Mobilità bracciantili nell’Italia contemporanea:un oggetto storico impossibile?

Ciò che in generale è noto, proprio perché è noto, non è conosciuto. Il modo più consueto di ingannare se stessi e gli altri consiste appunto nel presupporre, nella conoscenza, qualcosa in quanto già noto, e nel farselo andar bene così com’è[1].

1.       Introduzione

Come in molti altri contesti, anche nell’Italia contemporanea la formazione, riproduzione e dissoluzione di un proletariato rurale di massa si è data attraverso consistenti fenomeni di mobilità territoriale, sullo sfondo della trasformazione capitalistica dell’agricoltura e della formazione di mercati internazionali dei prodotti della terra[2].

Le testimonianze coeve sono eloquenti e trasversali alle periodizzazioni interne agli ultimi secoli. Prima dell’Unità il bracciante (“pigionante”) padovano è “sempre vagolante, sempre in movimento” e “vuole ad ogni anno cangiar cielo, abitazione, padrone”, dopo l’Unità i suoi omologhi emiliani sono “nomadi della civiltà” in continuo movimento. Quasi cinquant’anni dopo il sottosegretario all’Agricoltura menziona in un discorso programmatico il “proletariato rurale randagio ed inquieto”, intento a “chiedere, or qua or là, lavoro avventizio, senza riuscire a fissarsi sulla terra, senza riuscire a collegare stabilmente la propria vita con la vita dei campi”. Ancora nel secondo dopoguerra, le relazioni della commissione parlamentare sulla miseria evidenziano la permanenza del fenomeno: a migliaia da Modica, nel Ragusano, praticano una sorta di “migrazione stagionale”, con intere famiglie che partono per la mietitura “con carro e asinello”, dormendo “all’addiaccio con lenzuola che fungono da tende”, taluni vagando per mesi e giungendo fino a Palermo[3]. A proposito della grande mobilità dei lavoratori della terra la storiografia si è quasi sempre accontentata di riprendere descrizioni e giudizi dei contemporanei, senza farne un vero oggetto di ricerca. D’altronde anche il profilo del “bracciante” è spesso dato per scontato, quando non semplificato nelle rappresentazioni di un’eterna miseria rurale o di una moderna classe operaia dei campi. In realtà si tratta di una figura sociale molto più sfuggente di quanto generalmente non si ammetta: basti qui accennare alla proprietà della terra e della casa, alla mobilità sociale e alla fuoriuscita (temporanea e non) dal proletariato, al lavoro extra-agricolo e a quello non salariato, alle forme di famiglia e alla parentela allargata e, non ultimo, alle relazioni fra genitori e figli e fra uomini e donne, che ricordano come accanto al lavoro dei maschi adulti si sia dato un ampio impiego di ragazzi e di donne. Nel postunitario “secolo dei braccianti” italiani, una periodizzazione a geometria variabile a seconda dei contesti, si può tuttavia accettare una definizione larga e generica: il bracciante si distingue dal lavoratore agricolo occasionale perché vive fondamentalmente di lavoro salariato, anche se la famiglia bracciantile è pluriattiva e può integrare i redditi monetari con forme di autoconsumo, assistenza, reciprocità e svariati espedienti, inclusi il furto e la questua; il bracciante si distingue inoltre dal povero rurale dell’età moderna e dall’operaio agricolo del secondo Novecento sia quantitativamente, perché costituisce una massa consistente di popolazione, sia qualitativamente, perché quando vive accentrato in paesi e borgate è inserito nella vita comunitaria locale e può giungere a caratterizzarla con un’intensa attività associativa e conflittuale.

Il grado variabilissimo di questo addensamento della presenza bracciantile fra Otto e Novecento rimanda ai caratteri dell’intero contesto rurale. La stessa mobilità del proletariato dei campi si inserisce nel quadro di un universo tutt’altro che stanziale. Pur nel quadro di “crudo realismo della descrizione della miseria rurale”, l’assunto di Sidney Sonnino, secondo il quale ancora nel 1880 il contadino “nulla sa di tutto quel che sta al di là del suo comune”, era un eccesso retorico[4]. Allo stesso modo il giudizio di uno studioso attento come Napoleone Colajanni, secondo il quale ancora ai primi del Novecento “nelle campagne i viventi di ordinario sono nati nel luogo”, sorgeva, più che da studi empirici[5], dalla contrapposizione con la popolazione delle città e con i movimenti migratori interni ritenuti più ampi e significativi, quelli appunto dell’“urbanismo”, che andavano “dalle contrade agricole verso i centri industriali, dalle campagne verso le città”[6]. Per evitare l’equivoco della contrapposizione fra urbano e rurale e, nelle stesse campagne, fra sradicati e radicati, ovvero fra braccianti “moderni” e contadini “tradizionali”, va ribadita la proposta, tanto radicale quanto disattesa, formulata quasi trent’anni fa da Paul-André Rosental: “Il funzionamento delle società rurali si basa sul principio stesso di mobilità” e dunque la “circolazione rurale” dev’essere il “punto di partenza per tutte le ricerche a venire”[7]. Se gli spostamenti dei braccianti rappresentano un elemento importante delle relazioni fra città e campagne – basti pensare ai muratori che arrivano dalle campagne nel Metello di Pratolini, perché, come ribadisce un più recente romanzo, “se eri un bracciante eri pure un edile”[8] ‒ questi movimenti sono anche, e soprattutto, elementi costitutivi dei “sistemi agrari”[9]. Proprio come i flussi odierni nutrono la generalizzazione del modello “californiano” di agricoltura, la mobilità storica rimanda inevitabilmente all’organizzazione del settore primario, all’intreccio specifico di forme di proprietà, modi di conduzione, contratti di lavoro e tipi di reclutamento, scelte colturali e livelli tecnologici: ad esempio il grano e gli altri cereali necessitano di abbondante manodopera per il breve tempo del raccolto, la canapa e altre coltivazioni specializzate esigono un’enorme e continua intensità di lavoro, i frutteti o le alberate richiedono mansioni specifiche (come i potatori); prima della meccanizzazione dell’agricoltura questi bisogni possono eccedere la disponibilità di forza-lavoro locale e richiamare flussi temporanei, che talvolta si convertono in insediamenti permanenti, come nella colonizzazione di terre bonificate o nell’appoderamento rurale, che rappresentano tuttavia solo i casi più lineari di processi generali e costantemente all’opera di redistribuzione della popolazione delle campagne in seguito ai mutamenti dei sistemi agrari o di loro elementi.

2.       Vie migratorie alla formazione di classe

Tutte le fonti a nostra disposizione convergono nel descrivere una crescita del proletariato rurale nel corso dell’Ottocento, più sensibile negli anni postunitari e talora impetuosa nell’ultimo ventennio. In genere gli studi storici hanno organizzato questa documentazione seguendo due grandi modelli esplicativi, fra loro compatibili: la differenziazione sociale indotta dalla trasformazione in senso imprenditoriale (capitalistico) delle aziende agrarie e dall’allargamento dei mercati; la crescita della popolazione conseguente alla “transizione demografica”, vale a dire per il calo della mortalità, specie infantile, a fronte del mantenimento di un’abbondante natalità. Questi modelli prevedono spiegazioni locali dei fenomeni di proletarizzazione: il colono impoverito ridotto a salariato, oppure i suoi figli che non riescono a mantenere il contratto, le scelte di nuovi proprietari o di affittuari-imprenditori, la prolificità delle classi rurali. I flussi migratori che hanno contribuito alla formazione del bracciantato di massa hanno ricevuto minore attenzione, si trattasse di spostamenti da montagne e colline verso le pianure o di movimenti interni alle pianure stesse, fra differenti sistemi agrari.

Una importante e precoce eccezione a questa sottovalutazione venne offerta da Emilio Sereni, che nel suo studio del 1947 Il capitalismo nelle campagne evidenziò il nesso fra trasformazione economica, differenziazione sociale e mobilità. La crescita del proletariato rurale, determinata dallo sviluppo capitalistico, aveva allargato l’offerta di forza-lavoro, costringendo i braccianti alla ricerca di impieghi in contesti esterni a quelli abituali, specie laddove grandi aziende a salariati necessitavano di manodopera. Si andarono così costituendo, per via migratoria, mercati inter-regionali del lavoro agricolo[10]. Come qualche anno dopo Hobsbawm[11], Sereni poteva “vedere” o anche solo “intuire” la mobilità perché la contemplavano i suoi modelli di riferimento[12], e anche perché l’aveva incontrata nella sua esperienza di agronomo e dirigente comunista[13]. Il ragionamento sereniano ha portata nazionale, ma proletarizzazione e migrazioni erano state particolarmente intense nell’Italia settentrionale, lo spazio di più profonda trasformazione capitalistica. Come avrebbe riassunto qualche anno dopo lo stesso Sereni, le bonifiche avevano contribuito alla “formazione di un proletariato agricolo di massa, nelle cui file afflui[rono] anche ingenti masse di lavoratori provenienti da altre regioni”[14]. L’area emiliano-romagnola costituiva per Sereni l’epicentro di questo processo di formazione di classe e di mobilità: come per molti altri studiosi (Dal Pane, Caracciolo, Zangheri), il profondo radicamento del socialismo e poi del comunismo faceva di quel territorio un laboratorio per lo storico marxista. La storiografia successiva ha precisato il modello sereniano, che è stato infine assunto dalla sintesi di Guido Crainz: costituito da un’intensa mobilità interna alla grande pianura, il bracciantato padano trovò un “crogiuolo” e poi una “sostanziale permanenza” semisecolare nei borghi bracciantili, cresciuti sull’onda della crisi dei patti colonici e dell’artigianato rurale[15]. A conferma dell’importanza delle migrazioni nella formazione di classe, l’altro grande caso di trasformazione capitalistica delle campagne, la Puglia cerealicola, presenta fenomeni simili. Se l’abolizione postunitaria del regime cerealicolo-pastorale del Tavoliere aveva innescato fenomeni di differenziazione sociale, dagli anni Ottanta la crisi agraria sfoltì i ranghi dei piccoli proprietari e delle “figure miste” nella collina e montagna. I flussi di immigrazione verso la pianura foggiana, ove fiorenti aziende attiravano braccia, non ebbero pari in Italia[16].

3.       Spostamenti temporanei e stagionali in cerca di lavoro

Come l’“accumulazione originaria” del capitale, che ne rappresenta spesso la cornice, la “formazione” del proletariato rurale non “accade” una volta per tutte: anche solo a livello demografico e sociale, dunque senza chiamare in causa la soggettività che è al centro del più noto “farsi” della classe lavoratrice inglese fra Sette e Ottocento, delineato mezzo secolo fa in The Making of the English Working Class di Edward P. Thompson[17], le “classi” si formano, si trasformano e si dissolvono continuamente, anche in tempi brevi[18]. Le campagne non fanno eccezione: accanto alle dinamiche demografiche, la riproduzione del bracciantato di massa si nutre anche della continua ripetizione di processi di proletarizzazione, che possono implicare migrazioni permanenti.

Una volta si sia in qualche modo prodotta, la condizione bracciantile costringe spesso a una mobilità ordinaria e quotidiana e il caso italiano abbonda di testimonianze in tal senso. Il bracciante “avventizio” o “giornaliero”, privo dei vincoli con i proprietari che distinguono i salariati “fissi” o “obbligati”, conosce solo occupazioni precarie e dunque è costitutivamente in movimento. Eloquente risulta il ritratto del bracciante mantovano delineato da un consigliere di prefettura, il conte Gerolamo Romilli, ai tempi della grande inchiesta agraria postunitaria: “Si reca lontano per trovare lavoro, portando sulle spalle la vanga, il badile o la zappa, ed attorno al collo un sacco che serve da tabarro, da coperta e da materasso nella notte, perché si caccia entro di quello; inoltre in quel sacco ripone la sua scarsa provvista di vettovaglie ed al bisogno lo riempie di terra, per trasportarla altrove, se non ha carriola”. Negli stessi anni, dalle città contadine meridionali (agrotowns) ove viveva accentrata la popolazione rurale si muovevano tutti i giorni masse di lavoratori, in larga parte contadini poveri e braccianti, che andavano a coltivare, a vario titolo, fondi spezzettati o lontani: “Contadini non stanno in campagna”, annotò Leopoldo Franchetti nelle pagine materane del diario personale tenuto durante il celebre viaggio-inchiesta nel Mezzogiorno, “[…] Donde segue […] gran parte perdita di tempo e di lavoro; d’estate i contadini partono anche al tocco dopo mezzanotte per andare al lavoro”[19]. Sono solo due esempi fra i molti utili a documentare le fatiche supplementari che vite vaganti o pendolari addossavano sui braccianti ottocenteschi[20], fatiche destinate a perdurare nel secolo successivo, nonostante il sollievo offerto da biciclette e motoveicoli, treni e autobus.

Se precarietà e modelli insediativi generavano continui andirivieni, i sistemi agrari o loro specifici elementi, come la cerealicoltura non meccanizzata che ha a lungo dominato i campi del Bel Paese, imposero per secoli ondate di migrazioni temporanee, fino agli estremi di un’agricoltura che era “ancora allo stato nomade” descritta dallo stesso Franchetti nelle pagine lucane e calabresi della sua inchiesta[21]. Senza chiamare in causa l’allevamento (transumanze e alpeggi), basti pensare ai grandi movimenti in occasione della fienagione, della mietitura del grano e di altri raccolti, ma anche di altri lavori che richiedevano la disponibilità simultanea di masse di lavoratori che nessuno spazio locale avrebbe potuto fornire. La documentazione disponibile mostra che dall’età napoleonica al periodo giolittiano le grandi correnti delle migrazioni stagionali italiane restarono imponenti e con pochi riscontri nel resto d’Europa. Tanto rilevanti erano questi spostamenti che il primo censimento della popolazione del nuovo Regno d’Italia dovette occuparsene, registrandone almeno 140.000, un dato largamente sottostimato e che riguardava in gran parte movimenti rurali. Almeno quattro aree richiamarono per tutto il lungo Ottocento, e oltre, decine di migliaia di lavoratori stagionali ogni anno, dando vita a veri e propri sistemi migratori: le risaie piemontesi-lombarde, la Maremma tirrenica e malarica (con l’Agro Romano), il Tavoliere pugliese (inclusa la Basilicata orientale) e la Sicilia orientale[22]. Se nel complesso all’inizio del Novecento si registravano ogni anno fino a 800.000 movimenti, i flussi si ridussero durante il periodo fascista, ma si mantennero di massa, organizzati o controllati dal regime, fra propaganda “ruralista” e tentativi di incanalare la disoccupazione[23]. Le correnti stagionali si ridussero poi con il declinare del peso del settore primario, ma ancora nel 1973-1974 quasi la metà circa degli oltre 265.000 spostamenti stagionali di lavoratori erano determinati da lavori agricoli[24]. Anche al di là dei grandi movimenti inter-regionali, più in generale i sistemi agrari locali si connettevano fra di loro attraverso fitti scambi di manodopera[25]. Ad evitare i conflitti fra locali e forestieri che scaturivano da questa densa mobilità si adoperò il movimento operaio, che spesso dovette subire anche i piccoli ma decisivi spostamenti del “crumiraggio”, che permettevano ai proprietari di sconfiggere gli scioperanti mediante l’importazione di contingenti di lavoratori da territori vicini o lontani[26].

Al di là dei lavori strettamente agricoli, la sistemazione e manutenzione dei terreni generava flussi temporanei altrettanto imponenti, come nel caso più importante, la bonifica. In età contemporanea la conquista di nuove terre si intensificò, specie su terreni paludosi o in pessime condizioni di scolo delle acque, che occupavano circa un milione di ettari nelle ridotte pianure italiane[27]. Rispetto al modello classico del dissodamento o disboscamento, la bonifica contemporanea rompe l’unità fra preparazione e coltivazione del terreno. L’estensione dell’intervento e l’innovazione tecnologica richiedono investimenti di capitale che poi devono essere remunerati. Anche se in Italia, di fatto, gli investimenti furono in larga parte rimborsati con fondi pubblici, in nome delle finalità igieniche e sociali della “redenzione” dei terreni, la bonificazione portò spesso alla formazione di grandi aziende, gestite in economia o con una selezione di coloni basata su criteri diversi da quelli del reclutamento della manodopera per i grandi lavori preliminari[28]. Dunque dal Ferrarese a Ostia, dal Fucino all’Agro Pontino, le braccia impiegate nello sterro e nella canalizzazione non furono ‒ almeno non programmaticamente ‒ quelle che poi avrebbero lavorato i campi[29]. Gli stessi progetti di “colonizzazione interna”, che avrebbero dovuto riunire nel “colono” la sistemazione territoriale e la coltivazione, risolvendo nell’insediamento la mobilità, restarono sulla carta o fallirono, così come quelli fascisti tesi alla “sbracciantizzazione”[30].

Su tutti questi terreni la mobilità rurale eccede la figura del bracciante classico, perché nei lavori occasionali si impegnavano anche membri di famiglie di contadini e artigiani, che con il lavoro salariato integravano un reddito spesso precario, per le incertezze dettate dal clima, dalle malattie delle piante e dai mercati, ma anche per le dure condizioni contrattuali[31]. Al primo congresso della Federterra, tenutosi a Bologna nel 1901, il deputato socialista Adelmo Sichel menzionò uno degli innumerevoli episodi in materia: “Noi di Guastalla e di Reggio la primavera scorsa ricevemmo dai forti compagni di Mantova una lettera con cui si invitava me e Prampolini a volerci adoperare perché lavoratori della provincia di Reggio non emigrassero a Mantova a sfogliare il gelso o a mietere il frumento. Ed erano caterve di lavoratori che passavano per tutti i paesi della pianura di Reggio, in parte a piedi, in parte affollati su carretti, e andavano, traversando la provincia, a fare quell’ufficio. Ebbene, sapete chi erano questi miserabili, che sono peggio dei nostri lavoratori? Tutta questa gente sono proprietari dell’alta montagna reggiana, di quei proprietari che stanno peggio dei lavoratori organizzati e coscienti della pianura”[32].

4.       La mobilità residenziale e le sue ragioni

Al di là delle migrazioni stagionali o temporanee (3.) e dei casi in cui si convertirono in migrazione “permanente” (2.), erano forse stabili i contesti immediati della vita dei braccianti? Affrontato dalla prospettiva di un particolare soggetto sociale è questo l’interrogativo delle indagini sulla “mobilità residenziale”, largamente disertate dagli studi storici, ancor meno da quelli inerenti alle campagne[33]. Sembra assodata l’esistenza di un’intensa circolazione bracciantile fra borghi e comuni vicini, ma raramente è stata posta come problema e non semplicemente assunta come un elemento di sfondo[34].

Sulla base delle linee sereniane, Franco Cazzola ha precisato in una serie di studi che la “grande mobilità” del lavoratore agricolo padano, dettata dalla “forzata incostanza della sua occupazione”, “rappresenta un elemento di lungo periodo su cui bisognerebbe riflettere”. Il problema di una massa crescente di figure sganciate da legami continuativi con la produzione agricola esplose dopo l’Unità, quando per loro l’unica “alternativa” praticabile divenne “spostarsi sul territorio a raggio via via più ampio rispetto alla terra di origine e per periodi di tempo sempre più lunghi”, fino a dar vita a una “continua redistribuzione della popolazione agricola”[35]. Questa dinamica sarebbe stata esasperata dalla crisi agraria[36], ma contenuta dopo il 1900, quando l’organizzazione nelle “leghe” e aspre lotte migliorarono le condizioni dei braccianti e facilitarono una parziale stabilizzazione territoriale, anche grazie a pur precarie e non generalizzate conquiste istituzionali, come il collocamento di classe e l’imponibile di manodopera[37]. Se alla matrice individuata come preminente dalla storiografia, la ricerca di occasioni di impiego, uniamo altre dinamiche sociali, ben si comprende l’intensità degli spostamenti di una popolazione priva di risorse che non fossero i magri salari, le forme di reciprocità e i mille espedienti: tensioni con i proprietari dei fondi, sfratti dalle abitazioni, fuga dai debiti contratti, dinamiche matrimoniali, forme di mobilità sociale interne alla stratificazione bracciantile (passare da giornalieri a fissi-obbligati altrove, e viceversa) o alla società rurale (passare dal salariato a forme miste, coloniche o di piccolo affitto altrove, e viceversa), disgregazione delle famiglie per la morte, la malattia o la sopraggiunta inabilità del capofamiglia (con redistribuzione dei membri presso la parentela allargata o su terzi da essa individuati). Se questo profilo sembra del tutto ragionevole, gli studi che lo indagano a fondo sono tanto rari quanto preziosi.

Sulla base della documentazione parrocchiale degli “stati d’anime”, Manuela Martini ha mostrato le lunghe radici della mobilità – e della trasformazione capitalistico-borghese dell’agricoltura – nel Bolognese. A Budrio fra 1790 e 1795 il 40% delle famiglie rurali ha traslocato, con casi locali di “dinamismo vorticoso”. Anche se si tratta di una società mezzadrile e dunque di una mobilità generalizzata, ai traslochi sono interessati particolarmente i braccianti, caratterizzati da una “precarietà itinerante”. Questo esito, che unisce paradossalmente “instabilità” e radicamento in un mercato locale del lavoro entro il quale “domina il movimento” (il raggio degli spostamenti non supera i 30 km), si deve ai cambi di proprietà, con nuove forme di gestione che sfruttano la convenienza di utilizzare manodopera salariata, che si paga occasionalmente e non va mantenuta per l’intera annata[38]. Un simile e cronologicamente più esteso (1819-1859) cantiere di ricerca su Casalguidi, la parrocchia rurale più popolosa del Pistoiese, avviato da Marco Manfredini, ha mostrato la precarietà dell’insediamento dei giornalieri/salariati, che più facilmente emigrano: pur in un contesto di agricoltura povera emerge invece il maggior radicamento di proprietari e mezzadri[39].

È paradossalmente più difficile, per la natura stessa della documentazione, tener conto dei traslochi in età statistica, il cui avvio si fa generalmente coincidere con l’Unità. I dati municipali aggregati, che possono dare solo indicazioni di massima sui movimenti intercomunali nei territori a forte presenza di proletariato rurale, sono stati raramente interrogati e non sono esenti da distorsioni[40]. Invece lo spoglio e l’aggregazione di dati nominativi, come quelli dei registri migratori postunitari – che tenevano conto degli incarti delle “pratiche” di trasferimento di residenza intercomunale e ne sintetizzavano gli esiti per le ricapitolazioni annuali – confermano il peso della mobilità bracciantile nelle aree di pianura. In un grande comune del Ferrarese, Copparo, sono intestati a “braccianti”, “operaj”, “giornalieri” o “villici” la metà dei 1513 atti migratori compilati fra 1872 e 1874: questi trasferimenti spostano il 47% della popolazione in movimento[41]. Nella sua prima ricerca su Casalecchio, alle porte di Bologna, David Kertzer aveva segnalato le dimensioni della mobilità fra 1890 e 1910: a quelle date le carte parrocchiali evidenziavano che il 56/60% dei braccianti, la professione più diffusa fra i maschi adulti, risultavano immigrati nel borgo. Tornando sul caso su nuove fonti, soprattutto i registri municipali di popolazione, Kertzer, Hogan e Schiaffino avevano poi ribadito che i salariati agricoli (maschi) avevano costantemente una minor probabilità (sempre inferiore al 20%) di essere nativi del comune rispetto ad altri gruppi professionali, anche se nel complesso familiare i poveri/salariati non erano la categoria più propensa a emigrare, salvo che non fossero già immigrati[42].

Risultano meno indagate in questa chiave le dinamiche del pieno Novecento. Ancora nel 1958, come ha mostrato uno studio in presa diretta di Luisito Bianchi, i salariati delle cascine padane traslocavano ogni 7-8 anni, spostandosi ogni volta di una decina di chilometri. Come tutte le medie, anche queste compongono situazioni di relativa stabilità (l’11% delle famiglie era da oltre 15 anni sul fondo) e di frenetico movimento (il 51% si ferma al massimo 3 anni), ma queste ultime forse non traducono solo l’“incubo” della “disdetta”: se “non è una mobilità che emancipa”, i motivi del movimento sono eloquente traccia dell’insofferenza verso quell’“orizzonte immobile di subalternità e dipendenza” che è dato dal controllo e dal paternalismo padronale in cascina[43].

5.       La fine del bracciantato e la grande migrazione interna

Il rilievo e la visibilità della mobilità bracciantile riemersero con forza nel corso della tumultuosa fuga dalle campagne degli anni Cinquanta. Il calo delle migrazioni stagionali si diede nel contesto di un “rimescolamento della popolazione che non ha riscontri nella storia […] italiana”: per la prima volta le migrazioni interne rappresentarono una “alternativa reale” all’emigrazione[44]. Il fenomeno più eclatante, ovvero il flusso dal Mezzogiorno al Settentrione, che ebbe anche declinazioni rurali[45], va inserito in dinamiche più capillari di spostamenti di massa, che svuotarono campagne e montagne, zone interne e piccoli borghi per ingrossare le città e saturare le coste. Per i braccianti padani fu, per servirsi dell’icastica espressione di Guido Crainz, “la fine di un mondo”: le trasformazioni produttive e la difficoltà a procurarsi una sussistenza familiare per la svalutazione del settore primario, interessato da profonde innovazioni tecniche (macchine e chimica), produssero il tracollo degli addetti e, in prospettiva, un’agricoltura senza campagne e senza contadini. Sull’esodo specifico dei salariati, nel quadro di quello di tutte le figure rurali, pesò la sconfitta sindacale e con essa, il crollo delle istituzioni che avevano costruito la comunità bracciantile (collocamento e imponibile). E pesò anche il rinnovato protagonismo dello Stato in agricoltura, teso a favorire, con la “riforma” o leggi ad hoc, la formazione di piccole proprietà contadine, con il fine di consolidare il consenso politico e indebolire il movimento operaio. Le classi dirigenti operarono nella piena consapevolezza delle conseguenze sociali di queste politiche, prevedendo, da Vanoni a Rumor, la creazione di flussi di braccia per l’industria e di aziende familiari destinate ad affrontare una dura selezione[46].

Spinti dall’espulsione dalle attività agricole, ma anche dall’attrazione esercitata dal mondo urbano (occupazione nell’industria e nelle costruzioni, salari e condizioni di vita migliori, accesso a case e consumi), i braccianti sfruttarono le connessioni che univano i mille borghi delle campagne e i loro capoluoghi, ma anche le metropoli padane e la capitale: ricostruirono “catene” migratorie le cui basi rimandavano ai flussi di urbanizzazione precedenti, che si erano fatti via via più intensi con l’Unità e poi nel Novecento, con apice nel periodo fascista.

Non disponiamo di dati di flusso per categorie socio-professionali, ma alcuni sondaggi possono dar conto del fenomeno. Ad esempio, l’incrocio del calo della forza-lavoro salariata in agricoltura e del saldo migratorio (o del calo di popolazione) in alcune provincie delinea la dimensione del mutamento strutturale e dell’esodo. Mettendo a confronto i censimenti del 1951 e del 1971 si ha un’immagine, non nitidissima, ma esplicita, del clamoroso ridimensionamento del bracciantato nelle campagne italiane. I lavoratori dipendenti salariati del settore agricolo (l’aggiunta di quelli di caccia, foreste e pesca non altera certo il quadro) calano complessivamente da 2.658.000 a 1.311.000, con una perdita del 51% degli effettivi in vent’anni. Non una provincia è immune dal calo, che solo in dieci casi è inferiore al 25%[47]. Se si confrontano le prime dieci province per consistenza di salariati agricoli (Tabella 1) si ha conferma del primato meridionale e traccia delle trasformazioni: nel calo generale si riscontra il tracollo del Ferrarese, epicentro del bracciantato padano, il ridimensionamento delle aree calabresi e l’ascesa di quelle campane, in un complessivo intensificarsi della concentrazione territoriale (le prime dieci province passano dal 35% al 43% sul totale).

Tabella 1
Dipendenti salariati nel settore primario italiano
 
  1 9 5 1 1 9 7 1
1 BA124062 LE89202
2 LE117383 BA86206
3 RC101012 BR59560
4 FE98593 CT54534
5 FG91254 RC51092
6 CZ86760 ME51017
7 CT85459 FG46280
8 CS82691 SA45081
9 ME78150 NA43335
10 BR69076 TA42805

Evidenziando le maggiori perdite assolute (Tabella 2), si conferma la dimensione del fenomeno nella Bassa padana, orientale (Ferrara e Rovigo) e non solo (Pavia), e in tutta la Calabria.

Tabella 2
Diminuzione assoluta dei salariati nel primario italiano (1951-1971)
 
1FE-74811
2RC-49920
3RO-49801
4FG-44974
5CZ-44761
6CS-42605
7BA-37856
8PV-35879
9CT-30925
10CA-30640

Il quadro è completato dall’elenco delle maggiori perdite relative (Tabella 3), includendovi solo le provincie con una consistenza di salariati superiore alla media nel 1951 (poco oltre le 29.000 unita)[48]. Emerge la pesante incidenza del fenomeno in tutto il Settentrione e, forse meno noto, anche nel caso sardo.

Tabella 3
Diminuzione relativa dei salariati nel primario (1951-1971)
 
1RO-84
2PV-78
3PD-78
4BS-77
5FE-76
6MI-73
7CR-72
8MN-70
9VR-67
10SS-64
11CA-64

L’esodo rurale non si può certo ricondurre alle sole migrazioni bracciantili, ma da questi dati approssimativi sulla consistenza della forza-lavoro salariata si ha la percezione della profondità della trasformazione sociale nelle campagne. In tutta Italia la dissoluzione del bracciantato interagì dinamicamente con il mutamento dei sistemi agrari e con gli slittamenti demografici. La forte diminuzione, assoluta e/o relativa, dei salariati agricoli non indica, se non in piccola parte, una “ascesa” di questi al rango di famiglia a vario titolo coltivatrice, ma segnala più largamente la fuoriuscita dal contesto rurale e dal settore primario, verso occupazioni urbane, concentrate nelle cittadine o nel capoluogo della stessa provincia, in altri capoluoghi adiacenti o nelle più lontane aree industriali liguri, piemontesi e lombarde, così come nelle periferie romane. Mentre crollava la consistenza del suo bracciantato, fra 1951 e 1971 la provincia di Ferrara registrava un saldo migratorio negativo di oltre 84.000 unità e perdeva circa 37.000 abitanti[49]. Il Polesine rodigino, colpito dall’alluvione del Po del 1951, vedeva un tracollo demografico di circa 106.000 abitanti, con un saldo migratorio nello stesso ventennio pari a -152.000 unità[50]. La provincia di Mantova conosceva un analogo sconvolgimento sociale, e scontava un calo di popolazione di circa 48.000 abitanti, nutrito da un saldo migratorio pari a -75.000 unità[51]. A parte Reggio Calabria e Cagliari, i territori meridionali non persero popolazione, nonostante le tre province calabresi avessero accumulato un saldo migratorio negativo pari a -690.000 unità e le due pugliesi -457.000[52]. In Sicilia le conquiste sindacali, gli effetti della “riforma” agraria e le politiche di industrializzazione scatenarono processi di migrazione inter-regionale, ma anche l’affannosa ricerca di lavoro in città che si andavano dilatando, come Catania: qui, tuttavia, gli immigrati ottenevano spesso occupazioni precarie come quelle bracciantili e ancor meno tutelate per l’assenza del sindacato e delle reti sociali rurali[53].

Incrociando le perdite di salariati e i saldi migratori, si ottiene una configurazione singolare (Grafico 1). Escludendo dalla visualizzazione la provincia di Milano, perché avrebbe ridotto la percezione di queste differenze, forte di un saldo migratorio positivo di oltre un milione di persone, si delineano quattro tipologie.

Grafico 1
Perdita di salariati nel settore primario e saldo migratorio (1951-1971)
 

Pavia è un piccolo caso milanese: la perdita di 35.000 salariati agricoli non genera un deflusso o è compensata da soverchianti correnti in ingresso, dato che il saldo migratorio è positivo (+31.000). Le altre provincie dell’area lombardo-veneta sono curiosamente accomunate a quelle insulari, con perdite di salariati fra i 20 e i 30.000 attivi e con saldi migratori negativi fra i -12.000 e -110.000. I territori del Mezzogiorno continentale formano con il Polesine un gruppo caratterizzato da saldi migratori molto più pesanti (-152.000/-252.000) e declino dei salariati più pronunciato (-37.000/-49.000). Ferrara rappresenta un caso a sé, con un saldo migratorio vicino alle realtà del primo gruppo, ma con il più pesante crollo assoluto dei salariati del primario.

L’esodo rurale verso le città chiuse la storia del bracciantato italiano? In termini di classe senza dubbio, anche se gli operai agricoli residui continuarono a organizzarsi sindacalmente e a lottare per migliorare le proprie condizioni[54]. Non è questa la sede per seguirne le trasformazioni, anche sul piano della mobilità[55]. Quel che va aggiunto, concludendo, è che il flusso di ex-braccianti ha dato un contributo cruciale alla trasformazione fisica del territorio italiano, lavorando massicciamente nell’edilizia urbana e nelle infrastrutture, ha sorretto lo sviluppo industriale, contribuendo alla formazione di una nuova classe operaia, e, forse ancora più importante, ha animato, con le peculiarità solidaristiche e radicali del collettivismo rurale e con la consapevolezza politica e organizzativa maturata nelle lotte del secondo dopoguerra, il conflitto sociale nelle città italiane degli anni Sessanta e Settanta[56].

6.       Un oggetto improbabile

Una dozzina di anni orsono Marco Fincardi ha osservato che le pianure italiane, a differenza delle montagne, non hanno sollecitato “studi sulla mobilità del lavoro”, nonostante la presenza della “professionalità estremamente mobile e flessibile” di una “manovalanza salariata” caratterizzata da “notevole mobilità territoriale”. Gli studi dello stesso Fincardi sulla valle del Po hanno evidenziato come la “continua mobilità del lavoro” abbia contribuito a produrre “culture nuove, anticonformiste” negli uomini come nelle donne: la “secolarizzazione della mentalità”, il “costume laico”, una “sociabilità godereccia” e nuove forme di famiglia[57]. Come si è potuto constatare dalla pur sommaria rassegna fin qui condotta, documenti e studi non mancano, eppure Fincardi ha colto nel segno: restiamo sulle soglie di un’effettiva conoscenza delle mobilità bracciantili.

Si prenda ad esempio il destino dell’interpretazione sereniana sulla formazione del bracciantato nella Bassa padana. Reiterata dagli studi storici e criticata da statistici e demografi[58], l’idea del rilevante apporto esterno è tuttavia ancora un’ipotesi da avvalorare o da smentire: sono troppo ampie le unità di analisi dei dati migratori editi (regioni, province, circondari) perché non resti il dubbio che possano rappresentare aree di compensazione di dinamiche opposte; nelle fonti aggregate i saldi e flussi si riducono all’idraulica demografica netta o lorda fra ingressi e uscite, ma non sono tracciabili territorialmente; infine, la soglia di “rilievo” degli apporti migratori esterni è variabile, ad esempio considerando la struttura per età delle popolazioni “native” e “immigrate”, e lo stesso “apporto” va valutato al di là della singola generazione, per il possibile gioco di fertilità e mortalità differenziali, anche al di là degli aspetti strutturali. Solo un paziente scavo locale, come quelli elencati sopra e con un accentuato indirizzo nominativo e longitudinale, potrebbe dar risposta all’interrogativo posto dai contributi di Sereni[59].

Più in generale fino ad oggi non è stato possibile ragionare sul grande problema posto da Charles Tilly: da dove viene il proletariato europeo[60]? Limitando alle sole campagne italiane e alla parabola contemporanea del bracciantato occorrerebbe distinguere le possibili forme storiche di formazione, riproduzione e dissoluzione di questa classe sociale: mobilità sociale ascendente o discendente, intragenerazione o intergenerazionale, accompagnata o meno da mobilità geografica in ingresso o uscita da un territorio dato. Uscendo dall’astrazione, il bracciantato si forma, si riproduce o cresce per processi di proletarizzazione nell’arco di una vita (ad es. il colono o l’artigiano che diventa bracciante), fra generazioni (ad es. i figli “cadetti” del piccoli proprietari che non “ereditano” il podere), per fertilità differenziale (ad es. le famiglie bracciantili fanno più figli delle altre e questi sono destinati a rimanere braccianti) o per immigrazione (ad es. il saldo migratorio relativo ai braccianti è superiore, in termini relativi, a quello di altre classi e, in termini assoluti, di entità significativa); e lo stesso vale, a contrario, per la dissoluzione della classe, se i braccianti scalano le gerarchie sociali rurali, se i loro figli cambiano occupazione, se la loro fertilità si riduce rispetto agli altri gruppi sociali, se escono dal territorio. Nella realtà questi processi coesistono e solo se uno dei due prevale si ha formazione o disgregazione di classe, poiché anche quando sembrano compatte e statiche le classi sociali sono attraversate da processi dinamici: come sostenne Joseph Schumpeter la classe assomiglia a un “albergo” o un “autobus”, “sempre occupato […] ma da persone sempre diverse”[61]. A complicare il quadro delineato dall’economista austriaco va aggiunto che nella storia non sempre si danno gli “ambienti etnicamente omogenei” previsti dal titolo del suo studio e i processi migratori rendono più difficile l’esame. Per saperne qualcosa solo l’analisi empirica ravvicinata può aiutare e occorrerebbe dunque seguire le vite dei singoli braccianti e delle loro famiglie attraverso le fonti, studiando intensivamente un singolo spazio in un arco sufficientemente ampio per dar conto della loro mobilità in almeno una delle fasi della vita del proletariato rurale (formazione, riproduzione, dissoluzione): anche qui con quell’approccio nominativo e longitudinale che oggi è al centro della più avanzata ricerca nelle scienze sociali[62].

L’indirizzo qui proposto si scontra con un paradosso, che è il paradosso di tutti gli orientamenti quantitativi in storia sociale: le opportunità ‒ inimmaginabili fino a tempi relativamente recenti ‒ offerte dai personal computer a ogni singolo studioso sono sfruttate solo in minima parte nella ricerca storica[63]. Le mobilità bracciantili, come molti altri temi e problemi, non hanno suscitato ricerche approfondite, perché sono oggi inibite dallo stato del campo storiografico in Italia, per lo specifico incrocio fra due dimensioni, il contesto socio-culturale esterno e gli interni problemi di metodo.

Sul piano del contesto culturale si tende ormai a relegare a specialismi quelle che sono invece storie generali delle società, la storia delle campagne e la storia del lavoro, mentre si sono abbandonate quasi del tutto le prospettive non frammentarie di “storia dal basso”, come la storia sociale e la demografia storica. Allo stesso tempo il contesto sociale della produzione di ricerche è dominato dalla sferza della “valutazione”, che invita a pubblicare molto e in fretta, mentre gli impegni burocratici e didattici o gli incarichi temporanei consentono di affrontare solo spezzoni di indagine. Ben si comprende che i giovani laureandi, dottorandi e studiosi non siano certo incentivati a intraprendere le lunghe e faticose ricerche necessarie a una storia sociale del bracciantato e ancor più delle sue forme di mobilità.

Non vanno naturalmente sottovalutate le difficoltà intrinseche. Se è caduto il cruciale problema tecnico dell’elaborazione dei dati, oggi molto più agevole rispetto alla primissima stagione della storia quantitativa a schede perforate ed elaboratori giganti, molti altri persistono.

L’accesso alle fonti è spesso il primo ostacolo: la documentazione prodotta dagli uffici di stato civile e dalle anagrafi non sempre è conservata e, se non è andata distrutta, non sempre è versata negli archivi storici. Che si trovi accantonata negli archivi di deposito o non si sia mossa dagli uffici che l’hanno prodotta, la consultazione risulta complicata, anche al di là di indebite discrezionalità, anacronistiche restrizioni e procedure poco trasparenti, per il conflitto di normative e per la disponibilità di personale.

Un secondo ostacolo è dato dalla costruzione e interrogazione di basi di dati, che richiede sia la collaborazione di statistici e tecnici informatici, non sempre presenti o disponibili, sia l’acquisizione autonoma di un minimo di competenze, proprio quando i metodi quantitativi sono usciti dai percorsi di formazione degli storici. Anche se l’Italia resta teoricamente ricchissima di fonti demografiche e nonostante siano state avanzate da tempo proposte di informatizzazione[64], siamo ancora lontanissimi dall’informatizzazione dei registri di popolazione approntata in Svezia e Norvegia, o dai microdati storici assemblati a campione negli Stati Uniti e in Olanda. Pare dunque lontano il giorno in cui si daranno anche da noi big data bracciantili. Da tempo tramontato il conflitto sociale che aveva fatto uscire i “contadini” dalla condizione di “classe oggetto”[65], il passato rurale è rimosso, forse anche per non aprire imbarazzanti interrogativi sulle campagne odierne, su quel che vi si produce e su chi e come e in quali condizioni lo produce. Per migliaia di anni l’umanità si è concentrata nelle campagne e ha in larga maggioranza coltivato la terra[66], ma pochi decenni di trasformazione han fatto di questo lunghissimo passato una realtà estranea, di cui si tace o che si rievoca nelle forme distorte e fuorvianti della nostalgia identitaria e del consumo dell’arcaico.

Non va taciuto, tuttavia, un terzo ostacolo metodologico. Per tracciare le traiettorie bracciantili si dovrebbe prestar fede alle ambigue e mutevoli classificazioni socioprofessionali storiche o sottoporle a un complicato processo di de-costruzione e ri-costruzione, attenti alle insidie dell’aggregazione ex-post[67]. La prospettiva longitudinale costringerebbe inoltre a registrare il mutamento occupazionale, perché non tutti sono braccianti a vita, un’impresa tutt’altro che agevole perché non sempre restituisce le immagini lineari dell’“ascesa” e “discesa” care allo studio della “mobilità sociale”, ma delinea andate e ritorni fra figure sociali rurali o fra campagna e città, nonché transizioni dettate dal ciclo di vita. La stessa intesa mobilità geografica dei proletari rurali, infine, complica enormemente il compito, dato che è pressoché impossibile seguire anche solo le storie delle centinaia di braccianti che convergono in un contesto dato (o che ne fuoriescono) in un arco temporale ristretto, poiché chiamerebbero in causa decine di altri contesti e dunque archivi, moltiplicando la probabilità di incontrare lacune documentarie.

Forse semplicemente pesa anche qui lo “spiacevole dilemma” delle scienze umane, individuato quarant’anni fa da Carlo Ginzburg: “assumere uno statuto scientifico debole per arrivare a risultati rilevanti, o assumere uno statuto scientifico forte per arrivare a risultati di scarso rilievo”[68]. Anche se si mantiene qualche ambizione, in linea con il “manifesto” microstorico e nominativo proposto nello stesso anno da Carlo Poni e dello stesso Ginzburg[69], sembra che al momento la mobilità bracciantile “ordinaria” ‒ che viene ancora contrapposta ai flussi “globali”, come se non avessero in comune matrici e forme[70] ‒ resti un oggetto impossibile per gli studi storici: o, per non cedere del tutto al pessimismo della ragione, un oggetto piuttosto improbabile.


[1]           Georg W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito [1807], Torino, Einaudi, 2008, p. 23. Dato che la situazione storiografica è rimasta pressoché la stessa, riprendo qui in epigrafe, riportandola per esteso, l’allusione già presente in Michele Nani, Una classe nomade? Sulla mobilità bracciantile nella pianura padana dell’Ottocento, “I Quaderni del Cardello”, 20 (2012), pp. 67-90, la cit. a p. 74. Ho cercato di ridurre le sovrapposizioni fra quel contributo e il presente, specie in riferimenti a fonti e studi, ma non sempre è stato possibile, proprio per la stasi della ricerca nell’ultimo decennio.

[2]           Dirk Hoerder, Capitalization of agricolture, 1850s to 1960s: rural migrations in a global perspective, in Grenzenüberschreitende Arbeitergeschichte: Konzepte und Erkundungen / Labour History Beyond Borders: Concepts and Explorations, a cura di Marcel van der Linden, Leipzig, Akademische Verlagsanstalt, 2010, pp. 159-176. Per uno straordinario studio di caso cfr. Jan Breman, Of peasants, migrants and paupers. Rural Labour Circulation and Capitalist Production in West India, Dehli, Oxford University Press, 1985.

[3]           Marino Berengo, L’agricoltura veneta dalla caduta della repubblica all’unità, Milano, Banca commerciale italiana, 1963, p. 89; Atti della Giunta per la Inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola, II.1, Roma, Forzani, 1881, p. 248; Arrigo Serpieri, La bonifica nella storia e nella dottrina [1948], Bologna, Edizioni Agricole, 1957, p. 130n; Camera dei Deputati, Atti della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla miseria in Italia e sui mezzi per combatterla, VII, La miseria in alcune zone depresse, Milano, Unione tipografica, 1953, p. 343.

[4]           Atti parlamentari. Camera dei Deputati, XIV, 1, Discussioni, 7 luglio 1880, p. 1116. Il giudizio premesso alla citazione è di Renato Zangheri, Storia del socialismo italiano, 1, Dalla Rivoluzione francese a Andrea Costa, Torino, Einaudi, 1993, p. 106.

[5]           Già il pioniere dello studio dei flussi aveva stabilito, per l’Inghilterra del secondo Ottocento, che i cittadini erano più sedentari dei campagnoli: cfr. Michele Nani, Alla ricerca di “leggi delle migrazioni”. Ernst Georg Ravenstein (1834-1913) e lo studio della mobilità fra statistica e cartografia, in Dialoghi sulle migrazioni. Letteratura, storia e lingua, a cura di Grazia Biorci e Roberto Sinigaglia, Genova, Genova University Press, 2013, pp. 93-100. L’immagine di campagne tutt’altro che immobili è stata generalizzata all’Europa intera dalle ricerche di demografi, storici sociali e geografi del secondo dopoguerra.

[6]           Napoleone Colajanni, Manuale di demografia, Napoli, Pierro, 1904, pp. 401 e 372-373 (devo a Stefano Gallo la segnalazione, anni addietro, di questa importante opera). Cfr. analogamente Pietro Sitta, Le migrazioni interne. Saggio di statistica applicata, Genova, Tipografia Sordomuti, 1893, pp. 11, 15 e 25n.

[7]           Paul-André Rosental, Paure e statistica: l’esodo rurale è un mito?, “Quaderni storici”, 26, 3/78 (1991), pp. 869-870. Sulla mobilità rurale resta esemplare Id., Les sentiers invisibles. Espace, famille et migrations dans la France du 19e siècle, Paris, EHESS, 1999.

[8]           Vasco Pratolini, Metello [1960], Milano, Mondadori, 2008, pp. 12, 149 e 280; Francesco Pecoraro, La vita in tempo di pace, Firenze, Ponte alle Grazie, 2013, p. 412.

[9]           Hubert Cochet, Origine et actualité du «Système Agraire»: retour sur un concept, “Revue Tiers Monde”, 207 (2011), pp. 97-114. Per un’applicazione storica cfr. Willem van Schendel, What Is Agrarian Labour? Contrasting Indigo Production in Colonial India and Indonesia, “International Review of Social History”, 60, 1 (2015), pp. 73-95.

[10]          Emilio Sereni, Il capitalismo nelle campagne [1947], Torino, Einaudi, 1968, pp. 323-342.

[11]          Eric J. Hobsbawm, The formation of industrial working-classes: some problems, in Troisième conférence internationale d’histoire économique – Third international conference of economic history. Munich 1965, Paris-La Haye, Mouton, 1968, vol. I, pp. 175-180

[12]          Nel Capitalismo nelle campagne sono ampiamente citati il Capitale e i Grundrisse di Marx, così come La formazione del capitalismo in Russia e gli scritti sulla “questione agraria” di Lenin.

[13]          Per il marxismo classico lo sviluppo industriale si concentrava nelle città e la formazione della classe operaia urbana implicava l’immigrazione dalle campagne, dalle quali la forza-lavoro era espulsa per precedenti o paralleli processi di trasformazione capitalistica dell’agricoltura e proletarizzazione dei contadini. L’approccio marxista coglieva una realtà storica, non generalizzabile, ma innegabile in molte aree industriali e non solo nel caso classico dell’Inghilterra della rivoluzione industriale o nei centri dell’economia mondiale. Emergono tuttavia, accanto a questo modello, anche configurazioni alternative: la protoindustria o l’industrializzazione rurale (Alain Dewerpe, L’industrie aux champs. Essai sur la proto-industrialisation en Italie du Nord, 1800-1880, Rome, École francaise de Rome, 1985) e l’operaio temporaneo, a tempo parziale o pendolare inserito in famiglie rurali non proletarie (Paul R. Corner, Contadini e industrializzazione. Società rurale e impresa in Italia dal 1840 al 1940, Roma-Bari, Laterza, 1993). Lo stesso Sereni segnalava come caratterizzante il caso italiano una lunga fase di proletarizzazione rurale stagnante, senza assorbimento industriale, una “sovrappopolazione artificiale” spinta all’emigrazione (oltre a E. Sereni, Capitalismo, cit., passim cfr. Id., Storia del paesaggio agrario italiano [1961], Roma-Bari, Laterza, 2010, pp. 418 e 422).

[14]          E. Sereni, Paesaggio, cit., p. 428.

[15]          Guido Crainz, Padania. Il mondo dei braccianti dall’Ottocento alla fuga dalle campagne, Roma, Donzelli, 1994, pp. 13 e 41-43.

[16]          Antonino Checco, La vicenda economica del Tavoliere dalla legge di affrancamento del 1865 alla prima guerra mondiale, in Il Tavoliere di Puglia. Bonifica e trasformazione tra XIX e XX secolo, a cura di Piero Bevilacqua, Roma-Bari, Laterza, 1988, pp. 85-101, e Aldo Cormio, Le campagne pugliesi nella fase di ‘transizione’ (1880-1914), in La modernizzazione difficile. Città e campagne nel Mezzogiorno dall’età giolittiana al fascismo, Bari, De Donato, 1983, pp. 150-151 e passim. Per la contestualizzazione del caso pugliese cfr. Luigi Masella, Braccianti nel Sud: una ricognizione storiografica, in Studi sull’agricoltura italiana. Società rurale e modernizzazione, a cura di Pier Paolo D’Attorre e Alberto De Bernardi, “Annali della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli”, 39 (1993), pp. 195-222, e Agnese Sinisi, Migrazioni interne e società rurale nell’Italia meridionale (secoli XVI-XIX), “Bollettino di demografia storica”, 10, 19 (1993), pp. 41-63.

[17]          Edward P. Thompson, Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra [1963], Milano, Il Saggiatore, 1969.

[18]          La formazione della classe operaia, a cura di Simonetta Ortaggi, Milano, Unicopli, 1994. Per un caso esemplare cfr. Steve Striffer, Class formation in Latin America. One family’s enduring journey between country and city, “International Labor and Working-Class History”, 33, 65 (2004), pp. 11-25.

[19]          Inchiesta Romilli. L’agricoltura e le classi agricole nel mantovano (1879), a cura di Rinaldo Salvadori, Torino, Einaudi, 1979, p. 109 (cfr. anche pp. 130-131); Leopoldo Franchetti, Diario del viaggio, in Id., Condizioni economiche ed amministrative delle province napoletane [1875], a cura di Antonio Jannazzo, Roma-Bari, Laterza, 1985, p. 357.

[20]          Marco Fincardi, Campagne emiliane in transizione, Bologna, Clueb, 2008; Angelo Massafra – Saverio Russo, Microfondi e borghi rurali nel Mezzogiorno, in Storia dell’agricoltura italiana, a cura di Piero Bevilacqua, Venezia, Marsilio, 1989-1991, I, pp. 181-228.

[21]          Franchetti, Condizioni, cit., p. 60.

[22]          Stefano Gallo, Senza attraversare le frontiere. Le migrazioni interne dall’Unità a oggi, Roma-Bari, Laterza, 2012, pp. 16-42; Corrado Bonifazi, L’Italia delle migrazioni, Bologna, il Mulino, 2013, pp. 28-37.

[23]          Stefano Gallo, Il Commissariato per le migrazioni e la colonizzazione interna (1930-1940). Per una storia della politica migratoria del fascismo, Foligno, Editoriale Umbra, 2015.

[24]          Nora Federici, Istituzioni di demografia, I, Roma, Elia, 1979, p. 510.

[25]          Per un’analisi del caso calabrese, che ha valore di modello (Beverly Silver, Afterword: Reflections on “Capitalist development in hostile environments”, “Journal of Agrarian Change”, 19, 3 (2019), pp. 569-576), cfr. Giovanni Arrighi – Fortunata Piselli, Il capitalismo in un contesto ostile. Faide, lotta di classe, migrazioni nella Calabria tra Otto e Novecento [1987], Roma, Donzelli, 2017.

[26]          Cfr. la relazione Emigrazione interna e ufficio di statistica di Carlo Vezzani al primo congresso della Federterra del 1901 (in Resoconto stenografico del primo congresso nazionale dei lavoratori della terra, Bologna, Azzoguidi, 1902, ora in Lotte agrarie in Italia. La Federazione nazionale dei lavoratori della terra, 1901-1926, a cura di Renato Zangheri, Milano, Feltrinelli, 1960, pp. 73-78) e, dieci anni dopo, la sconsolata considerazione di Argentina Altobelli al quarto congresso: “sono troppo manifesti i danni che alle organizzazioni derivano dall’irrompere disordinato delle correnti migratorie” (in Relazione morale e finanziaria 1908-09-10 della Federazione nazionale, Bologna, Zamboni [1911], ora in Lotte agrarie, cit., p. 248). Per due casi di studio cfr. Michele Nani, Stampa di classe e mobilità nelle campagne ferraresi: “La Scintilla” (1901-1904), in Lavoro mobile: migranti, organizzazioni, conflitti (XVIII-XX secolo), a cura di Michele Colucci e Michele Nani, Palermo, New Digital Frontiers, 2015, pp. 35-72, e Francesco Di Bartolo, Lavoro, salario, diritti. Vent’anni di lotte bracciantili in Sicilia (1948-1968), Roma, Ediesse, 2011, pp. 47-50.

[27]          Franco Cazzola, Le bonifiche nella storia d’Italia dall’età moderna all’età contemporanea: qualche considerazione, in Il territorio pistoiese e i Lorena tra ’700 e ’800: viabilità e bonifiche, a cura di Ivan Tognarini, Napoli, ESI, 1990, pp. 43-59; Le bonifiche in Italia dal Settecento ad oggi, a cura di Piero Bevilacqua e Manlio Rossi-Doria, Roma-Bari, Laterza, 1984.

[28]          Per uno studio dettagliato cfr. Mara Chiarentin, I braccianti nei cantieri di bonifica. Tecnica, conflitti, mobilità e precarietà del lavoro nell’Agro mantovano-reggiano (1900-1907), Mantova, s.e., 2008.

[29]          Manca uno studio su bonifiche e modelli di mobilità. Per due degli esempi nominati cfr. Giuseppe Lattanzi – Vito Lattanzi – Paolo Isaja, Pane e lavoro. Storia di una colonia cooperativa: i braccianti romagnoli e la bonifica di Ostia, Venezia, Marsilio, 1986, e Costantino Felice, Azienda modello o latifondo? Il Fucino dal prosciugamento alla riforma, “Italia contemporanea”, 44, 189 (1992), pp. 635-676.

[30]          Maria R. Protasi – Eugenio Sonnino, Politiche di popolamento: colonizzazione interna e colonizzazione demogafica nell’Italia liberale e fascista, “Popolazione e storia”, 4, 1 (2003), pp. 91-138; Stefano Gallo, Riempire l’Italia: le migrazioni nei progetti di colonizzazione interna, 1868-1910, “Meridiana”, 26, 75 (2012), pp. 59-83.

[31]          Piero Bevilacqua, Introduzione, in Storia dell’agricoltura, cit., II, pp. XXV-XXVII.

[32]          Resoconto, cit., p. 58.

[33]          Cfr. Michele Nani, Migrazioni bassopadane. Un secolo di mobilità residenziale nel Ferrarese (1861-1971), Palermo, NDF, 2016, pp. 25-42.

[34]          Nella storiografia sul movimento bracciantile la mobilità contribuisce a determinare, ad esempio, le forme organizzative negli studi di Renato Zangheri, la fine dell’aspirazione alla terra in quelli di Giuliano Procacci e la sottrazione alla subalternità nella sintesi di Idomeneo Barbadoro (cfr. M. Nani, Classe, cit., p. 71).

[35]          Vedili ora raccolti in Franco Cazzola, Storia delle campagne padane dall’Ottocento ad oggi, Milano, Bruno Mondadori, 1996, pp. 102, 105 e 208.

[36]          Oltre ai rilievi ivi, cfr. Alberto De Bernardi, La trasformazione della società rurale e la nascita del movimento contadino, “Annali dell’Istituto «Alcide Cervi»”, 5 (1983), pp. 199-226.

[37]          Franco Cazzola – Manuela Martini, Il movimento bracciantile nell’area padana, in Storia dell’agricoltura, cit., III, pp. 742-743 e 750. Analogamente Valerio Evangelisti, Forme di produzione agricola e caratteristiche generali del bracciantato emiliano-romagnolo (1880-1914), in Il proletariato agricolo in Emilia Romagna nella fase di formazione, a cura di Franco Cazzola, “Annale dell’Istituto regionale per la storia della Resistenza e della guerra di liberazione in Emilia Romagna”, 1 (1980), pp. 89 e 107-108.

[38]          Manuela Martini, Una mobilità limitata. Prime ricerche su proprietari e famiglie contadine nelle campagne bolognesi (fine XVIII-inizio XIX secolo), “Rivista di storia dell’agricoltura”, 33, 2 (1993), pp. 65-90, in particolare pp. 79-82.

[39]          Cfr. da ultimo Marco Breschi, Matteo Manfredini e Alessio Fornasin, Demographic responses to short-term stress in a 19th century Tuscan population: The case of household out-migration, “Demographic research”, 13, 25 (2011), pp. 491-512.

[40]          M. Nani, Migrazioni, cit., pp. 151-178. In assenza del computo dei movimenti interni (infracomunali), a parità di intensità migratoria generale, il livello dei tassi migratori registrati (intercomunali) è inversamente proporzionale alla dimensione del comune.

[41]          Allargo l’analisi proposta in Michele Nani, Uno sguardo rurale. Le migrazioni interne italiane viste dalle campagne ferraresi dell’Ottocento, “Meridiana”, 26, 75 (2012), pp. 48-51.

[42]          David I. Kertzer, Famiglia contadina e urbanizzazione. Studio di una comunità alla periferia di Bologna. 1880-1910, Bologna, il Mulino, 1981, il dato a p. 107; David I. Kertzer – Dennis P. Hogan – Massimo Marcolin, Famiglia, economia e società. Cambiamenti demografici e trasformazioni della vita a Casalecchio di Reno 1861-1921 [1989], Bologna, il Mulino, 1991, pp. 109, 129-131 e 147-148.

[43]          Luisito Bianchi, Salariati. Ricerca sociologica sul salariato abitante in cascina, Roma, Ora Sesta, 1968, pp. 15-16 e 59-61 (la tesi da cui è tratto il volume è del 1963); i rilievi citati sono di Guido Crainz, La cascina padana. Ragioni funzionali e svolgimenti, in Storia dell’agricoltura, cit., I, p. 64 e n.

[44]          Cfr. C. Bonifazi, Italia, cit., pp. 189-205 (le citazioni dalle pp. 191 e 196) e, più ampiamente, S. Gallo, Senza, cit., pp. 140-182.

[45]          Corrado Barberis, Le migrazioni rurali in Italia, Milano, Feltrinelli, 1960.

[46]          Crainz, Padania, cit., pp. 233-264.

[47]          IX Censimento generale della popolazione, VII, Roma, Istat, 1958, pp. 260-278 (Tav. 33). Nonostante l’esistenza di ampie aree di sotto-contribuzione e lavoro “informale”, sarebbe cruciale un confronto con i dati degli elenchi dei contributi Inps, già utilizzati per lo studio dell’esodo agrario dal pionieristico lavoro di Gilberto Cavicchioli, L’esodo dalle campagne del Mantovano [1967], Mantova, Istituto mantovano per la Storia del Movimento di Liberazione, 1991.

[48]          Estendendo l’insieme all’intero novero delle 91 provincie del 1951, le perdite relative più incisive si troverebbero a Vercelli e all’Aquila (-86%), ma entrerebbero fra le prime dieci, assieme a Frosinone (-78%), anche realtà con effettivi esigui, al di sotto della metà della media nazionale (Trieste, Belluno, Novara, Savona, Cuneo -79/82%). Si noti che solo quattro province – Pavia, Rovigo, Ferrara e Cagliari – rientrano in entrambe le classifiche.

[49]          Per omogeneità uso qui, per tutti i casi, mie elaborazioni sui dati riassunti in Sommario storico di statistiche sulla popolazione. Anni 1951-87, Roma, Istat, 1990, pp. 12-15. Per una stima leggermente inferiore dei saldi ferraresi cfr. M. Nani, Migrazioni, cit., pp. 86-90.

[50]          Renzo Barbujani, L’evoluzione demografica del Polesine dal 1870 al 1970, Rovigo, Amministrazione provinciale di Rovigo – Ufficio studi, 1971; Flussi migratori e principali conseguenze socio-economiche in un’area di esodo, Rovigo, Edizioni Rodigine – Comune di Rovigo, 1964 (ringrazio Stefano Gallo per avermi procurato copia di questo studio); Alessandro Rosina, Storia demografica del Polesine. Una ricostruzione delle dinamiche evolutive nel XIX e XX secolo, in La bonifica tra Canalbianco e Po. Vicende del comprensorio padano polesano, Rovigo, Minelliana, 1998, pp. 311-326.

[51]          G. Cavicchioli, L’esodo, cit.; Enrico Novellini – Wladimiro Bertazzoni – Roberto Tassini, Il movimento della popolazione nei comuni mantovani (1951-1968), Mantova, Amministrazione provinciale Ufficio Studi -Programmazione, 1969.

[52]          G. Arrighi – F. Piselli, Capitalismo, cit.; Ornella Bianchi, Le migrazioni in Puglia in età moderna e contemporanea, “Archivio storico dell’emigrazione italiana”, 3 (2007), pp. 67-78.

[53]          F. Di Bartolo, Lavoro, cit., pp. 43, 50-55, 187-189 e 192-193.

[54]          Enrico Pugliese, I braccianti agricoli in Italia. Tra mercato del lavoro e assistenza, Milano, Angeli, 1984.

[55]          Giuseppe Barbero – Giuseppe Marotta, Mobilità e mercato del lavoro agricolo dal dopoguerra ad oggi, in Storia dell’agricoltura, cit., II, pp. 857-881. Per una prospettiva critica rispetto ai presupposti di questo studio cfr. Renzo Stefanelli, Il mercato del lavoro nell’agricoltura italiana 1948-1968: struttura e politiche dell’occupazione [1969], in Id., Lotte agrarie e modello di sviluppo, 1947-1967, Bari, De Donato, 1975, pp. 45-112.

[56]          Per un esempio cfr. Ilaria Favretto, Rough music and factory protest in post-1945 Italy, “Past & Present”, 228 (2015), pp. 207-247.

[57]          Marco Fincardi, Presentazione, in M. Chiarentin, Braccianti, cit., pp. 7-27. Cfr. M. Fincardi, Campagne, cit.

[58]          Per una rassegna cfr. M. Nani, Classe, cit., pp. 72-75.

[59]          Un primo tentativo in Michele Nani, Bonifica e mobilità: esplorazioni sul caso ferrarese (1872-1900), “Popolazione e storia”, 16, 1 (2015), pp. 79-97.

[60]          Charles Tilly, Demographic origins of European proletariat, in Proletarianization and family history, a cura di David Levine, Orlando, Academic press, 1984, pp. 1-85.

[61]          Joseph A. Schumpeter, Le classi sociali in ambiente etnicamente omogeneo (1927) in Id., Sociologia dell’imperialismo, Roma-Bari, Laterza, 1972, p. 141.

[62]          Michele Nani, Appunti sulle migrazioni interne nella storiografia europea, in Tempo di cambiare. Rapporto 2015 sulle migrazioni interne in Italia, a cura di Michele Colucci e Stefano Gallo, Roma, Donzelli, 2015, pp. 113-125.

[63]          La migliore trattazione di questi problemi è nell’ottimo manualetto di Claire Lemercier – Claire Zalc, Méthodes quantitatives pour l’historien, Paris, La Découverte, 2008, oggi disponibile in un’edizione aggiornata in inglese, Quantitative Methods in the Humanities: An Introduction, Charlottesville, Virginia University Press, 2019.

[64]          Cfr. Eugenio Sonnino, La «conta delle anime»: conclusione in forma di proposta, in La conta delle anime. Popolazioni e registri parrocchiali: questioni di metodo ed esperienze, a cura di Gauro Coppola e Casimira Grandi, Bologna, il Mulino, 1989, pp. 161-170. La digitalizzazione rappresenta un compromesso: per i fondi degli Archivi di Stato, in particolare per le copie giudiziarie dei registri di stato civile, cfr. http://www.antenati.san.beniculturali.it/. Per un caso locale esemplare di informatizzazione, le “anagrafi austriache” di Verona cfr. https://archivio.comune.verona.it/nqcontent.cfm?a_id=8084.

[65]          La nota definizione di Pierre Bourdieu (Une classe object, “Actes de la recherche en sciences sociales”, 3, 17-18 (1977), pp. 2-5, poi come poscritto al suo fondamentale Le bal des célibataires. Crise de la société paysanne en Béarn, Paris, Seuil, 2002, che resta in attesa di traduzione italiana) è stata recentemente ripresa da Adriano Prosperi per delineare le parabole degli sguardi sui contadini italiani ottocenteschi (Un volgo disperso, Torino, Einaudi, 2019).

[66]          La “storiografia […] deve essere necessariamente, in gran parte almeno, storia delle società contadine”: Edoardo Grendi, Prefazione, in L’antropologia economica, a cura di Id., Torino, Einaudi, 1972, p. IX.

[67]          Maurizio Gribaudi – Alain Blum, Des catégories aux liens individuels. L’analyse statistique de l’espace social, “Annales”, 45, 6 (1990), pp. 1365-1402, e la successiva discussione con Alain Guerreau, ivi, 48, 4 (1993), pp. 979-995.

[68]          Carlo Ginzburg, Spie. Radici di un paradigma indiziario [1979], in Id., Miti, emblemi, spie. Morfologia e storia, Torino, Einaudi, 1986, p. 192.

[69]          Carlo Ginzburg – Carlo Poni, Il nome e il come: scambio ineguale e mercato storiografico, “Quaderni storici”, n. 40, 1979, pp. 181-189.

[70]          Per una sintesi di lungo periodo all’insegna dell’“unità teorico-metodologica” della ricerca sulle mobilità cfr. Paola Corti – Matteo Sanfilippo, L’Italia e le migrazioni, Roma-Bari, Laterza, 2012.