La stampa italiana in Brasile, 1946-1960

Nel secondo dopoguerra, l’abolizione del sistema delle quote introdotto nel 1934 e il ripristino della totale libertà di immigrazione da parte del governo brasiliano non furono misure sufficienti a ripristinare quei flussi massicci di italiani che avevano caratterizzato il periodo 1887-1902, ma che si erano perpetuati, sia pure con dimensioni più modeste, sino a metà degli anni ’20. Malgrado ciò, tra il 1946 e il 1960, l’immensa repubblica d’oltreoceano esercitò una qualche attrattiva per i lavoratori peninsulari, tanto da porsi come terza meta in ordine di importanza in America latina, assorbendo 110.932 individui, contro i 231.543 del Venezuela e i 484.068 dell’Argentina. Elevato fu il tasso di rimpatrio (28,4%), ma esso risultò inferiore a quello che si registrerà nel quindicennio successivo, quando peraltro gli ingressi si assottiglieranno a poche centinaia all’anno, ponendo di fatto fine al fenomeno emigratorio e riducendo gli espatri sostanzialmente a scelte di vita individuali o a trasferimenti di manodopera impiegata presso aziende con filiali in Brasile.
Secondo i dati del censimento del 1950, erano presenti sul territorio brasiliano, oltre a 44.678 naturalizzati1, 197.659 italiani di passaporto (contro i 285.029 del 1940). Di questi, 145.307, vale a dire il 73,5%, risiedevano nello stato di São Paulo, 15.742 nella capitale, Rio de Janeiro, 9.988 nel Rio Grande do Sul e i rimanenti erano dispersi nel resto del Brasile. Il 71,6% aveva più di 50 anni, ma le nuove ondate immigratorie compensarono abbondantemente l’invecchiamento naturale – agevolate, in questo, anche da decessi e eventuali rientri in patria delle generazioni più anziane – tanto che il tasso di ultracinquantenni si ridusse al 57,1% nel censimento del 1960, data in cui, comunque, si registrò un ulteriore calo nel numero di residenti, attestatosi sulle 187.377 unità, per il 72,8% residenti nello stato di São Paulo2.
Durante la seconda guerra mondiale, tutte le forme di vita collettiva degli italiani in Brasile erano state cancellate dalle scelte di schieramento internazionale fatte dal governo di Rio de Janeiro che, unico in America latina, inviò anche un proprio corpo di spedizione sul campo di battaglia europeo, e precisamente in Italia, a partire dal 1944. La ripresa di forme di aggregazione su base etnica risultò particolarmente stentata non solo dopo il settembre del 1943 (che pose fine solo in parte alle limitazioni cui erano soggetti i nostri connazionali, tra cui, fortunatamente, quelle più odiose, come il divieto di parlare la propria lingua in pubblico) ma anche al termine del conflitto. Tali difficoltà derivarono, certo, dagli interrogativi circa l’opportunità di ripristinare l’italianità di tante istituzioni e sodalizi passati in mano brasiliana (ma con forte presenza di discendenti anche a livello dirigenziale) in una realtà in cui la componente peninsulare tendeva ineluttabilmente a contrarsi, ma esse dipesero forse in misura ancora maggiore dalle divisioni, dai contrasti e dallo scombussolamento che il dopoguerra portò con sé, sia in termini di contrapposizioni politiche sia in chiave di incomprensioni generazionali e culturali tra vecchia e nuova immigrazione. In questo quadro generale, le indecisioni e le incertezze individuali e collettive prevalsero e resero, ad esempio, particolarmente penoso il rifiorire della vita societaria. Nelle specifiche condizioni del periodo, molti furono gli italiani che si interrogarono circa l’opportunità stessa di rimettere in piedi le vecchie strutture. Ma se qualche associazione etnica riprese il proprio cammino, nessuno sforzo valse a risollevare le sorti delle tante scuole italiane (quasi esclusivamente elementari, con l’importante eccezione dell’Istituto medio Dante Alighieri di São Paulo) del periodo precedente.
Anche in campo giornalistico la ripresa fu stentata e venne caratterizzata da una scarsità di testate davvero stupefacente, considerando quando fosse invece stato ricco il panorama in passato, con centinaia di testate sparse per il Brasile e soprattutto concentrate nello stato di São Paulo, dove più massiccia era la presenza di nostri connazionali3. L’unico settore in cui si registrarono progressi fu quello delle trasmissioni radiofoniche, in perfetta sintonia con l’evoluzione dei tempi. A São Paulo andarono in onda un “Programma Italia” su Rádio Cultura nel 1948, una “Voce italiana” su Rádio Cruzeiro do Sul nel 1949 e il più longevo di questi programmi – “Voce italiana nel cielo del Brasile” su Rádio Piratininga – che, iniziato nel 1952, allietò per molti anni il tempo libero dei connazionali con canzoni e notizie politiche, sportive e d’attualità dall’Italia. Accanto a questa trasmissione, altre ne sorsero sia a São Paulo sia a Rio de Janeiro (“Sotto il cielo di Napoli”, “Italia eterna”) sia nel Rio Grande do Sul.
Il regno dell’informazione rimase comunque quello della carta stampata. Accanto ai pochissimi organi che, nati come giornali o riviste italiani, erano stati costretti a uscire in portoghese durante la guerra per non cessare le pubblicazioni e tale veste conservarono anche dopo la fine del conflitto (come accadde per “Il Moscone”, settimanale umoristico ribattezzato “Moscardo”), altri cercarono inutilmente di tornare in edicola dopo la parentesi bellica. Si trattò tuttavia di operazioni destinate spesso a durare lo spazio di un mattino, come può testimoniare l’esempio del “Piccolo” che, smessa la sua veste quotidiana, ricomparve come settimanale per brevissimo tempo nel 1947. Altre testate ebbero vita più lunga ma semplicemente perché legate a questa o quella istituzione ovvero alle nostre strutture diplomatiche e destinate a circolazione assai limitata: a São Paulo il “Bollettino Mensile” del consolato, il “Notiziario Culturale” dell’Istituto culturale italo-brasiliano e il “Bollettino” della Camera italiana di commercio; a Campinas il “Foglio di Notizie” del viceconsolato; a Curitiba il “Bollettino” della Camera italiana di commercio per il Paraná e Santa Catarina; a Rio de Janeiro il “Notiziario Italiano”, pubblicazione mensile a cura dell’ambasciata.
Scarsa diffusione e vita effimera ebbero fogli di intrattenimento o di notizie che comparvero nel corso degli anni ’50, come i paulisti “Giornale degli Italiani”, settimanale, e “Arcobaleno”, mensile, destinati a non lasciare nessuna traccia o quasi, mentre maggiore fortuna arrise a pubblicazioni che circolarono nell’immediato dopoguerra, sempre a São Paulo – “Diario Latino” e “A Voz da Itália” – entrambi nati nel 1946, entrambi di vita breve, ma non brevissima, e di tendenze politiche diametralmente opposte. Il settimanale “Diario Latino”, che si definiva (e lo faceva, curiosamente, in portoghese benché fosse redatto completamente in italiano) “orgão da colonia italiana” e “jornal anticomunista”, era ispirato e probabilmente diretto da Nino Daniele, anche se come proprietario-responsabile figurava un altro nome. Di taglio marcatamente di destra, durò un paio d’anni.
“A Voz da Itália”, viceversa, sorse per iniziativa di alcuni antifascisti, fra cui colui che era stato il personaggio più rappresentativo dell’opposizione a Mussolini presso la collettività italiana di São Paulo, Antonio Piccarolo, ex-socialista, poi legatosi ai repubblicani. Quindicinale progressista, assunse la denominazione “La Voce d’Italia” nel maggio del 1947, ma anche precedentemente era redatto in italiano. Ospitava articoli di uomini della sinistra in patria, da Parri a Scoccimarro, da Di Vittorio a Pertini e a Nenni. Benché vantasse anche una sede a Rio de Janeiro, la sua vita fu difficile, tanto che le pagine diminuirono dalle otto iniziali a quattro e tali rimasero sino alla chiusura, registratasi all’inizio del 1948, non a caso poco dopo la morte di Piccarolo.
Una menzione a parte, se non altro per la sua longevità, merita la “Tribuna Italiana”, settimanale creato da Piero Pedrazza, che fu sicuramente il maggiore propagandista del fascismo in Brasile nel secondo dopoguerra. Trevigiano, fondatore nel 1922 del settimanale “Camicia Nera” a Treviso, direttore de “Il Popolo del Friuli” nel 1929 e, dal 1933 al 1940, redattore capo del “Resto del Carlino”, volontario durante il conflitto, nel secondo dopoguerra Pedrazza si trasferì a São Paulo, dove, il 6 marzo del 1948, fondò la “Tribuna Italiana” (sovvenzionato, pare, da alcuni membri della famiglia Matarazzo), che costituì il punto di riferimento per tutti i nostalgici del Brasile. Il giornale, che non casualmente ostentava come sottotitolo “Libera voce degli Italiani d’oltremare”, uscì ogni settimana fino al dicembre del 1972, per poi riprendere, dopo un’interruzione, cessando definitivamente le pubblicazioni nel 1985. Direttore fittizio durante il primo periodo fu Nunziato Nastari, ma la pubblicazione era in realtà composta da Pedrazza stesso e rifletteva le opinioni politiche sue e degli irriducibili fedeli del regime. Non a caso, assunse toni molto duri nei confronti del governo italiano e travalicò non di rado i confini che i doveri dell’ospitalità avrebbero imposto.
L’atteggiamento della “Tribuna Italiana” fu più aggressivo e soprattutto più reiterato di quello del “Diario Latino”, di cui in sostanza raccolse l’eredità, e venne più volte stigmatizzato dalla stampa brasiliana, creando forse l’unico motivo di attrito del secondo dopoguerra. Sin dal 1949, infatti, vari giornali di São Paulo attaccarono violentemente Pedrazza, accusandolo di seminare discordia presso la colonia italiana, di ostacolare l’amicizia tra i due popoli, di fare apologia di fascismo, di ricoprire di ingiurie i governanti democratici del suo paese e delle nazioni amiche del Brasile, dimenticando che “esiste un cimitero in Italia in cui giacciono innumerevoli brasiliani che sono lì caduti per difendere precisamente quella libertà che il sig. Pedrazza insulta […] Si tratta di un agitatore indesiderabile, che esercita qui un’attività che le leggi del paese vietano a individui nelle sue condizioni, cioè quella di ispirare uno pseudo-giornale brasiliano, fomentatore di discordia e propagandista del fascismo, dottrina indesiderata in Brasile, benché stranamente redatto in una lingua che non è la nostra”4. Malgrado queste tensioni, la “Tribuna Italiana” ottenne qualche successo presso la collettività immigrata, come dimostrano i 710 abbonati su cui poteva contare ancora a metà degli anni ’70, di cui circa 400 nello stato di São Paulo e tre perfino negli Stati Uniti5.
L’unico giornale ad avere, comunque, reale diffusione fu quello che già in passato si era segnalato – per decenni – come il vero portavoce degli italiani in Brasile, vale a dire il “Fanfulla”, che si pubblicava nella città di São Paulo. Sorto nel lontano 1893 come settimanale, era diventato quotidiano già all’inizio del 1894 e si era subito affermato come il foglio etnico a maggiore tiratura. Parallelamente alla crescita del numero di pagine e di rubriche, aumentava il numero di copie stampate (attestatosi sulle 15.000 all’inizio degli anni ’10) e si consolidava il suo prestigio, tanto da annoverare tra i propri lettori non pochi brasiliani e da temere la concorrenza del solo “Estado de S. Paulo”, il quotidiano più diffuso dell’area paulista. Tale posizione era stata raggiunta grazie ad un eccellente grado di professionalità del corpo redazionale e all’elevato numero di corrispondenti (e alla qualità dei medesimi) in Italia, in Brasile e persino a Buenos Aires, ma doveva molto alla sapiente struttura contenutistica del quotidiano, impegnato a cogliere, ad assecondare e a indirizzare, anche politicamente, le tematiche che maggiormente stavano a cuore ai suoi lettori: vita della collettività immigrata, questioni legate all’immigrazione, vita politica italiana e brasiliana, notizie varie dalla madrepatria, offrendo inoltre una grande varietà di rubriche.
La completezza dell’informazione era messa al servizio di un orientamento politico democratico e progressista, più accentuato durante il primo venticinquennio, ma ancora apprezzabile (anche dopo l’ingresso di nuovi soci) sino all’ascesa di Mussolini al governo. Al nuovo regime, il “Fanfulla” si adeguò abbastanza velocemente, sia pure mantenendo toni di minore piaggeria rispetto a tanta altra stampa dell’immigrazione, di data antica o recente. Paladino di una italianità non banale e di una forte identità culturale sul piano etnico, il giornale di São Paulo fu propugnatore e, in qualche misura, costruttore di una coscienza nazionale negli immigrati ma, al tempo stesso, divenne uno dei loro principali strumenti di integrazione nella società di ricezione. Fautore del mantenimento di forti flussi di lavoratori peninsulari verso il Brasile, non mancò mai di appoggiare rivendicazioni e di mettere a nudo problemi legati all’immigrazione e all’ambiente di accoglienza, denunciandone limiti, irregolarità e soprusi6.
Dopo la forzata chiusura del periodo bellico, il “Fanfulla” ricomparve nuovamente nelle edicole, come quotidiano della sera, il 5 maggio del 1947, per trasformarsi in quotidiano del mattino nel settembre dello stesso anno. I collaboratori più importanti durante i primi tempi furono due giornalisti già legati al “Fanfulla” nel periodo tra le due guerre – Luigi Vincenzo Giovannetti e Ferruccio Rubbiani – ma essi vennero presto offuscati dalla dirompente personalità del vero direttore, Gaetano Cristaldi, che prima del conflitto era stato proprietario e direttore del settimanale umoristico “Il Pasquino Coloniale”. Dotato di una forte carica polemica, la sua gestione risultò in qualche modo nefasta per il quotidiano, che imboccò il cammino dell’attacco continuato a uomini e istituzioni, in maniera che sembrò anche ricattatoria. Così, il “Fanfulla” si lanciò in furibonde campagne contro il Patronato degli immigrati, il consolato, la Camera italiana di commercio, la Banca francese e italiana per l’America del sud, il Circolo italiano e contro singoli personaggi, recuperando credibilità e misura solo a partire dal 1954, con l’allontanamento di Cristaldi e l’affidamento della direzione prima a Giovannetti e poi a Arturo Profili, appartenente alla schiera di pubblicisti che si erano staccati dal regime nel 1943 e che erano poi approdati in Brasile.
Sul piano propriamente giornalistico, prevalsero, sin dall’inizio, posizioni moderate, che però, visto il carattere del responsabile del giornale, si tradussero nella consuetudine di abbondare in toni offensivi nei confronti degli avversari, specie di sinistra. “Ma chi è che ha messo sempre bastoni fra le ruote per impedire che i piani di risanamento economico e finanziario del paese venissero portati a termine? Esattamente i capi dei partiti estremisti, ai quali non conveniva che la borghesia liberale desse pane e lavoro al popolo italiano, per non perdere il loro ascendente sulle masse […] È Togliatti, che conduce a fondo una campagna contro l’aiuto nordamericano, che è la colonna vertebrale della rinascita economica della penisola. È Pietro Nenni, l’amorale, che boicotta la produzione incitando le masse allo sciopero e a far causa comune per dare la scalata al potere. È Di Vittorio, l’analfabeta direttore della Confederazione Generale del Lavoro, che crea ostacoli all’affollamento dell’Italia vietando l’emigrazione per i paesi transoceanici”7.
Durante la sua nuova e ultima stagione, il “Fanfulla” perse definitivamente la tradizionale incisività, già peraltro intaccata dalla seconda metà degli anni ’20. Schierato acriticamente sulle posizioni di qualsiasi governo in carica (in Italia evidentemente, ma parzialmente anche in Brasile, anche se attraverso la formula equivoca del passare sotto silenzio la maggior parte delle decisioni dell’esecutivo e del legislativo), perfettamente allineato nella guerra fredda (le stesse collaborazioni di antifascisti avvennero sotto il segno dell’anticomunismo, come fu il caso, nel 1951, di Mario Mariani, che aveva guidato a lungo, in Brasile, l’opposizione al regime), il giornale perse anche, dopo il 1954 e sino al 1° ottobre del 1965, data il cui cessò le pubblicazioni, ogni carattere battagliero. Dopo l’allontanamento di Cristaldi, esso risultò, anzi, neutro, amorfo, diligentemente promotore (o meglio, adulatore) dei personaggi più in vista della collettività e sempre in sintonia con il corpo diplomatico e con i rari politici in visita in Brasile, difensore della “italianità” e del modello occidentale, esaltato anche prima quale scelta di civiltà, come enunciato in un editoriale del 1948: “Il ‘Fanfulla’ ha il punto fermo dell’italianità, per quanto di spirituale, morale ed artistico rappresenti questa parola nella storia degli ultimi millenni. Ed ha il punto fermo della libertà, di quella massima e completa libertà individuale che rifugge da ogni pregiudiziale politica ed economica, nazionale o razziale, etica o religiosa […] Ed ha il punto fermo della concordia, del riguardo e della stima tra i diversi popoli”8.
Per quanto attiene ai contenuti, il panorama non del solo “Fanfulla” ma di tutto il giornalismo italiano in Brasile nel quindicennio 1946-1960 fu caratterizzato da una forte connotazione italocentrica, che, giustificabile forse nell’immediato dopoguerra per la fame di notizie riguardanti la madrepatria, perse la sua ragion d’essere nel periodo successivo. Tale caratterizzazione, che solo in parte poteva esser rapportata all’esiguità dei corpi redazionali nella maggior parte delle pubblicazioni periodiche, riguardò sia i fogli dichiaratamente politici che quelli di informazione. Persino nel “Fanfulla” fu necessario attendere quasi due anni e mezzo, nel settembre del 1949, per veder comparire il primo editoriale relativo al Brasile, avente peraltro come oggetto non temi interni ma di politica internazionale – la ripresa delle relazioni diplomatiche con la Spagna. Rispetto al passato, e in particolare rispetto al periodo precedente gli anni ’20, venne meno quell’equilibrio di notizie che aveva caratterizzato, in alcuni casi a tratti in altri con maggiore continuità, i migliori giornali italiani in Brasile. Non è quindi sorprendente che le tematiche più ricorrenti riguardassero, oltre alla madrepatria, l’emigrazione e la vita della collettività immigrata, soprattutto i contrasti nel suo seno.
La ripresa dei flussi di espatrio rappresentava, come è ovvio, un fenomeno più subìto che desiderato per la stampa di destra9, la quale si premurava solo di rivendicare per l’emigrante garanzie analoghe a quelle concesse al capitale estero, riproponendo così la vecchia equazione del capitale-uomo, di cui l’Italia era ricca, e del capitale-denaro10. In linea di massima, però, i pochi organi di informazione che ripresero a circolare negli anni ’40 e ’50 assunsero posizioni molto vicine a quelle che avevano caratterizzato la stampa etnica sin dalla fine del XIX secolo, mettendo in risalto i vantaggi dell’esodo su larga scala per entrambi i paesi: il Brasile perché otteneva quelle braccia di cui tanto aveva ancora bisogno; l’Italia, dove forte era la disoccupazione, perché ogni partente rappresentava “con la sua assenza, un consumatore in meno e, con le sue rimesse, un produttore in più”11.
Comuni a tutto il panorama giornalistico erano le preoccupazioni circa la ripresa e possibilmente l’approfondimento degli scambi commerciali, magari anche grazie a una numerosa comunità immigrata, sulla scia delle vecchie convinzioni (che però, nel caso del Brasile, si erano rivelate del tutto illusorie in passato). C’era poi chi suggeriva che fossero gli stessi consolati e i corrispondenti consolari a trasmettere una serie di informazioni in Italia per fornire al candidato all’espatrio un quadro realistico delle possibilità esistenti nelle varie aree del Brasile e delle occupazioni di cui c’era maggior richiesta12.
Grande spazio occupò, sino alla fine degli anni ’40, la questione dei beni degli italiani bloccati dallo stato brasiliano durante la fase di belligeranza, questione già risolta dopo l’8 settembre per quanto riguardava gli averi dei peninsulari residenti in Brasile, ma ancora perdurante per quelli appartenenti allo stato italiano (comprese le navi di passaggio nei porti brasiliani confiscate all’epoca del decreto), a persone giuridiche con sede all’estero e a persone fisiche residenti in Italia. Era soprattutto quest’ultima situazione a suscitare le rimostranze sia del “Fanfulla” che de “La Voce d’Italia”, giacché tali beni “sono il frutto del […] lavoro di emigranti e, quindi, l’incamerarli o decurtarli ha lo stesso valore che incamerare o decurtare dei patrimoni brasiliani”13. Il problema venne risolto solo nel 1949, con la revoca da parte del governo brasiliano delle misure restrittive emanate nel 1942, l’acquisto di due navi e la restituzione di altre sette e l’impegno, da parte del governo italiano, di utilizzare il capitale derivante dai beni dissequestrati per costituire una Compagnia di colonizzazione agricola, che, difatti, poco dopo acquistava una proprietà di 3.500 ettari nello stato di São Paulo, a Pedrinhas, dando avvio a un progetto di colonizzazione assistita. Questa realizzazione fu seguita soprattutto dal “Fanfulla”, il cui irrispettoso direttore non lesinò attacchi e contumelie contro gli organi direttivi, descritti, sin dall’inizio, come incompetenti, ambiziosi, intellettualmente limitati14. La posizione di Cristaldi appariva incoerente rispetto a quella che era la linea di condotta del quotidiano (e che rifletteva un sentimento diffuso presso la collettività immigrata), orientata a ostacolare una ripresa degli sbocchi lavorativi nelle fazendas di caffè, dove le condizioni apparivano anacronistiche e inaccettabili e, viceversa, a guardare con interesse a soluzioni di colonizzazione agricola con fornitura di mezzi e servizi ai nuovi arrivati, magari attraverso l’aiuto dei governi locali e il sostegno di cooperative sorte a tale scopo nella penisola15. I deludentissimi risultati di queste cooperative, quasi esclusivamente abruzzesi, ma sicuramente anche il cambio di direttore spingerà poi il “Fanfulla” a rivalutare l’esperienza di Pedrinhas come “una realizzazione che onora il Brasile e l’Italia, [e come] un esempio da imitare, poiché soltanto con la sua casa, il suo campo e i suoi animali il nostro contadino lavora e produce come sa e come può”16. Così, se prima le critiche sembravano dettate da partito preso, adesso il quotidiano sorvolava sulle tante difficoltà e i tanti disservizi, per non parlare degli abbandoni, che avevano caratterizzato l’esperimento.
Al di là del cambiamento di opinione circa la validità di questo o quello sbocco rurale, l’esperienza post-bellica si incaricò di dimostrare che tutta l’emigrazione agricola si scontrava con difficoltà oggettive, tanto che il Cime (Comitato intergovernativo per le migrazioni europee) – responsabile di buona parte degli espatri in Brasile partire dall’inizio degli anni ’50 – organizzò quasi esclusivamente il trasferimento di quella manodopera urbana di cui le autorità brasiliane presentavano richiesta attraverso liste periodiche. Gli aspiranti dovevano superare una selezione in Italia, sia professionale che sanitaria, ad opera degli Uffici provinciali del lavoro, del Cime e di una commissione brasiliana.
Già prima che entrasse in funzione il Comitato intergovernativo, comunque, la stampa etnica si era divisa circa la preferibilità dell’espatrio spontaneo o di un’emigrazione che fosse indirizzata e, conseguentemente, più tutelata. Paradossalmente, fu proprio l’unico foglio di sinistra a optare per la perpetuazione del modello ottocentesco e lo fece attraverso le parole di un emigrato di vecchia data (e la cui lunga permanenza in Brasile veniva tradita dalla insicurezza sintattica): “Riepilogando, emigrare si; ma individualmente, libera, non sovvenzionata dai Governi. Quanto meno lo Stato entra nella vita particolare, meglio è. Controllare soltanto in quello che riguarda il passato e presente politico, salute e nessun difetto fisico e grave, documentazione che non è un delinquente, e per il resto: porta aperta”17.
Sul fronte opposto si schierava il “Fanfulla”, almeno nei suoi primi anni di circolazione, preoccupato anche che, nelle condizioni del Brasile dell’epoca, un esodo incontrollato e privo di guida potesse determinare situazioni di disoccupazione allargata o comunque di delusione per le sistemazioni raggiunte, creando malcontento tra i nuovi arrivati e alimentando pregiudizi nei confronti dell’ultima leva di immigrati da parte dell’opinione pubblica brasiliana, posizione che avrebbe finito inevitabilmente per coinvolgere la collettività italiana nel suo insieme. I tempi, d’altronde, erano mutati rispetto al passato, quando esistevano assai maggiori possibilità di soddisfacente inserimento nel mercato del lavoro. “Adesso l’emigrazione deve forzosamente essere coordinata, ufficializzata e controllata. Venire allo sbaraglio, anche nel caso della cosiddetta emigrazione tecnica e specializzata è quasi sempre un brutto rischio”18.
Ma i tempi erano cambiati, sottolineava il quotidiano, anche in Italia, dove si registrava una “larghissima e preponderante partecipazione delle masse lavoratrici alla vita politica”, che spingeva il governo a “controllare, esigere garanzie, tutelare chi emigra”19. Questa linea di condotta veniva però ribaltata nel 1952, in piena campagna contro la compagnia di colonizzazione agricola di Pedrinhas e la coincidenza era troppo lampante per non far nascere sospetti circa la strumentalità di questa folgorazione sulla via di Damasco20. L’importante, secondo il “Fanfulla” era potenziare la struttura assistenziale, per venire in soccorso di chi aveva avuto sfortuna, categoria che, pur presente per l’alto costo della vita, la libertà di licenziamento, l’esiguità dei salari21, non era numerosa e l’eventuale malcontento risultava spesso motivato, sempre secondo il giornale di São Paulo, da ideologie sovversive o da mera fannullaggine: “Tra i pochi perseguitati dal destino avverso, ci sono spesso molti pescatori nel torbido e molti poltroni, i quali pretendono che il mondo modifichi il proprio congegno per ingerirsi unicamente nei fatti loro”22.
“I perseguitati dal destino avverso” erano, anche visivamente persino in una città vasta quale São Paulo, assai di più di quanti non facesse apparire per inclinazione polemica il “Fanfulla”, che infatti era costretto a dedicare un certo spazio alla questione, sia pure solo per lamentare l’inadeguatezza delle forme private di assistenza, in toni più o meno pietistici: “Ogni giovedì, quando i fanali spengono le loro luci abbaglianti e l’alba rischiara lentamente il cielo e saluta il risveglio di questa immensa città, nell’Avenida Presidente Passos una piccola folla di umile gente si raduna di fronte ad un candido edificio, che sorge di fianco alla Chiesa della Madonna della Pace. Sono vecchietti, mamme con bimbi, uomini ammalati, che attendono di ricevere dalle materne mani di alcune signore della nostra collettività un aiuto mensile, che porti un po’ di sollievo alla loro vita stentata e incerta. E’ gente nostra; uomini e donne che hanno lasciato come noi la Patria, la mamma, la casa, pieni di speranza […] Tristi vicissitudini hanno impedito loro di realizzare gli umili sogni; ne hanno fatto dei vinti. A poco a poco essi si sono rassegnati ad una vita più umile ancora di quella che conducevano in Patria, una vita colma di tristezze di rinunce per tutti […] I mezzi dell’Ente di beneficenza sono sempre gli stessi, gli assistiti aumentano ogni giorno [e pertanto] occorrerebbe che l’ente avesse un numero maggiore di soci, che ci fossero più donatori generosi”23.
In effetti, la stampa italiana nel suo complesso era ricca di notizie e servizi su tutte quelle strutture che fornivano assistenza materiale, giuridica, sanitaria, di avviamento al lavoro ai connazionali in difficoltà e, non episodicamente, lanciava appelli tesi ad alimentare slanci caritatevoli e si faceva promotrice di sottoscrizioni a favore dei bisognosi. Istituzioni come i Comitati di assistenza agli italiani indigenti, sparsi in varie località del Brasile o, per rimanere al solo stato di São Paulo, l’Auxilium (sorto nel 1942 come Comitato di soccorso alle vittime di guerra) o il Patronato (nato nel 1950) comparivano numerose volte, quantomeno nelle pagine de “La Voce d’Italia” e del “Fanfulla”, e su quest’ultimo foglio almeno sino alla fine degli anni ‘5024.
Accanto alle iniziative solidaristiche nei confronti degli italiani residenti in Brasile, la stampa etnica suscitava e stimolava quelle volte ad alleviare le difficoltà dei connazionali rimasti in patria. Tali iniziative potevano avere il segno dell’affinità ideologica aperta (come la sottoscrizione lanciata dalla “Tribuna Italiana” a favore dei detenuti fascisti nelle carceri peninsulari) o camuffata (era questo il caso della raccolta di fondi promossa da “La Voce d’Italia” per rispondere all’appello lanciato dall’Unione donne italiane per aiutare i bambini mutilati di guerra). Parzialmente connotate politicamente risultarono anche le sottoscrizioni aperte da varie istituzioni – tra cui il “Fanfulla” – per i mutilatini di don Gnocchi e la stessa raccolta di generi di prima necessità (alimentari e vestiario) da inviare in Italia organizzata da “A Voz da Itália” nel 1947. Totalmente appartenenti alla mera sfera solidaristica apparivano invece le offerte per l’alluvione del Polesine.
Queste iniziative furono spesso concorrenti tra loro, comprese quelle che avevano come beneficiari i bambini mutilati, e finirono a volte per alimentare accuse e ripicche. Lo stesso “Fanfulla”, nel 1952, versò polemicamente il ricavato della sua sottoscrizione al consolato, lamentando che don Gnocchi avesse riposto, in Brasile, la sua fiducia in altre persone. Pur con queste limitazioni, appare evidente – e basta scorrere il totale delle somme raccolte – che le sottoscrizioni destinate all’Italia ebbero molto più successo che quelle tese a alleviare le sofferenze dei connazionali immigrati, come dimostra ampiamente il divario tra la LUF (Lista unica del “Fanfulla”) per aiutare i bisognosi, lanciata nel settembre del 1948, e la sottoscrizione aperta dallo stesso giornale all’inizio del 1949 per i mutilatini di don Gnocchi. Questa indifferenza o, se si preferisce, minore sensibilità era già stata stigmatizzata dal foglio paulista qualche tempo prima, in questi termini: “Quanti italiani sanno e quanti invece volutamente ignorano […] che esistono – purtroppo – tanti connazionali bisognosi, che vi sono molte necessità impellenti da soddisfare, che vi sono molte sofferenze da alleviare? La collettività (perché tacerlo? In nome forse di una falsa carità di Patria?) non ha ripreso, come sarebbe stato utile, la sua coesistenza armoniosa, non ha saputo o non ha voluto ancora ricomporre – non apparentemente ma sostanzialmente – la sua grande anima, che ha sempre avuto slanci nobili e generosi, chiudere le ferite, far tacere i dissensi”25.
I dissensi interni alla collettività rappresentarono appunto una delle tematiche maggiormente presenti sulla stampa etnica nella seconda metà degli anni ’40 e ancora nel decennio successivo, sia pure con toni più attenuati. Tra le divisioni, pesò come un macigno quella tra vecchia e nuova immigrazione, per cause generazionali, certo, ma anche politiche e culturali, poiché chi giungeva dall’Italia si dimostrava incapace di condividere quella filosofia di vita e di lavoro che aveva segnato il cammino di coloro che avevano compiuto tale scelta nel periodo tra le due guerre o ancora prima. Questi ultimi non comprendevano il cambiamento di mentalità e le nuove esigenze dei propri connazionali, i quali, manifestando l’esigenza di veder rispettati diritti lavorativi e dignità personale, palesavano, agli occhi di molti dei vecchi immigrati, semplicemente scarsa volontà di lavorare e una inammissibile indisponibilità a quei sacrifici che erano stati affrontati da loro e che soli potevano garantire – come era quasi luogo comune – un miglioramento delle proprie condizioni o addirittura l’accumulazione di piccole e grandi fortune26.
Va detto che la stampa etnica cercò quasi sempre di ricondurre le polemiche nell’alveo della ragionevolezza, insistendo sulla incomparabilità delle situazioni presenti in Brasile in epoche storiche tanto diverse; così, senza nulla togliere alle vecchie generazioni (e quindi alle loro capacità di risparmio e di sopportazione di privazioni anche gravi), le circostanze favorevoli trovate da queste ultime, sul piano economico e sociale, in una fase quasi pionieristica, non si registravano più nel secondo dopoguerra. Per contro, la stessa stampa ricordava ai nuovi arrivati che i primi tempi erano stati duri per tutti e che soltanto resistendo, magari a denti stretti, potevano essere possibili percorsi di mobilità sociale, come appunto era accaduto agli immigrati di più antica data. Soprattutto il “Fanfulla” cercò di far superare alla collettività tutte queste divisioni in nome di una solidarietà quasi obbligatoria tra connazionali. “I nuovi venuti sono un tanto smarriti e hanno di certo abitudini e pretese che i vecchi non avevano [ma] non è scoria quella che arriva. E’ gente che forse non sa adattarsi subito ad una vita dura di sacrificio […] Aiutiamola invece se non altro con affettuosa accoglienza a superare i primi tempi difficili”27.
Il clima non era comunque molto propizio, dal momento che, più ancora delle cause generazionali e culturali, pesavano quelle politiche e l’arrivo dall’Italia di elementi compromessi con il passato regime non fece che acuire i contrasti28. Se, da una parte, questi flussi, pur insignificanti numericamente, venivano a puntellare i convincimenti di gran parte degli immigrati, che al fascismo aveva guardato con grande interesse (non importa se per convinzione o per malinteso orgoglio nazionale), dall’altra i pochi antifascisti rimasti della vecchia immigrazione traevano nuova linfa da un’emigrazione magari non politica ma che aveva vissuto sulla propria pelle le conseguenze del crollo di un’idea ancor prima che di un sistema.
In questa sfera, la stampa non cercò di attenuare le divisioni ma tese anzi ad esasperarle. Questo fu il caso, certamente, dei giornali della destra, che non perdevano occasione per attaccare la nuova realtà e le nuove autorità italiane, che attribuivano la sconfitta stessa dell’Italia al tradimento di generali e politici, che dipingevano i partigiani come traditori e delinquenti, che raccoglievano firme in favore di Rodolfo Graziani da inviare al presidente della repubblica, che promuovevano messe in suffragio di Mussolini e dei caduti di Salò, che pubblicavano poesie infamanti contro chi aveva combattuto il nazismo e il fascismo29.
Sul piano della collettività immigrata, questi fogli lanciavano continui appelli all’unità in nome della dignità e dell’onore nazionali, ma rivendicando di rappresentare politicamente il nucleo più numeroso di tale collettività. “Conosciamo troppo bene gli Italiani del Brasile”, si leggeva sul primo numero del settimanale fascista di São Paulo, “per dubitare del loro consenso al programma della ‘Tribuna Italiana’: nell’enorme maggioranza essi hanno il nostro identico pensiero, la nostra identica fede. Ma non per questo respingiamo quei pochi che nutrissero diversi sentimenti. Vogliamo unire, non vogliamo dividere gl’Italiani.”30.
Le esortazioni verbali a favore della concordia, sotto il segno dell’oblio del passato, furono piuttosto frequenti nel secondo dopoguerra e non provennero esclusivamente da chi era stato sconfitto, ma dalla stessa nuova classe dirigente della madrepatria. Tali appelli erano regolarmente pubblicati dalla stampa etnica, anche di sinistra. Quest’ultima, tuttavia, non poteva fare a meno di stigmatizzare ciò che stava avvenendo in Brasile, dove molti ex-gerarchi e personalità del fascismo, appena sbarcati, “protetti da molti capitalisti locali di origine italiana ricominciarono la loro propaganda destinata di nuovo a dividere e fascistizzare la numerosa colonia italiana […] Sono qui, in Brasile, e non solamente indisturbati ma addirittura favoriti, persino elementi che, dopo la rottura delle relazioni diplomatiche con l’Italia, sono imbarcati con lo scopo di combattere la guerra contro la democrazia”31.
Gli inviti alla concordia in nome della comune nazionalità – che avrebbe dovuto riconciliare gli italiani all’estero ancor più di quelli in patria – venivano classificati da questa stampa come manovre in malafede messe in atto soprattutto da chi aveva appoggiato la dittatura e volte a conquistare gli ingenui: “L’internazionale nazi-fascista – sezione di S. Paulo […] batte adesso su un nuovo motivo: gl’italiani del Brasile dovrebbero unirsi sotto il vessillo della patria, perché, dicono loro, agli italiani all’estero poco interessa se in Italia vige il regime monarchico o il regime repubblicano, se va a sinistra o va a destra, se nevica o brilla il sole nella dolce terra dove il si suona. Vuol dire, in lingua povera, che la collettività italiana del Brasile è composta di poveri scemi che non hanno preferenze e non distinguono il bene dal male”32.
Le pressioni cui era sottoposta l’opinione pubblica democratica immigrata risultavano comunque forti e il principale organo di stampa della comunità – sedicente apolitico ma che contava tra i suoi collaboratori parecchi giornalisti che al fascismo avevano aderito – si faceva portavoce di queste istanze di pacificazione, al fine, se non altro, di restituire alla vita collettiva degli immigrati quel protagonismo e quell’esemplarità che aveva avuto in passato. “Per una serie di circostanze a tutti note e sulle quali è fuor d’opera ritornare a insistere, avvenne più che una divisione una dispersione di forze, che ancora perdura e che non dà alcun vantaggio. Pare che nulla sia sopravvissuto alla tempesta”. Era dunque necessario ricostruire il clima pregresso, senza che ciò implicasse, ovviamente, la rinuncia di ciascuno alle proprie idee, ma allo scopo di affermare la “superiore volontà nazionale e spirituale”33.
Questo porsi al di sopra delle parti risultava, però, poco credibile in elementi come l’autore dell’articolo, che avevano, nel periodo tra le due guerre, orientato la collettività immigrata a favore del fascismo. E, d’altronde, il giornalista dipingeva con rimpianto proprio il clima di coesione di quei tempi. In un articolo di poco successivo, nel lamentare il disinteresse, l’assenteismo, la noncuranza nei riguardi di ogni forma di manifestazione collettiva, ricordava che in passato la presenza degli italiani nella vita brasiliana era sempre stata visibile e che il fascismo aveva saputo “conservare la tradizione. Bastava un comunicato nel ‘Fanfulla’ per riunire migliaia di connazionali. Ora non vi è più nulla e tutto si fa sottovoce perché si teme un insuccesso. Le cause di questo mutamento sono […] le passioni, le discordie, l’amarezza. Vi è in molti una specie di ira contro tutto e contro tutti per le delusioni della guerra, e per la rissa sanguinosa e verbale del dopoguerra. E molti che stavano in prima linea si sono ritirati […] Nessuno deve esigere dal connazionale rinunzie o conversioni. E nessuno deve pretendere di imporre le sue simpatie e le sue preferenze politiche […] ma quando si tratta di affermazioni nazionali e di far onorare il sapere, la cultura, l’arte, le affermazioni italiane insomma, tutti, al di sopra di ogni partito e di ogni tendenza politica, dovremmo trovarci d’accordo, anche perché, indipendentemente da qualsiasi altra ragione morale e spirituale, questo è interesse di tutti”34.
In realtà, questo sforzo era stato fatto proprio dal “Fanfulla” l’anno precedente, quando il suo direttore aveva invitato l’alfiere dell’antifascismo italiano in Brasile – Antonio Piccarolo – a promuovere una azione pacificatrice, ma ricevendo per tutta risposta un rifiuto. Dopo aver sottolineato, infatti, cosa il regime avesse significato per l’Italia in termini di persecuzioni, oppressione e delitti e dopo aver ricordato quante pene costassero al paese gli sforzi per sottrarsi alla rovina e all’umiliazione, Piccarolo, nel rispondere alle sollecitazioni, così riassumeva la posizione sua e dell’ala democratica della collettività di São Paulo: “La maggioranza degli antifascisti è disponibile a fare sacrificio sull’altare della Patria dei propri risentimenti, a soffocare le collere che ancora le bollono in petto, a coprire alla meglio le ferite ancora sanguinanti e a dimenticare. Dall’altra parte, mi dica francamente, si mostra altrettanta buona volontà? Non si chiede a nessuno di recitare il CONFITEOR. Basterebbe che […] avessero il pudore di tacere. Ma neppure questo sanno fare”35.
Le divisioni proseguirono e anzi si rafforzarono e, di pari passo, si confermò la debolezza della vita collettiva, malgrado lo spazio riservato dalla stampa etnica a qualsiasi iniziativa in campo associativo, culturale e perfino sportivo. Il panorama partecipativo continuò ad essere frustrante anche negli anni ’50, tanto che un decano del giornalismo immigrato, illustrando l’inaugurazione dell’Istituto culturale italo-brasiliano in una città dell’interno dello stato di São Paulo, sottolineava la presenza di parecchi intervenuti, tra brasiliani e discendenti di italiani, “ma di italiani, di quelli che ero abituato a trovare quando, una ventina d’anni fa, si andava peregrinando per commemorare date nazionali, pochissimi, tanto che si resta quasi nell’imbarazzo a parlare in nome loro”36.
Come era ragionevole, il richiamo all’italianità non significò mai, neanche per i giornali della destra, volontà di separazione o affermazione di superiorità. Il paese ospitante veniva sempre descritto come particolarmente accogliente verso gli italiani e i rapporti con la società locale erano costantemente dipinti come caratterizzati da cordialità, intesa reciproca, affetto. Proprio per questo motivo, il “Fanfulla”, nel suo primo numero, non lesinava critiche alla collettività per il suo comportamento nel passato, riferendosi a certe manifestazioni di chiassosa e appariscente intrusione nella vita brasiliana, anche politica, durante il fascismo. Si trattava, ovviamente, di un’autocritica, dal momento che il quotidiano di São Paulo era stato uno degli animatori di tali atteggiamenti. Per il futuro, comunque, si poneva il compito di indicare un cammino diverso, in cui la qualità di “figli adottivi” non spingesse abusivamente gli italiani a coprire spazi che non erano loro, a seminare discordia, a turbare, con i loro comportamenti, la convivenza civile37.
Orgogliosamente, il giornale dava tale compito per assolto verso la fine degli anni ‘50, quando, commentando l’imminente visita del presidente Giovanni Gronchi in Brasile, esaltava il ruolo dei connazionali nello sviluppo della nazione accoglitrice e sottolineava l’armonia regnante tra ospiti e nativi, uniti da legami di sangue, lavoro e condivisione di fatiche e sofferenze, il che aveva dato all’Italia “un posto del tutto speciale al fianco di questo Paese”38. La visita del primo capo di Stato italiano a mettere piede in America latina servì poi a rivendicare una raggiunta armonia anche all’interno della collettività, sia pure in presenza di contrasti, i quali venivano comunque attribuiti alla natura esuberante dei peninsulari, mistificando così, ancora una volta, la realtà39.

Note

 

1 Molte di queste naturalizzazioni erano state frutto, più che di una scelta ragionata, del desiderio di aggirare una serie di vincoli imposti ai cittadini dei paesi dell’Asse in seguito alla rottura delle relazioni diplomatiche da parte del Brasile nel gennaio del 1942 e ancor più dopo la dichiarazione di guerra nell’agosto dello stesso anno.
2 Rari sono i contributi sull’emigrazione italiana in Brasile nel secondo dopoguerra. Tra di essi, segnaliamo, in epoche diverse, Costantino Ianni, Il sangue degli emigranti, Milano, Comunità, 1965 e Gloria La Cava, Italians in Brazil: The Post-World War II Experience, New York, Peter Lang, 1999, oltre alla bella tesi di laurea di Michele Petochi, Menina, menina! Storie da un’oasi italiana in Brasile: Pedrinhas 1951-1991, Facoltà di Lettere e Filosofia, Università di Roma Tre, 1999-2000, che tratta dell’unico esperimento andato a buon fine (ma dopo grandi tensioni e momenti difficili) di colonizzazione agricola, finanziato totalmente dal governo italiano.
3 Per un elenco delle testate italiane (oltre 500 fra gli anni ’70 del XIX secolo e il 1960) in ogni singolo stato brasiliano, cfr. l’appendice di Angelo Trento, Do outro lado do Atlântico. Um século de imigração italiana no Brasil, São Paulo, Nobel, 1989, pp. 489-510. Per una breve analisi di questa stampa, mi permetto di rimandare a Id., La stampa periodica italiana in Brasile, 1765-1915, “Il Veltro”, XXXIV, 3-4 (1990), pp. 301-314 e, per quella esclusivamente libertaria, al più recente Italiani immigrati, mondo operaio e stampa anarchica a São Paulo tra Otto e Novecento, “Scritture di Storia”, 3 (2003), pp. 77-114.
4 Anhembi processada por um jornal fascista, “O Estado de S. Paulo”, 14.12.1955.
5 Dati reperiti presso l’archivio della “Tribuna Italiana”.
6 Sul “Fanfulla” sino alla prima guerra mondiale, cfr. Samuel L. Baily, The Role of Two Newspapers in the Assimilation of Italians in Buenos Aires and São Paulo, 1893-1913, “International Migration Review”, XII, 3 (1978), pp. 321-340; Marina Consolmagno, Fanfulla: perfíl de um jornal de colonia (1893-1915), Tesi di master, Facoltà di Filosofia, lettere e scienze umane, Università di São Paulo, 1993; Angelo Trento, L’identità dell’emigrato italiano in Brasile attraverso la stampa etnica: il caso del Fanfulla, 1893-1940, in Europe, Its Borders and the Others, a cura di Luciano Tosi, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2000, pp. 419-437.
7 Bruno Puteri, La crisi politica italiana, “Fanfulla”, 10.05.1947.
8 Gaetano Cristaldi, Colore politico, “Fanfulla”, 06.04.1948.
9 Valga, come linea di condotta, quella della “Tribuna Italiana” che, il 16.07.1949, ospitava un articolo del suo fondatore, Piero Pedrazza, dal significativo titolo Emigrazione, male necessario dopo che ci rubano le colonie.
10 Nunzio Greco, L’immigrante è un capitale perduto per la madrepatria, “Diario Latino”, 18.09.1947. Greco collaborerà poi con il “Fanfulla”.
11 Corrado Blaudo, Problemi migratori, “Fanfulla”, 19.05.1947.
12 Nunzio Greco, Porte italiane, “Fanfulla”, 23.10.1948.
13 Pasquale Petraccone, Beni bloccati e emigrazione, “La Voce d’Italia”, 05.07.1947.
14 Gaetano Cristaldi, Cominciamo male, “Fanfulla”, 01.10.1950.
15 Gli articoli sul “Fanfulla” (assai meno sugli altri giornali) che difendono questa impostazione sono innumerevoli. Basterà qui citare Luigi Vincenzo Giovannetti, La Conferenza di Colonizzazione ed Immigrazione riunita a Goiania, “Fanfulla”, 07.05.1949 e id., L’esempio di Minas, “Fanfulla”, 13.04.1950.
16 Pedrinhas è una realizzazione che onora il Brasile e l’Italia, “Fanfulla”, 29.05.1955.
17 Ugo Scalabrino, Emigrazione in Brasile, “La Voce d’Italia”, 24.05.1947.
18 Luigi Vincenzo Giovannetti, Il dramma dell’emigrazione, “Fanfulla”, 17.06.1948.
19 Luigi Vincenzo Giovannetti, Inchiesta necessaria, “Fanfulla”, 18.08.1948.
20 Scriveva infatti il direttore: “Ora bisogna convincersi che la burocratizzazzione riduce l’iniziativa migratoria ad una modalità di collettivismo in cui, senza il fascino dell’avventura, si dissipa ogni speranza di successo personale […] Occorre spendere ogni sforzo perché il fenomeno migratorio conservi le sue genuine caratteristiche di fatto spontaneo, individuale ed eclettico” (Gaetano Cristaldi, Assistenza e liberi migratori, “Fanfulla”, 17.08.1952).
21 Una realtà che ha la sua influenza nelle relazioni fra i due Paesi, “Fanfulla”, 09.09.1958.
22 Gaetano Cristaldi, Ancora sul problema migratorio, “Fanfulla”, 01.04.1953. A dimostrazione di come questa fosse la linea del giornale, qualche anno dopo, commentando un assembramento di immigrati in fuga da Pedrinhas, che esigevano il rimpatrio di fronte al consolato, appoggiati dalla trasmissione radiofonica in lingua italiana, li attaccava, affermando che se chiunque avesse potuto usufruire di tale privilegio alle prime difficoltà, l’espatrio e l’esperienza brasiliana si sarebbero trasformati “in una bella crociera sull’Atlantico” (Una ‘Voce Italiana’ per modo di dire, “Fanfulla”, 11.03.1955).
23 Il giovedì riunisce gli umili nell’“Assistenza Civile Italo-Brasiliana”, “Fanfulla”, 08.05.1955.
24 Cfr., ad esempio, Un anno di attività del Patronato Emigranti, “Fanfulla”, 01.01.1957, Aiutare l’Auxilium, “Fanfulla”, 26.06.1958 e A.B., Un’attività assistenziale che non ha conosciuto ostacoli, “Fanfulla”, 09.09.1958.
25 L’opera benefica del Comitato Assistenziale Italo-Brasiliano, “Fanfulla”, 23.05.1947. Un anno e mezzo dopo, nel lanciare la LUF, il quotidiano ribadiva il concetto, polemizzando di sfuggita con gli atteggiamenti della vecchia emigrazione: “Quindici anni fa c’era molta gente col cuore tenero e caritatevole. Se i cuori si sono induriti, la miseria persiste. Non si tratta di aiutare la gente nuova, ma la miseria vecchia, l’eterna indigenza, la costante necessità” (“Fanfulla”, 29.09.1948).
26 Per una veloce analisi di queste e altre divisioni cfr. Angelo Trento, L’emigrazione italiana in Brasile nel secondo dopoguerra (1946-1960), “Studi Emigrazione”, 95 (1989), pp. 388-415.
27 Luigi Vincenzo Giovannetti, Immigranti vecchi e nuovi, “Fanfulla”, 21.12.1949.
28 Su questa emigrazione, cfr. Federica Bertagna, Fascisti e collaborazionisti verso l’America (1945-1948), in Storia dell’emigrazione italiana, I, Partenze, a cura di Piero Bevilacqua, Andreina De Clementi, Emilio Franzina, Roma, Donzelli, 2001, pp. 353-368.
29 Ne è esempio il componimento, a firma di Ausonio Filarete (un evidente pseudonimo), di cui riportiamo la parte finale: “L’anima e il braccio avete voi rivolti / contro la patria invece, avete i cuori / de’ cittadini d’ombre cupe avvolti./ E sol per isfogar ciechi rancori / con gioia avete gli stranieri accolti, / deste l’Italia in preda ai lor furori” (Partigiani, “Diario Latino”, 25.09.1947). Nello stesso numero, un’altra poesia parlava dei soldati statunitensi come “mori prosperosi che diedero rampolli, e a tanta fiamma profusero sifilide e scorbuto”.
30 Ci presentiamo, “Tribuna Italiana”, 06.03.1948. Poco tempo dopo, lo stesso giornale quantificava intorno al 95% gli italiani in Brasile nostalgici del passato regime e affermava che il “buon coloniale” rimaneva insensibile agli antifascisti del dopoguerra, chiudendosi “ancor più nel suo guscio, nel suo silenzio dignitoso” (Memento, “Tribuna Italiana”, 20.03.1948).
31 I fascisti italiani in Argentina e in Brasile, “A Voz da Itália”, 07.06.1947, L’allusione è sicuramente rivolta all’ex-tenente Renato Bifano, già segretario del Fascio di São Paulo, imbarcatosi per l’Italia nel 1942 e poi tornato in Brasile, forse proprio nel 1947.
32 L’uomo che ride, Manicomio, “La Voce d’Italia”, 16.08.1947.
33 Luigi Vincenzo Giovannetti, Ricostruire, “Fanfulla”, 25.07.1948.
34 Luigi Vincenzo Giovannetti, Fare uno sforzo, “Fanfulla”, 29.08.1948.
35 Antonio Piccarolo, Si, ma le intenzioni?, “Fanfulla”, 25.08.1947. Neanche venti giorni dopo, il portavoce dell’antifascismo paulista ribadiva le proprie condizioni per aderire ad una campagna, se non di concordia, quantomeno di non belligeranza: “Vogliamo l’unione di tutti gli italiani. Ricchi e umili. Ma a una condizione: rispetto e appoggio alla Repubblica italiana; rispetto e appoggio all’immane opera di ricostruzione del popolo italiano; rispetto agli uomini, da Terracini a Sforza, da Nenni a De Gasperi, che oggi rappresentano, in patria e all’estero, la giovane Repubblica italiana. Su queste basi, con queste condizioni, siam disposti a stare al lato di tutti, siam disposti a dimenticare un recente passato di lutti e di amarezze, a dimenticare insulti, persecuzioni e offese” (L’uomo che ride, Variazioni sul tema, “La Voce d’Italia”, 13.09.1947).
36 Ferruccio Rubbiani, Ricostruire la collettività italiana, “Fanfulla”, 07.03.1950.
37 Intendimenti, “Fanfulla”, 05.05.1947.
38 Il programma del Presidente, “Fanfulla”, 24.08.1958.
39 “Si, andiamo d’accordo fra noi. Ci sono stati tanti avvenimenti in mezzo, è passata tanta gente […] Ci sono stati e ci saranno momenti in cui nell’aria sprizzano scintille: epperò anche questa è forma di amore, manifestazione di temperamento mediterraneo, e tutto porta alla conclusione di volersi bene” (Arturo Profili, Benvenuto nella nostra città, “Fanfulla”, 09.09.1958.