La mobilità dei lavoratori rurali in età moderna. Qualche riflessione a partire dalle campagne lombarde del Cinquecento.

1.       Introduzione

Le campagne e i suoi lavoratori non sono stati l’oggetto principale della ricerca storica negli ultimi decenni, soprattutto in Italia[1], benché in anni recenti in varie parti d’Europa si siano proposti interessanti e impegnativi progetti di ricerca, che hanno dato vita ad importanti casi di studio e lavori di sintesi[2]. Questa flebile voce risulta ancor più silente per l’età moderna, giacché la produzione storiografica, salvo rare eccezioni, si è quasi completamente interrotta dopo quella che possiamo considerare la stagione d’oro della storia rurale italiana, vale a dire gli anni 1950-1990[3]. In quei decenni gli storici si sono interrogati su molti aspetti delle realtà agrarie italiane, contribuendo a definire le peculiarità dei diversi contesti agricoli, delle dissimili organizzazioni sociali e delle varie evoluzioni nei sistemi produttivi, colturali e di organizzazione del lavoro. Si è trattato di uno sforzo collettivo, tanto per il numero di autori coinvolti, quanto per le discipline che si sono interessate al tema, che ha proposto un’analisi multi-prospettica del fenomeno. Ciò non significa che tutti gli aspetti del variegato mondo rurale italiano siano stati approfonditi o abbiano suscitato il medesimo interesse, anche in relazione alla non omogenea disponibilità di fonti primarie. Per tali ragioni alcune questioni, pur continuamente richiamate e presenti nella riflessione storiografica, sono state meno approfondite e, proprio per la scarsità di casi di studio, sono state spesso interpretate secondo schemi generali, non necessariamente adattabili ai diversi contesti o esaustivi nel descrivere un dato fenomeno. È il caso, ad esempio, del multiforme universo dei salariati rurali, dei quali si conservano poche testimonianze dirette (ossia da loro prodotte) e scarsi dettagli in altre fonti primarie[4]. In alcuni casi è stato possibile misurare la loro presenza in una certa località o distretto, in altri si è provato a definirne lo status in rapporto ai diversi contesti socioeconomici, in altri ancora si è riusciti a tracciarne – almeno parzialmente – le traiettorie migratorie entro le diverse aziende di un medesimo territorio o secondo percorsi più remoti, che li portavano a lasciare stagionalmente o stabilmente la parrocchia natia.

Nell’impossibilità di sintetizzare esaustivamente l’immensa eterogeneità delle realtà rurali italiane d’età moderna[5], per di più poggiando sulle instabili basi storiografiche cui si accennato, in questo saggio ho deciso di contribuire al tema della mobilità dei lavoratori rurali proponendo una riflessione che parte da alcuni studi che ho condotto sulle campagne lombarde del Cinquecento[6]. Nello specifico vorrei provare a fornire alcune risposte a tre domande principali. La prima concerne il rapporto tra diverse professioni agricole e dissimili pratiche di mobilità del lavoro. La seconda prende in considerazione la relazione tra diverse realtà geografiche, agronomiche e ambientali e il mutare delle condizioni e della mobilità dei salariati agricoli nello spazio e nel tempo. Da ultimo vorrei proporre alcune riflessioni più generali sulla funzione della mobilità dei lavoratori agricoli nel contesto rurale lombardo, che in un certo qual modo ne chiarisce anche la natura. Per far questo credo sia anzitutto opportuno discutere quello che considero il modello interpretativo generalmente adottato per descrivere la mobilità dei lavoratori in età moderna.

2.       Homo migrans

Nell’indagare la mobilità dei lavoratori nelle società di antico regime, la storiografia ha posto particolare attenzione alla relazione tra città e campagne e a quella tra montagna, città e pianure. Nel primo caso si è inteso analizzare la presunta costante attrazione dei centri urbani nei confronti dei rurali, che sarebbero stati pronti a muoversi verso le città, tanto per occupare i vuoti demografici lasciati dal passaggio di qualche “cavaliere dell’apocalisse”[7], quanto per rispondere alle necessità di espansione della manodopera (soprattutto manifatturiera) in relazione a fasi di crescita economica. In tal senso gli storici economici considerano i tassi d’urbanizzazione come indice della crescita economica nelle società preindustriali, ricostruendo così la produttività agricola a partire dall’analisi demografica e considerando la popolazione rurale come produttrice di derrate agricole e i cittadini come consumatori sostentati primariamente dal distretto rurale circostante. Secondo questa prospettiva, fortemente stimolata da una schematica contrapposizione tra centro e periferia[8], l’aumento del rapporto tra abitanti della città e della campagna non può che rappresentare il sintomo dell’accresciuta produttività agricola locale e della possibile espansione delle attività manifatturiere[9]. Non è mia intenzione discutere la validità di questo modello interpretativo, cosa che per altro ho già fatto in altra sede[10], quanto piuttosto sottolineare che in questa lettura si sottende una mobilità mono o bidirezionale, che mette in connessione uno spazio relativamente (e non per forza in assoluto) ricco di forza lavoro (la campagna), con un altro sostanzialmente ricco di altre risorse (in questo caso soprattutto di capitali). Questo modello di scambio – tra lavoratori che si muovono verso una meta dalla quale traggono risorse di cui spesso (ma non necessariamente) beneficiano le famiglie e i villaggi di partenza – è implicito anche nel secondo ambito di mobilità del lavoro su cui ha posto particolare attenzione la storiografia, quello tra montagna e città/pianure. Per rifarsi alla celebre interpretazione braudeliana, anche la montagna dell’Italia settentrionale d’antico regime era una “fabbrica di uomini”[11], che si muovevano (temporaneamente, più che stabilmente) verso i diversi centri urbani manifatturieri, oppure verso le grandi possessioni della pianura padana, quasi sempre per svolgere mansioni qualificate, delle quali avevano imparato i rudimenti, assieme ad alcune nozioni culturali di base (leggere, scrivere e far di conto), nel paese d’origine[12]. Anche in questo caso, dunque, ci si muoveva da uno spazio relativamente ricco di manodopera a uno abbondante di altre risorse (in questo caso, di capitali, materie prime oppure di terra), avendone in ritorno denaro o altre risorse da inviare eventualmente come rimessa.

Nel considerare l’attrazione esercitata dalle città verso i lavoratori delle campagne e della montagna è tuttavia insito il rischio di rendere in modo piuttosto semplicistico un fenomeno alquanto complesso, radicato in pratiche plurisecolari riprodotte di generazione in generazione. Se appare piuttosto plausibile che, soprattutto a seguito di particolari crisi di mortalità, i centri urbani potessero garantire migliori opportunità di lavoro, non è da escludere che altrettanto fruttuosa e attraente potesse essere la mobilità intra-agricola e intra-rurale. Allo stesso tempo, nel considerare i fenomeni migratori, soprattutto verso le città, si dà per scontata una quasi naturale propensione alla mobilità, senza considerarne le conseguenze per i singoli migranti. Sradicarsi dal territorio di provenienza significava, infatti, lasciare la propria comunità: in una società fortemente inclusiva e cetuale come quella d’antico regime, l’appartenenza (alla famiglia, alla parentela, alla comunità, alla parrocchia) non era per nulla un elemento secondario, sia nel determinare le scelte – quindi le mentalità – sia nel definire la capacità di autosufficienza economica di questi individui, in considerazione dei diversi sistemi di solidarietà formali e informali organizzati a livello locale. A queste forme di assistenza si poteva accedere solo se membri di quella società locale, fosse essa cittadina o rurale, e a seguito del formale riconoscimento della propria appartenenza a quella comunità[13]. La scelta di muoversi, dunque, se da un lato poteva permettere di aprire nuove opportunità di lavoro, dall’altro comportava l’abbandono di un sistema di solidarietà e di cooperazione, senza la certezza di un immediato accesso a quello della nuova comunità.

Inoltre proprio in relazione alla circolazione in ambito rurale si è fin ora poco considerato il ruolo che la mobilità dei lavoratori poteva svolgere nel favorire il temporaneo riequilibrio tra membri di un nucleo famigliare e risorse disponibili. In tal senso, come cercherò di argomentare di seguito, la mobilità dei lavoratori non dovrebbe essere intesa solo ed esclusivamente come lo spostamento della manodopera salariata verso i centri (urbani o rurali) che offrivano maggiori opportunità di lavoro, quanto piuttosto come il frutto di traiettorie migratorie definite da relazioni economiche e sociali consolidate, che permettevano alle famiglie di alleggerirsi o accogliere “bocche” in relazione tanto al ciclo di vita famigliare, quanto alla specifica congiuntura economica che si trovavano ad affrontare[14]. Letta in questi termini, lungi dall’essere il frutto di un evento inaspettato la mobilità dei lavoratori salariati poteva, al contrario, anche essere il risultato di un processo prestabilito, secondo canali ben delineati e radicati. Per definire nel dettaglio questo assunto è anzitutto opportuno offrire qualche sintetica coordinata per orientarsi nel contesto rurale del quale ci stiamo occupando.

3.       Conduttori e salariati

Nella Lombardia della prima età moderna si stavano già sperimentando diversi processi di trasformazione in senso capitalistico dell’agricoltura, particolarmente nella bassa pianura compresa fra i corsi dei fiumi Ticino e Adda e tra le città di Milano, Pavia e Lodi. Questi mutamenti, lungi dall’essere compiuti, si erano diffusi in modo disomogeneo, rappresentando i primi passi di un processo che sfocerà nella cosiddetta “rivoluzione agraria”[15], secondo una traiettoria tutt’altro che lineare, soggetta a diverse battute d’arresto, soprattutto nel corso del Seicento[16]. Il peculiare sviluppo della pianura lombarda era stato favorito e dunque si integrava perfettamente con gli specifici contesti socioeconomici rintracciabili nel resto dello Stato di Milano, che includeva vaste pianure asciutte, una significativa area collinare pedemontana e un altrettanto esteso territorio montuoso. In estrema sintesi, se ci fossimo trovati ad attraversare la Lombardia in direzione nord-sud, ovvero dai monti alle pianure, avremmo osservato diverse realtà rurali, che in parte stavano a indicare il dissimile livello di trasformazione in senso capitalistico dell’agricoltura lombarda. Così avremmo osservato una progressiva scomparsa delle terre collettive e della piccola proprietà, in favore di poderi sempre più ampi e compatti, concentrati nelle mani di pochi grandi proprietari. Dalla conduzione diretta si passava alla colonìa parziaria, in natura o in denaro, e al grande affitto capitalistico novennale vigente nelle grandi aziende accorpate, popolate da diverse forme di lavoro salariato[17]. Il dissimile paesaggio agrario, con la progressiva marginalizzazione dei boschi e dei gerbidi in pianura e la contemporanea avanzata della cerealicoltura irrigua, dei prati artificiali e della risicoltura, oltre che ad essere un risultato delle diverse condizioni geo-pedologiche, può essere considerato una buona cartina di tornasole di questi mutamenti. Del resto, tutto ciò favoriva società rurali, strutture demografiche e specializzazioni nel lavoro agricolo anche piuttosto differenti.

I lavoratori agricoli che ricorrevano in tutti gli ambienti lombardi erano i massari e i braccianti. I primi erano affittuari di poderi medio-grandi, solitamente in possesso di buona parte dei mezzi di produzione (manodopera, sementi, animali, attrezzi) e sottoposti a contratti parziari in natura. Si trattava di conduttori che gestivano il podere ricorrendo prevalentemente alla manodopera famigliare, pur non mancando l’ausilio dei giornalieri e dei domestici. Per queste ragioni, in un contesto nel quale la famiglia nucleare era sempre dominante, tra i massari si registrano diversi aggregati domestici multipli (co-residenze di genitori e figli o di fratelli) o estesi (innesti di parenti su linee laterali o verticali) e la loro propensione economica era maggiormente vocata alla riproduzione sociale, più che alla commercializzazione dei prodotti. Essendo intrinsecamente legate al podere in cui lavoravano, le famiglie massarili potevano essere sia radicate ab antiquo su un fondo, sia soggette ad una certa mobilità geografica, che le poteva portare anche lontane dai luoghi d’origine, in un processo che poteva coinvolgere anche alcuni fra i loro salariati. Lo status dei massari, tuttavia, aveva caratteri significativamente differenti scendendo dall’altopiano verso la bassa pianura, in relazione alle strutture famigliari, alla dimensione degli appezzamenti lavorati (e dunque al maggiore ricorso agli avventizi) e soprattutto nelle forme contrattuali cui erano sottoposti (da parziarie a fisse e da natura a denaro).

Un po’ più stabile, ma non esattamente sovrapponibile, risultava la condizione dei braccianti, la cui presenza aveva consistenza variabile nelle diverse parti del territorio. Il bracciante era un salariato che prestava la propria attività nei poderi più grandi, soprattutto durante le fasi di maggiore intensità di lavoro dell’annata agricola, presso le famiglie massarili o nelle possessioni a maggiore vocazione commerciale. Si deve comunque considerare che, ancora a metà Cinquecento, il bracciante abbinava l’attività prestata giornalmente o stagionalmente a quella condotta autonomamente su un piccolo appezzamento preso in affitto. Tali caratteristiche rendevano la condizione bracciantile molto simile a quella dei pigionanti. Questi ultimi erano affittuari di fondi medio-piccoli, diffusi in particolare nelle aree collinari e nella pianura asciutta, che integravano il loro magro reddito svolgendo direttamente o facendo svolgere a propri famigliari diverse attività giornaliere presso i poderi più grandi o le botteghe e manifatture locali. Rispetto ai massari di quelle zone, i pigionanti affittavano poderi più piccoli, ma soprattutto non possedevano altro mezzo di produzione che il lavoro, il che rendeva la loro condizione molto più precaria e maggiormente subordinata al proprietario del fondo. Tra i braccianti e i pigionanti era piuttosto diffusa la famiglia nucleare, i cui membri, oltre all’attività in famiglia, erano coinvolti in attività di servizio domestico e lavoro giornaliero, sia in agricoltura che nelle manifatture. Queste similitudini hanno diffuso l’idea che i due termini potessero essere utilizzati come sinonimi[18]. La mobilità potrebbe allora rappresentare la principale differenza che intercorreva tra braccianti e pigionanti, giacché l’appellativo di questi ultimi sembra essere in relazione con l’affitto che dovevano pagare (la pigione) per usufruire di un’abitazione, che probabilmente era loro concessa dai proprietari o conduttori dei poderi presso i quali prestavano la loro opera. In tal senso, dunque, si potrebbe trattare di salariati soggetti a una maggiore mobilità, che non avrebbero necessariamente abitato e lavorato sul medesimo fondo da un anno all’altro. Il bracciante, al contrario, risiedeva in case di proprietà o in affitto nei centri abitati accorpati, tipici un po’ di tutti gli ambienti lombardi, e da lì si recava a lavorare giornalmente nei poderi che circondavano il villaggio, non sempre sui medesimi fondi, anche se probabilmente secondo traiettorie abituali.

Nelle aree di pianura irrigua, inoltre, era già largamente diffusa la presenza di fittabili, ossia dei grandi affittuari promotori della trasformazione capitalistica delle campagne lombarde. Nel Cinquecento, tuttavia, i fittabili avevano in genere ancora un carattere ibrido, non distinguendosi quasi per nulla dai massari. Facevano eccezione solo poche aree della bassa pianura, dove il fittabile aveva un profilo ben definito e la società rurale si presentava semplificata e maggiormente polarizzata: pochissimi affittuari di grandissime estensioni davano lavoro a una riserva quasi infinita di salariati senza terra.

A fianco di questi conduttori e lavoratori più o meno stabili, operavano i bergamini, vale a dire gli allevatori transumanti che con le loro mandrie si spostavano dal piano alle montagne e viceversa. Questi allevatori si inserivano perfettamente sia nelle economie di montagna che in quelle di pianura e proprio questa centralità e duttilità permise loro di accumulare ingenti ricchezze, in denaro o sotto forma di mandrie sempre più grandi. Furono proprio alcuni di questi allevatori che, per scelta e opportunità, si stabilizzarono nella bassa pianura affittando grandi aziende come fittabili[19]. Fra la pluralità dei contesti e delle professioni sin qui ricordate s’inserivano e intrecciavano le specificità e le attività dei domestici rurali.

4.       Servizio domestico e mobilità

Qualche decennio fa Enrico Roveda ha condotto uno studio sistematico sulla demografia del distretto lodigiano in età moderna, soffermandosi anche sui fenomeni migratori[20]. Da quello studio emerge che la mobilità nella pianura lombarda era molto accentuata, tanto che in alcuni casi circa il 15% delle famiglie cambiava casa da un anno all’altro. La mobilità da e per il Lodigiano era il risultato di diverse congiunture (le epidemie o i regimi fiscali, ad esempio) e fortemente stimolata dai grandi cambiamenti agronomici che erano avvenuti in quella fertile pianura. Per queste ragioni, dalla vicina montagna piacentina e dalle diocesi di Bobbio e Tortona arrivavano uomini impiegati nelle campagne e nelle manifatture tessili. Il movimento della popolazione era tuttavia determinato anche da una micro-mobilità tra le stesse località del Lodigiano, frutto, a quanto pare, del movimento dei braccianti che cambiavano spesso azienda. Non mancavano altresì movimenti emigratori verso i centri urbani, sia temporanei che stabili, soprattutto di giovani servitori non sposati che, nondimeno, si recavano anche verso altre zone agricole.

I domestici urbani e rurali, nel caso lombardo definiti “famuli” o “fantesche”, erano lavoratori ospitati nella casa del loro datore di lavoro, dove ricevevano vitto e alloggio, oltre al salario spesso monetario. A differenza degli altri salariati, occupati soprattutto a giornata, erano impiegati per lungo tempo (diversi mesi o anni), garantendo così una parte considerevole delle giornate di lavoro necessarie alle economie rurali preindustriali. Questo servizio era svolto soprattutto da giovani di entrambi i sessi prima del matrimonio e della formazione di un nuovo aggregato domestico. L’attività svolta al di fuori dal nucleo famigliare d’origine era l’occasione per acquisire (e far circolare) conoscenze e competenze, per abituarsi al risparmio e per fare esperienze più o meno indipendenti di lavoro salariato, altrimenti difficili da intraprendere, soprattutto per le donne. La loro ampia diffusione in Europa, pur con caratteri diversi nelle varie regioni, ha reso i domestici (soprattutto urbani) oggetto di un ampio interesse[21].

I dati disponibili per alcune aree collinari dello Stato di Milano del Cinquecento permettono di confermare che i servitori rurali presentavano una quasi perfetta distribuzione di genere, svolgendo la propria attività prevalentemente fra il decimo e il trentesimo anno d’età. Il servizio maschile terminava prima dei vent’anni, l’età media al matrimonio era di poco inferiore ai 24 anni, mentre di poco superiore a quest’ultima soglia era l’età media in cui gli uomini diventavano capi-famiglia. Va però rilevato che, almeno in questa parte dello Stato di Milano, lo schema si adatta meglio ai maschi, che iniziavano il servizio più giovani e presumibilmente soprattutto in campo agricolo. Le donne, invece, continuavano l’attività anche dopo il trentesimo anno d’età ed erano generalmente addette al servizio domestico, che per scelta o necessità svolgevano fino a tarda età.

L’intensa circolazione del lavoro domestico all’interno del mondo rurale, non solo agricolo, era molto diffusa nella Lombardia del Cinquecento, soprattutto nelle aree di pianura. Si può essere concordi con quanto rilevato da Roveda per il Lodigiano: l’avanzato sistema agrario della pianura richiamava molti giovani dalle aree montane e collinari, anche se diversi di loro erano impiegati nei servizi o nelle manifatture. Pur mancando informazioni sulla loro età, infatti, sappiamo che nella bassa pianura i famuli rappresentavano circa il 9% della popolazione, con una prevalenza di maschi (grossomodo i due terzi), impiegati soprattutto in attività agricole.

Gran parte degli autori che si sono occupati di questo tema attribuiscono ai famuli alcune caratteristiche sociali specifiche: provenivano da famiglie bracciantili e di pigionanti, per dirigersi verso famiglie massarili e di fittabili. Mentre nelle aree di montagna e di collina esisteva un trasferimento locale e parentale dei servitori, in pianura, soprattutto nella bassa irrigua, il bacino di reclutamento dei famuli doveva essere molto più ampio[22]. In uno studio sulla comunità di Castelnuovo Bocca d’Adda, nella Bassa lodigiana, Franca Leverotti ha tuttavia messo in evidenza come il bacino di provenienza e di attività dei servitori rurali fosse in genere locale, ma non per questo l’attività domestica era marginale: riguardava oltre l’11% dei censiti, impiegati in particolare nella cura degli animali. Simili condizioni sono state rintracciate nella Lomellina di metà Quattrocento, dove i famuli si concentravano in famiglie numerose di grandi affittuari che possedevano svariati capi di bestiame[23], e in diverse aree della Lombardia di metà Cinquecento, soprattutto tra le famiglie dei fittabili della media e bassa pianura[24]. Nel caso delle grandi aziende della Bassa lombarda, dunque, i famuli rappresentavano la maggioranza della manodopera specializzata nella cura degli animali ed erano soggetti a un impiego stabile, cui si associava il coinvolgimento saltuario dei braccianti. Come già ricordato, più che nei poderi buona parte di questi ultimi doveva vivere nei villaggi rurali, dove magari possedeva o affittava anche un piccolo appezzamento, per spostarsi verso le “cassine” che costellavano la bassa pianura nei momenti dei grandi lavori agricoli (fienagione, mietitura, monda nelle risaie, e così via)[25]. In definitiva pare piuttosto ragionevole sostenere che l’attività domestica fosse svolta in un ambito geografico piuttosto ristretto, oltre che per un periodo relativamente breve della gioventù, anche se non mancano esempi di servitori o di braccianti che si movevano secondo tragitti più lunghi e per periodi maggiori.

Le ricerche più recenti hanno permesso, inoltre, di sfumare l’interpretazione piuttosto rigida che individuava nei ceti più poveri le origini sociali dei famuli, mettendo invece in evidenza che il movimento dei domestici lombardi aveva un carattere circolare più che unidirezionale. Infatti a fianco del classico trasferimento dalle famiglie povere a quelle un po’ più benestanti si riscontra anche una notevole circolazione all’interno delle famiglie massarili. Questa pratica permetteva ai massari di rendere meno rigido il rapporto tra manodopera, consumatori e terra disponibile, soprattutto in funzione delle inevitabili fluttuazioni dei raccolti. In altri termini i massari potevano avere un certo interesse a mandare i propri figli (in toto o in parte) a prestare servizio presso altri poderi mentre accoglievano nel proprio aggregato domestico alcuni servitori. In caso di necessità, dovuta allo spostamento su un altro fondo o a cattivi raccolti, era più semplice fare a meno dei propri domestici che dover trovare un lavoro per i propri figli. In quest’ultimo caso, probabilmente, i figli si sarebbero dovuti accontentare di qualche giornata di lavoro, che non garantiva gli introiti e la sicurezza del famulato e che era comunque molto meno accessibile alle donne.

Se consideriamo inoltre il corto raggio entro il quale si muovevano i famuli, in collina così come in pianura, non è difficile immaginare che il servizio domestico avesse anche un valore collettivo, che andava oltre le esigenze della singola famiglia. Il famulato risultava contemporaneamente vantaggioso per i giovani (che acquisivano competenze e indipendenza), per le donne (che difficilmente potevano accedere ad altre forme di lavoro salariato), per i massari (che facevano uscire figli e entrare famuli) e per i fittabili (che potevano disporre per un certo numero di anni di lavoratori fissi specializzati da affiancare ai giornalieri). Questa mobilità di giovani salariati era, infine, di beneficio per la società nel complesso, perché rendeva più flessibile il rigido sistema patriarcale e cetuale delle società rurali preindustriali[26]. Tutto ciò, si badi bene, non eliminava la precarietà e la subalternità dei famuli: poteva tuttavia garantire loro una condizione un po’ migliore di quella dei giornalieri.

Sebbene la carenza di analisi non permetta di andare oltre semplici supposizioni, non è per altro da escludere che anche per gli altri salariati (braccianti e pigionanti), soprattutto per quelli che risiedevano e lavoravano in un territorio relativamente circoscritto, potesse essersi affermato un simile sistema di gestione della mobilità, che garantiva vantaggi plurimi e una dimensione comunitaria. Del resto braccianti, pigionanti e massari potevano essere stati famuli in gioventù, avere dei figli che stavano prestando servizio o essersi trovati a un certo punto nella possibilità (o nella necessità) di ospitare qualche salariato giornaliero o stabile.

5.       Conclusione

La scarsità di studi specifici sulla mobilità dei lavoratori rurali e la varietà dei contesti agrari italiani d’età moderna ha suggerito di focalizzarsi sul caso lombardo per mettere a frutto alcune precedenti esperienze di ricerca, nel tentativo di offrire un primo termine di paragone. Dopo aver presentato e discusso un modello migratorio abbastanza radicato nella storiografia italiana ed europea, ho tracciato le principali particolarità ambientali, delle forme di conduzione e del variegato universo dei lavoratori che caratterizzavano le realtà rurali lombarde.

Il primo aspetto emerso abbastanza chiaramente da quanto fin qui argomentato è la significativa mobilità dei lavoratori nello Stato di Milano. Pur difettando di ricostruzioni quantitative, l’analisi della letteratura e le indagini condotte direttamente sulle fonti primarie permettono di confermare questo assunto, evidenziando l’esistenza di diverse tipologie di migrazioni. È indubbio, infatti, che sulle popolazioni rurali, e in particolare sui salariati, gravasse la forte attrazione dei centri urbani, anche solo per effetto della significativa diffusione della proprietà urbana nelle campagne e quindi del rapporto tra possessori dei fondi e manodopera rurale. Altrettanto assodata è la stretta relazione tra montagna, città e pianure irrigue. L’importanza di queste mobilità, che abbiamo definito mono o bidirezionali, non deve però far trascurare l’esistenza e la consistenza di altre tipologie migratorie: circolari, in ambiente rurale e diverse da quelle che andavano da nuclei famigliari poveri ad altri benestanti. In altri termini, a fianco dell’uscita di lavoratori (da un luogo o da una famiglia) compensata dall’entrata di qualche risorsa (in denaro o in natura, dando dunque luogo ad una relazione di scambio mono o bidirezionale), operava una diversa pratica di mobilità, dal carattere circolare, che metteva cioè in relazione diverse località o famiglie: se uscivano risorse e lavoratori, in contemporanea ne arrivavano, secondo uno scambio che non era necessariamente alla pari, ma che si basava su una minore gerarchizzazione dei fattori di produzione.

Quest’ultimo aspetto porta direttamente all’altra questione: la natura della mobilità dei salariati. Quanto illustrato ha permesso di mostrare che nella società lombarda il movimento dei lavoratori era talvolta stimolato da necessità contingenti, talaltra il frutto di un sistema consolidato e ben radicato. L’esperienza quotidiana aveva portato a comprendere la ciclicità dei rendimenti agricoli e la precaria natura del lavoro in campagna al punto tale da definire delle modalità istituzionali e pratiche di adattamento, che trovavano forse la loro massima espressione nel sistema del famulato, ma che contemporaneamente si manifestavano nella migrazione campagna-città e montagna-pianura-città che coinvolgeva le varie figure di salariati. Solo in casi eccezionali (gravi crisi epidemiche, carestie, guerre e così via) questo adeguamento doveva lasciare il posto a forme di resilienza. Queste forme potevano anche mettere in discussione i sistemi tradizionali e produrre nuovi meccanismi, ma poi, a loro volta, divenivano ordinarie. In conclusione, è plausibile che buona parte di quanto fin qui descritto possa essere applicabile anche ad altre realtà italiane ed europee, ma solo nuove analisi potranno confermare tanto la piena validità del modello per il caso lombardo, quanto la possibilità di generalizzarlo.


[1]           Tra i più recenti si vedano a Guido Alfani, Back to the Peasants: New Insights into the Economic, Social, and Demography History of Northern Italian Rural Population During the Early Modern Era, “History Compass”, 12, 1 (2014), pp. 62-71; Franco Cazzola, Contadini e agricoltura in Europa nella prima età moderna (1450-1650), Bologna, Clueb, 2014.

[2]           Per ragioni di brevità rimando al recente excursus di Davide Cristoferi, La storia agraria dal medioevo all’età moderna: una rassegna sulla storiografia degli ultimi venti anni in alcuni paesi europei, “Ricerche Storiche”, 46, 3 (2016), pp. 87-119.

[3]           Sarebbe impossibile riassumere in questa sede l’ampia produzione in merito, pertanto si rimanda alle sintesi problematiche e storiografiche di Aldo De Maddalena, Il mondo rurale italiano nel Cinque e nel Seicento, “Rivista storica italiana”, 76, 2 (1964), pp. 549-626; Marco Cattini e Marzio A. Romani, Tendenze e problemi della storiografia agraria europea negli ultimi quartant’anni (1945-1984), “Rivista di storia dell’agricoltura”, 27, 1 (1987), pp. 25-52; Giorgio Chittolini, La pianura irrigua lombarda fra Quattrocento e Cinquecento, “Annali dell’Istituto Alcide Cervi”, 10 (1989), pp. 207-221.

[4]           Si consideri, ad esempio, che anche due iniziative di sintesi, quali Storia dell’agricoltura italiana in età contemporanea, a cura di Piero Bevilacqua, Venezia, Marsilio, 1989-1991 – su cui cfr. Marco Moroni, Storia dell’agricoltura e storia d’Italia in età contemporanea, “Società e storia”, 56 (1992), pp. 339-356 – e Accademia dei Georgofili, Storia dell’agricoltura italiana, Firenze, Polistampa, 2001-2002, hanno riservato nel primo caso poca attenzione alle dinamiche di lungo periodo che rinviano alle società di antico regime, nel secondo spazi esigui agli aspetti del lavoro e della mobilità professionale.

[5]           Sulla necessità di considerare la varietà dei contesti rurali italiani aveva già insistito a suo tempo Emilio Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Bari, Laterza, 1961.

[6]           Matteo Di Tullio, Rese agricole, scorte alimentari, strutture famigliari. Le campagne dello stato di Milano a metà Cinquecento, in Ricchezza, valore, proprietà in età preindustriale (1400-1850), a cura di Guido Alfani e Michela Barbot, Venezia, Marsilio, 2009, pp. 293-318; Id., La famiglia contadina nella Lombardia del Cinquecento: dinamiche del lavoro e sistemi demografici, “Popolazione e storia”, 10, 1 (2009), pp. 19-37; Id., Dynamiques du travail et ménages paysans dans la Lombardie du XVIème siècle, in Le travail et la famille en milieu rural, XVIe-XXIe siècle, a cura di Fabrice Boudjaaba, Rennes, Presses Universitaires de Rennes, 2014, pp. 35-52; Id., Popolazione, mestieri e mobilità del lavoro, nella Lombardia del Cinquecento, in La popolazione italiana del Quattrocento e Cinquecento, a cura di Guido Alfani, Angela Carbone, Beatrice Del Bo e Riccardo Rao, Udine, Forum, 2016, pp. 99-114; Gianpiero Dalla Zuanna, Matteo Di Tullio, Franca Leverotti e Fiorenzo Rossi, Population and Family in Central and Northern Italy at the Dawn of the Modern Age. A Comparison of Fiscal Data from Three Different Areas, “Journal of Family History”, 37, 3 (2012), pp. 284-302. A questi lavori mi riferisco per tutti i dettagli qui omessi per le necessarie ragioni di sintesi, oltre che per un più esaustivo inquadramento bibliografico.

[7]           Tra i più recenti si veda Guido Alfani, Il Gran Tour dei Cavalieri dell’Apocalisse. L’Italia del «lungo Cinquecento» (1494-1629), Venezia, Marsilio, 2010.

[8]           Tra gli storici economici si vedano Immanuel Wallerstein, Il sistema mondiale dell’economia moderna, Bologna, il Mulino, 1978-1995, e Fernand Braudel, Civiltà materiale, economia e capitalismo. Le strutture del quotidiano (secoli XV-XVIII), Torino, Einaudi, 1982. Questo dualismo è stato già abbondantemente criticato da un’ampia storiografia che sarebbe impossibile citare anche per sommi capi in questa sede. Per tali ragioni, rimando alla recente sintesi di Franco Franceschi e Luca Molà, Regional States and Economic Development, in The Italian Renaissance State, a cura di Andrea Gamberini e Isabella Lazzarini, Cambridge, Cambridge University Press, 2012, pp. 444-466.

[9]           Il metodo, proposto originariamente da E. Anthony Wrigley, Urban Growth and Agricultural Change: England and the Continent in the Early Modern Period, “Journal of Interdisciplinary History”, 15, 4 (1985), pp. 683-728, che tuttavia ne aveva già messo in evidenza limiti e rischi, è stato successivamente sviluppato e affinato da diversi studiosi. Fra i più noti e recenti si vedano Gregory Clark, Labour Productivity in English Agriculture, 1300-1860, in Land, Labour, and Livestock: Historical Studies in European Agricultural Productivity, a cura di Bruce M.S. Campbell e Mark Overton, Manchester, Manchester University Press, 1991, pp. 211-235; Karl G. Persson, Was there a Productivity Gap Between Fourteenth-Century Italy and England?, “Economic History Review”, 46, 1 (1993), pp. 105-114; Robert C. Allen, Economic Structure and agricultural productivity in Europe, 1300-1800, “European Review of Economic History”, 4, 1 (2000), pp. 1-25 e, per l’Italia, Paolo Malanima, Urbanisation and the Italian economy during the last millennium, “European Review of Economic History”, 9, 1 (2005), pp. 97-122.

[10]          M. Di Tullio, Popolazione, mestieri e mobilità del lavoro, cit.

[11]          Fernand Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, Torino, Einaudi, 1953, I, p. 37.

[12]          Tra i molti studi che si sono occupati delle migrazioni dalla montagna si vedano Raul Merzario, Una fabbrica di uomini. L’emigrazione dalla montagna comasca (1600-1750 circa), “Mélanges de l’Ecole française de Rome. Moyen-Age, Temps modernes”, 96, 1 (1984), pp. 153-175; La montagna mediterranea: una fabbrica d’uomini? Mobilità e migrazioni in una prospettiva comparata (secoli XVXX), a cura di Dionigi Albera e Paola Corti, Cavallermaggiore, Gribaudo, 2000; Pier Paolo Viazzo, Comunità alpine. Ambiente, popolazione, struttura sociale nelle Alpi dal XVI secolo a oggi, Roma, Carocci, 2001; Luigi Lorenzetti, Raul Merzario, Il fuoco acceso. Famiglie e migrazioni alpine nell’Italia d’età moderna, Roma, Donzelli, 2005.

[13]          Sulla difficile integrazione degli emigrati in ambito urbano si veda, ad esempio, Carlo M. Belfanti, Mestieri e forestieri. Immigrazione ed economia urbana a Mantova fra Sei e Settecento, Milano, Angeli, 1994. Sul ruolo delle comunità rurali nel promuovere sistemi di solidarietà e nel favorire anche l’azione economica rimando a Matteo Di Tullio, La ricchezza delle comunità. Guerra, risorse e cooperazione nella Geradadda del Cinquecento, Venezia, Marsilio, 2011. Sulla relazione tra acquisizione della cittadinanza e diritti di proprietà si vedano Simona Cerutti, A qui appartiennent les biens qui n’appartiennent à personne? Citoyenneté et droit d’aubaine à l’époque moderne, “Annales. Histoire, Sciences Sociales”, 62, 2 (2007), pp. 355-383; Ead., Étrangers: étude d’une condition d’incertitude dans une société d’Ancien régime, Montrouge, Bayard, 2012; Guido Alfani, Cittadinanza, immigrazione e integrazione sociale nella prima età moderna: il caso di Ivrea, “Mélanges de l’École française de Rome. Moyen Âge”, 125, 2 (2013), http://mefrm.revues.org/1404. Sui diversi modi d’essere cittadini si rimanda a Michela Barbot, L’abitare in città. Un concentrato di storie, “Quaderni storici”, 43, 1/127 (2008), pp. 283-300.

[14]          Dionigi Albera e Pier Paolo Viazzo, La famiglia contadina nell’Italia settentrionale. 1750-1930, in Storia della famiglia italiana, 1750-1950, a cura di Marzio. Barbagli e David I. Kertzer, Bologna, il Mulino, 1992, pp. 159-189.

[15]          Carlo Maria Cipolla, Per la storia delle terre della “bassa” lombarda, in Studi in onore di Armano Sapori, Milano, Cisalpino, 1957, I, pp. 665-677; Aldo De Maddalena, Contributo sulla storia dell’agricoltura della bassa lombarda. Appunti sulla possessione di Belgioioso (sec. XVI-XVIII), “Archivio Storico Lombardo”, 8, 8 (1958), pp. 165-183; Giorgio Chittolini, Alle origini delle “grandi aziende” della bassa lombarda, “Quaderni Storici”, 13, 39 (1978), pp. 828-844; Enrico Roveda, Una grande possessione lodigiana dei Trivulzio fra Cinquecento e Settecento, in Ricerche di storia moderna, a cura di Mario Mirri, II, Pisa, Pacini, 1979, pp. 25-140; Luisa Chiappa Mauri, Riflessioni sulle campagne lombarde del Quattro-Cinquecento, “Nuova Rivista Storica”, 69, 1-2 (1985), pp. 123-130; Luciano Cafagna, La “rivoluzione agraria” in Lombardia, in Id., Dualismo e sviluppo nella storia d’Italia, Venezia, Marsilio, 1989, pp. 31-112.

[16]          Luigi Faccini, La Lombardia fra ‘600 e ‘700: riconversione economica e mutamenti sociali, Milano, Franco Angeli, 1988.

[17]          Giorgio Giorgetti, Contadini e proprietari nell’Italia moderna. Rapporti di produzione e contratti agrari dal secolo XVI a oggi, Torino, Einaudi, 1974. Più in specifico, per la Lombardia, si veda Gauro Coppola, I contratti agrari nello Stato di Milano nei secoli XVI-XVII, in Rapporti tra proprietà, impresa e manodopera nell’agricoltura italiana dal IX secolo all’Unità, Verona, Accademia di agricoltura, scienze e lettere, 1985, pp. 55-70.

[18]          Vittorio Beonio-Brocchieri, “Piazza universale di tutte le professioni del mondo”. Famiglie e mestieri nel Ducato di Milano in età spagnola, Milano, Unicopli, 2000, p. 73

[19]          Enrico Roveda, Allevamento e transumanza nella pianura lombarda: i bergamaschi nel Pavese tra  ’400 e ’500, “Nuova Rivista Storica”, 71, 1-2 (1987), pp. 49-70.

[20]          Id., La popolazione delle campagne lodigiane in età moderna, “Archivio Storico Lodigiano”, 104 (1985), pp. 5-173 (spec. 45-55).

[21]          Si veda la recente esaustiva sintesi di Jane Whittle, Introduction, in Servants in Rural Europe. 1400-1900, a cura di Ead., Woodbridge, Boydell and Brewer, 2017, pp. 1-18. Per l’Italia si vedano Raffaella Sarti, Criados rurales: el caso de Italia desde una perspectiva comparada (siglos XVI al XX), “Mundo Agrario”, 18, 39 (2017), https://www.mundoagrario.unlp.edu.ar/article/view/MAe065; Ead., Rural Life-Cycle Service: Established Interpretations and New (Surprising) Data – The Italian Case in Comparative Perspective (Sixteenth to Twentienth Centuries), in Servants in Rural Europe, cit., pp. 227-253.

[22]          V. Beonio-Brocchieri, “Piazza universale di tutte le professioni del mondo”, cit., p. 145.

[23]          Franca Leverotti, Alcune osservazioni sulle strutture delle famiglie contadine nell’Italia padana del basso medioevo a partire dal famulato, “Popolazione e storia”, 2, 2 (2001), pp. 19-44.

[24]          M. Di Tullio, La famiglia contadina, cit.

[25]          Sui diversi sistemi d’insediamento rurale in età moderna una buona sintesi è offerta da Leonardo Rombai e Adriano Boncompagni, Popolazione, popolamento, sistemi colturali, spazi coltivati, aree boschive ed incolte, in Accademia dei Georgofili, Storia dell’agricoltura italiana, II, cit., pp. 171-219.

[26]          Ho approfondito recentemente la questione in Matteo Di Tullio, Domestici e agricoltura capitalista. Relazioni di lavoro e di potere nelle campagne lombarde della prima età moderna, “Mélanges de l’École française de Rome. Italie et Méditeranée modernes et contemporaines”, in corso di pubblicazione.