ESODI SPONTANEI, ESODI FORZATI. I PROFUGHI DELLA GUERRA ITALIANA

La prima guerra mondiale mise in movimento decine di milioni di persone: soldati, lavoratori militarizzati, civili furono protagonisti di una serie di spostamenti dalle motivazioni e caratteristiche molto diverse. Le aree di combattimento si spopolarono di civili e si popolarono di lavoratori militarizzati, prigionieri adibiti al lavoro e naturalmente soldati; le regioni dell’interno dei vari paesi belligeranti videro partire per il fronte gli uomini abili alle armi, ma molte città, ed anche piccoli paesi, diventarono luogo di ricovero di feriti – nelle retrovie sorsero ospedali da campo capaci di ricoverare anche migliaia di persone – centri di addestramento di truppe, zone di ricovero e stanziamento dei profughi, determinando un rimescolamento sociale e culturale sostanzialmente inedito. Nella Vienna rappresentata da Karl Kraus ne Gli ultimi giorni dell’umanità i profughi sono una presenza frequente, specie gli ebrei fuggiti dalla Galizia, e di questa “babilonia” sociale e linguistica rimangono tracce in altri testi letterari, nei resoconti dei quotidiani più diffusi, ma anche nei diari parrocchiali e nelle cronache di luoghi molto più remoti e meno conosciuti.
Non è casuale che in contesti così diversi appaia la figura del profugo, presenza non certo sconosciuta in passato, ma nuova per le caratteristiche che assunse e per le dimensioni che il fenomeno della profuganza raggiunse. Gli esodi di massa dei civili dalle zone del fronte ebbero il loro esordio nelle guerre balcaniche ; fu durante la Grande guerra, però, che toccarono livelli inediti per quantità e durata. Lo stato si trovò di fronte compiti nuovi, che richiesero ingenti risorse finanziarie e la creazione di strumenti normativi e modelli organizzativi che non avevano precedenti nelle consuete prassi amministrative, aspetti di cui si resero conto ben presto i governanti ma soprattutto i funzionari che si trovarono a gestire l’assistenza. Si trattava, infatti, di garantire alloggio, approvvigionamento, collocamento lavorativo, istruzione scolastica, assistenza sanitaria e religiosa a centinaia di migliaia di persone, ma anche di affrontare le conseguenze che la loro presenza comportava sul piano dell’ordine pubblico, del rapporto con le popolazioni residenti e più in generale del rapporto cittadini/stato; tutti elementi di novità che ricorrono spesso in scritti e documenti coevi .
Tema a lungo trascurato dalla storiografia, sia nazionale che internazionale, e spesso relegato a studi di carattere locale, quello degli spostamenti di popolazione è oggi al centro di numerose ricerche, convegni, pubblicazioni, che ne hanno messo in luce sia la dimensione europea , se non mondiale, sia il suo essere un elemento connotativo del carattere di totalità della Prima guerra mondiale . Esodi, espulsioni e fughe della Grande guerra rappresentano anche l’esordio su grande scala di un fenomeno che sempre più ha accompagnato i conflitti del Novecento, tanto da divenire un’immagine consueta delle guerre contemporanee. Del resto, le ondate di profughi causate dalle guerre balcaniche degli anni Novanta del secolo scorso e quelle che caratterizzano i conflitti del XXI secolo hanno costituito una spinta potente all’indagine sulle problematiche legate alla profuganza e ai suoi precedenti storici.
Le stime più recenti sul numero di persone messe in movimento dalla Prima guerra mondiale si attestano intorno ai 13 milioni, dal Belgio ai Balcani, dalla Galizia alla Prussia orientale. Il solo fronte austro-italiano, oggetto di questo contributo, vide lo spostamento di circa 900.000 persone – almeno 240.000 verso l’interno dell’Impero asburgico, oltre 630.000 verso il Regno d’Italia – senza contare gli emigranti rimpatriati. La maggior parte erano donne, bambini, anziani, dato che i maschi erano in buona parte arruolati nelle truppe combattenti o reclutati come lavoratori militarizzati nelle retrovie del fronte: una dimensione, quella femminile, oggetto di alcuni studi significativi, ma non ancora indagata in tutte le sue implicazioni .

1. RIMPATRI, EVACUAZIONI, FUGHE
Le tipologie degli spostamenti di popolazione furono molto variegate, in relazione ai diversi contesti in cui si verificarono, ma anche alle motivazioni che spinsero le autorità politico-militari dei diversi paesi belligeranti ad ordinare le evacuazioni e alle ragioni che indussero gli abitanti delle varie aree alla fuga, tipologie che nei casi concreti spesso si sovrapposero e che non sempre rendono agevole una loro categorizzazione. Abbiamo così cittadini fuggiti o evacuati all’interno del proprio stato, spesso però appartenenti a minoranze nazionali, data la loro provenienza dalle aree di frontiera, cittadini fuggiti in paesi alleati o neutrali (ad esempio i belgi in Francia e Olanda), popolazioni evacuate all’interno di stati nemici dalle autorità di occupazione, solo per citare i casi più comuni. Venendo al fronte austro-italiano – e più in generale all’Italia – i movimenti più importanti, per dimensioni o per rilevanza politica, possono essere così schematizzati:
a) emigranti rimpatriati tra 1914 e 1915, ossia quei cittadini del Regno d’Italia che da tempi più o meno lunghi erano residenti o dimoranti negli stati belligeranti e che rientrarono massicciamente, specie dagli Imperi centrali, vuoi per motivi economici – crisi prodotte dalle conseguenze del conflitto – vuoi per timore delle conseguenze degli eventi bellici. In particolare va segnalato il flusso crescente dall’Impero asburgico man mano che la prospettiva dell’intervento italiano si faceva più concreta, un flusso che nei giorni precedenti l’ingresso in guerra dell’Italia divenne una vera e propria ondata di massa, soprattutto da Trieste, città che nel 1914 vedeva la presenza di circa 50.000 cittadini italiani, detti regnicoli (Reichsitaliener) per distinguerli dai sudditi asburgici di lingua italiana .
b) cittadini italiani internati ed espulsi dall’Austria, ossia quei regnicoli che non avevano voluto o potuto rimpatriare prima della dichiarazione di guerra italiana; il loro status divenne quello di “stranieri nemici”, enemy aliens, condizione che durante la Grande guerra fu tutt’altro che singolare, come ha sottolineato Dirk Hoerder:

Nell’agosto 1914, circa 5 milioni di europei non vivevano nello stato di nascita. Da un giorno all’altro il loro status mutò; da ospiti, forza lavoro migrante o immigrati, divennero “stranieri ostili” o “cittadini di una nazione nemica” passibili di internamento, espulsione, rimpatrio forzato .
Tra quanti rimasero in territorio asburgico c’erano non pochi uomini in età di servizio militare, che con tutta probabilità fecero la scelta di restare, affrontando i rischi che tale prospettiva comportava, piuttosto che rientrare in Italia ed essere arruolati .
Coloro che restarono – con qualche eccezione riguardante anziani e malati non in condizione di essere trasportati – furono internati, specie se maschi atti al servizio militare, ed inviati ai campi di internamento di Katzenau, presso Linz, e inizialmente anche ai campi di Wagna, in Stiria, e Steinklamm in Austria Inferiore: solo a Trieste furono oltre 14.000 quelli che conobbero questo destino. Successivamente le strade di questi internati si divisero: i maschi in età di servizio militare e altre persone considerate “pericolose” rimasero nei campi di internamento o, in misura minore, specie se in possesso di capacità lavorative e professionali, furono destinati al confino in varie località dove in genere vennero impiegati come forza lavoro . Gli altri, donne, vecchi e bambini, dopo alcune settimane di internamento vennero espulsi e rimpatriati in Italia attraverso la Svizzera e con la regia della Croce Rossa, in seguito ad un accordo diplomatico tra Austria e Italia . Per il governo austriaco l’operazione di rimpatrio significava liberarsi dall’onere di dover mantenere a spese dello stato alcune decine di migliaia di persone, in un momento in cui le finanze pubbliche erano già gravate, oltre che dei costi della guerra, dal mantenimento di parecchie migliaia di internati “indigeni” e di alcune centinaia di migliaia di profughi.
Parte dei rimpatriati raggiunse le proprie famiglie, se ne avevano, o i propri luoghi d’origine, ma molti erano nati e vissuti sempre in territorio austriaco ed erano privi di punti di riferimento nel Regno. Tra di loro poi vi erano anche persone, specie donne, nate cittadine austriache – e in qualche caso di madrelingua non italiana (soprattutto slovene o croate) – e divenute regnicole per matrimonio. Non pochi dei rimpatriati vissero il periodo bellico in Italia come profughi, al pari degli evacuati dal fronte, spesso negli stessi luoghi ed ospiti delle stesse istituzioni assistenziali, fattore che causò spesso incertezza nella popolazione e nelle stesse autorità sull’identità degli ospiti .
c) internati “politici”; da entrambe le parti del fronte per allontanare dalla zona di guerra persone sospette di sentimenti ostili, considerate capaci di atti di spionaggio e sabotaggio o comunque di ostacolo all’ordine e alla gestione politica e militare delle retrovie, venne usato lo strumento dell’internamento, atto amministrativo discrezionale che non aveva bisogno di essere supportato da prove certe, né del conforto di una sentenza giudiziaria.
In Austria i propri sudditi internati dai diversi fronti, per lo più appartenenti a minoranze nazionali, vennero rinchiusi in una serie di campi costruiti o adibiti a tale scopo (Katzenau, Mittergrabern, Oberhollabrunn ecc.) oppure, nei casi considerati meno pericolosi, destinati al confino in varie località dell’Impero . Nell’arco della guerra gli internati dal Litorale tra i cittadini di lingua italiana furono oltre un migliaio , tra i 1.700 e i 2.000 i trentini rinchiusi a Katzenau , ma sull’argomento manca tutt’ora uno studio esaustivo. In Austria poi furono internate diverse migliaia di civili italiani dei territori friulani e veneti occupati dalle truppe austro-tedesche dopo Caporetto, sulla cui quantificazione, però, le fonti e le interpretazioni non sono univoche .
In Italia ad essere colpiti da questa misura furono soprattutto cittadini austriaci abitanti nelle “terre redente”, i territori occupati dalle truppe italiane nelle prime settimane di guerra; non mancarono tuttavia internamenti di cittadini italiani nelle province di confine, specie in Friuli e Veneto, nonché – in misura minore – nel resto del Regno, dove oggetto dei provvedimenti furono anarchici e “sovversivi” in genere. Di fatto si traduceva nell’arresto, in una più o meno breve detenzione e nell’inoltro verso una destinazione decisa dal Ministero dell’Interno, dove l’internato era obbligato a dimorare ed era sottoposto a varie misure di sorveglianza, in sostanza una sorta di soggiorno obbligato. Nell’assieme il fenomeno riguardò non meno di 4-5.000 persone; anche in questo caso esistono studi analitici su singole aree, ma manca una panoramica complessiva .
d) cittadini austriaci evacuati o fuggiti verso l’Impero asburgico; sulla base di direttive elaborate nell’anteguerra e messe a punto tra 1914 e 1915, nei giorni a cavallo del 24 maggio 1915 i comandi militari austriaci procedettero all’evacuazione parziale o totale della popolazione civile dalle zone strategiche (città piazzeforti, aree di fortezza, punti nevralgici delle linee di difesa).
Furono sgomberate parzialmente la piazzaforte marittima di Pola con il suo circondario, le città piazzaforte di Trento e Riva del Garda, totalmente molte località del Trentino meridionale poste nei pressi della linea di difesa. Sul fronte dell’Isonzo – dove non erano state edificate fortificazioni permanenti – venne evacuata la fascia pedecarsica tra Monfalcone e Gorizia, assieme a varie località del Carso, del Collio e della valle dell’Isonzo. Agli evacuati si aggiunsero poi i fuggiaschi “volontari”, sia dalle zone destinate ad essere occupate dagli italiani, sia da quelle rimaste in mano austriaca ma a ridosso della prima linea. Gli esodi “volontari”, anche per la radicalità con cui vennero attuati gli sgomberi, furono scarsi nell’Istria meridionale e piuttosto limitati in Trentino, dove a fuggire furono soprattutto quanti approfittarono della possibilità concessa dai comandi di allontanarsi per proprio conto, anticipando gli annunciati provvedimenti di evacuazione di massa, con il vantaggio di potersi stabilire – a proprie spese – nelle retrovie più lontane dal fronte, come poterono fare anche gli abitanti delle Giudicarie, evacuati nei mesi seguenti .
Diversa la situazione nell’Isontino, dove – a prescindere da alcuni casi di fughe di massa avvenute nei giorni in cui il fronte non si era ancora stabilizzato ed in cui si mescolano i caratteri dello sgombero con quelli della partenza spontanea – città come Monfalcone e soprattutto Gorizia non vennero preventivamente evacuate ma si trovarono ben presto al centro dei combattimenti. Dalla città dei cantieri, al momento dell’ingresso delle truppe italiane, il 9 giugno, erano già fuggite alcune migliaia di persone, tra le quali molti operai del cantiere navale, in seguito reimpiegati nelle località dell’hinterland in cui continuò l’attività produttiva, in particolare a Budapest. Da Gorizia, invece, le ondate di migliaia di profughi “volontari” diretti verso le retrovie si susseguirono in relazione all’andamento dei combattimenti, fino all’ultima dell’agosto 1916 in occasione della VI battaglia dell’Isonzo, che portò all’ingresso delle truppe italiane in città, in cui trovarono circa il 15% della popolazione dell’anteguerra. In quell’occasione i comandi austriaci evacuarono un’ampia zona ad est di Gorizia (bassa valle del Vipacco e altopiano di Comeno); nel 1917 toccò agli abitanti dell’altopiano della Bainsizza, sfollati nelle retrovie .
Le evacuazioni, soprattutto quelle della prima ondata, avvennero in modo caotico: agli abitanti fu dato un preavviso minimo, 24-48 ore, ma vi sono casi di partenze avvenute nel giro di poche ore. Caricati sui treni, spesso composti di carri bestiame, i profughi trentini vennero trasportati a Salisburgo, quelli del fronte dell’Isonzo a Leibnitz, in Stiria, dove delle Commissioni di perlustrazione provvedevano all’invio verso le successive destinazioni. A questi due centri di smistamento venivano indirizzati anche i fuggiaschi che inizialmente avevano trovato ricovero nelle retrovie del fronte, qualora non dimostrassero di poter mantenersi da sé, dato che i comandi militari si opposero costantemente alla permanenza di profughi privi di mezzi di sostentamento nelle regioni retrostanti il fronte e dichiarate “zona di guerra”.
Le motivazioni delle evacuazioni vanno cercate nell’intento di garantire le truppe da eventuali azioni di spionaggio e sabotaggio, nella necessità di eliminare l’ostacolo che la presenza dei civili avrebbe rappresentato per le operazioni militari, nella volontà – per le città piazzaforte – di evitare le tensioni sociali che un eventuale stato d’assedio avrebbe causato, specie per quanto riguardava l’approvvigionamento, ma anche nella diffidenza verso le popolazioni delle aree su cui si estendeva la linea del fronte, appartenenti per lo più a gruppi nazionali minoritari. Le fughe “spontanee” furono invece determinate dalla paura degli eventi bellici, dall’insostenibilità delle condizioni di vita a ridosso delle prime linee e dalla volontà di non perdere i contatti con i congiunti, fuggiti a loro volta o arruolati nell’esercito austriaco.
Nel complesso dal fronte austro-italiano verso l’interno dell’Impero asburgico vennero evacuate o fuggirono almeno 240.000 persone, parte delle centinaia di migliaia di profughi della Monarchia. I trentini furono circa 75.000, gli italiani dal Litorale (la regione formata dalla Contea di Gorizia, da Trieste e dall’Istria) almeno 75.000 (una buona metà dal Friuli orientale, gli altri dall’Istria), non meno di 70.000 gli sloveni e circa 20.000 i croati .
e) profughi dalle “terre redente” verso l’Italia; occupati alcuni territori al di là del confine politico, i comandi italiani evacuarono – per ragioni analoghe a quelle degli austro-ungarici – diverse località non sgombrate dagli austriaci ed ancora più o meno intensamente abitate. A differenza di quelle imperiali, le autorità italiane non avevano predisposto preventivamente alcun piano di sgombero dei civili, ma procedettero in modo improvvisato, sfollando le popolazioni verso le retrovie, forse nella convinzione di una rapida avanzata che avrebbe permesso il ritorno degli evacuati ai propri paesi; solo in un secondo tempo organizzarono il trasporto verso altre regioni italiane, attraverso i centri di smistamento di Novara per le regioni centro-settentrionali e Firenze per quelle centro-meridionali.
La prima ondata di profughi si ebbe nel 1915, soprattutto dal fronte dell’Isonzo, dove vennero evacuati diversi paesi della valle dell’Isonzo, Gradisca e più tardi Monfalcone e dintorni , mentre nel maggio-giugno del 1916 la Strafexpedition austriaca sul saliente trentino ebbe come conseguenza l’evacuazione della media Valsugana e del Tesino (15.000 persone), nonché di alcune località della conca di Primiero e della Vallagarina (circa 3.000). Gli sgomberi del 1916 non ebbero più il carattere improvvisato dei precedenti, ma furono condotti sotto la regia del Segretariato generale per gli affari civili, l’organo del Comando supremo che si occupava di tutto ciò che riguardava la vita dei civili nei territori occupati. Le ultime partenze si ebbero in coincidenza con la rotta di Caporetto: in quest’occasione però – a parte l’evacuazione dei circa 1.800 civili ancora presenti a Gorizia – si trattò soprattutto di fughe di quanti avevano in qualche modo collaborato con le autorità italiane e temevano ritorsioni da parte austriaca.
I censimenti ufficiali italiani, compilati nel 1918, quantificano in 85.000 i profughi delle “terre redente”; tra questi però sono ricompresi – sebbene su questo punto i dati siano ambigui – circa 25-30.000 regnicoli rimpatriati o espulsi. Degli altri, profughi “irredenti” in senso stretto, 25-30.000 provenivano dal Trentino, 20-25.000 dal fronte dell’Isonzo; un 40% circa di questi ultimi era di lingua slovena .
f) Cittadini italiani evacuati o fuggiti verso l’Italia; gli sfollamenti di località italiane vicine al fronte iniziarono già nel 1915, quando nei primi mesi di guerra furono evacuate diverse migliaia di persone da alcuni comuni del Vicentino e della Carnia, mentre la Strafexpedition del 1916 portò allo sgombero della popolazione di parte dell’Alto Vicentino e dell’Altipiano di Asiago (in tutto oltre 50.000 persone) . La grande ondata di profughi italiani si ebbe, però, con la rotta di Caporetto, che mise in moto oltre mezzo milione di persone, delle quali 480.000 ripararono oltre il Piave: tra essi circa 135.000 friulani, 100.000 dal Veneto orientale invaso, a cui si aggiunsero altre 250.000 persone dalle aree alle spalle del Piave, in parte fuggite per paura dell’invasione (150.000), in parte evacuate dai comandi sia per esigenze militari che a causa dei bombardamenti (100.000 circa) . A loro volta gli austro-tedeschi, stabilizzatosi il fronte sul Piave, evacuarono una fascia sulla sponda sinistra per garantirsi delle retrovie sicure e prive di civili, circa 50.000 dei quali (i cosiddetti “profughi del Piave”) vennero inviati nelle altre zone occupate in Veneto ed in Friuli, ma anche nei territori “austriaci” del Friuli Orientale .
Quella dei profughi di Caporetto fu una fuga in buona parte spontanea, drammatica, ricca di episodi tragici, osteggiata dai comandi militari che nella “fuga parallela” dei civili vedevano soprattutto un intralcio alla ritirata delle truppe. La corsa ai ponti, prima sul Tagliamento e poi sul Piave, si svolse nel caos più totale e l’assembramento dei profughi contribuì a rendere le fangose strade del Friuli e del Veneto orientale il panorama da cataclisma che foto e testimonianze dell’epoca ci hanno restituito con efficacia: un ammasso di mezzi militari, carretti e masserizie rovesciate, animali morti e oggetti d’ogni tipo abbandonati. Come ha sottolineato Daniele Ceschin, il numero di quanti partirono fu in realtà ben più alto di quanti attraversarono i ponti prima che venissero distrutti: in tanti si dovettero arrendere lungo il percorso, impantanati nel fango, ingorgati nella fiumana in movimento, ed alla fine – spesso dopo aver vagato per giorni – riprendere la via di casa. Arrivò chi partì prima, chi abitava lungo la linea ferroviaria, chi aveva le informazioni giuste e mezzi a disposizione . Nei fatti partì un’intera classe dirigente e vi fu il trasferimento di buona parte delle istituzioni (organi amministrativi, uffici statali, ospedali ecc.), che ripresero a funzionare in modo più o meno precario e provvisorio all’interno del paese.
Questi esiti hanno alimentato a lungo la polemica partiti/rimasti, con i primi che davano una lettura della loro scelta in chiave patriottica, inserita in un clima politico-nazionale che vedeva negli eventi di Caporetto un’occasione di “rifare gli italiani” e nei profughi le vittime eroiche della guerra, protagonisti di un atto di fedeltà alla patria che coinvolgeva un intero popolo, respingendo nel contempo l’immagine di una Caporetto interna, di un cedimento della classe dirigente veneta e friulana. Si tratta però di una lettura a posteriori: in realtà sulla scelta di partire influirono ben di più la paura della guerra, di un nemico percepito come barbaro – si pensi a come la propaganda aveva dipinto il comportamento dei tedeschi in Belgio – il diffondersi di un panico collettivo e lo stesso comportamento delle autorità civili.

2. TRA ASSISTENZA E CONTROLLO
In questa sede tralasceremo i rimpatriati – oggetto di un altro contributo in questo numero della rivista – così come gli internati, le cui vicende, anche se hanno, almeno in Italia, tratti comuni con quelle dei profughi, presentano comunque dinamiche proprie e distinte. Analogamente non ci occuperemo di categorie particolari, poco rilevanti sul piano numerico ma significative da un punto di vista politico, come i fuorusciti irredenti – ossia quei cittadini austriaci che nel periodo della neutralità varcarono la frontiera per contribuire alla causa italiana e/o per sfuggire alle chiamate alle armi delle truppe imperiali (e parte dei quali si arruolarono come volontari nell’esercito italiano) – o i soldati asburgici di nazionalità italiana, prigionieri di guerra in Russia, che accettarono le proposte di adesione alla causa italiana ed in prospettiva di arruolamento nel Regio esercito, parte dei quali vennero “rimpatriati” in Italia nell’autunno 1916 .
Ci concentreremo invece su quelli che tanto in Austria quanto in Italia vennero classificati come profughi di guerra, termine con il quale da entrambe le parti del fronte (così come in altri paesi europei) – sia pur con qualche lieve differenza – vennero indicati sia i civili coinvolti nelle evacuazione collettive e forzate, sia quanti fuggirono “volontariamente” di fronte all’avanzata delle truppe nemiche o a causa di bombardamenti ed altri eventi bellici. Una differenziazione tra evacuati e fuggiaschi, fondamentale nell’indagare le motivazioni delle partenze, scolorisce fino a perdere significato nell’analisi del trattamento riservato ai profughi nelle regioni interne dei diversi stati, dove sia da un punto di vista normativo che da quello concreto dell’assistenza le varie categorie vennero equiparate. Una differenza concreta vi fu invece tra profughi ed internati, gli uni coinvolti in movimenti collettivi solo perché abitanti nelle aree coinvolte dagli eventi bellici, gli altri colpiti da provvedimenti ad personam, anche quando risiedevano lontani dal fronte. Va sottolineato, inoltre, che se i profughi – formalmente dei liberi cittadini – dovettero sottostare a varie forme di limitazione della propria libertà di circolazione e di scelta della residenza, in particolare quelli collocati nei campi profughi austriaci, essi mantennero comunque in qualche misura una libertà di movimento. Gli internati, invece – anche se in modo diverso nei vari paesi – subirono o vere e proprie detenzioni o furono comunque sottoposti a particolari forme di sorveglianza e restrizioni; per rimanere al caso austriaco non potevano uscire al di fuori dei campi di internamento . In Italia particolare era poi la condizione dei profughi “irredenti”, cittadini austriaci, tenuti alla residenza nelle aree destinate dalle autorità, ma non sottoposti in genere ad ulteriori misure restrittive, riservate invece agli altri “stranieri nemici”.
Molti tratti dell’esperienza dei profughi nei vari paesi furono comuni, dallo sradicamento al dolore per l’abbandono della propria patria, dalle difficoltà materiali alla diffidenza da cui furono circondati, dalla mancanza di tutela giuridica all’essere in balìa delle decisioni spesso arbitrarie degli organi burocratici che di loro si occuparono, ma non mancarono le differenze, dovute ai contesti in cui si trovarono a trascorrere il periodo della profuganza e ai modelli di gestione delle emergenze e dell’assistenza adottati nei diversi paesi. Per quanto riguarda i profughi del fronte austro-italiano, schematizzando, i sistemi adottati furono in sostanza tre: quello austriaco, quello italiano negli anni 1915-17, quando i profughi erano in buona parte provenienti dalle “terre redente”, e quello messo in piedi in Italia dopo la rotta di Caporetto.

2.1. L’ASSISTENZA PROFUGHI IN AUSTRIA
L’assistenza profughi nell’Impero asburgico aveva preso forma nell’estate 1914, quando polacchi, ruteni ed ebrei dalla Galizia e dalla Bucovina si riversarono in massa verso le regioni occidentali dell’Impero, superando all’inizio del 1915 il mezzo milione di persone, parte evacuati dalle città piazzaforte di Lemberg (oggi L’viv, Leopoli) e Premyszl, parte fuggiti per timore delle violenze delle truppe russe, accentuato dalla propaganda austro-ungarica. Obiettivo delle autorità asburgiche, oltre che garantire un minimo di assistenza ai profughi, fu di regolare i flussi ed evitare che si disperdessero senza controllo nella Monarchia. In particolare a preoccupare era il grande afflusso registrato in alcune delle maggiori città dell’Impero, specie a Vienna, verso cui si erano diretti soprattutto profughi di religione ebraica, ricalcando le correnti migratorie interne dell’anteguerra, favoriti dall’esistenza nella capitale ed in alcune altre grandi città di grosse comunità ebraiche che potevano fungere da punto di riferimento .
Superato dal repentino svolgersi degli eventi un primo tentativo di legare la distribuzione dei profughi sul territorio alla disponibilità di posti di lavoro nelle varie regioni dell’hinterland, il Mini-stero dell’interno si assunse l’onere dell’assistenza, cercando di bilanciare l’esigenza di dar loro ricovero con la salvaguardia degli interessi della popolazione “indigena”: da un lato stabilì che i profughi non dovessero di norma superare il 2% della popolazione residente, dall’altro impose ai comuni l’accoglienza.
Queste disposizioni erano evidentemente volte ad attutire le conseguenze negative che la presenza dei profughi rischiava di avere sulla tenuta del fronte interno, oltre a nascere da motivazioni politiche legate alla loro appartenenza alle varie minoranze nazionali e religiose dell’Impero: polacchi, ebrei e ruteni nel 1914, italiani, sloveni e croati nel 1915.
La politica governativa si caratterizzò per l’accentramento delle competenze in capo al Ministero dell’Interno, che regolò con un’abbondante produzione normativa i principali aspetti dell’assistenza (distribuzione dei profughi, sussidi, assistenza sanitaria e religiosa, istruzione, avviamento al lavoro); questa venne concepita come concessione dello stato e non come diritto dei profughi, che fino al 1917 rimasero privi di tutele giuridiche ed “oggetto” delle decisioni dell’apparato amministrativo. Altro elemento chiave fu l’esclusione dai processi decisionali e dalla gestione dell’assistenza degli altri soggetti coinvolti (amministrazioni autonome, comitati assistenziali), il cui intervento fu ammesso solo quale supporto all’attività dell’apparato statale, confinato ad una dimensione “puramente caritativa”, scelta motivata con la necessità di tener conto dei vari problemi economici, sociali, ma anche politici che la presenza dei profughi comportava. Col tempo tuttavia – anche a causa delle carenze dell’operato statale – alcuni comitati assistenziali riuscirono a guadagnarsi uno spazio d’azione e a divenire di fatto interlocutori del governo. Tra questi l’Hilfskomitee für die Flüchtlinge aus dem Süden/Comitato di soccorso per i profughi del meridione, che si occupò dei profughi del fronte austro-italiano di tutte le nazionalità, e si basava su una rete di fiduciari e comitati locali che garantiva una presenza capillare nelle zone d’insediamento dei profughi .
Sulla distribuzione e sulle modalità di collocamento dei profughi influirono sia fattori politico-nazionali che sociali. Si tenne conto infatti dell’esistenza di tensioni nazionali fra le varie etnie dell’Impero, evitando di ricoverare determinati gruppi in territori potenzialmente ostili, ma giocò anche la diffidenza dei comandi militari e delle stesse autorità politiche verso popolazioni considerate poco affidabili: non a caso venne esclusa la collocazione dei profughi del fronte italiano in regioni come Tirolo, Carinzia, Stiria e Carniola (la parte centrale dell’attale Slovenia), anche se a causa del loro grande numero – e dopo serrate trattative tra le autorità politiche e quelle militari – queste ultime diedero l’assenso alla permanenza di profughi in dette aree, previa un’indagine sulla loro affidabilità politica e sulla capacità di mantenersi da sé senza ricorrere all’aiuto dello stato.
Quest’ultimo elemento fu il fattore discriminante anche per il destino della maggior parte dei profughi, collocati nelle regioni dell’hinterland (Austria Superiore e Inferiore, Boemia e Moravia). I profughi in grado di mantenersi da sé (bemittelte/provisti di mezzi) erano liberi di fissare la propria dimora in tali regioni, ad eccezione di alcune città “chiuse ai profughi”. Degli altri, i privi di mezzi/mittellose, la maggior parte venne inviata a piccoli gruppi nei vari comuni dell’Impero (la cosiddetta “diaspora”); in questo gruppo venivano in genere inclusi operai e artigiani, inviati nelle aree industriali ove c’era necessità di manodopera, così come gli “appartenenti ai ceti sociali superiori” (sozial hoher stehende), privi temporaneamente di mezzi ma con capacità professionali e possibilità relazionali che avrebbero potuto facilitare la loro integrazione nelle comunità ospitanti. Le persone senza professionalità specifiche e appartenenti agli strati più deboli della popolazione (anziani, donne con prole numerosa), invece, furono concentrate, divise in linea di massima per nazionalità ed aree di provenienza, nei campi profughi (Barackenlager o Flüchtlingslager) costruiti appositamente nei vari Land della Monarchia, dove venne assicurato loro vitto e alloggio a spese del governo; una scelta a cui non è estranea la volontà di isolare questi profughi dal resto della popolazione, per assisterli ma anche controllarli.
Queste destinazioni, nonostante la rigidità delle norme che regolavano i trasferimenti, spesso non furono quelle finali. Tra i profughi, infatti, si registrò una grande mobilità , soprattutto nella diaspora, dovuta a ricongiungimenti familiari o alla ricerca del di lavoro; anche gli abitanti dei campi, date le pessime condizioni di vita cui erano costretti, cercavano di uscirne e in diversi casi ci riuscivano, soprattutto grazie all’assunzione di impieghi lavorativi.
Nella “diaspora” i profughi privi di mezzi ricevevano un sussidio in denaro, nonché eventualmente dei rimborsi per spese mediche e farmaci; dove il loro numero era consistente vennero isti-tuiti dei corsi di istruzione scolastica e in qualche caso anche professionale; dove la presenza era esigua i bambini frequentavano le scuole locali, ma spesso con grandi difficoltà materiali e di inserimento. L’assistenza religiosa era in genere prestata dal clero che aveva seguito i fedeli nell’esodo, ma era garantita in modo continuativo solo per gli insediamenti più grossi; negli altri casi i sacerdoti visitavano le varie comunità saltuariamente, secondo le possibilità e le condizioni climatiche e geografiche delle varie aree. Le condizioni di vita dei profughi della “diaspora” furono molto varie, ma molto spesso si trovarono alle prese con scarsità di generi alimentari e di vestiario, alloggi fatiscenti, insufficienza dei sussidi, soprusi delle autorità locali e contrasti con le popolazioni ospiti. Se vi fu, infatti, in diversi casi accoglienza, altrove, anche per l’atteggiamento ostile delle autorità locali, le popolazioni ospitanti tendevano a considerare i profughi una delle cause delle proprie privazioni, se non a vederli come “traditori” della patria.
La sorte peggiore toccò agli abitanti dei Barackenlager, che costituiscono uno degli aspetti di maggior rilievo dell’assistenza profughi durante la Grande guerra . Vere e proprie “città di legno” capaci di ospitare in alcuni casi fino a 20-30.000 persone, comprendevano al loro interno officine, magazzini, laboratori, numerosi servizi centralizzati (cucine, lavanderie, bagni, ecc.), nonché istituzioni e strutture tipiche della realtà urbana, come chiese, scuole, asili, ospedali, orfanotrofi e uffici postali (ma anche prigioni). Nei campi vennero assicurate istruzione scolastica ed assistenza religiosa, utilizzando maestri e sacerdoti profughi o comunque appartenenti alle regioni di provenienza, distribuzioni di vestiario ed altri oggetti di prima necessità, anche se in misura inferiore ai bisogni, nonché corsi di formazione professionale e varie attività culturali e ricreative .
Nonostante gli ingenti mezzi impiegati – inferiori però alle necessità – la vita nei campi fu particolarmente dura. Promiscuità e sovraffollamento (in qualche caso da 200 a 400 persone stipate in una sola baracca), scarso isolamento climatico delle baracche, precarie condizioni igienico-sanitarie, alimentazione carente e di pessima qualità provocarono alti tassi di morbilità e mortalità, specie infantile, che le strutture ospedaliere riuscivano solo in parte a contrastare. Epidemie di morbillo, difterite e scarlattina falcidiarono la popolazione infantile, polmoniti, tubercolosi e malattie dell’apparato gastro-intestinale colpirono tutte le classi d’età, una vera e propria selezione naturale che decimò la popolazione degli accampamenti . L’insufficienza del vitto spingeva i profughi a procurarsi con ogni mezzo generi alimentari dentro e fuori dai campi, spesso ricorrendo a sotterfugi o violando le disposizioni delle autorità ed esponendosi così a requisizioni e punizioni. Il peregrinare dei profughi alla ricerca di cibo nelle aree circostanti gli accampamenti provocava, inoltre, rialzi dei prezzi, mercato nero e furti campestri, fenomeni che spesso furono all’origine di forti tensioni con le popolazioni locali.
A caratterizzare la vita nei Barackenlager erano anche le limitazioni alla libertà (residenza di fatto coatta, entrate e uscite contingentate, sorveglianza militare), la censura postale, i poteri spesso arbitrari esercitati dai funzionari che amministravano i campi, la prassi di infliggere sanzioni e arresti senza un regolare procedimento, la struttura gerarchica piramidale interna. Questi elementi – assieme alla dimensione collettiva dei principali aspetti della vita quotidiana – contribuivano a rendere i campi profughi austriaci un’istituzione di tipo concentrazionario, benché ne rappresentino la versione più blanda, specie al confronto dei campi d’internamento o di prigionia .

Il lavoro fu un aspetto importante della vita dei profughi, che costituivano una riserva di manodopera a basso costo, benché spesso poco qualificata, che poteva contribuire a colmare almeno in parte i vuoti causati dai richiami alle armi e dal reclutamento dei lavoratori militarizzati. Vennero perciò impiegati nei settori agricoli e industriali sia nei territori della diaspora che negli accampamenti, dove sorsero numerose attività produttive. Con il prolungarsi del conflitto aumentò il ricorso a strumenti di coazione al lavoro, presenti fin dall’inizio, sia negando il sussidio agli abili al lavoro che non assumevano impieghi, sia inviandoli nei Barackenlager come forma di punizione.

Solo nella primavera-estate del 1917, la riapertura del Parlamento e le denunce dei deputati portarono all’adozione di una serie di riforme nell’organizzazione dell’assistenza ai profughi, ed infine ad una legge di tutela che definì giuridicamente lo status di profugo, sancì i diritti all’assistenza, al lavoro, alla libertà di movimento, nonché la partecipazione (consultiva) dei profughi alla gestione dei campi. Il peggioramento della situazione sociale ed economica dell’Impero diminuì, però, il peso di questi cambiamenti e ostacolò la transizione verso un più moderno sistema di welfare.

2.2. NELLA PENISOLA 1915-1917
Tutti i governi europei furono presi alla sprovvista dalle dimensioni raggiunte dai flussi di profughi. Quello italiano non fece certo eccezione, benché nei dieci mesi della neutralità avrebbe potuto osservare quanto accadeva altrove; ciò non avvenne e, come dichiarò il Presidente del Consiglio Salandra nel dicembre 1915 alla Camera, bisognò “improvvisare una organizzazione (speriamo che non ne duri a lungo il bisogno) di collocamento e assistenza di questi profughi” .
Le prime disposizioni in materia da parte del Ministero dell’Interno autorizzarono le prefetture a provvedere alle spese per i profughi attingendo al fondo per l’emigrazione. La decisione non era casuale. Fin dall’inizio del rimpatrio degli emigranti nel 1914 fu il Commissariato dell’emigrazione – in collaborazione con le associazioni tradizionalmente operanti in tale campo come l’Opera Pia Bonomelli e la Società Umanitaria di Milano – ad occuparsene, così come coordinò l’assistenza ai regnicoli espulsi dall’Impero asburgico nell’estate 1915 . Sembrava naturale quindi che per estensione il Commissariato provvedesse anche ai profughi provenienti dalle terre redente, così come fu lo stesso ente a iniziare un censimento dei rimpatriati, profughi e fuorusciti, operazione che si trascinò a lungo ed i cui risultati vennero pubblicati solo nel 1918, ma con tali lacune da far sì che venisse disposto un nuovo censimento sotto la regia dell’Alto commissariato dei profughi di guerra, che fra non pochi problemi vide la luce l’anno successivo .
Queste scelte testimoniano le assonanze tra i fenomeni di profuganza e quelli migratori, ma anche l’incapacità delle autorità italiane di cogliere la specificità dei primi, che si rifletté nell’assenza fino alla fine del 1917 di un coordinamento centralizzato dell’assistenza profughi. La competenza in materia venne bensì assunta dal Ministero dell’Interno, ed in particolare dalla Direzione generale della Pubblica Sicurezza, ma la sua attività si limitò a lungo ad una generica supervisione dell’operato di prefetture ed enti locali, cui fu demandata l’attuazione dell’assistenza. La presenza dei profughi fu considerata soprattutto un problema di ordine pubblico – nel sospetto che fra essi si celassero spie, sabotatori, elementi antipatriottici – da affrontare in sordina, per non colpire sfavorevolmente l’opinione pubblica con notizie di evacuazioni e sfollamenti anche di località italiane.
Date queste premesse non stupisce che si verificasse una delega di fatto di molte funzioni a organismi non governativi (comitati di preparazione o mobilitazione civile, istituzioni benefiche, le già citate Opera Bonomelli e Società Umanitaria) che distribuirono aiuti, raccolsero fondi e gestirono anche ricoveri per profughi e altre forme di assistenza. Un ruolo particolare spettò alle associazioni nate nell’ambito dell’emigrazione politica irredenta , coordinate dalla “Commissione Centrale di Patronato dei fuorusciti adriatici e trentini” – che aveva nel Ministro per le terre redente Salvatore Barzilai un interlocutore privilegiato nel governo – nella cui azione gli obiettivi di tipo assistenziale erano intrecciati al tentativo di legittimarsi nei confronti del governo italiano come “rappresentanti naturali” della popolazione irredenta presente nella penisola e al tempo stesso di proporsi ai profughi come punto di riferimento e come futura classe dirigente.
Tra le altre organizzazioni – alcune attive a livello puramente locale – va citato almeno il “Comitato nazionale per le colonie dei profughi delle terre redente” di Milano, nato nel novembre 1915 e formato, anche ai livelli direttivi, quasi esclusivamente da donne, appartenenti per lo più all’ambiente dell’emancipazionismo milanese. Presieduto dalla giornalista e scrittrice Teresita Pasini (nota con lo pseudonimo di Alma Dolens), vi parteciparono sia personaggi di orientamento moderato come Sofia Bisi Albini, che di orientamento progressista come Ada Negri e Margherita Sarfatti, accomunate dalla scelta a favore dell’interventismo e della mobilitazione femminile sul fronte interno . Il comitato si proponeva di offrire oltre all’assistenza materiale anche “un conforto morale alle disgraziate sorelle solitarie, vedovate e separate dai loro compagni e dai loro figli, obbligati a combattere contro i figli nostri” per creare “la corrente di simpatia e di fiducia, necessaria a cementare la concordia nei nuovi sudditi” .
Solamente nel luglio 1916, di fronte ai numerosi problemi emersi, acuiti dal nuovo flusso di profughi dal Trentino e dal Vicentino in occasione della Strafexpedition, il Ministro degli interni Orlando riconobbe la necessità di “coordinare e rendere certo in modo organico e permanente la funzione di sorveglianza e di assistenza di tutto questo immane servizio, che si è venuto spontaneamente determinando”; disponeva pertanto la nomina di commissioni prefettizie, che ispezionassero colonie e comuni di insediamento dei profughi, rilevassero le carenze e prospettassero le possibili soluzioni . Benché ciò portasse a risolvere diversi problemi, carenze, mancanza di uniformità e confusione nelle competenze continuarono a regnare e solamente nell’autunno 1917 si mise a punto una riforma organica, progetto non attuato perché la rotta di Caporetto determinò una svolta ancor più radicale.
La distribuzione dei profughi interessò l’intera penisola, nel 1915 soprattutto al centro-nord; i flussi del 1916, invece, pur continuando ad essere diretti prevalentemente al nord portarono ad un più ampio collocamento nelle regioni meridionali. In queste ultime, però, la precarietà degli alloggi, le difficoltà sul piano occupazionale, anche per i differenti sistemi di conduzione in campo agricolo, le diversità nelle abitudini alimentari e non ultimo il clima torrido del Meridione, mal sopportato da popolazioni in buona parte provenienti da regioni montane, provocarono lamentele e frequenti richieste di trasferimento nelle regioni settentrionali. Questo fattore, unito al desiderio dei profughi di spostarsi dalle campagne e dai centri minori alle grandi città che fornivano maggiori occasioni lavorative, determinò, anche in Italia, una discreta mobilità che i dati noti, seppur parziali, certificano a sufficienza , un fenomeno che si ripeterà anche per i profughi di Caporetto .
Va notato come questi spostamenti ricalcassero le dinamiche delle correnti migratorie, sia per il richiamo esercitato dai centri del triangolo industriale, che per la rilevanza della rete delle conoscenze e dei rapporti parentali nel determinare le richieste di trasferimento. Analizzando le pratiche giacenti nei vari archivi, non è raro imbattersi in casi in cui un membro della famiglia profuga otteneva un trasferimento in un centro industriale, si sistemava e poi faceva da garante (per l’alloggio ed il mantenimento) per l’arrivo degli altri parenti. Le politiche governative in questo campo tesero a favorire senz’altro i ricongiungimenti familiari, così come prospettive certe di occupazione portavano in genere ad un esito positivo delle domande, sulle quali influivano anche i pareri dei comitati irredenti sull’affidabilità politica dei richiedenti. Contavano però anche le condizioni del mercato del lavoro e la situazione dell’ordine pubblico nelle mete desiderate. A Milano, ad esempio, vi furono periodi in cui i permessi venivano concessi con relativa larghezza ed altri nei quali la saturazione delle presenze portava al rigetto delle istanze .
Il collocamento degli evacuati, scartata l’ipotesi ventilata in un primo momento di costruire campi profughi simili a quelli austriaci, seguì due modalità. La prima portò alla creazione di colonie, utilizzando caserme, conventi, scuole, non più adibiti alle loro funzioni originarie, dove gli ospiti erano sostentati in natura (vitto e alloggio). La seconda fu la dispersione sul territorio di piccoli gruppi di profughi (da qualche decina ad un centinaio di persone), ai quali veniva concesso un sussidio governativo con cui provvedere al proprio mantenimento.
Le colonie ospitavano in genere dalle 100 alle 2-300 persone, ma ne sorsero pure di maggiori dimensioni, capaci anche di ricoverare più di 1.000 profughi; un paio furono gestite dal Segretariato generale per gli affari civili, altre da qualche associazione di irredenti, la maggior parte dai comuni o dai comitati di mobilitazione civile locali . Particolare il ruolo dell’Asilo profughi di Firenze, retto dalla “Commissione di Patronato per i profughi italiani d’oltre confine” del capoluogo toscano, più un centro di transito che una colonia stanziale, che ospitò numerosi evacuati del Friuli orientale e dopo Caporetto divenne uno dei maggiori centri di smistamento per i fuggiaschi friulani e veneti. Una discreta mobilità interessò quasi tutte le colonie, dato che le autorità e gli enti gestori favorivano l’uscita dalle stesse in seguito all’assunzione di un impiego, spesso ottenuto grazie alla loro mediazione: il profugo che lasciava la colonia in genere migliorava le sue condizioni di vita – o per lo meno non era più costretto alla vita in collettività – lo stato si vedeva alleggerito del tutto o in parte dell’onere del mantenimento, i posti lasciati liberi potevano essere destinati a nuovi afflussi dalla zona del fronte. Alla fine la residenza fissa nelle colonie interessò soprattutto gli elementi più deboli della popolazione profuga (donne con prole numerosa, gli anziani non più in grado di lavorare, disabili) .
Sia nelle colonie che negli insediamenti sparsi in diversi casi erano collocati assieme profughi delle “terre redente”, sia italiani che sloveni, regnicoli fuggiti o espulsi dall’Austria, regnicoli evacuati dalle località italiane di confine e talora anche internati “politici”. Questa mescolanza non giovò ai rapporti con le popolazioni locali e facilitò la diffusione di pregiudizi a danno dei profughi, a volte visti come una massa indistinta di “austriacanti” ed individui sospetti, acuendo le difficoltà di inserimento già condizionate alle differenze culturali e dalla diversità delle parlate.
Nel concreto le forme di assistenza furono molto varie quantitativamente e qualitativamente, dipendendo dai contesti in cui i profughi si trovarono a vivere e dalle modalità adottate dagli enti gestori dell’assistenza. Nei grandi centri come Milano e Torino furono le amministrazioni comunali a ricoprire il ruolo di centro coordinatore e in parte di gestore. Nel capoluogo lombardo, in cui l’amministrazione socialista retta da Emilio Caldara mise in piedi un efficiente sistema di welfare rivolto a lenire le miserie e le difficoltà della guerra delle categorie più deboli della popolazione , fu la Commissione III del Comitato centrale di assistenza per la guerra a coordinare le attività di accoglienza e sostegno, in collaborazione con l’Umanitaria, l’Opera Bonomelli ed altre associazioni cittadine . A Torino, amministrata dal giolittiano Teofilo Rossi, il comune istituì un servizio profughi che gestì direttamente i ricoveri, che ospitarono via via i rimpatriati, i profughi irredenti, gli evacuati dal Vicentino, i prigionieri austro-ungarici di nazionalità italiana rimpatriati dalla Russia, i fuggiaschi di Caporetto .
In altre località, invece, non mancarono situazioni di grande precarietà ed i profughi si trovarono alle prese con alloggi di fortuna spesso freddi o malsani, l’insufficienza dei sussidi rispetto al costo dei generi di prima necessità e la conseguente difficoltà a procurarsi cibo e vestiario in misura adeguata, con sperequazioni a loro danno nella distribuzione degli aiuti e in qualche caso con fenomeni di corruzione e con speculatori che vedevano nella loro presenza un’occasione di facile guadagno a spese dello stato, e a danno dei profughi.

2.3. I “PROFUGHI DI CAPORETTO”
La rotta di Caporetto e l’enorme afflusso di profughi all’interno del paese ebbe due conseguenze immediate. Suscitò un’ondata di solidarietà patriottica, alimentata dalla stampa e dalle istituzioni ma in buona parte spontanea, che si tradusse in raccolte di fondi, formazione di comitati di soccorso ed in molteplici iniziative locali volte a favorire l’accoglienza alle nuove vittime della guerra. Soprattutto, però, fece della questione profughi un’emergenza nazionale e portò ad una svolta nelle politiche assistenziali governative, che si concretizzò nell’istituzione dell’Alto Commissariato per i profughi di guerra, organo della Presidenza del Consiglio, retto dal deputato veneto Luigi Luzzatti, già presidente del Consiglio nell’anteguerra e tra i padri della legge sull’emigrazione del 1901 . Commissari aggiunti erano i deputati Giuseppe Girardini – che nell’estate 1918 subentrò a Luzzatti nel ruolo di Alto Commissario – e Alessandro Stoppato; quest’ultimo già nel gennaio 1918 fu sostituito da Salvatore Segrè, presidente della Commissione centrale di patronato, che in un certo senso rappresentava la componente irredenta dei profughi.
I criteri generali dell’assistenza ai profughi furono stabiliti dall’Alto Commissariato con la circolare del 10 gennaio 1918, che definiva lo status giuridico di profugo, uniformava il sussidio, aumentato e rideterminato in relazione al numero dei componenti le famiglie, dettava norme sugli alloggi, ridefiniva i rapporti tra sussidio e redditi da lavoro e regolamentava un po’ tutti gli aspetti dell’assistenza; tra le disposizioni della circolare la costituzione di patronati locali – con la partecipazione ove possibile anche di esponenti del profugato – che avrebbero gestito concretamente l’assistenza, in collaborazione con gli enti locali. Continuarono comunque la loro attività, estesa ai nuovi profughi, diverse associazioni già impegnate in precedenza (Bonomelli, Umanitaria), alle quali si aggiunse l’importante intervento della Croce Rossa americana, che organizzò un’ampia rete di opere assistenziali.
Accanto a quello dell’Alto commissariato un ruolo chiave lo ebbe il Comitato parlamentare veneto, nato su impulso dello stesso Luzzatti, che gestì sussidi ed altre forme di assistenza; soprattutto dava voce, tramite i numerosi parlamentari veneti e friulani che vi aderivano, alle istanze ed ai bisogni delle popolazioni profughe, con una forza politica che altri comitati ed associazioni difficilmente potevano avere.
Nonostante queste premesse, la svolta fu parziale, sia per la mancanza di veri poteri dell’Alto commissariato, che non disponeva di organi esecutivi propri, sia per le sovrapposizioni di competenze e l’azione autonoma e spesso discordante dell’apparato periferico dello stato : gli organi di polizia continuarono a esercitare un ruolo preminente in molte situazioni concrete e di fatto proseguì l’intreccio tra assistenza e sorveglianza che aveva caratterizzato la politica verso i profughi nel periodo antecedente , così come nella prassi si applicarono ai nuovi profughi criteri e pratiche già in auge in precedenza. I ritardi che spesso vi furono nella costituzione dei patronati – molti dei quali non furono altro che i vecchi comitati locali in una veste rinnovata – e la scarsità dei fondi a loro disposizione non agevolarono certo l’opera di soccorso.

Senz’altro diversa fu invece la distribuzione dei profughi, che attraverso i centri di smistamento di Bologna, Firenze, Milano vennero inviati in tutta la penisola, con grossi contingenti anche nelle regioni meridionali; il loro grande numero portò non solo ad utilizzare – con opportuni trasferimenti – strutture già usate in precedenza, ma a requisire un po’ ovunque alberghi, case per villeggiatura, edifici scolastici, colonie estive, che ospitarono soprattutto i profughi privi di mezzi; come prima chi era in grado di mantenersi da sé poteva scegliere la propria residenza, al di fuori naturalmente delle zone di operazione. L’invio di molti profughi nel Meridione comportò, come sottolineato da Daniele Ceschin, un incontro-scontro culturale tra nord e sud, in cui la diversità di costumi, di abitudini e di regimi alimentari giocò un ruolo nell’acuire i disagi dovuti ai fattori climatici e alle diverse condizioni sociali ed economiche . Problematica in modo particolare fu la questione dell’occupazione in regioni che, al contrario di quanto avveniva nel triangolo industriale, non offrivano molte occasioni di lavoro e ed erano colpite di per sé dal fenomeno della disoccupazione.

Più in generale quella del lavoro fu una questione cruciale ovunque, non tanto perché i profughi costituissero una riserva di manodopera particolarmente ingente – gli abili al lavoro erano il 10-15% della popolazione profuga , quantità comunque non trascurabile nel quadro delle esigenze dell’economia di guerra – quanto perché le autorità premevano in ogni modo affinché i profughi si occupassero, raggiungendo così l’autosufficienza economica e sgravando le finanze pubbliche da un peso sempre meno sostenibile. Vennero così gradualmente introdotte delle misure che comportavano elementi di coazione al lavoro, fino al Decreto Luogotenenziale del giugno 1918, che disponeva di fatto la cessazione dell’assistenza per gli abili al lavoro dai 12 ai 60 anni, in modo da costringerli a cercarsi un’occupazione . Il decreto era talmente draconiano che suscitò immediate proteste a vari livelli – compreso quello parlamentare – ed un successivo provvedimento, rinviandone l’applicazione al compimento del censimento generale dei profughi di guerra (i cui tempi non si prospettavano certo brevi), comportò di fatto la cassazione delle norme contestate.

In realtà, come già per gli irredenti, carovita e insufficienza dei sussidi spingevano i profughi veneti e friulani a cercare un’occupazione e non pochi trovarono impiego in vari settori agricoli e industriali, mentre nelle città diverse donne lavorarono come collaboratrici domestiche. In parecchie colonie, inoltre, vennero organizzate attività produttive (laboratori di cucito, confezione e riparazione di indumenti militari, ecc.), rivolte in particolar modo alle donne con prole che difficilmente avrebbero potuto assumere impieghi al di fuori delle stesse. Gli ostacoli al lavoro stavano soprattutto nella distribuzione spesso irrazionale dei profughi (operai collocati in zone agricole e contadini in quelle industriali, ricovero in aree economicamente depresse), nel tipo di lavoro e nel salario che veniva loro offerto, spesso inadeguati, ma anche nelle condizioni soggettive degli stessi (età, professionalità, numero di figli a carico, ecc.) e non ultimo nel fatto che molti dei fuggiaschi dalle terre invase appartenevano ai ceti medi ed impiegatizi, mentre la richiesta riguardava soprattutto operai e manodopera agricola.
Lo stereotipo, fondato o meno che fosse, del profugo “ozioso” che viveva di sussidi era ben presente sia nei giudizi espressi dalle autorità sia nella percezione delle popolazioni ospitanti e contribuì non poco a rendere problematici – passata la prima fase della solidarietà – i rapporti tra le popolazioni locali ed i profughi, visti sempre più come ospiti scomodi, concorrenti nella spartizione delle risorse, privilegiati in quanto sussidiati. Gli atteggiamenti di diffidenza e ostilità di cui furono fatti segno, così come le misure di sorveglianza a volte rigide e la diffusione di pregiudizi che vedevano anche nei profughi di Caporetto, come già prima in quelli irredenti, un insieme di individui poco affidabili e sospetti di austriacantismo, produceva nei profughi – che si sentivano protagonisti di una scelta patriottica – sentimenti di delusione e scontento che talora portarono a contrasti con le popolazioni “indigene”, tacciate a loro volta di “antipatriottismo”.

3. I PROFUGHI DI GUERRA:
UNA CATEGORIA A SÉ
Come emerge da quanto detto in precedenza, le vicende dei profughi ebbero evidenti similitudini con quelle migratorie, per le modalità dell’accoglienza e l’intervento degli stessi soggetti istituzionali e delle medesime associazioni, per le dinamiche della mobilità, per le difficoltà di inserimento nei nuovi contesti e non da ultimo per le tipologie dei pregiudizi e dei luoghi comuni di cui furono oggetto. Tuttavia non si possono sottacere le differenze, a partire dalla costrizione, diretta o indiretta, dell’abbandono della propria terra che i profughi subirono, ma soprattutto dal fatto che la fuga, quando ci fu la possibilità della scelta, non fu motivata dal desiderio di migliorare la propria condizione economica né dalla prospettiva di costruirsi una nuova vita, ma dalla volontà di evitare i pericoli e gli orrori della guerra; un esodo che i profughi percepivano in ogni caso come una parentesi temporanea, in attesa di un ritorno che costituiva il loro pensiero fisso e che auspicavano il più vicino possibile.
Nel corso degli ultimi anni, come in parte già accennato, alcune tendenze interpretative hanno proposto di ricondurre il fenomeno dei profughi della prima guerra mondiale all’interno di categorizzazioni più ampie, in particolare includendolo nel novero delle “migrazioni forzate” o assimilandolo alle politiche di internamento dei civili messe in atto pressoché da tutti i belligeranti. L’argomento è senz’altro complesso e necessiterebbe di ulteriori approfondimenti, che dovrebbero anche tener conto delle differenti situazioni nei diversi stati e, volendo generalizzare, tra i contesti di guerra sui fronti occidentale ed austro-italiano da una parte, orientale e balcanico dall’altra. In queste ultime realtà, in effetti, non mancarono casi in cui le evacuazioni sottendevano una volontà di modificare gli assetti etnici dei territori in questione, elemento caratterizzante il concetto di migrazione forzata . Ad occidente e sul fronte italiano – con l’eccezione della deportazione di civili belgi ad opera dei tedeschi per adibirli al lavoro coatto, altro elemento chiave delle migrazioni forzate – gli sgomberi appaiono legati agli specifici scenari bellici, pensati ed organizzati come spostamenti provvisori e non come presupposto per una diversa sistemazione etnica o sociale del territorio, senza contare che sia nel caso francese che in quello italiano la maggior parte dei profughi fuggì per propria scelta, sia pur indotta dalla paura della guerra. Mancano in questi contesti i presupposti che stanno all’origine di esodi e deportazioni di massa, vere e proprie operazioni di “chirurgia demografica”, che vengono ricompresi nel concetto di migrazioni forzate. Anche quando alla base delle evacuazioni c’erano sospetti sulla lealtà delle popolazioni o timori di possibili atti ostili da parte delle stesse, non si trattava comunque di allontanamenti pensati come definitivi: sia per le autorità austriache che per quelle italiane la prospettiva era comunque quella del rimpatrio delle popolazioni sgomberate, lasciando agli effetti di altre misure – quali gli internamenti – il compito di “bonificare” politicamente il territorio.
Non pochi sono anche i punti di contatto tra l’esperienza dei profughi e quella degli internati, tanto che alcuni storici tendono ad assimilare le due figure, almeno in certi contesti – in particolare nel caso austriaco – nel quadro di una denuncia delle politiche di soppressione o limitazione dei diritti civili da parte di non pochi governi europei , ma un’analisi dettagliata dello status giuridico e di diversi aspetti delle condizioni di vita delle due categorie, in particolare rispetto alla libertà di movimento, mostra anche l’esistenza di differenze, che non vanno sottovalutate.
In conclusione, i raffronti con altre tipologie di spostamenti di popolazione indotti dal conflitto, volontari o meno, mostrano numerosi intrecci e parallelismi con le esperienze degli evacuati e dei fuggiaschi, ma anche delle differenze non trascurabili. È mia convinzione che gli approcci di carattere comparativo siano senz’altro fecondi, ma che vadano mantenute le necessarie distinzioni, per poter comprendere le peculiari dinamiche dei fenomeni di profuganza, e che, in ultima analisi, i profughi della prima guerra mondiale costituiscano una categoria a sé e che come tale vada studiata.