Les Italiens dans l’est parisien

Marie-Claude Blanc-Chaléard, Les Italiens dans l’est parisien. Une histoire d’intégration (1880-1960), Roma, École française de Rome, 2000, 804 pp.

Lo studio dell’integrazione di un gruppo come quello italiano ormai completamente indistinguibile dalla società di accoglienza ha bisogno di un’analisi al contempo sul lungo periodo e in profondità, dunque su aree ben delimitate, ma diverse. Marie-Claude Blanc-Chaléard ne offre un esempio affrontando assieme due quartieri tradizionali di Parigi (Sainte Marguerite e Charonne) e due comuni della banlieue (Montreuil e Nogent-sur-Marne) lungo tutto il secolo dell’industrializzazione trionfante. Il suo lavoro sfrutta i censimenti, ma anche i registri di scuola e della polizia, i fascicoli del Casellario politico centrale, nonché altri archivi e persino le inchieste orali, nelle quali empatia e rigore critico si completano e si sostengono. Inoltre insiste sullo spazio vissuto, sulla specificità di un mondo urbano che diviene il luogo dell’integrazione, ma evidenzia anche la molteplicità dei singoli casi e delle singole situazioni.
Dopo il 1870 e ancora di più durante la Belle Époque, una Parigi operaia, dove attività, statuti e reazioni sono assai variegati, riceve immigrati altrettanto diversi tra loro: sono soprattutto montanari dell’Appennino, ma anche operai già urbanizzati, stagionali usi ad adattarsi, lavoratori qualificati rapidamente assimilati, gruppi chiusi ma che si evolvono, nuovi arrivati che sono introdotti alla società francesi dagli immigrati più antichi. Nonostante il disprezzo e il rifiuto, si forma un territorio, che non diviene mai ghetto, e la mobilità migratoria assicura una integrazione progressiva, facilitata dall’ampia e diversificata offerta di lavoro, dalla possibilità di scegliere, dal ventaglio dell’impiego femminile che favorisce una stabilizzazione precoce, infine da una città d’accoglienza fatta di “cento villaggi”.
Dopo il 1918 si registra un nuovo grande afflusso (gli italiani forniscono il 10% della crescita regionale) e una grande stabilizzazione, in una stagione di crescita delle banlieue, di rottura con il paese di origine, di raggruppamenti comunitari che, però, non spezzano i contatti con gli autoctoni. La sedentarizzazione, i matrimoni misti, il sistema scolastico, lo sport e altri vettori d’integrazione generazionale, la grande comunione del Front populaire (malgrado tutti i suoi limiti), il prestigio di Parigini che ne fa o comunque fa della sua banlieue un luogo d’insediamento più che di passaggio, tutto ciò compensa, almeno in parte, gli effetti della crisi economica. La politica gioca anche il suo ruolo: gli esiliati antifascisti incontrano la “banlieue rossa” in formazione, l’attrazione dei fasci è reale, ma limitata, e le tensioni internazionali spingono infine a una scelta dolorosa, a “un’integrazione forzata, ricca di soprusi nascosti”, sancita dalle sofferenze comuni durante la guerra e l’occupazione. Non bisogna, però, sottovalutare anche i rientri in Italia.
Al di là dell’ultima ondata d’italofobia, al momento della Liberazione, la scelta di restare è rafforzata dallo sviluppo economico del dopoguerra. I nuovi arrivati sono meno numerosi che in altri paesi europei, malgrado un flusso più intenso alla fine degli anni cinquanta. I vecchi immigrati e i loro figli divengono parigini indistinguibili dagli altri e sono persino ostili all’arrivo di nuovi flussi migratori sempre più esotici. Le seconde generazioni partecipano al passaggio dal semi-artigianato al terziario, con un tasso d’impiego femminile (soprattutto nel settore delle vendite, o in quello delle segretarie) legato alla scolarizzazione e al modello parigino. Tutto contribuisce alla costruzione dello spazio nell’era del cemento, fra tradizione di lavoro nell’edilizia e volontà di avere la propria casa, la propria villetta di periferia: ne consegue una dispersione e anche una differente stratificazione dei quartieri “italiani”. Lo spazio non è più “marcato”, malgrado il ritorno alle radici e il boom associazionistico degli anni sessanta. Di fatto l’intera società locale cambia allora, tra il ripiegarsi sulla famiglia nucleare e la marginalizzazione dell’artigianato.
Riassumere con questa rapidità le 800 pagine del libro porta a snaturarlo, perché non si riesce a dare conto delle sfumature e dei dettagli, dell’attenzione alle realtà concrete e ai modi di viverle, della costante tensione comparativa che permette all’autrice di mettere in evidenza ad un tempo i casi specifici e le tendenze generali, della finezza nell’analizzare gli spazi vissuti e della ricchezza cartografica. Tutti questi elementi fanno di questo lavoro una miniera d’informazioni su argomenti assai diversi tra loro, un’indispensabile opera di riferimento e un modello storiografico.