verificare, ad esempio, la perdurante modestia dell’interesse riservato a un tale evento un po’ in tutta l’America Latina. L’anniversario e il ricordo della guerra in sé, alla quale in effetti erano rimasti estranei o da cui si erano tenuti discosti i maggiori paesi del subcontinente, con l’eccezione finale quantunque ininfluente e tardiva del Brasile risoltosi a prendervi parte su pressione degli Stati Uniti (ma non solo ) nell’ottobre del 1917, non sembrano aver dato luogo, infatti, a sforzi particolari di riflessione a malapena risarciti dall’uscita, in Francia, di un libro suggestivo e importante di Olivier Compagnon . I temi maggiormente frequentati rimangono quelli della polemica germanofila e antigermanofila, assai accesa in Brasile a causa della presenza entro i suoi confini di circa mezzo milione di immigrati tedeschi e di altri teutodiscendenti residenti più o meno negli stessi Stati del sud dov’era assai forte all’epoca pure la presenza italiana , e poi alcune questioni di storia economica e diplomatica rilevanti specie per l’Argentina rigorosamente neutralista di Hirigoyen da dove si calcola che fossero partiti per battersi in Europa, a parte gli italiani, tra i 1200 e i 1800 volontari francesi . Anche così, tuttavia, in molti lavori sia di ricerca che di carattere divulgativo si ha l’impressione che alquanto vaghe rimangano la percezione e la stessa nuda conoscenza dei fatti, quanto meno di quelli riguardanti l’Italia di cui spesso s’ignora curiosamente il cambio delle alleanze che ne consentì, nel maggio del 1915, l’ingresso in guerra a fianco dell’Intesa. Valgano a questo proposito un paio di esempi di natura diversa ma convergenti nell’ignorare da che parte si fosse infine schierata l’Italia e dove si fosse verificata la più alta partecipazione al conflitto da parte degli immigrati “regnicoli”, per non parlar di quelli di loro addirittura nati in America. Tali esempi vengono forniti ancor oggi persino da studiosi se non altro impegnati a prendere seriamente in esame le problematiche dell’informazione in tempore belli. Una esperta di giornali per il Brasile ossserva come

o país só declara guerra em 26 de outubro de 1917, apôs a entrada dos EUA, e lutarâ ao lado da França e da Inglaterra (a chamada Entenete Cordiale) contra a Triplice Aliança, encabeçada pela Alemanha e contando ainda com o Império Austro-Húngaro e a Italia .

Confermano l’equivoco anche due simpatici e originali divulgatori con indubbie competenze musicali come gli autori del libro A República cantada, quando, arrivati a trattare la nascita periodizzante a Rio de Janeiro, in casa della celebre Tia Ciata baiana, del primo “leggendario” samba di Donga e Mauro de Almeida (Pelo telefone, composto nel 1916 e inciso in disco nel 1917) e quindi a collegare con le pratiche carnevalesche e canore di quel tempo la figura del braccio destro di Hermes da Fonseca, Venceslau Brás “ribattezzato dal compositore sambista Sinhô “São Bras” e asceso nel 1914 alla presidenza della Repubblica Federativa, ma ormai alle prese fra il ‘16 e il ‘17 con i problemi crescenti della crisi e del caro vita – riportano prima dei versi satirici che lo motteggiano e infine chiosano dal canto loro:

“São Brás” se manteve neutro até quando pôde. Mas em 1917 a sopa acabou, e o país teve de abandonar sua neutralidade e entrar na Primeira Guerra Mundial contra a Triplice Aliança (Alemanha, Império Austro-Húngaro e Italia). Lutamos ao lado dos Estados Unidos e da Tríplice Entente […].

Se la memoria si appanna in tal modo tra gli addetti ai lavori, non ci sarà da meravigliarsi del fatto che tra la gente comune continuino a circolare, a cent’anni di distanza dagli eventi bellici del 1914-18, dubbi, perplessità e impressioni come minimo bizzarre sul tipo di quelle che documentano lo stupore di chi, ai giorni nostri, si accorge ma non si capacita del fatto che tra i volontari portatisi a combattere sui fronti europei di tanto in tanto si ritrovassero “persino” dei soldati italiani (o figli d’italiani) venuti dal Brasile .
Ma il Brasile, si badi, non è poi il solo paese americano a darci prova di quanta confusione circondi le dinamiche politiche ed esistenziali alla base dei fenomeni prodotti dall’incontro degli immigrati con la grande guerra se volessimo andare anche solo a vedere quante agnizioni e scoperte si sprechino al riguardo essendosene susseguite e moltiplicate in effetti parecchie, durante questi ultimi anni, sul filo del web e grazie all’uso crescente delle “chat”, in molte parti del nuovo continente. E valga, stavolta, un esempio italo- nordamericano.
Ben prima di transitare agli onori di una brillante antologia allestita nel 2008 da Peter Englund, il segretario permanente dell’Accademia di Svezia preposta all’assegnazione dei Nobel per la Letteratura , il siciliano di New York Vincenzo D’Aquila, nato a Palermo nel 1893, ma cresciuto da bambino a Brooklyn, aveva raccontato nel 1931, in un’autobiografia rimasta a lungo poco conosciuta, di come egli fosse partito per l’Europa, poco più che ventenne e di nascosto dai propri genitori, all’indomani della dichiarazione di guerra del 24 maggio 1915. Di quel suo viaggio con destinazione Napoli a bordo di una nave stracolma di “riservisti” italonordamericani e poi anche di alcuni mesi di esperienze belliche fatte sul fronte italiano sotto la protezione d’una invisibile “guardia del corpo” , D’Aquila, sempre più religiosamente ispirato e trasformatosi via via in un convinto pacifista, scrisse nel proprio libro visionario, con accenti però di verità, e dimenticato da tutti morì quarant’anni più tardi, nel 1971, in quell’America “sorella” dov’era subito tornato a vivere e a lavorare come tipografo copista.
Ignaro di ciò e soprattutto all’oscuro della rara autobiografia divenuta del resto, con l’andar degli anni, quasi introvabile, il nipote di un suo omonimo, Ignatius D’Aquila residente a New Orleans, “postò” in rete, nel febbraio del 2000, una serie di notizie a proposito del proprio nonno anch’egli Vincenzo e anch’egli siculoamericano, originario però di Cefalù ed emigrato a Fort Adams. Queste notizie vennero riscontrate meno di un mese più tardi da un altro internauta dallo stesso cognome, Cosmo D’Aquila, il quale, scrivendo nel marzo successivo dalla California informava, come “[his] grandfather was Bernadino D’Aquila from Compabasso [sic], Italy. He settled in NYC and served with the Italian Armed Forces during WW1. He had 5 children who settled in NYC and Canada”.
A questo punto, sempre nel marzo del 2000, due giorni dopo Cosmo, cominciarono a farsi vivi i primi veri “eredi” del soldato memorialista Vincenzo grazie a un pronipote adolescente, di cui s’ignora il nome, il quale avvisava: “I am 16 and my mother knows more about this than I do, but I am writing to ask the question for her. We have a relative, by the name of Vincenzo D’Aquila who also served in the Italian Armed Forces during WWI. He wrote a book about his experience, called Bodyguard Unseen. Please reach me by email if you have any relations to Vincenzo”. E a rinforzo, ma solo nel luglio del 2001 e con la probabile mediazione dello storico italoamericano Dominic Candeloro, un ultimo discendente, Steve Antonuccio, poteva infine precisare:

I’m trying to get any information I can about an obscure novel written in 1931 called “Bodyguard Unseen.” It was written by my Great Uncle, Vincenzo D’Aquila, and is about his experiences in World War 1 with the Italian army. Born in Palermo, my uncle immigrated to the United States as a young boy with his parents (My great grandparents). When World War 1 broke out, he was recruited by the Italian army at his home in Brooklyn, and volunteered to return to Italy to fight in the war. This was before the United States became involved in World War 1. I have a copy of the novel and I did a world catalog search and found over 50 copies of his book in libraries across the country, including Harvard and Yale libraries. It is an anti-war novel that I would compare to “All Quiet on the Western Front”, except it really is a quirky and strangely entertaining novel. Written in the first person, it tells how my Uncle survived the war after making a pact with God not to use his weapon, if God would promise to protect him. Working as a clerk for one of the Generals, he is saved from the front lines because of his ability to write and use a type-writer. He is eventually sent back to the front lines where he refuses to fire his weapon and creates quite a stir among the other soldiers who decide to follow his lead. Unable to shoot him since he is a naturalized American citizen, the Italian Army doesn’t know what to do with him so they eventually send him to an insane asylum in southern Italy. After performing some miracles in the institution, the doctors become afraid of him and the army sends him to the Italian Riviera, where he spends the rest of the war in comfort befriending the Italian aristocracy. I must admit my Great Uncle was probably a little bit of a nut, but his story would make a wonderful black comedy starring Roberto Benigni. The book was published by Richard R. Smith, Inc. and my Uncle worked in the publishing business in New York for most of his career. His parents divorced, and my Grandmother (his sister) left to San Francisco with her Mother around the turn of the century. Vincent stayed in New York with his Father, where he eventually volunteered to join the Italian Army. My Grandmother kept in touch with her brother Vincent throughout his life, but I have no contact with his family. I’m trying to find out who owns the rights to the book or if anyone might have known him in New York or any of his family. He died in the 1970’s. Thanks for any help you might be able to provide.

Se non fosse già stato ricordato da Moacyr Flores e quantunque sia stato poi menzionato in rilievo da Antonio De Ruggiero , anche il già citato memorialista ed ex soldato italo-gaúcho Olyntho Sanmartin, segnato a propria volta dalla grande guerra in Italia e da una religiosità che a dispetto del sentimento cattolico prevalente fra i coloni suoi conterranei era stata di stampo metodista, avrebbe forse potuto ispirare in rete la comparsa di alcune rimembranze nient’affatto dissimili da queste di qualche suo eventuale discendente.
Ben prima dell’avvento di Internet, tuttavia, non mancarono altrove di manifestarsi le tracce, per quanto disorganiche e disperse, di una percezione e sovente anche di una valorizzazione politico-ideologica degli emigrati e dei loro figli accorsi in Europa dalle Americhe allo scoppio della prima guerra mondiale. Lo stesso era avvenuto, d’altronde, in un passato ormai remoto nelle annotazioni e nelle testimonianze di molti contemporanei o, più in generale, nella pubblicistica e nella propaganda bellicista.
Preceduti da alcune avanguardie di “garibaldini” e di mazziniani nella Francia del 1914, sebbene solo in parte assimilabili a costoro, le avventure dei volontari che cominciarono a raggiungere da oltreoceano il fronte italiano nel giugno di un anno dopo (e quelli, sempre meno numerosi, che li seguirono sin quasi alla fine del conflitto), colpirono la fantasia di non pochi osservatori così da figurare poi, nella rievocazione memorialistica e nella descrizione narrativa di numerosi reduci/scrittori, in maniera quasi endemica sino a confondersi, alle volte, con le testimonianze rese da quanti, compiendo un percorso inverso, avevano scelto di fare ritorno o addirittura di portarsi per la prima volta, dopo la guerra, in Brasile. Per quanto bene inserite in un filone letterario fiorente in Italia soprattutto negli anni centrali del fascismo su cui avremo ancora modo d’intrattenerci più in là, le figure di questi emigranti soldati campeggiano allora nel ricordo di certi romanzieri non solo banalmente “di regime” come Mario Puccini. In vari luoghi della sua intensa produzione latinoamericanistica l’autore del Soldato Cola, amico, in tempo di pace, di Giovanni Verga e di un gran numero d’intellettuali, ma poi, durante la guerra, anche corrispondente intimo e assiduo di Giuseppe Ungaretti , parla con toni commossi e nostalgici di loro come succede quando, a distanza ormai di decenni, si adopera addirittura per trasfigurarne il “ritratto” in una “grande favola” narrando del suo incontro, avvenuto nel 1936 a Belo Horizonte, con un “vecchio commilitone” dei giorni in cui avevano entrambi combattuto, fianco a fianco, l’uno come ufficiale e l’altro come soldato, sulle doline del Carso .
Appena giunto in città da Rio de Janeiro “dopo un giorno e una notte di treno” dovendo tenere la sera stessa del proprio arrivo una conferenza alla Casa d’Italia, Puccini non fa in tempo a rifiatare perché il proprietario dell’albergo in cui è sceso, l’Hotel Plaza, bussa imbarazzato alla sua camera per avvertirlo che c’è qualcuno che lo sta attendendo senza che ci sia verso “di persuaderlo ad andarsene o ad aspettare”: “Un italiano domanda di lei; è stato suo soldato in guerra – dice – e vorrebbe vederlo”. Sulle prime Puccini non riconosce quest’uomo dal “corpo tozzo, quasi di contadino” ed è costretto a chiedergli chi sia e come si chiami: “Gabrielli, Gabrielli Tommaso. Quinta compagnia del 47°, secondo battaglione. Non si ricorda signor tenente?”
Un po’ alla volta l’antico ufficiale che “aveva tante cose nella sua testa” riesce a risalire dalle parole concitate dell’ex subordinato a frammenti e ad immagini della comune esperienza di trincea. Non è infatti la sua storia di emigrante o di immigrato a Belo Horizonte a interessarlo ora più di tanto (Gabrielli, del resto, aiutato da un fratello stabilitosi in Minas pochi anni prima di lui gestiva in città solo un piccolo negozio e tutt’al più, per propria sconsolata ammissione, riusciva a malapena a “tirare avanti” perché in Brasile non aveva certo “fatto fortuna”).
In linea con la visione paternalistica e populista dei combattenti proletari che più gli era congeniale e che in divisa aveva già cominciato a elaborare a diretto contatto con loro, Puccini approfitta anche di questa occasione per mettere di nuovo a fuoco quel ch’era tornato a ribadire, non più tardi di un anno prima dell’incontro con Gabrielli a Belo Horizonte, nell’edizione definitiva del suo migliore romanzo (e a prescindere, si potrebbe notare, da una dedica occasionale del libro a Mussolini , ma a conferma della immutata intenzione di fornire, con esso, un ritratto veridico dell’italiano o meglio dell’italiano di estrazione popolare in grigioverde). Al povero Gabrielli italo mineiro che sembra vivere emotivamente del tutto immerso nel ricordo dei fatti d’arme e dello spirito di corpo che coincidevano, nonostante i rischi mortali delle sparatorie e degli assalti, con la migliore stagione della sua vita ossia, probabilmente, quella dei suoi “vent’anni”, lo scrittore marchigiano mette in bocca un rosario di reminiscenze immancabilmente positive.
La bellezza delle notti in cui “si dormiva con un occhio aperto e uno chiuso”, le rituali maledizioni lanciate all’indirizzo del Carso e del suo brullo paesaggio, “un po’ gramo e meno verde che in altre parti” ma in fin dei conti, nel ricordo, affascinante, lo sprezzo del pericolo, la cattura di alcuni nemici e così via compongono nel racconto quasi estatico del reduce un panorama di sensazioni indimenticabili e al tempo stesso implicitamente contrapposte a quelle ora da lui provate, nella grigia vita d’ogni giorno, nel Brasile di fine anni trenta. “Sì, signor tenente – ammette Gabrielli – io amo ancora quei tempi là, lei ha indovinato: sono passati più di vent’anni, ma, quando la testa mi si ferma sui mesi della guerra, io scanso tutti gli altri pensieri e niente altro conta più per me. Neanche del mio paese e della mia fanciullezza mi ricordo come mi ricordo del Carso e di quei giorni Mi scusi, a lei non succede lo stesso?”.
La domanda, retorica nelle intenzioni del narratore, non può avere che un’unica risposta anche perché Puccini si dichiara subito commosso di fronte a tanto entusiasmo per cui prova semmai solo una punta d’invidia visto che, diversamente dal suo vecchio soldato al quale continua a dare del lei, sul Carso e in altri teatri della guerra personalmente egli ha avuto modo di tornarci più volte dedicandogli addirittura un paio di libri. Io, precisa però Puccini, “non ho vissuto in un paese lontano e straniero. In lei quel tempo [invece] si è, direi, sublimato; è una favola, ormai, una dolcissima, una bellissima favola: scommetto che se la sua vita fosse stata qui nel Brasile faticosa e battagliera, se ogni giorno lei avesse dovuto combattere con qualcuno e con la sorte, ricorderebbe certo il Carso e la guerra, ma non con codesta ingenua e poetica commozione.”
Al dubbio che Gabrielli non fa tempo ad esprimere compiutamente, bloccandosi su un “Ma…” piuttosto eloquente e in fondo perplesso, Puccini sovrappone, senza esitare, un’analisi psicologica all’impronto della sua condizione di piccolo negoziante costretto, secondo lui, a vivere in Brasile tre quarti della propria giornata probabilmente al chiuso e conducendo una esistenza “quasi quieta e certo ferma” ovvero senza quelle fantasticherie di cui viceversa nella vita c’è bisogno e che non a caso per molti di coloro che l’hanno vissuto da soldati o da ufficiali può benissimo identificarsi con un tempo di guerra che diventa così, per definizione, “la favola” a cui gli uomini che ci son passati attraverso avrebbero “necessità di ricorrere qualche volta” per non “morire asfissiati” dalla grigia quotidianità di tutti i giorni.
Come colui che ancora più dell’altro coltiva la nostalgia pungente di un passato avventuroso nel quale “si è sentito per la prima volta un uomo e dove per la prima volta ha messo in gioco le sue energie, le sue possibilità, il suo onore, il suo amore, anche”, l’ex tenente in realtà proietta sull’ex soldato le vibrazioni di uno stato d’animo ch’è prima di tutto suo e che, se anche non latita certo nell’interlocutore, difficilmente nondimeno si potrebbe tenere distinto o del tutto scollegato dalla sua attuale condizione di immigrato nel Brasile alle viste dell’Estado Novo e chissà se non già con figli e nipoti oramai brasiliani.
In realtà non sono infrequenti i luoghi letterari e persino cinematografici in cui si fa menzione, nell’Italia dell’entre-deux-guerres, dei volontari giunti al fronte da oltreoceano o comunque da lontani paesi d’emigrazione. Il più famoso “cronista” che ne parla, e già in corso d’opera dalle pagine del suo giornale – “Il Popolo d’Italia” – tra il 1915 e il 1917, pagine più tardi confluite in un “diario di guerra” appena ritoccato e più volte ripubblicato, è senz’altro il bersagliere Benito Mussolini .

Non mancano – egli avverte – coloro che sono più svegli e coltivati. Sono quelli che sono stati all’estero, in Europa e in America. Hanno letto prima della guerra qualche giornale. In guerra sono anti-tedeschi e belgofili. Quando il soldato brontola, non è più per il fatto “guerra”, ma per certi disagi o deficienze ch’egli ritiene imputabili ai “capi”. Io non ho mai sentito parlare di neutralità e di interventismo. Credo che moltissimi bersaglieri, venuti da remoti villaggi, ignorino l’esistenza di queste parole. I moti di maggio non sono giunti fin là. A un dato momento un ordine è venuto, un manifesto è stato affisso ai muri: la guerra! E il contadino delle pianure venete e quello delle montagne abruzzesi hanno obbedito, senza discutere.

Lo stesso, secondo Mussolini che pur resta nel vago a proposito di quanti fossero nel complesso, hanno fatto dunque coloro che la chiamata alle armi ha raggiunti all’estero. I suoi “emigranti soldati”, ad ogni modo, il futuro Duce li mette tutti in bella vista e li chiama per nome o per cognome anche più di una volta come fa ad esempio citando Pietroantonio, un giovane abruzzese

tornato volontariamente dall’America, insieme ad altri duemila, per servire la patria [il quale] racconta episodî interessanti sulla vita delle nostre colonie d’oltreoceano. Immenso l’entusiasmo col quale fu accolta la nostra dichiarazione di guerra all’Austria. Moltitudini di uomini assediavano i consolati per la visita militare e il rimpatrio. “Ho visto – dice Pietroantonio – alcuni ‘scartati’ mordersi per la rabbia”. “ Si comprende. I milioni e milioni di italiani, in particolar modo meridionali, che negli ultimi vent’anni hanno battuto le strade del mondo, sanno, per dolorosa esperienza, che cosa vuol dire appartenere a una nazione politicamente e militarmente svalutata.

Di qualcuno di questi, come il lucchese Piacentino Melosi (1893-1982) abbiamo notizie anche per altre vie , ma l’immagine più vivida di lui la somministra in tempo reale, come al solito, Mussolini da giornalista abile e smaliziato quale indubbiamente già era nel 1916:

30 marzo [1916]
Nevica da sedici ore. Tutto è bianco. La mulattiera è sommersa. Pomerigio: nevica sempre. La posta non è giunta. Ore lunghe. Nella baracca, al primo, secondo e terzo piano (totale altezza quattro metri o giù di lì), si gioca a carte, si fuma, si canta. Io, col ventre a terra, scrivo queste note. Tipi di soldati: Melosi Piacentino, lucchese, tornato dall’America. É il vero tipo del toscano medio: asciutto, intelligente e provvisto di una buona lingua snodata. “Sono tornato in Italia per l’onore”, egli mi dice, iniziando la nostra conversazione. “Cinque anni or sono andai in America e quando fu chiamata la mia classe, non essendomi presentato, fui dichiarato disertore. In America, a Richmond, capitale dello Stato di Virginia, avevo un piccolo commercio di confettiere. Gli affari non andavano male. Scoppiò la guerra europea. Quando l’Italia entrò in campo, sentii che non potevo più oltre restare lontano dalla mia patria e sono tornato. Potevo entrare nella Sanità, ma ho preferito un’arma combattente e sono qui a fare il mio dovere”.

“È un fatto – diventa a questo punto il commento – che i soldati tornati dall’America costituiscono la parte migliore delle truppe al fronte”. Un concetto, quello del primato militare degli emigranti, che spesso rispunta anche là dove se ne sottolineino i limiti di preparazione scolastica e un po’ anche politica, quella che fa difetto magari a un soldato ciociaro vissuto pure lui sei anni negli Stati Uniti:

30 ottobre [1915]
Nei ‘ricoveri’ si canta, si fuma, si scrive. Nessuno bada al monotono, insistente stillicidio della vedetta austriaca. Il portaferiti De Rita di Frosinone, narra le sue avventure americane. Si dichiara repubblicano. “E perché”, gli ho chiesto. “Perché sono stato a New York…” In realtà non sa nemmeno il significato della parola ‘repubblica’. È, fra l’altro, quasi analfabeta. Ma è coraggioso, resiste alle fatiche. I suoi battibecchi coll’altro portaferiti tengono allegra la brigata…..
Non è solo questione di un tasso più elevato di patriottismo come si può facilmente constatare mettendo a confronto i riservisti dotati di esperienze di vita all’estero con tutti gli altri soldati dal lato del cosiddetto “morale” delle truppe:
7 aprile [1916]
Il ‘morale’ dei soldati che hanno battuto le vie del mondo, è più alto di quello dei soldati che non mossero mai piede oltre la cerchia del borgo natio […] Una compagnia in guerra ha circa duecentocinquanta uomini. Dal punto di vista del ‘morale’ si possono dividere in gruppi nel modo seguente. Ci sono venticinque soldati, artigiani, professionisti e volontari italiani, che sentono le ragioni della nostra guerra e la combattono con entusiasmo. Altri venticinque sono quelli tornati volontariamente dai paesi d’Europa o da quelli d’oltre Oceano. Gente che ha vissuto, gente che ha acquistato una certa esperienza sociale. Sono soldati ottimi sotto ogni rapporto.

Fra i “tipi di soldati” che avrebbero incarnato un tale modello patriotticamente virtuoso e tecnicamente superiore alla media, Mussolini aveva inserito un paio di giorni prima (5 aprile 1916) Ezio Lucchetti, un figlio di emigranti a cui i compagni di reparto avevano “affibbiato il soprannome di ‘arabetto’” perché era

nato e vissuto a Costantinopoli, dove la famiglia sua è rimasta sotto la protezione degli Stati Uniti, mentre lui tornava volontariamente in Italia per la guerra. Ha un po’ la silhouette del turco. Calmo, flemmatico, parla italiano con un leggero accento esotico un po’ turco un po’ francese. Fuma….come un turco. Una sigaretta gli pende continuamente dalla bocca e un’altra sta, di riserva, sull’orecchio destro. Quando Ascenzo [Memore Ascenzo, un ex marinaio di mestiere originario di Savona] vuole ‘sfottere’ l’‘arabetto’, lo chiama ‘aggregato all’Italia’. E allora l’‘arabetto’ perde la sua calma abituale e ‘scatta’ per proclamarsi ‘italiano’ di razza e di sentimento.

La varietà delle provenienze, nei resoconti di Mussolini, non era frutto di un calcolo preconcetto, bensì disegnava i contorni d’una situazione reale che inevitabilmente non poteva non far re-gistrare il primato numerico di quanti avevano fatto rientro in patria per combattere dal Nord America, dov’era stato in assoluto più intenso, nei primi quattordici anni del Novecento, l’afflusso degli emigranti meridionali come quelli poi rientrati in Italia con cui il Capo della Sezione P presso il Comando dell’Ottava Armata si sarebbe dovuto misurare, ormai a fine settembre del 1918, esaminando le risposte offerte da un centinaio di soldati di ogni corpo (fanti, bersaglieri, artiglieri, mitraglieri, genieri ecc.) “vissuti poco o molto negli Stati Uniti” al quesito: “ In che consiste la grandezza dell’America? Perché gli americani non hanno voluto subire la prepotenza tedesca?” . Il giovane ufficiale in questione, il medievista Gioacchino Volpe, all’epoca sottotenente del Servizio P. affermatosi sotto la nuova gestione dell’esercito sottratta a Cadorna ed affidata ora ad Armando Diaz, ne avrebbe tratto spunto per soffermarsi alcuni anni più tardi, in libri famosi, sugli emigranti nel percorso della nuova Italia in cammino in cui avrebbero trovato posto, tuttavia, anche molti di coloro che alla guerra erano venuti dai posti più diversi a cominciare da quelli sul tipo degi “inglesi per caso” di cui discorre incidentalmente Mussolini o dello stesso “ragazzo di diciannove anni venuto da San Paolo nel Brasile, ma dalmata e soggetto all’Austria” del quale narra Corrado Alvaro in entrambe le stesure del proprio romanzo autobiografico Vent’anni .
Come personaggio affiancato ad altri non dissimili da lui (un istriano “con un nome ostrogoto”, un altro proveniente da oltralpe “che parlava soltanto un suo francese pulito e spavaldo”), il giovane paulista Vitale Romano, a cui per precauzione, essendo di famiglia irredenta, viene cambiato parzialmente il nome in Vitale Guerra, diventa protagonista di gesti oltremodo coraggiosi nella parte finale del racconto dov’è descritta la sua morte in circostanze drammatiche ed eroiche simboleggiando, se messo a confronto con un tipografo romagnolo e repubblicano di cinquant’anni aggregato al reggimento assieme a lui e ancor più con altri componenti il grosso dei riservisti già emigranti, un sottogruppo particolare e quasi “generazionale” di volontari ossia quello di coloro che si erano spontaneamente arruolati dopo essere nati e cresciuti all’estero per lo più senza essere mai stati, neanche una volta, in Italia.
In rapporto all’andamento dei flussi migratori considerati nella loro serie storica, una tale categoria risulta di norma meno folta tra i nordamericani e meglio rappresentata invece tra chi sia giunto dal Brasile o dall’Uruguay e dall’Argentina, paesi nei quali l’emigrazione italiana aveva cominciato precocemente a dirigersi provenendo soprattutto dalle regioni centro settentrionali della penisola con largo anticipo, quindi, rispetto alle destinazioni statunitensi e canadesi. Sono i figli e i nipoti, insomma, dei previous migrants del secondo Ottocento a ritagliarsi uno spazio abbastanza speciale nei contingenti degli italo brasiliani i quali pagano maggiormente, in termini di nostalgia, il prezzo di uno spaesamento che l’ideologia nazionalista e risorgimentale non basta a risarcire. Ciò che succederà a buon punto a giovani come Olyntho Sanmartin o come l’Américo Orlando di cui si è salvato quasi per intero il carteggio con la madre e con i fratelli rimasti a San Paolo , capita in effetti a non pochi altri soldati giunti dal Brasile i quali, incorporati in diversi reparti, si cercano e si ritrovano in zone d’operazioni o in vari punti delle retrovie, parlano e corrispondono fra loro per lettera in portoghese, si fanno mandare da casa o provano comunque a recuperare giornali della propria terra natale e generi di consumo brasiliani mettendo in imbarazzo, alle volte, le donne (infermiere, insegnanti, madrine di guerra ecc.) dei comitati e dei patronati femminili che più sostengono, dal fronte interno della penisola, lo sforzo bellico e i combattenti. Una di esse, Evelina Rinaldi, in servizio volontario a Forlì presso un Ospedale territoriale della Croce Rossa, nel rievocare la propria attività di bibliotecaria e di “maestra” di complemento a contatto con i soldati feriti e là ricoverati – uomini appena semicolti, ma lettori curiosi e talora persino avidi e appassionati – assieme a qualche alpino piemontese “da vari anni dimorante in Francia” che ama discorrere con lei in francese, ricorda pure un “brasiliano”, di cui non fa il nome, solo ancora rammaricandosi di non aver potuto soddisfare le sue richieste:

Chi mi trovai nell’impossibilità di contentare – scrive infatti – fu un emigrato nel Brasile, quando mi domandò se avevo nessun libro in portoghese. Di fronte a tale richiesta, rimasi sgomenta, e lo sconforto crebbe, dopo che le mie ricerche in tutti i librai della città riuscirono vane. Potei procurare soltanto all’inaspettato cliente giornali americani ed un romanzo in lingua spagnola, che mi fu offerto da una scolara: ma, in compenso, gli regalai un libriccino illustrato sul Brasile, che gli offriva la visione del paese lontano, dove lo attendeva, con ansia affettuosa, la povera mamma sua.

Non è possibile stabilire con certezza chi fosse il destinatario delle premure di Evelina Grimaldi, ma ci sono buone probabilità che si trattasse dello stesso militare italo paulista Antonio Stocco di cui faceva parola nel 1916 un articolo del “Fanfulla” costruito sulle corrispondenze di alcuni soldati di origine brasiliana i quali, tramite suo, avevano fatto avere i propri ringraziamenti per l’invio di sigarette “nazionali” a una bambina che ne aveva fatto loro dono (la piccola Aida Pereira, alunna di “terza classe preparatoria” dell’Istituto Medio “Dante Alighieri” di San Paolo) . La nostalgia del “tabacco di casa” e delle marche brasiliane di sigarette, ben documentata anche nell’epistolario di Américo Orlando, è solo una spia fra le tante dell’attaccamento di molti riservisti alle abitudini e ai consumi, agli affetti privati e alle amicizie della patria acquisita o, se si preferisce, dell’“altra patria” che al momento però ha ceduto il passo a quella ancestrale dei padri per cui, senza mai dimenticarla, si sta combattendo in armi. Ed è all’Italia, quindi, che Stocco, convalescente a Forlì, si riferisce notificando di essersi battuto strenuamente, anche per i compagni lasciati in Brasile, “sulle aspre balze del Trentino e al fronte dell’Isonzo contro un nemico oppressore e codardo [sc. gli austriaci]. Misero, ma forte ho tenuto alto e integro – scrive – il nome dei fratelli delle lontane Americhe meritandomi più volte gli elogi dei miei superiori, […] ferito non ho lasciato il posto di combattimento”: se non fosse stato per il freddo, aggiunge – e per il congelamento degli arti inferiori che avevano comportato per lui l’amputazione delle dita dei piedi – Stocco garantisce che avrebbe continuato di buon grado a rimanere in prima linea. Dal lettino d’ospedale forlivese in cui si trova, nondimeno, ci tiene a mandare un saluto speciale ai propri amici rimasti a San Paolo e, naturalmente, a sua madre .
A parte un possibile aggiustamento del detto ubi bene ibi patria ovvero della sua riconversione in ubi mater ibi patria e quindi dando per scontati i particolari vincoli dei giovani soldati con le loro madri – che ci condurrebbero tuttavia un po’ fuori strada e comunque troppo lontano – pare evidente, a volersi anche solo soffermare sulla labile scia delle nostalgie, dei linguaggi o delle letture, che qualcosa d’irrisolto residuava nel fondo dei pensieri di chi pure aveva abbandonato i lidi americani nei quali era venuto al mondo e si era formato intellettualmente attraverso processi di socializzazione ipotecati solo in parte, per quanto grande fosse, da una matrice italiana rimasta assai forte sino alla vigilia della guerra nell’associazionismo mutualistico, ricreativo o sindacale e tuttavia anche già scesa ampiamente a patti, più e più volte, con gli usi, con le costumanze e con le condizioni tipiche dei paesi di accoglienza.
Nell’epistolario di Américo Orlando ne danno prova non poche lettere in cui si assiste al cambio di registro linguistico a seconda che siano indirizzate alla madre oppure ai fratelli. Alla prima, analfabeta, che corrisponde con lui grazie all’aiuto di una terza persona estranea alla cerchia familiare, Américo si rivolge sempre in italiano (un italiano, fra l’altro, abbastanza corretto) specie se debba parlare delle cose del suo servizio o della guerra mentre con i secondi corrisponde alternandolo spesso al portoghese che risulta anzi d’uso più frequente allorché oggetto della conversazione diventano fatti o ambienti dei quartieri di San Paolo. Certo non v’è traccia in ciò di bairrismo o di anacronistici trasporti per una “patria paulista” di cui si ignorano gli antecedenti storici e i trascorsi politici maturati del resto poco prima dell’arrivo in Brasile della famiglia Orlando (composta all’epoca dai genitori e da tre figli piccoli, mentre Américo, un altro fratello e una sorella sarebbero nati appunto in Brasile tra il 1895 e il 1902). La lingua degli affetti e dei sentimenti, però, al netto del rapporto con la madre che non padroneggiava il portoghese (il che rende improbabile una lettura tentatrice volta magari a equiparare la madrepatria con la madrelingua) è visibilmente, in Américo, quella della città e della terra di adozione . Una circostanza, questa, facilitata forse dal fatto che non diversamente da ciò ch’era successo in Argentina con lo spagnolo esistevano in Brasile, per gli immigrati italiani, problemi minori di apprendimento o comunque scogli meno difficili da superare rispetto a quanto soleva accadere nelle zone d’immigrazione anglofone. A parti rovesciate, l’incompetenza linguistica ovvero il fatto di non sapersi a lungo raccapezzare nei paesi di lingua inglese, condizionò e persino determinò alle volte il destino militare di molti emigranti che vi si erano portati dall’Italia negli anni immediatamente precedenti il conflitto e che, intenzionati a rientrarvi perché richiamati, ebbero a seguire, proprio a causa di ciò, parabole sicuramente singolari come, con ogni probabilità, quella del fratello di un suo commilitone friulano, l’Arturo Marano di Codroipo, da cui Benito Mussolini ebbe in visione una lettera (dell’aprile o del marzo 1916) che, pur eccedendo nel definire tout court il mittente come “volontario italo-inglese” – vista la casualità dell’arruolamento, fallito quello nel Dominion britannico – gli fece una certa impressione e che egli stesso trovò fosse “un documento interessante”.

Caro fratello – vi si leggeva – sono sette mesi che mi trovo sotto le armi inglesi, ma ancora non sono stato in battaglia, ma se mi toccasse di andare sarei contento di andare a combattere con quei barbari germanesi, sarei contento di morire, ma prima vorrei che qualche germanese mi passasse fra le mani. Caro fratello tu mi dici perché non ho raggiunto le nostre armi italiane. Se avessi potuto sarei venuto. Ho scritto al Consolato italiano a Vancouver in Canadà e non mi ha mai risposto. Così raggiunsi le armi inglesi e per la verità non si sta male. Io non parlo l’inglese, ma mi ‘rangio’ per bene. Diamoci coraggio tutti e tre fratelli sino alla vittoria e dopo raggiungeremo la casa paterna tutti e tre insieme, per non più abbandonarla.

Nel panorama più complicato di quanto di solito non si pensi degli arruolamenti sia volontari e sia, più spesso, forzosi del primo conflitto mondiale, si videro anche non poche famiglie già divise dall’emigrazione con i figli contemporaneamente dislocati su diversi o, meglio, su avversi fronti per un fenomeno di cui è rimasta l’eco, sin quasi ai nostri giorni, in film come Good Morning Babilonia dei fratelli Taviani : da noi soprattutto nelle zone di confine nel Friuli d’oltre Judrio e nel Trentino ancora austriaco, come successe ai giovani Filzi e a vari fratelli, montanari delle Giudicarie o di altre valli alpine, incorporati chi nell’esercito imperiale e chi in quello italiano, chi in quello canadese e chi in quello statunitense o, per scelta opposta, semplicemente rimasti a vivere da immigrati nelle Americhe oppure, ancora, fattisi deliberatamente disertori, come Sacco e Vanzetti nel 1916, riparando dagli USA in Messico.
La casistica della renitenza e delle cosiddette diserzioni all’estero, assai ampia, variegata e soprattutto quantitativamente preponderante rispetto ai pur indicativi rimpatri, non fu di ostacolo al formarsi in Italia di un’opinione “giornalistica” favorevole al fenomeno dei rientri o degli arrivi, specie dalle Americhe, di reclute così particolari al di là del fatto che esse venissero poi accolte, a livello popolare o dalle gerarchie militari e fra gli stessi primi commilitoni incontrati nelle caserme per l’addestramento, con vivo scetticismo se non addirittura con punte d’infastidito stupore delle quali naturalmente non poteva esserci l’eco nel Diario di Mussolini. Il suo punto di vista senza esitazioni positivo sugli emigrati alla guerra, non apparteneva comunque, in esclusiva, ai giornalisti guadagnati alla causa del nazionalismo o al futuro Duce che, dal canto proprio, aveva alle spalle, oltre al resto, una esperienza concreta, per quanto breve, di emigrazione da lavoro in Svizzera fra il 1902 e il 1904.
Nell’opera più smaccatamente propagandistica a sostegno delle ragioni del conflitto molti articoli già comparsi ad esempio sull’“Idea Nazionale” rimbalzavano non di rado dai giornali della pe-nisola sin sulle pagine dei maggiori periodici e fogli etnici italoamericani (come negli USA “Il Carroccio” e in Brasile soprattutto il “Fanfulla” che già per conto proprio, del resto, provvedevano costantemente alla bisogna) portando sempre con sé l’elogio, quasi scontato, dei “nostri valorosi riservisti” e soprattutto la giustificazione della guerra in sé cara, sin dal suo inizio, a Corradini . Alcuni degli esponenti più autorevoli e più in vista del nazionalismo politico tra gli autori letteralmente ripresi con maggiore frequenza nei quotidiani d’oltreoceano, come Gualtiero Castellini o Alfredo Rocco, si sforzavano di riservare, necessariamente seppur con diverse sfumature, notevole spazio a quello che era stato il cavallo di battaglia, e il mito fondativo, proprio di Enrico Corradini, promotore e leader indiscusso del movimento. Anche in sede letteraria, con i suoi due romanzi a tesi La patria lontana e La guerra lontana, egli aveva d’altronde auspicato e preconizzato, nel 1910 e nel 1911, la trama di una vicenda in tutto e per tutto simile, sulla carta, a quella del rientro per motivi militari di molti emigrati dall’America Latina (nel caso della sua narrativa e anche in un’opera teatrale – il dramma in tre atti Le vie dell’Oceano del 1913 – in buona sostanza l’Argentina e il Brasile) . E non a caso origineranno poi di qui, dopo la conclusione del conflitto e nel pieno della dominazione fascista, una serie di iniziative paraletterarie e persino cinematografiche culminate nella realizzazione del film Passaporto Rosso di Guido Brignone (che nel 1935 portava così a compimento un progetto e un “soggetto d’emigrazione” analogo, e appena fallito, di Anton Giulio Bragaglia – Il fabbricatore di città – dando risalto per la prima volta, nella colonna sonora della pellicola, a un canto popolare come “Merica! Merica!” le cui parole secondo alcuni sarebbero state scritte su musica di anonimo da Angelo Giusti , un colono veneto di Nova Trento – oggi Flores da Cunha – per esaltare l’opera dei pionieri italiani che in Brasile con la loro “industria” avevano “formato paesi e città”).
Fra tali iniziative per così dire “postume” al pari di quelle autobiografiche e già citate di scrittori quali Mario Puccini o Corrado Alvaro si inseriscono, di solito meno conosciute, ma ugualmente emblematiche ed efficaci, le narrazioni presenti nei libri scolastici e in genere nella letteratura (o nella paraletteratura) per l’infanzia. Esse, avvertono gli specialisti, s’imposero più facilmente appunto negli anni venti e trenta, in Italia, per impulso prevedibile di autori strettamente legati al regime come Paolo Monelli ed Oreste Rizzini o come, ancor più di loro, Roberto Forges Davanzati e Francesco Sapori , i cui volumetti divulgativi e i cui manuali ebbero in effetti larga circolazione nelle scuole del Regno e tra vasti pubblici giovanili già destinatari, un po’ dovunque, di messaggi propagandistici prevalentemente incentrati sulla sacralizzazione della grande guerra della quale il fascismo si proclamava (e in buona parte era) l’erede. Vale la pena di notare, tuttavia, che, sin dalla fine del secolo XIX e poi con crescente impegno sul finire dell’età giolittiana, avevano preso piede in questo tipo di produzione editoriale per studenti e per ragazzi opere nelle quali, com’è stato ben spiegato da Lorenzo Luatti , la figura dell’emigrante che rimpatria per ottemperare agli obblighi di leva e per prendere parte a imprese coloniali e a guerre vere o anche solo immaginate alla Corradini, già esiste e appare ben sbozzata, sebbene si appoggi poi a schemi ideologici che risentono di una impostazione nazionalpatriottica di stampo ottocentesco tuttora in voga, all’estero, nel precario universo scolastico “coloniale” per iniziativa di piccole comunità immigratorie rurali e del clero italiano che le accudiva (singoli “preti emigranti” in cura d’anime, missionari carlisti, “Italica Gens” ecc.) o per impulso, nelle grandi città e in alcuni centri urbani minori (come in Minas a Belo Horizonte e a Barbacena, a Juiz de Fora e a São João del Rei), della “Dante Alighieri” e dei consoli del Regno attivi in modo discontinuo ma piuttosto evidente proprio nel caso del Brasile . Qui non sappiamo con precisione, ma senz’altro in Italia sì, il modello pedagogico, che affida agli emigranti di ritorno nella patria degli avi per motivi militari un ruolo importante nella definizione dell’identità nazionale, si perfeziona fra il 1915 e il 1919 sulla scorta di esempi infine visibili e concreti consolidando così una precedente tipizzazione destinata per forza di cose ad ottenere maggior credito appunto nel corso del primo conflitto mondiale.
In un testo scolastico “ardentemente patriottico” della scrittrice Luisa Macina Gervasio, celata sotto lo pseudonimo maschile di Luigi di San Giusto , “il tema della patria in pericolo che richiama alla mobilitazione i suoi figli dispersi” è sviluppato, ad esempio, con somma “enfasi retorica” e con grande “passione nazionalistica, sia attraverso lo strumento della finzione narrativa e sia attraverso l’inserimento di parti più descrittive” degli accadimenti che si erano svolti o tuttora si stavano svolgendo sui fronti dell’Isonzo e degli altipiani con generici riferimenti alle esperienze fatte all’estero prima della guerra. Il libro, come parte “di un corso di letture appositamente edito” in quei frangenti bellici per “trasmettere, ai più piccoli” qualche esempio “di amor patrio e di sacrificio” e quindi dei modelli persuasivi di “eroismo” attinti dunque anche a storie di ordinaria emigrazione, s’intratteneva sulle vicissitudini familiari di un maestro, dal nome prefigurante di Rondini, che aveva da anni un fratello emigrato, inizialmente con poca voglia di far bene, in Brasile. I due a causa di alcuni attriti e di vari dissidi legati all’indole o meglio all’indolenza di quello di loro, Aurelio, che era espatriato al di là dell’oceano, a un certo punto avevano però litigato interrompendo per molto tempo i propri rapporti epistolari sin tanto che, scoppiata la guerra, dalla lontana America non era giunta, inattesa e graditissima, proprio una lettera nella quale, ricreduto e profondamente cambiato, il fratello “brasiliano” ripercorreva le tappe del suo cammino di emigrante ravveduto alla finale riscoperta d’una italianità rimasta “troppo a lungo” sopita e dormiente. Inutile dire che il maestro Rondini, commosso oltre ogni dire, si affretta a leggere in classe ai propri alunni l’intera missiva nella quale Aurelio parla di sé alle prese con le sfide dell’immigrazione in America, ma per preannunciare, soprattutto, il proprio imminente ritorno da un paese come il Brasile che, comunque fosse andata la sua vicenda, gli aveva offerto sin lì opportunità concrete di miglioramento:

Qui giunsi – scrive l’emigrato senza precisare di che parte del Brasile si tratti – con occhi incantati per la vista di tante novità, che mi diedero un senso nuovo della vita e delle cose. Mi misi subito al lavoro. Con facilità appresi la lingua del luogo. Mi meravigliai della mia buona volontà a far tesoro d’ogni ammaestramento del capo dell’officina. In poco tempo, divenni uno dei primi lavoranti […] Posso dirti, caro fratello che il fannullone d’una volta è in me sparito del tutto. Un uomo è in me, pieno di forza, di perseveranza, di audacia, di fede nell’avvenire

I passi cruciali del messaggio, tuttavia, sono quelli in cui, appunto in virtù della trasformazione propiziata dall’esperienza lavorativa brasiliana che lo ha rigenerato, Aurelio (cioè, in realtà, la scrittrice che gli dà voce), chiama in causa la guerra come fattore di autoriconoscimento e come occasione imperdibile di riscatto nazionale:

Gli echi della grande guerra mondiale sono qui giunti ingigantiti dalla distanza. Tutti gl’Italiani, che qui formiamo una grande famiglia, tendiamo lo sguardo e l’anima all’Italia nostra. Tu non puoi comprendere che cosa è l’Italia per noi. Bisogna essere lontani dalla madre Patria per sentirla in tutta la sua bellezza, per appassionarsi alla sua sorte. Orbene, per non indugiarmi in vane chiacchiere, l’entrata dell’Italia in guerra contro l’Austria ci ha tutti commossi. Qui non si parla d’altro. Ciascuno di noi, secondo i propri ricordi storici o personali, racconta le prepotenze della nemica secolare; e tutti, alla fine d’ogni racconto, diciamo, a coro: – Partiremo.

Quando la parola ritorna al maestro, e quindi all’autrice, il commento che ne consegue non solo è in linea con l’invenzione epistolare del momento, quanto piuttosto esprime in sintesi una rappresentazione dei rientri “patriottici” dalle Americhe ch’è ricorrente sulla stampa interventista, ma che evita accuratamente foss’anche solo di accennare (cosa che invece persino nei giornali e nei fogli etnici talvolta succede) al problema delle diserzioni in massa degli emigranti “americani” rimasti invece all’estero, per concentrarsi tutta sulla nobilità e sul valore simbolico del gesto compiuto da quella che non si troverà mai la forza o il coraggio di definire, come di fatto fu, una sia pur corposa minoranza

Voi sapete che molti milioni d’Italiani vivono all’estero. Molti si sono stabiliti in Australia, in Asia, in Africa; ma specialmente nelle Americhe si trovano tante famiglie italiane, da formare altrettante piccole Italie. […] Quando giunse in America la notizia che l’Italia aveva dichiarato guerra all’Austria, tutti gl’Italiani validi e atti alle armi si sentirono spinti dal desiderio di tornare in Patria a compiere il loro dovere di soldati. E ne tornarono e ne tornano! Bravi cuori! Anche lontani non avete dimenticato ciò che dovete alla terra che vi diede la vita!

La descrizione in sé, specie quando vuol rendere l’idea della passione che accompagna dopo la partenza dai porti americani i riservisti, è senz’altro, a mio avviso, fededegna. Lo è assai meno allorché, indugiando soltanto sui primi momenti seguiti allo sbarco in Italia, non si sofferma né punto né poco sul modo in cui essi vennero accolti dalla gente e dalle stesse autorità militari perché di fatto sarebbe stato inevitabile, allora, registrare un indicativo deficit di entusiasmo del tipo che amaramente sperimentò, per menzionarne uno di già citato qui sopra, Vincenzo D’Aquila assieme ai suoi 1500 compagni di viaggio e di avventura. D’Aquila era giunto nel luglio del ‘15, invano aspettando dei festeggiamenti popolari o istituzionali all’altezza del gesto compiuto arruolandosi , sino alla Dogana partenopea di S. Lucia perché la sua nave – una nave “da emigranti” quale era il transatlantico “San Guglielmo” della “Compagnia Siculo Americana”, tra i maggiori del tempo – operava sulla linea New York – Napoli.
I piroscafi che facevano invece la rotta del sud Atlantico e che provenivano dall’Argentina e dal Brasile erano diretti di solito a Genova dove tuttavia la situazione, all’arrivo, non si presentava tanto migliore, anche se non era paragonabile a quella che i riservisti italo americani avrebbero trovato poco più tardi in molte caserme di primo accantonamento (come fece D’Aquila a Piacenza) o persino a casa loro fra parenti ed amici. Il futuro ferroviere Giuseppe Bussi che lo lasciò scritto nel 1959 in un suo zibaldone di appunti e di memorie e che era rientrato diciannovenne in Piemonte dall’Argentina, dove s’era fermato a lavorare, come altri, ben pochi anni, ricorda d’essere rientrato in Italia per paura di essere dichiarato disertore e annota:

Il viaggio di ritorno in Italia durò venti giorni, quando arrivammo vicino le coste dell’europa, viaggiammo col vapore a lumi spenti per evitare brutti incontri coi sottomarini austriaci […]. Io come principio ero contrario alle guerre ma la situazione venutasi a creare per la guerra mondiale mi fece meditare profondamente e mi impose una decisione che mi pareva la più giusta. Decisi di venire in Italia a fare il mio dovere di militare confidando nella fortuna che mi sarebbe stata benigna […]. Arrivai a casa all’improvviso i miei genitori pensavano che cera la guerra e non sapevano cosa dire. Il mio arrivo fu criticato dai miei compagni del paese. Io non dovevo rendere conto a nessuno dei miei fatti, sapevo già cosa mi aspettava ed ero rassegnato alla mia sorte .

Anche a Olyntho Sanmartin procurò sensazioni assai simili a quelle provate da D’Aquila o da Bussi lo scenario che si prospettava davanti ai suoi occhi al porto di Genova dopo l’attracco del vapore “Cavour” col quale aveva viaggiato da Santos e che aveva imbarcato a Buenos Aires e a Montevideo le centinaia di italo argentini e di italo uruguayani a cui solo alla fine s’era aggregato il gruppo brasiliano di cui egli faceva parte: “a manhã cheia de luz convidava os curiosos a assistír à chegada dos patriotas e entre êsse isocronismo que mais parecia ser de expectativa que de belicosidade, de recolhimento que de entusiasmo, peerdime com êles. A confusão era grande. Grupos eram formados, compactos, inquietos…” .
Affidando a un altro lavoro il compito di approfondire le questioni riguardanti i motivi dell’arruolamento “volontario” e delle scelte di partire per l’Italia fatte dagli emigranti “americani” è lecito ad ogni modo sottolineare come fra esse prevalessero con ogni probabilità o abbastanza spesso proprio quelle indicate e predicate dalla propaganda nazionalista che era riuscita ad imporsi all’estero e a far breccia lì con maggiore facilità che non in Italia proprio fra gli elementi più giovani e di estrazione sociale non tanto borghese o piccolo borghese, bensì proletaria, almeno a giudicare dai mestieri manuali da essi esercitati (artigiani, braccianti, muratori, falegnami, carpentieri, sarti, operai, scalpellini, minatori ecc.), nonché dalla loro provenienza urbana che rimanda quasi sempre a insediamenti, evocati d’altronde con puntigliosità nella stampa in lingua italiana e nelle stesse corrispondenze dei riservisti, in piccole cittadine e nei quartieri popolari delle grandi metropoli. Così ce li presentano, se feriti o caduti, nei necrologi di guerra ed anche negli articoli che tratteggiano i loro profili professionali, i fogli etnici d’oltreoceano , ma anche non pochi osservatori esterni e, più tardi, molti degli stessi protagonisti intenti a ricordare, a distanza di vari decenni, la propria esperienza allo scoppio della guerra.
Tra i testimoni del tempo non sospettabili di faziosità nazionalistica e meno ancora ascrivibili alla cerchia dei propagandisti e degli interventisti ad oltranza, se ne contano alcuni le cui descrizioni per nulla “letterarie” relative a uno stesso lasso di tempo (gli anni dal 1910 al 1915) ben si accordano con quanto una produzione memorialistica forse anche più vasta potrebbe attestare. Nella corrispondenza privata di May (Maimie) Pinzer, una prostituta trentenne di Filadelfia dotata di buona cultura e residente da un paio d’anni nel Canada francese , ecco ad esempio come si profilano, quasi a sorpresa, i volontari italiani in partenza da Montreal ai primi di settembre del 1915:

Oggi ero alla stazione (della Canadian Pacifica Railroad) e voglio raccontarle cosa ho visto. Io e il signor Benjamin [ci] siamo andati e abbiamo sentito una musica, così bella che abbiamo pensato che dovevano essere i Granatieri. Da quando c’è la guerra dovunque ti può capitare di sentire suonare una banda […] Abbiamo pensato che fossero i Granatieri, perché la musica era meravigliosa. Suonavano la “Marcia dei soldati” dal Guglielmo Tell […] Si può immaginare la nostra sorpresa, quando, invece dei granatieri in smagliante uniforme, ci siamo trovati davanti una piccola compagnia di riservisti italiani che partivano per il fronte. La compagnia, circa sessantacinque uomini, era il gruppo più scalcinato che avessi mai visto, e pareva che avessero appena deposto piccone e badile in uno scavo lì vicino, per seguire la loro bandiera. Invece avevano fatto per parecchie miglie e li avevano fatti venire fin qui per poi imbarcarsi. La cosa sorprendente era la musica, perché ormai eravamo abituati a vedere uomini nel fiore degli anni andare al massacro […] Erano lì alla stazione sull’attenti e suonavano l’Inno Nazionale Italiano, e la Marsigliese: e molta gente si era radunata ad ascoltarli, perché la musica era meravigliosa. Era una piccola banda e sembrava di essere in una sala da concerti. A parte la musica c’era in loro qualcosa di notevole. Siamo abituati, come ho detto, ad assistere alla partenza dei soldati; ed anche se viene sempre un nodo alla gola quando si vedono questi bei ragazzi andare incontro ad un maledetto dovere, eppure il soldato canadese affronta la guerra più come un divertimento che come un dovere. […] Con questi italiani era diverso; ed era proprio questo fatto che prendeva alla gola, e faceva piangere senza ritegno. Anche loro erano giovani, ma avevano il peso di anni di fatiche sul sorpo e sul viso; e anche i loro volti erano immobili, il loro sguardo penetrava dentro di noi. Per loro non era un divertimento. Andavano a compiere un dovere.

Maimie osserva che i giovani riservisti pick and shovel (lavoratori usi a maneggiare, come loro dicevano, “picco[ne] e pala”) tanto erano concentrati nella musica mentre la stavano eseguendo, quanto sembravano timidi e imbarazzati una volta finito di suonare davanti ai festeggiamenti con cui la gente convenuta alla stazione (probabilmente altri italiani) si adoperava per incoraggiarli donando loro “sigarette, cioccolata ecc. (le solite cose quando i soldati partono)”. Essi davano alla ragazza l’impressione di essere stanchi e quasi tutti duravano fatica a sorridere. Erano, diceva Maimie, “duri e rozzi in apparenza, privi di qualsiasi attrattiva”, però quando riuscivano ad abbozzare un sorriso per dimostrare la propria gratitudine a chi li faceva oggetto di attenzione e di cortesia, si capiva subito “che erano pieni di romanticismo e sentimento, come tutti quelli della loro razza, e [così] ogni durezza scompariva”. Al netto dello stereotipo positivo dell’emigrante mediterraneo nelle considerazioni svolte dalla giovane donna di piacere emergevano man mano, attraverso il racconto epistolare, alcune caratteristiche dei componenti il gruppo colte con precisione da lei e dal suo accompagnatore che, cresciuto a New York in un quartiere abitato da ebrei e siciliani, parlava l’italiano “perfettamente come lo yiddish” o almeno quel tanto che bastava per intavolare una conversazione illuminante con un ventiseienne, Salvatore Bruchesi, che era d’un paese vicino a Milano.

Siamo rimasti lì [alla stazione] ancora dieci minuti, mentre Bennie chiacchierava con questo giovane, che gli ha raccontato che erano riservisti, e alcuni di loro, lui per primo, non sapevano niente della guerra, finchè non era stata coinvolta l’Italia; e allora attraverso le sue autorità aveva ricevuto disposizioni di raggiungere altri riservisti come lui a Calgary. Pensi come sono fedeli! Ha detto che finora ha speso sessantacinque dollari per arrivare fin qua: certamente per le spese di viaggio e di alloggio in attesa di unirsi agli altri. Lavorava nelle miniere ed era via dall’Italia da quattro anni, ma non sapeva neanche una parola d’inglese. Le lettere che ha dato a Bennie da impostare, ma prima bisognava allegarci alcune sue fotografie (fatte a Calgary), erano indirizzate a donne [….] Quando hanno ripreso la marcia al suono della banda, lui ci ha guardato come se fossimo dei veri amici; e mentre prima, parlando, era a suo agio, adesso era di nuovo timido. Quando ci siamo salutati, Bennie gli ha dato la mano: gli occhi del giovane si sono riempiti di lacrime, mentre stringeva tutte e due le mani di Bennie, io l’ho toccato sulla spalla e sono andata via […] Non lo dimenticherò mai.

Che a carico di parecchi volontari finissero per rimanere talvolta una parte delle spese sostenute per il viaggio di ritorno, aderendo a una direttiva delle autorità consolari o anche solo a una loro calda raccomandazione, trova conferma, unitamente al “senso del dovere”, nei ricordi di altri riservisti come Giovanni Antenucci, classe 1885, rimasto a lavorare fino al giugno del 1915 negli Stati Uniti dove si trovava da vari anni senza avere mai pensato di dover ottemperare in precedenza agli obblighi di leva. Allora, scrive nel suo “diario” questo muratore molisano autodidatta che in Italia aveva fatto solo la prima elementare ,

erano già tre mesi che era scoppiata la grande guerra contro l’Austria e molti cittadini italiani che si trovavano in America ex soldati renitenti di leva come ero io pure, tutti sentivano il dovere di tornare a difendere la nostra amata patria, siccome anche io ero renitente di 10 anni perché io non avevo mai sognato di ritornare in Italia perché dove io mi trovavo stavo ottimamente bene. Un giorno si sparse la voce per mezzo di giornali che tutti cittadini italiani residenti negli Stati Uniti e che vogliono andare a combattere affianco ai loro fratelli saranno tutti rinviati a viaggio gratuito.

Antenucci, però, che si era trasferito alcuni mesi prima da Boston nel Maine e che qui era rimasto vittima di un serio incidente in cantiere ricavandone anche gravi menomazioni, il viaggio alla fine se lo pagò per intero da solo.
Dopo aver fatto conoscenza con il console italiano a Portland, Gaspare Vervena, con cui entra subito in confidenza per la sua affabilità e dal quale riceve l’invito ad arruolarsi, Antenucci si consiglia col proprio “padrone di casa”, un italiano carico di figli stabilito in America da un quarto di secolo, il quale tenta invano di dissuaderlo. Accantonata ogni esitazione si reca così nella sede consolare e comunica a Vervena la propria decisione dicendogli che se fino a quel momento non si era posto il problema della propria renitenza alla leva ciò era dovuto al fatto che l’Italia non aveva mai avuto “bisogno” di lui mentre ora essa, ricorda, “è in piena e disperata guerra e anche io voglio dare il mio piccolo contributo alla patria.” Quando però il console, dopo essersi congratulato per la prova d’italianità offerta dal giovanotto, gli fa presente che accettando d’imbarcarsi sul “bastimento” dei riservisti dal momento in cui salirà a bordo egli sarà considerato un soldato a tutti gli effetti e soprattutto che una volta arrivato a Napoli dovrà sottostare alla disciplina e alle decisioni del distretto militare, Antenucci rivede i suoi piani: “allora io pensai e come dopo undici anni che manco dalla mia casa adesso non ci posso andare a vedere neanche la mia vecchia madre e il resto della famiglia; e allora io pregai il console di cancellare il mio nome dalla lista perché io parto lo stesso per l’Italia ma voglio pagare il mio viaggio e andare con i miei comodi”. Il console lo accontenta depennandolo dall’elenco dei partenti “gratuiti”, ma Giovanni vien colto dagli ultimi tentennamenti e da nuovi dubbi: “impiegai – scrive – due giorni per risolvermi, un pensiero mi diceva di tornare e uno di no”. Alla fine, spaesato e ancora un po’ zoppicante, il giovane decide di rimpatriare a proprie spese:

Io pagai il viaggio di 2a classe dollari 80 e il 28 giugno 1915 partii da Boston Mass. col piroscafo Patria e il 10 luglio arrivai a casa dove restai fino al 15 agosto e poi mi presentai al distretto militare di Campobasso e mi assegnarono al 48° Regg.to fanteria e mi fecero partire per Catanzaro Calabria dove feci 40 giorni di istruzione.

In zona d’operazioni Antenucci arriverà sul finire di ottobre incorporato nel 39° Fanteria in quel di Villesse mentre infuria la terza battaglia dell’Isonzo e la Brigata Bologna ha appena espugnato le trincee a Ypsilon e delle “Celle”: la scoperta di quanto siano aspre e quasi indicibili la guerra sul Carso e le battaglie all’arma bianca gli detta inevitabilmente riflessioni amare (“Io pensavo alla bella vita vissuta in America ma allora non avevo più che farci era troppo tardi e bisognava solo rassegnarmi al destino”) che inagurano la parte del diario dedicata alle vicissitudini belliche da lui poi vissute e complicate dalla cattura a Caporetto e dall’imprigionamento nel campo di Ziegenhain in Renania. Rientrato in Italia attraverso ulteriori peripezie alla fine del conflitto, Antenucci sarà più fortunato di altri emigranti soldati a cui fu precluso il ritorno negli Stati Uniti del Literacy Test e, ottenuto il congedo nell’aprile del 1919, farà ritorno, stavolta “come riservista a viaggio gratuito”, a Boston rimanendovi tuttavia appena due anni.
Più sintetico, ma non meno indicativo d’una situazione di fondo con diversi punti in comune per molti riservisti d’oltreoceano (giovane età, discreto benessere economico già raggiunto, soddi-sfacente sistemazione occupazionale in America, ecc.) appare il resoconto, invero stringato, del lucchese Angelo Camillo Abrami , che tra il 1910 e il 1915 era andato e tornato un paio di volte in Brasile acclimatandosi nel migliore dei modi a San Paolo dove oltre a una fitta rete di compaesani e parenti aveva potuto anche sfruttare molteplici occasioni di lavoro in una città rievocata con simpatia nelle sue memorie e dipinta come centro vivacissimo e in continuo sviluppo. Anche qui, tuttavia, la guerra interrompe, per quelli che scelgono di arruolarsi nel regio esercito, l’ordine normale della vita all’estero in nome di un imperativo patriottico da onorare o anche solo per paura d’incorrere in futuro in qualche ipotetica sanzione che si temeva potesse essere più dura per chi non rispondeva, prima o poi, alla chiamata alle armi proveniente dall’Italia:

Quando il 24 maggio 1915 l’Italia entrò in guerra le cose cambiarono anche in S. Paulo. La patria richiamava i suoi figli emigrati per arolarsi! Quindi i riservisti entusiasmati da tutte le contrade città villaggi incominciarono a partire a scaglioni e così mi decisi anche io a ritornare in patria per fare il mio dovere. Quindi il 20 giugno 1915 assieme a 5 paesani col 3° scaglione ci recammo alla stazione centrale dove era il 1 convoglio repleto di giovani in partenza per Santos al suono di bande e fanfare cantando inni e canzoni, con sventolio di bandiere tricolore, inneggiando alla patria nostra tanto amata vittoriosa. Si partì da S. Paulo pieni di entusiasmo dopo 2 ore si raggiunse il muolo di Santos. La nave era ancorata al largo si dovette raggiungere in barchette, dove si notò subito la disciplina militare di un viaggio triste durato 55 giorni sul mare con cibo triste scarso e deteriorato. A Rio de Janeiro imbarcarono il 3 scaglione di riservisti. Eravamo in 1200 più l’equipaggio tutti volontari! La nave vecchia carcassa Austro Ung. Durante il viaggio sempre brutte notizie allarmanti coi sottomarini sempre in vista. Si raggiunge Salvador 8 giorni di sosta, Pernambuco 6. Cibo mal sano attraverso l’oceano sempre pericolando la nave sbandava sovente. A Dakar 2 giorni rifornimento carbone, a Gibilterra folta nebbia! Finalmente si raggiunse Gibilterra, la nave posò le ancore e la rimase. Non navigava più. 10 giorni dopo entrò in porto la nave Regina d’Italia colla ghiglia squarciata da una mina reduce da N.York ci trasbordarono sulla nave e dopo 4 giorni ci sbarcarono al muolo dei mille nel porto di Genova il 15 d’agosto dandoci 1 mese di riposo per le sofferenze subite durante il viaggio. Il 1 settembre mi presentai al distretto di Lucca mandandomi a Udine al 2 fant.

Nino Augusto Goeta, uno dei più quotati redattori del “Fanfulla” sia durante la guerra, a cui prese parte come riservista facendo anche la spola tra l’Italia e il Brasile senza interrompere la propria collaborazione con il giornale al quale viceversa continuò ad inviare numerose e dettagliate corrispondenze dai vari fronti (interno e in zona d’operazioni), e sia durante la stagione del fascismo (e dell’Estado Novo), quando rimase in servizio salendo ai vertici della testata italo paulista , fu colui che s’incaricò, in vista della fine del conflitto, di dare risalto ad alcune iniziative che avrebbero dovuto tornare a vantaggio dei “volontari” venuti a combattere in Italia dalle Americhe. Senza trascurare quelli giunti dal Canada o dagli Stati Uniti, Goeta fu così tra i promotori e gli animatori di un “Comitato Italo Sud Americano” sorto a Roma in aiuto, come al solito, della causa italiana e alleata, ma soprattutto dei combattenti partiti dai paesi del sucontinente in cui più forte era la presenza peninsulare ossia il Brasile e l’Argentina. Nel farlo fu però costretto a rilevare, in premessa, l’ancor grande “ignoranza” che a suo avviso circondava le cose dell’emigrazione in quelle parti del mondo e a lamentare la genericità, per non dir peggio, delle conoscenze esistenti in Italia a proposito dei linguaggi, della “geografia” e, in una parola, dell’intera realtà latinoamericana per quanto “fecondata”, non solo demograficamente, dagli italiani. Per tale motivo, era il suo auspicio, il nuovo Comitato avrebbe dovuto attrezzarsi innanzitutto da un punto di vista culturale e, in parte, politico, al fine di poter fare qualcosa di veramente utile ai riservisti d’oltreoceano tuttora sotto le armi ossia, quando ormai mancava solo un mese alla conclusione della guerra, per quanto riguardava

la protezione e l’assistenza ai soldati che la voce del Dovere ha fatti accorrere in aiuto alla Madre [patria], Si calcola siano 150.000 (i…..sordi sono molti, moltissimi di più: ma qui la discussione diverrebbe scabrosa) ed è santa l’idea di aiutarli materialmente e moralmente. C’è. Per esempio, da far capire che essi hanno diritto a una qualche eccezionale considerazione. Si sa: hanno fatto il loro dovere, nient’altro che il loro dovere. Ma l’hanno fatto in condizioni speciali e hanno per lo meno il vanto di una meritoria volontarietà di obbedienza. Visto e considerato che quaggiù la voce di quel tal dovere non è resa più persuasiva dal pennacchio dei patrii carabinieri….

Tra le due guerre, come abbiamo visto, più che i riconoscimenti, abbondarono quasi solo le strumentalizzazioni del gesto compiuto – e molte volte pagato con la vita – dai volontari usciti dalle file dell’emigrazione in America i quali si confusero così fra tutti gli altri ex combattenti e reduci del primo conflitto mondiale anche se qualcuno aveva tentato di ricordarne per tempo l’impegno, sia come sia, abbastanza singolare.
A Torino, in Piazza Castello, si trova ancora sotto i portici della Prefettura, quasi punto di ritrovo per motivi scaramantici degli studenti universitari in cerca di conforto alla vigilia di esami, di selezioni, di concorsi ecc., un altorilievo di Cristoforo Colombo, opera di uno scultore famoso, Dino Somà, che lo aveva realizzato in memoria e in onore della partecipazione alla grande guerra dei “volontari” d’origine italiana arrivati da tutta l’America Latina. Colombo vi è effigiato mentre addita la rotta del suo viaggio, il primo al di là dell’Oceano che avrebbe portato alla scoperta del nuovo mondo, ma con il passar del tempo il dito mignolo della sua mano protesa verso l’ignoto si è trasformato nel talismano di quanti, e sono molti, non si peritano ancor oggi di strofinarlo ben oltre la sua inevitabile consunzione. Il “dito del viaggiatore”, come lo chiamano i torinesi, ormai sostituito per forza di cose da una riproduzione “al naturale”, è diventato insomma, ed è rimasto, soltanto un amuleto che tutto ricorda fuorchè quello, gli emigrati italo latinoamericani e la Grande Guerra, per cui Somà aveva scolpito il proprio monumento inaugurandolo il 12 ottobre del 1923, data commemorativa dello sbarco nell’isola di San Salvador del navigatore genovese, con pochi giorni di anticipo sul passaggio in città, nella sua veste di capo del governo, di Benito Mussolini, per la prima volta in visita agli stabilimenti torinesi della FIAT che in America Latina, peraltro, sarebbe a sbarcata sua volta, come azienda all’epoca ancora italiana, quarant’anni più tardi a Belo Horizonte e anche in altre parti del Brasile e dell’Argentina. Ma questa, come si capisce, è tutta un’altra storia.