ITALIANI IN CALIFORNIA, UN’ESPERIENZA “ECCEZIONALE”? ALCUNE NOTE PER REIMPOSTARE IL DIBATTITO SULLE ORME DEI WHITENESS STUDIES

Questo articolo presenta il quadro storiografico e interpretativo alla base della mia tesi di dottorato Italiani sulla “frontiera dell’uomo bianco”. La costruzione della razza a San Francisco (1880-1924) . Per ragioni di chiarezza espositiva il testo è diviso in tre sezioni principali: 1) il dibattito storiografico sull’immigrazione italiana in California; 2) il dibattito storiografico interno ai whiteness studies; 3) la proposta interpretativa della mia tesi di dottorato alla luce dei due dibattiti menzionati.

1. UN SUCCESSO AL SOLE? GLI ITALIANI IN CALIFORNIA
In linea con molta pubblicistica italo-californiana di fine Ottocento/inizio Novecento, l’emigrazione degli italiani in California è stata a lungo considerata da buona parte degli studiosi del campo come un’esperienza unica nel panorama delle collettività italiane negli Stati Uniti per il benessere economico e il livello di integrazione raggiunto . Andrew Rolle, primo e massimo fautore di questa tesi, ha definito gli italiani che si spinsero ad Ovest degli immigrati upraised, “vittoriosi”, in chiara contrapposizione agli immigrati uprooted, “sradicati”, di Oscar Handlin, rimasti nei centri urbani dell’Est . Secondo Rolle, gli italiani trovarono sul Pacifico non solo un territorio meno affollato e disponibile a offrire impieghi loro adatti grazie alla somiglianza paesaggistica con l’Italia, ma anche una società più giovane e meno gerarchizzata, dove potevano competere su un piano di parità con i “pionieri” americani. Deanna Paoli Gumina, nel suo studio sugli italiani a San Francisco, ha sostenu-to che essi seppero conquistarsi sia l’“autosufficienza economica”, attraverso l’abile controllo dei settori ittico e agricolo (e del loro lauto indotto), sia quella reputazione di “cittadini desiderabili” mancata “agli italiani stabilitisi sulla costa orientale” . Per Gloria Ricci Lothrop, gli italiani onorarono le molte “promesse” offerte loro dalla California in termini di avanzamento economico e assimilazione dando vita a “esperienze di immigrazione significativamente diverse da quelle dei connazionali dei centri urbani dell’Est” . Infine, Sebastian Fichera ha affermato che la storia degli italiani di San Francisco “deve essere vista come atipica non solo rispetto all’Est ma al più generale West” . Secondo Fichera, tale unicità si deve al processo di costruzione, sotto la guida di una influente leadership italo-americana, di una comunità coesa e solidale in grado di ridurre al suo interno povertà e criminalità e di sviluppare una virtuosa “economia etnica” grazie alla maggiore istruzione e alla “cultura coope-rativistica” propria dell’elemento di origine settentrionale, che nella collettività italiana di San Francisco era maggioritario .
Questa visione “eccezionalista” dell’emigrazione italiana in California presenta non pochi punti deboli. Essa tende ad offuscare gli aspetti più problematici di tale esperienza quali miseria, discriminazione e sfruttamento, che pure furono presenti, specie nella stagione dell’emigrazione di massa, come messo in luce dalla collettanea diretta da Paola Sensi Isolani e Phylis Martinelli . Inoltre, come suggerisce il recente studio di Simone Cinotto sui viticoltori piemontesi in California, molti argomenti alla base di tale visione – dalla somiglianza ambientale con l’Italia alla spirito cooperativo dei settentrionali – vanno guardati con occhio critico onde evitare schematismi che, più che spiega-re il successo degli italiani, finiscono per reiterare “miti popolari” . Soprattutto, però, il paradigma dell’“eccezionalismo” italo-californiano si tradisce quando, paradossalmente, tralascia l’aspetto che forse più di ogni altro rese unica la California rispetto al resto degli Stati Uniti: il contesto demogra-fico estremamente eterogeneo ereditato sin dalla sua conquista ai danni del Messico con la guerra del 1846-1848. Come spiegato da Tomás Almaguer, il neonato Stato californiano sviluppò un “siste-ma razziale” basato non sulla tradizionale dicotomia “bianchi/neri”, ma su una peculiare gerarchia “a strati” nella quale trovarono posto le popolazioni indiane e messicane appena sottomesse, più gli immigrati dall’Asia, dall’America ispanica, dall’Europa e da altre aree del Paese, affluiti con il parallelo avvio della “corsa all’oro” nel 1849 . L’eterogeneità “razziale” caratterizzò in particolare la California del Nord, dove proprio sotto l’impulso della “corsa all’oro” iniziò lo sviluppo demografico ed economico dello Stato con l’emergere di San Francisco a maggior porto della costa occidentale; ha scritto Glenna Matthews che la California del Nord “nacque cosmopolita”, anche se solo nel senso minimo di “composta da elementi provenienti da tutto il mondo” e non in quello profondo di ispi-rata ai valori della “cittadinanza universale”, essendo la sua storia solcata dalla piaga del razzismo . Se, come afferma Paul Spickard, “la razza è una questione centrale, e non marginale nella storia dell’immigrazione negli Stati Uniti”, allora tale contesto “multirazziale”, con le sue implicazioni di or-dine sociale, economico e culturale, non può essere ignorato dal dibattito sulle eventuali peculiarità dell’esperienza di immigrazione italiana in California . Mettere al centro la “questione della razza” non significa porsi il tradizionale problema del razzismo anti-italiano, come in parte hanno fatto gli stessi fautori del paradigma “eccezionalista”, i quali hanno ipotizzato, senza tuttavia approfondire, che gli italiani in California incontrarono meno discriminazioni rispetto ad altre aree del Paese grazie alla presenza di gruppi, come gli immigrati asiatici, sui quali si concentravano le maggiori animosità razziali. Posta in questi termini la questione appare troppo riduttiva. Non solo perché si sottovalutano, come già detto, aspetti critici dell’emigrazione italiana in California che invece non mancarono, discriminazioni incluse. Ma soprattutto perché si riducono gli italiani ad un oggetto di maggiore o minore razzismo, senza osservare il loro più generale coinvolgimento nel locale processo di “formazione razziale”, di partecipazione cioè alla costruzione di una società in cui identità individuali e collettive, relazioni sociali ed esperienze della quotidianità erano definite dalla “razza” . Al contrario, solo allargando lo sguardo al ruolo ricoperto dagli italiani nella peculiare struttura multirazziale californiana è possibile a mio avviso comprendere la specificità della loro esperienza di immigrazione, senza correre il rischio di idealizzazioni. Sulla base delle suggestioni teoriche e metodologiche introdotte nella storiografia dell’immigrazione dai whiteness studies, bisogna innanzitutto spostare il focus dal problema del razzismo contro gli italiani a quello dello loro “status razziale” esaminando, in particolare, come il problema della loro “bianchezza” si sia configurato in California .

2. GLI ITALIANI SONO BIANCHI? IL DIBATTITO ALL’INTERNO DEI WHITENESS STUDIES
Negli ultimi anni la storiografia dell’immigrazione europea negli Stati Uniti è stata attraversata da un profondo rinnovamento teorico/interpretativo. Una nuova generazione di studiosi ha messo in luce come non si possa comprendere a pieno il processo di “assimilazione” o “americanizzazione” dei diversi gruppi di immigrati del Vecchio Continente senza tener conto che tale processo com-portò l’acquisizione non solo di una identità “etnica” (irlandese-americana, polacco-americana, italo-americana, ecc.), ma anche di una precisa identità “razziale”: quella di “bianchi” . Partendo dal riconoscimento del fatto che irlandesi, italiani, greci o tedeschi entrarono negli Stati Uniti classificati come “bianchi”, e soprattutto che essi finirono col tempo anche per identificarsi come tali, unifor-mandosi alla mentalità razzista propria dell’America di origine “anglo-sassone”, gli studiosi hanno ri-visto la formula interpretativa classica from immigrants to ethnics aggiungendo la specificazione di white ethnics, ad indicare l’importanza di considerare il loro posizionamento (dal lato dei “bianchi”) all’interno della struttura “razziale” tagliata in due dalla “linea del colore”, per citare la celebre espressione dell’intellettuale afro-americano W.E.B. Du Bois . La storia di immigrazione dei gruppi europei è stata quindi riconcepita nella sua congiunzione con il “farsi” storico, negli Stati Uniti, del gruppo dominante dei “bianchi euro-americani” del quale essi entrarono a far parte contribuendo al riprodursi di quel sistema di relazioni gerarchiche in cui la “bianchezza” operava quale criterio per la distribuzione ineguale di risorse sia materiali (diritti, opportunità, potere) che simboliche (prestigio, reputazione) cruciali per il posizionamento all’interno della struttura sociale americana, detta ap-punto “razzializzata”. Il presupposto teorico di questo nuovo filone interpretativo è che la categoria di “bianchi”, come qualsiasi altra categoria “razziale”, non abbia nulla di “biologico” o “naturale”, ma sia piuttosto una “costruzione sociale”, prodotto del pensiero e dell’azione umana; in quanto tale essa può essere non solo studiata nelle origini e cambiamenti nel tempo e nello spazio, ma anche distrutta da quello stesso essere umano che l’ha inventata .
Ad attrarre molti storici della whiteness è stato in particolar modo il problema della “bian-chezza” di gruppi di immigrati non di origine “anglo-sassone”, come gli irlandesi o i cosiddetti “nuovi immigrati” del sud e dell’est Europa, i quali, pur essendo classificati in via legale come “bianchi” al momento dell’ingresso negli Stati Uniti, furono com’è noto oggetto di severi pregiudizi e discrimina-zioni . Come spiegare questa originaria apparente contraddizione alla base del loro status razziale? Quale significato attribuirle nel più generale processo di formazione del gruppo dei “bianchi eu-ro-americani”? Una serie di studi, incentrati sulla storia dell’idea della “razza bianca” negli Stati Uniti, ha sostenuto che, proprio sotto la spinta dell’immigrazione di massa dal Vecchio Continente, la “razza bianca” cessò di essere concepita come un “monolite” indistinto per assumere la forma, sia nella cultura erudita che popolare, di una gerarchia di “razze” ritenute diverse per tratti fisici e mentali. Matthew Jacobson ha parlato di un “sistema di differenze” secondo il quale “una persona poteva essere al contempo bianca e razzialmente distinta dagli altri bianchi” . Un esempio di fre-quente citato per spiegare il funzionamento di questo “sistema di differenze” è quello degli immi-grati irlandesi in largo afflusso negli Stati Uniti alla metà dell’Ottocento; la loro usuale denigrazione con l‘appellativo di “celti” da parte dell’opinione pubblica indicava una chiara definizione in senso razziale e “altro” rispetto all’America “anglo-sassone”. Oltre che in relazione al problema dell’immigrazione, tale “frammentazione” della “razza bianca” in una pluralità di “razze” è stata messa in rapporto a due paralleli fenomeni culturali. Il primo riguarda l’affermarsi dell’ideologia del-la supremazia “anglo-sassone” in concomitanza con l’apice dell’imperialismo britannico e l’ascesa a potenza mondiale degli Stati Uniti sul finire dell’Ottocento. Rispetto a ciò, ha scritto Nell Painter che “la nazione Americana divenne espressione di una sola razza, la anglo-sassone, in una visione che spazzava sotto il tappeto i nativi americani, gli irlandesi, i neri, gli ebrei che erano stati americani dai tempi delle colonie e gli asiatici, gli slavi e gli italiani che stavano iniziando ad arrivare in numeri cre-scenti” . Il secondo fenomeno culturale riguarda l’emergere, in ambito etno-antropologico, degli studi sulla “razza” che culminarono, a cavallo del Novecento, con le bizzarre tassonomie dei fautori del “razzismo scientifico”, prima fra tutte la tripartizione delle “razze” europee in “teutonica”, “alpi-na” e “mediterranea” proposta dal professore di Harvard William Ripley e divulgata dal libro di Ma-dison Grant The passing of the Great Race (1916). Secondo Desmond King è all’interno di questa temperie culturale, segnata dagli albori dell’eugenetica, che va inquadrato il dibattito sull’immigrazione esploso negli Stati Uniti con l’avvio dell’immigrazione dai paesi del Sud e dell’Est Europa; gruppi come gli italiani, i greci, i russi o gli ebrei polacchi furono visti, dice King, come una “una classe meno intelligente di immigrati” rispetto agli immigrati “nordici” arrivati sino ad allora e le restrizioni all’immigrazione intraprese contro di loro con le Leggi Quota degli anni Venti ispirate da evidenti criteri razziali .
Gli studiosi si sono divisi sul modo di intendere queste distinzioni “razziali” tracciate tra i grup-pi europei. Argomento di dibattito è stato se esse, per quanto profonde, fossero da intendersi co-munque come interne ai “bianchi” o se invece la linea della “bianchezza” le attraversasse esclu-dendo dal proprio perimetro i non appartenenti all’elemento superiore “anglo-sassone” o “nordi-co”. Due sono le posizioni principali emerse in merito, riassumibili nei paradigmi interpretativi della “gente di mezzo”, elaborato dagli storici del lavoro David Roediger e James Barrett, e dei “bianchi all’arrivo” di Thomas Guglielmo . La prima interpretazione suggerisce che alcuni gruppi di immigrati europei si videro nei fatti contestata la “bianchezza” e assegnato uno status razziale ambiguo, tra i “bianchi” e i “non bianchi”. La nozione di “medietà razziale” fu originariamente formulata da John Higham e Robert Orsi per il caso degli immigrati siciliani, alla luce degli attacchi razzisti di cui furono oggetto (fino al limite dei linciaggi), della loro contiguità sociale con gli afro-americani nei quartieri poveri delle città americane o nelle piantagioni degli Stati del sud, e non da ultimo della loro fisio-nomia bruna che ne confutava la “bianchezza” anche all’apparenza . Barrett e Roediger hanno poi esteso la formula di “gente di mezzo” a tutti i “nuovi immigrati” del Sud e dell’Est Europa studiando il linguaggio razzista utilizzato contro di loro e la loro relegazione nel mercato del lavoro in occupa-zioni non qualificate di solito lasciate agli afro-americani, con i quali si trovarono infatti a vivere in stretto contatto. Se quindi lo status razziale di questi immigrati fu inizialmente ambiguo, in quali tempi e modi furono identificati e presero a identificarsi come “bianchi”? Il paradigma della “gente di mezzo” promuove un’idea della “bianchezza” quale coscienza razziale acquisita gradualmente, attraverso l’iniziale interazione con i neri ai margini della società. Roediger applicò in principio tale idea agli irlandesi: anche loro, dal suo punto di vista, non furono subito accettati come “bianchi” alla metà dell’Ottocento . Il meccanismo con cui “diventarono bianchi” vale però anche per i “nuovi immigrati” e consiste nella scoperta, da parte loro, dei privilegi di ordine materiale e “psicologico” derivanti dalla “bianchezza” mediante la differenziazione (anche violenta) dai loro socialmente pari afro-americani. La Seconda guerra mondiale è solitamente ritenuta un momento spartiacque in questo processo di “sbiancamento” degli immigrati ultimi arrivati dal Sud e dall’Est Europa che infatti risultano coinvolti, come protagonisti, nelle tensioni razziali esplose nelle metropoli americane in seguito al massiccio afflusso di afro-americani giunti per lavorare nell’industria bellica .
In contrasto con il paradigma della “medietà razziale”, Guglielmo ha proposto la sua tesi dei “bianchi all’arrivo” che, seppur basata sul caso degli italiani a Chicago, ambisce a rivedere l’idea della “bianchezza” come identità acquisita gradualmente da irlandesi o “nuovi immigrati” del Sud e dell’Est Europa . L’interpretazione di Guglielmo si basa sulla distinzione concettuale tra “razza” e “colore” che secondo lui governava il modo di classificare gli esseri umani negli Stati Uniti dell’Età Progressista. La “razza” distingueva divisioni minori come “mediterranei”, “nordici”, “celti”; il “colo-re” invece le tradizionali macro-razze “bianca”, “nera”, “gialla”, “marrone” e “rossa”. Per Guglielmo, era il “colore” e non la “razza” a strutturare il sistema “razziale” determinando l’accesso a importanti risorse e riconoscimenti sociali; “se gli italiani”, scrive, “soffrirono per la loro supposta indesiderabilità razziale in quanto italiani, Sud Italiani e via dicendo, nondimeno continuarono a beneficiare in infiniti modi del loro status privilegiato di bianchi basato sulla categoria del colore” . Ugualmente, per Guglielmo gli italiani furono sempre consapevoli della loro identità di “bianchi”, anche se questa iniziò a manifestarsi con maggiore evidenza solo a partire dagli anni della Seconda guerra mondiale con l’aumento del loro coinvolgimento negli attacchi agli afro-americani in crescita a Chicago come nelle altre metropoli del Paese .

3. GLI ITALIANI SONO BIANCHI? LA PROSPETTIVA DAL PACIFICO
Benché antitetiche, le due interpretazioni della “medietà” e dei “bianchi all’arrivo” condivi-dono la stessa pretesa: quella di spiegare, su scala nazionale, lo status razziale assegnato agli irlandesi o ai “nuovi immigrati”. Esse, inoltre, hanno in comune il fatto di indagare il problema della “bianchezza” principalmente attraverso la variabile temporale, cercando di definire “quando” tali gruppi di immigrati furono riconosciuti come “bianchi”, se subito o gradualmente. La mia ricerca, in-centrata sugli italiani a San Francisco e nella California del Nord, suggerisce al contrario che il problema della “bianchezza” di tali gruppi variò in misura considerevole a seconda del contesto razziale che essi incontrarono e, pertanto, invita a considerare attraverso la variabile spaziale anche il “do-ve” la negazione/accettazione dello loro status di “bianchi” si verificò più di frequente. Coglie bene il senso della questione Matthew Jacobson quando afferma che: “un immigrato irlandese, nel 1877, poteva essere un celtico disprezzato a Boston e al contempo essere a San Francisco un membro dell’Order of Caucasians for the Extermination of the Chinaman, cavaliere difensore delle coste de-gli Stati Uniti dall’invasione dei ‘mongoli’” . Tale considerazione può essere estesa agli italiani, i quali, pur essendo nel 1877 a San Francisco ancora un piccolo contingente di immigrati, furono non-dimeno coinvolti nelle attività del “bianco” e razzista Workingmen’s Party of California sorto in seguito ai “riot” anticinesi di quell’anno .
Nel contesto multirazziale della California, caratterizzato in particolare dalla radicata presenza dei cinesi, l’acquisizione di una identità “bianca” da parte degli immigrati europei intervenne generalmente in tempi rapidi. Testimonianze e frammenti utili a sostenere questa ipotesi, che il mio lavoro prova a discutere organicamente, si rintracciavano già nelle opere di altri studiosi relativamente al periodo precedente la stagione dell’immigrazione di massa. Ira Cross riporta l’unione sorta nel 1870 tra minatori italiani, austriaci e irlandesi della contea di Amador per difendere il “lavoro bianco” dalla competizione dei cinesi; Andrew Rolle menziona la fondazione in California, nel 1880, della Italian-Swiss Anti-Chinese Company of Dragoons; Arthur McEvoy registra la mobilitazione, nel 1862, dei pescatori italiani della Baia di San Francisco “contro le intrusioni dei Mongoli” e per la “protezione dei pescatori bianchi”; ugualmente, secondo Bénédicte Deschamps gli stessi pescatori italiani della Baia furono protagonisti nel 1882 di un “riot” contro i “mongoli” accusati di aver distrutto le reti dei “pescatori bianchi” .
Senza dubbio, questa forma di precoce “sbiancamento” in California degli italiani può essere spiegata in termini generali con quanto ipotizzato già da Micaela di Leonardo: “la significativa presenza di minoranze razziali, in gran parte cinesi e giapponesi ma anche messicani e nativi americani, agì nella direzione di distogliere le animosità razziali dei bianchi nei confronti di altri bianchi”, come irlandesi e italiani . Tuttavia, a mio avviso, non ci si può fermare al dato della mera “presenza” di tali “minoranze razziali”. In fondo, se si guardano i dati demografici, quando iniziò l’immigrazione di massa italiana in California sul finire dell’Ottocento, la popolazione dello Stato stava andando incontro a un processo di significativa riduzione della propria originaria eterogeneità etnica a causa del varo del Chinese Exclusion Act nel 1882. Al posto dei cinesi avevano sì preso ad immigrare in California in gran numero altre nazionalità asiatiche: giapponesi e indiani soprattutto. Dal confine meridionale, inoltre, iniziava un consistente afflusso di messicani. Ciononostante, rispetto al passato, la popolazione “bianca” in California era in crescita perché l’afflusso di questi gruppi di immigrati, per quanto mantenesse vivo il tradizionale paesaggio multirazziale, non era sufficiente a controbilanciare la pesante decurtazione dell’elemento cinese da una parte e l’afflusso di immigrati europei come gli italiani dall’altra .
Questo fatto risulta ancor più evidente se ci si sofferma su San Francisco, il contesto privilegiato dall’indagine della mia tesi di dottorato. A inizio Novecento, a causa del Chinese Exclusion Act San Francisco era stata ormai trasformata in una città “bianca” con la popolazione cinese dimezzata rispetto a venti anni prima. Come tante altre città degli Stati Uniti, San Francisco era inondata da immigrati italiani, anche perché gli immigrati giapponesi erano spesso costretti dall’ostilità del con-testo urbano a restare confinati nelle campagne .
Cosa fu della precoce “bianchezza” degli italiani a San Francisco in questa stagione di graduale “europeizzazione” della popolazione della città? Forse il loro status razziale mutò nella direzione della “gente di mezzo”, ora che la composizione etnica rassomigliava più a quella delle metropoli americane della costa Est? A queste domande cerca di dare una risposta la mia tesi di dottorato, la cui periodizzazione, infatti, copre l’intero arco della stagione dell’emigrazione di massa (1880-1924). Dichiarerò subito che i risultati del lavoro mi incoraggiano a sostenere che gli italiani a San Francisco rimasero sempre saldamente “bianchi”, nel senso che non videro mai effettivamente contestata la loro “bianchezza”, e questo perché le spiegazioni del razzismo non vanno ricercate nell’ambito ristretto dei numeri, della “presenza” di determinati gruppi, ma nelle complesse dinamiche ideologi-che, psicologiche e culturali che influenzano i processi di costruzione della “razza” . Metto a fuoco questo aspetto proprio nel primo capitolo della tesi, in cui analizzo il rapporto tra gli immigrati italiani e il potente movimento operaio di San Francisco. Malgrado dal punto di vista della competizione nel mercato del lavoro gruppi di “nuovi immigrati” come gli italiani rappresentassero numericamente una minaccia molto maggiore rispetto agli “asiatici”, le preoccupazioni del San Francisco Labor Council, organismo di coordinamento delle unioni sindacali della città, furono sempre largamente rivolte al problema dell’immigrazione asiatica, come suggerisce lo spoglio da me effettuato del settimanale “Labor Clarion” per le due decadi iniziali del Novecento. Con questo non si intende certo dire che gli italiani fossero bene accetti. Anche a San Francisco, come registrato già da altri studiosi, subirono severe pratiche discriminatorie da parte delle unioni sindacali che impedivano il loro accesso alle occupazioni manuali “qualificate”, più remunerative e di maggior prestigio . Ciononostante, se-condo i risultati della mia ricerca, gli italiani non videro per questo venir meno il loro status di “bianchi”; seppur discriminati, non mancarono infatti di essere coinvolti dalla locale classe operaia in quel meccanismo ideologico e organizzativo “anti-orientali” che, come spiegato da Alexander Saxton, fu storicamente alla base dell’identità e della coesione interna al movimento dei lavoratori in California .
La priorità conferita dal San Francisco Labor Council al contrasto dell’immigrazione asiatica sulla “nuova immigrazione” europea, più che fondarsi su numeri e statistiche relative ai flussi, rifletteva uno schema razziale ben preciso, che si era consolidato a San Francisco lungo la seconda metà dell’Ottocento: la contrapposizione “bianchi/cinesi” che, come suggerisce Barbara Berglund, nella città californiana sostituì la tradizionale dicotomia “bianchi/neri” quale “polarizzazione maggiore venendo a rappresentare la linea di demarcazione razziale più pesante” . È alla luce della dicotomia assoluta “bianchi/cinesi”, e del suo persistere attraverso l’estensione della contrapposizione a tutti gli “asiatici”, che va visto il problema della “bianchezza” degli italiani in California. Questa dicotomia, a mio avviso, fu all’origine di un modo di concepire la “razza bianca” molto diverso dalle altre aree del Paese. Per spiegarlo si possono menzionare alcuni articoli pubblicati nel 1909 dal giornalista e politico californiano Chester Rowell nei quali egli elaborò l’immagine della costa del Pacifico quale “frontiera dell’uomo bianco”, sottoposta alla costante “minaccia” dell’immigrazione asiatica . Tali articoli sono importanti non solo per l’opinione espressa sugli immigrati asiatici, come di consueto indistintamente raggruppati sotto la categoria di “orientali”, ma anche per la netta considerazione dei “nuovi immigrati”, come gli italiani, quali “bianchi”, malgrado la loro “inferiorità” e “indesiderabilità”. Era una questione eminentemente razziale, agli occhi di Rowell, a distinguere i flussi migratori che si riversavano sul Pacifico da quelli della costa Est: “non è la stessa cosa avere a che fare con l’inondazione di un mondo di cinesi, giapponesi, e indù”, scriveva, “è abbastanza facile avere a che fare con orde illimitate di immigrati bianchi, uguali o inferiori, desiderabili o indesiderabili. Il loro problema è al massimo politico e sociale. L’altro problema è biologico” .
In prima battuta, le parole di Rowell potrebbero sembrar corroborare la tesi di Guglielmo: i “nuovi immigrati” come gli italiani, per quanto inferiori e sgraditi razzialmente, erano pur sempre ri-tenuti “bianchi”. A mio avviso, tuttavia, Rowell esprimeva in fatto di “razza” e immigrazione un punto di vista geograficamente connotato: quello della costa del Pacifico. L’obiettivo dei suoi artico-li, infatti, era riportare l’attenzione dell’opinione pubblica della costa Est, ossessionata dal largo af-flusso dei “nuovi immigrati”, su quella che ai suoi occhi era la “vera” minaccia per l’integrità “razzia-le” del Paese: l’immigrazione asiatica. Egli scriveva in un momento estremamente delicato per le relazioni tra la California e Washington; nel 1909, Theodore Roosevelt era dovuto nuovamente intervenire contro il parlamento californiano per impedire che approvasse ulteriori misure vessatorie contro i residenti giapponesi dello Stato, le quali avrebbero finito per causare una crisi diplomatica con l’emergente potenza nipponica . Il modo netto con cui Rowell dichiarava “bianchi” gruppi come gli italiani in raffronto agli “orientali” serviva a rimarcare quelle differenze “razziali” di base che erano passate in secondo piano sulla costa orientale dove le maggiori tensioni ruotavano attorno al rapporto tra il “vecchio stock nordico” e gli immigrati di più recente arrivo dal Sud e dall’Est Europa. Pertanto, lo status di “bianchi all’arrivo”, per dirla con Guglielmo, che Rowell accordava a gruppi di immigrati come gli italiani, nella mia tesi non viene generalizzato, ma visto in relazione allo specifico modo di intendere le differenze “razziali” sulla “frontiera dell’uomo bianco” .
D’altra parte, sono alcuni risultati della mia stessa ricerca a suggerire che l’immediata assegnazione agli italiani dello status di “bianchi” a San Francisco fu più il prodotto della locale peculiare organizzazione delle “relazioni razziali” attorno alla contrapposizione “bianchi/asiatici”, che non una condizione riguardante necessariamente gli italiani in tutti gli Stati Uniti o persino altrove in California. Nel secondo capitolo della tesi mi sono occupato degli immigrati italiani che stagionalmente partivano da San Francisco per lavorare nei distretti minerari e dell’industria del legname del Nord California. In questi settori industriali, la manodopera era rigidamente organizzata secondo quello che Edna Bonacich ha definito il sistema del “mercato del lavoro segmentato”: una ristretta “aristocrazia” di lavoratori “bianchi” era impiegata nelle mansioni qualificate mentre una maggioranza di lavoratori “non-bianchi” in quelle non qualificate . Tuttavia, tale dinamica di “segmentazione” della forza lavoro nei settori minerario e del legname del Nord California non ricalcava lo schema “bianchi/asiatici” in vigore nella società californiana, non essendo gli immigrati asiatici impiegati in tali settori per ragioni legate al modo in cui il “capitale industriale”, negli Stati Uniti, organizzava e selezionava la forza lavoro dei diversi comparti lungo le linee “razziali” che più si confacevano alle sue esigenze produttive e di profitto . In linea con quanto già rilevato da Paola Sensi Isolani in uno suo studio sugli italiani nell’industria del legname in Nord California, la mia indagine sugli italiani nelle miniere conferma che in questi comparti industriali furono gli italiani ed altri “nuovi immigrati” a svolgere il ruolo di gruppi “non-bianchi” in quanto relegati nelle mansioni di bassa manovalanza e maggiore sfruttamento ed altresì esplicitamente confutati nella loro “bianchezza” da parte dei loro superiori americani e nord europei .
Non c’è contraddizione tra lo status razziale da “gente di mezzo”, per dirla con Roediger e Barrett, degli italiani nelle miniere del Nord California e quello invece da “bianchi all’arrivo” degli italiani a San Francisco. Tale difformità, al contrario, ribadisce la proposta della mia tesi: fu la dicotomia “bianchi/asiatici” a fare degli italiani a San Francisco un gruppo di “inferiori” ma pur sempre “bianchi”, come sostenuto da Rowell. Dove tale dicotomia non operò quale criterio di strutturazione del-le “relazioni razziali”, la “bianchezza” degli italiani risultò invece molto più contestata, con le parole e con i fatti, anche in California. Su un piano teorico, a mio avviso, ciò si spiega se si tiene conto che la “razza”, in quanto costruzione sociale, va innanzitutto osservata nelle sue “dinamiche relazionali” e contestuali di formazione, solo in rapporto alle quali essa detiene un significato . Anche il problema della “bianchezza” degli italiani negli Stati Uniti, pertanto, va osservato per come si declinò in rapporto alla dinamiche “razziali” dominanti nelle varie aree del Paese a seconda della loro storia e composizione etnica. Da questo punto di vista il giovane Stato californiano, sottoposta alla presunta costante “minaccia” dell’immigrazione asiatica, rappresentò un contesto molto differente, sia dalle città del Nord industriale di origine prettamente europea che dagli Stati del sud nei quali si concentrava storicamente la minoranza afroamericana. È proprio alla luce del modo peculiare con cui la “questione della razza” si configurò sulla “frontiera dell’uomo bianco” che va altresì rivista la specificità dell’esperienza di immigrazione degli italiani che si spinsero sul Pacifico.